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N. 78 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 21 giugno 2006. |
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Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 21 giugno 2006 (della Regione Campania)
(GU n. 33 del 16-8-2006 ) |
Ricorso della Regione Campania, in persona del presidente della
giunta regionale pro tempore on. Antonio Bassolino, rapp.to e difeso,
giusto mandato a margine ed in virtu' della deliberazione della
giunta regionale n. 507 del 28 aprile 2006, dagli avv. proff.
Vincenzo Cocozza e Fabrizio Criscuolo unitamente all'avv. Vincenzo
Baroni dell'Avvocatura regionale, insieme con i quali elettivamente
domicilia in Roma, prsso l'Ufficio di rappresentanza della Regione
Campania alla via Poli n. 29;
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore per
la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli artt. 63 e
64, concernenti le nuove attivita' di bacino; 101, comma 7,
concernente gli scarichi derivanti dalle imprese agicole; 154,
concernente la tariffa del servizio idrico integrato; 155,
concernente la tariffa del servizio fognatura e depurazione, 181,
commi 7, 8, 9, 10, 11, concernenti il c.d. recupero dei rifiuti, 183,
comma 1, concernente la definizione dei rifiuti; 186, concernente le
terre e le rocce da scavo; 189, comma 3, concernente gli obblighi di
comunicazione relativi a certe categorie di rifiuti; 214, commi 3 e
5, concernenti le procedure semplificate per i rifiuti, del decreto
legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia
ambientale», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile
2006, supplemento ordinario n. 96/2006, per violazione degli artt.
11, 76, 117 e 118 della Costituzione, del principio di leale
cooperazione, del principio di ragionevolezza nonche' della normativa
comunitaria.
F a t t o
1. - Il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. l52, «Norme in
materia ambientale» e' stato emanato in attuazione della delega
legislativa contenuta nella legge 15 dicembre 2004, n. 308,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 27 dicembre 2004,
supplemento ordinario n. 187.
La delega aveva come oggetto il «riordino, coordinamento e
integrazione delle disposizioni legislative "in materia ambientale"
anche mediante la redazione di testi unici».
La legge di delegazione (art. 1, comma 4) prescriveva l'obbligo
per il Governo di sentire il parere della Conferenza unificata di cui
all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
E' ancora importante notare che fra i principi fissati dalla
legge di delegazione vi era anche l'obbligo del «rispetto dei
principi e delle norme comunitarie e delle competenze per materia
delle amministrazioni statali, nonche' delle attribuzioni delle
regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'art. 117
della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e fatte salve le norme statutarie
e le relative norme di attuazione delle regioni a statuto speciale e
delle Province autonome di Trento e di Bolzano, e del principio di
sussidiarieta» (art. 1, comma 8).
Va, a questo punto, segnalata una rilevante notazione di tipo
procedimentale.
Il modo in cui si e' svolta l'intera vicenda di approvazione del
decreto legislativo con omissioni, ritardi nella comunicazione del
testo alla Conferenza Stato-regioni, in uno con la grande
complessita' ed ampiezza del testo e degli allegati, hanno impedito
che tale organo potesse esprimere il parere, obbligatoriamente
previsto dalla stessa legge di delegazione.
Risulta, infatti, che il testo del decreto legislativo sia stato
trasmesso alle regioni con nota della Presidenza del Consiglio dei
ministri solo in data 29 novembre 2005, e che gli allegati tecnici
siano stati resi disponibili soltanto in rete (peraltro solo il 7
dicembre).
Con tutta evidenza vi era una grande difficolta' a poter, in
pochi giorni, conoscere seriamente la disciplina e ad esprimere il
parere.
Ed infatti, nella seduta della Conferenza unificata del 15
dicembre 2005 vi e' la richiesta di «rinvio dell'espressione del
parere per consentire al Tavolo tecnico di terminare l'istruttoria»,
in quanto, oggettivamente, non vi era stato il tempo materiale per
una consapevole valutazione di una materia avente impatto forte con
le competenze e la politica degli Enti territoriali.
Il Governo ha manifestato opinioni diverse sulla richiesta di
rinvio. Di fatto la stessa non viene accolta ed il parere, per le
ragioni indicate, non viene reso.
Pur mancando questo passaggio essenziale, il Consiglio dei
ministri, il 19 gennaio 2006, approvava «in via definitiva» il testo
del decreto legislativo.
L'anomalia, che ridonda in illegittimita', del procedimento
continua nella successiva riunione della Conferenza unificata del 26
gennaio 2006. I presidenti delle regioni e delle province autonome,
dell'ANCI, dell'UNPI e dell'UNCEM, infatti, presentavano un ordine
del giorno recante il parere negativo sullo schema di decreto,
motivandolo sia nel merito che nel metodo ed evidenziando profili di
illegittimita' costituzionale. Parere del quale il rappresentante del
Governo si limitava a dichiarare di «prendere atto».
Il tormentato e confuso procedimento continua, poi, con ulteriori
fasi che confermano e rafforzano l'illegittimita'.
Risulta, infatti, che in una nuova seduta, 10 febbraio, il
Consiglio dei ministri riapprovava, di nuovo «in via definitiva» il
decreto legislativo.
Ed ancora una nuova approvazione con modifiche del Consiglio dei
ministri il 29 marzo 2006, dopo che il Presidente della Repubblica
aveva chiesto al Governo alcuni chiarimenti nel merito e in relazione
al procedimento di formazione del decreto legislativo con la
sospensione dell'emanazione.
La nuova approvazione e le modifiche introdotte comportano che il
testo e' diverso da quello sottoposto all'esame della Conferenza
unificata.
Il decreto legislativo, negli artt. 63 e 64; 101, comma 7; 154;
155; 181, commi 7, 8, 9, 10, 11; 183, comma 1; 186; 189, comma 3;
214, commi 3 e 5, e' illegittimo per i seguenti
M o t i v i
1) Violazione degli artt. 117, comma 3, 118 e 76 della
Costituzione. Violazione del principio di leale cooperazione.
Irragionevolezza. Violazione della normativa comunitaria.
E' necessaria una premessa.
La Regione Campania propone la questione di legittimita' nei
confronti nei confronti delle singole disposizioni indicate alle
quali le censure vengono specificamente indirizzate. Ma, e' evidente,
che il decreto risulti affetto da gravi vizi di procedimento,
attinenti, in particolare, alla violazione del principio di «leale
cooperazione». E questo costituisce vizio comune a tutte le
disposizioni impugnate.
Il Governo non ha rispettato, infatti, tale essenziale principio
cercando le condizioni perche' la Conferenza non potesse esprimersi
anche con la mancata informazione tempestiva sul nuovo testo
normativo. Cosi', non vi e' stato il parere della Conferenza
unificata e non si e' potuto realizzare alcun confronto, essenziale,
invece, per la conformazione della materia.
La violazione del principio di leale cooperazione si salda come
vizio di carattere generale e comune a quello di violazione delle
delega legislativa, con le conseguenti gravi ricadute sulle
attribuzioni costituzionalmente garantite alle regioni, dal momento
che, come si e' detto, l'obbligo del parere da parte della Conferenza
unificata era sancito come principio dalla stessa legge di
delegazione.
2) Sulla base di questa premessa, si puo' procedere a prospettare
i vizi nei confronti delle singole disposizioni normative oggetto
dell'impugnativa.
2.1.) Illegittimita' costituzionale degli artt. 63 e 64 relativi
all'Autorita' di bacino, per violazione degli artt. 117, comma 3, 118
e 76 della Costituzione.
L'art. 63, comma 3, dispone: «Le autorita' di bacino previste
dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono soppresse a far data dal 30
aprile 2006 e le relative funzioni sono esercitate dalle Autorita' di
bacino distrettuale di cui alla parte terza del presente decreto».
Le autorita' distrettuali sono previste dal comma 1 dello stesso
articolo, in corrispondenza degli otto distretti idrografici
individuati nel successivo art. 64 e che riaccorpa in otto distretti
i numerosi bacini che la legge n. 183/1989 istituiva, suddividendoli
in bacini nazionali, interregionali e regionali.
Con tale operazione si e', dunque, proceduto alla creazione di
organismi che hanno una qualche corrispondenza con macro-regioni,
senza che, pero', una tale opera di ricomposizione abbia registrato
la partecipazione degli enti interessati.
L'art. 63, comma 2, poi, individua gli organi dei distretti nella
«Conferenza istituzionale permanente, nel Segretario generale, nella
Segreteria tecnico-operativa e nella Conferenza operativa di
servizi». Nel contempo, la norma rinvia la definizione dei criteri e
delle modalita' per l'attribuzione di trasferimento del personale e
delle risorse patrimoniali e finanziarie ad un decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri, da emanarsi su proposta del Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio di concerto con il
Ministro dell'economia, e delle finanze e con il Ministro per la
funzione pubblica, «sentita la Conferenza permanente Stato-regioni»,
entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della Parte III
decreto.
Ancora, lo stesso d.P.C.m. «disciplina il trasferimento di
funzioni e regolamenta il periodo transitorio».
Si conferma che le disposizioni oggetto dell'impugnativa sono
gravemente lesive delle attribuzioni regionali e contrastanti con
l'oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega.
La materia, nella quale l'intervento statale si e' realizzato
(anche il titolo della Sezione e' significativo: «Norme in materia di
difesa del suolo e lotta alla desertificazione» e' il «governo del
territorio» che l'art. 117, terzo comma, Cost., assegna alla
competenza concorrente.
E' noto che nella materia, in cui vi e' il riparto della potesta'
legislativa secondo il terzo comma dell'art. 117 Cost., lo Stato puo'
intervenire esclusivamente con norme legislative di principio.
Soltanto per funzioni «unitarie», puo' essere giustificata la
riserva allo Stato, in base principio di sussidiarieta'.
D'altra parte, quando particolari competenze consentano allo
Stato di esercitare determinate funzioni amministrative incidenti in
materie di competenza regionale, occorre rispettare il principio di
leale collaborazione e, quindi, coinvolgere nella decisione la
Conferenza Stato-regioni.
Le disposizioni normative che sopprimono le Autorita' di bacino e
istituiscono le nuove Autorita' distrettuali non rispettano la
previsione costituzionale.
Intanto, l'accentramento, attraverso l'unificazione sotto
un'unica Autorita', di bacini che non hanno in realta' alcuna
correlazione, si mostra irragionevole, non giustificata e sottrae
competenze alle regioni, in violazione sia della competenza
legislativa di cui all'art. 117 Cost. che del principio di
sussidiarieta'.
Poi, i distretti sono costruiti come enti amministrativi
sovraregionali, operandosi, cosi', una distorsione delle strutture
delle Autorita' di bacino, che la legge n. 183/1989 aveva correlato a
dimensioni idrogeografiche «naturali», alle quali si connetteva la
competenza pianificatoria e decisionale.
Nel momento in cui le Autorita' distrettuali rappresentano,
invece, articolazioni burocratico-amministrative, si accentua un
carattere di amministrazione decentrata dello Stato.
Cio' e' confermato dal profilo strutturale, giacche' la
rappresentanza regionale e' in netta minoranza nell'organo
decisionale: la Conferenza istituzionale permanente (che nomina anche
il Segretario generale) e la Conferenza operativa.
Infatti, al comma 4, l'art. 63 cosi' recita: «Alla Conferenza
istituzionale permanente partecipano i Ministri dell'ambiente e della
tutela del territorio, delle infrastrutture e dei trasporti, delle
attivita' produttive, delle politiche agricole e forestali per la
funzione pubblica, per i beni e le attivita' culturali o i
Sottosegretari dai medesimi delegati, nonche' i presidenti delle
regioni e delle province autonome il cui territorio e' interessato
dal distretto idrografico o gli assessori dai medesimi delegati,
oltre al delegato del Dipartimento della protezione civile».
I rappresentanti dello Stato, quindi, sono sette, mentre quelli
delle regioni sono in numero inferiore. Sicche', tenuto conto che il
medesimo comma 4 espressamente prevede che la Conferenza «delibera a
maggioranza», la sottrazione di qualsiasi garanzia alle regioni.
Come gia' detto, poi, una cosi' puntuale previsione legislativa
statale in materia di competenza regionale, non e' mai ammissibile
senza la codecisione.
Ancora, va dedotta la illegittima attribuzione al decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri di una funzione regolamentare
(art. 63, commi 2 e 3).
Ovviamente, trattandosi di un potere connesso con quanto sopra
oggetto di impugnativa, vi e' una illegittimita' derivata per le
stesse ragioni appena esposte. E, comunque, un tale potere non e'
ammissibile, se non esercitato d'intesa con la Conferenza
Stato-regioni.
La circostanza che la materia, oggetto dell'intervento, sia di
competenza regionale (con la conseguente invasione di attribuzioni
delle regioni) consente di articolare il vizio di eccesso di delega.
Intanto, per violazione dell'oggetto.
La legge delega prevedeva il «riordino, coordinamento e
integrazione delle disposizioni legislative..., anche mediante la
redazione di testi unici» (art. 1, comma 1, legge n. 308/2004).
Come codesta ecc.ma Corte ha insegnato «la revisione e il
riordino, ove comportino l'introduzione di norme aventi contenuto
innovativo rispetto alla disciplina previgente, necessitano della
indicazione di principi e di criteri direttivi idonei a circoscrivere
le diverse scelte discrezionali dell'esecutivo, mentre tale specifica
indicazione puo' anche mancare allorche' le nuove disposizioni
abbiano carattere di sostanziale conferma delle precedenti» (sent.
n. 66/2005, che cita il precedente della sent. n. 354/1998).
Ne discende che, quando oggetto della delega e' il «riordino», lo
spazio dell'intervento e' ben delimitato.
Poi, per violazione dei principi di delega.
La legge n. 308/2004, all'art. 1, comma 8, indica, infatti «il
rispetto... delle competenze per materia delle amministrazioni
statali, nonche' delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali
come definite ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, della legge
15 marzo 1997, n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo 1998,
n. 112».
Il rispetto delle attribuzioni regionali costituiva, dunque, un
principio preciso che delimitava il decreto legislativo. L'invasione
delle competenze regionali che e' stata denunciata appare ancora piu'
grave laddove si consideri che la legge delega non sembra prevedere
una alterazione del sistema delle Autorita' di bacino.
Al riguardo principi e criteri direttivi dettati dal comma 9
sono:
«rimuovere i problemi di carattere organizzativo, procedurale
e finanziario che ostacolino il conseguimento della piena
operativita' degli organi amministrativi e tecnici preposti alla
tutela e al risanamento del suolo e del sottosuolo, superando la
sovrapposizione tra i diversi piani settoriali di rilievo ambientale
e coordinandoli con i piani urbanistici;
valorizzare il ruolo e le competenze svolti dagli organismi a
composizione mista statale e regionale;
adeguare la disciplina sostanziale e procedurale
dell'attivita' di pianificazione, programmazione e attuazione di
interventi di risanamento idrogeologico del territorio e della messa
in sicurezza delle situazioni a rischio; prevedere meccanismi
premiali a favore dei proprietari delle zone agricole e dei boschi
che investono per prevenire fenomeni di dissesto idrogeologico, nel
rispetto delle linee direttrici del piano di bacino;
adeguare la disciplina sostanziale e procedurale della
normativa e delle iniziative finalizzate a combattere la
desertificazione, anche mediante l'individuazione di programmi utili
a garantire maggiore disponibilita' della risorsa idrica e il riuso
della stessa;
semplificare il procedimento di adozione e approvazione degli
strumenti di pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti i soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale».
Non si rinviene traccia nella legge delega di principi che
autorizzassero la modifica del sistema previsto dalla legge 183 del
1989. Di qui le evidenti illegittimita' denunciate.
2.2) Illegittimita' costituzionale degli artt. 181, commi 7-11;
183, comma 1; 186; 189, comma 3, per violazione degli artt. 117
(commi primo, terzo e quinto), 118, 11 e 76 Cost. Violazione della
normativa comunitaria.
L'art. 181, comma 7, prevede che «soggetti economici» o
associazioni di categoria rappresentative dei settori interessati,
anche con riferimento ad interi settori economici e produttivi,
possano «stipulare con il Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio... appositi accordi di programma ...per definire i metodi
di recupero dei rifiuti destinati all'ottenimento di materie prime
secondarie, di combustibili o di prodotti».
Tali accordi «fissano le modalita' e gli adempimenti
amministrativi per la raccolta, per la messa in riserva, per il
trasporto dei rifiuti, per la loro commercializzazione, anche tramite
il mercato telematico, con particolare riferimento a quello del
recupero realizzato dalle Camere di commercio, e per i controlli
delle caratteristiche e i relativi metodi di prova». Gli accordi
«fissano altresi' le caratteristiche delle materie prime secondarie,
dei combustibili o dei prodotti ottenuti, nonche' le modalita' per
assicurare in ogni caso la loro tracciabilita' fino all'ingresso
nell'impianto di effettivo impiego». I commi successivi, dall'8
all'11, disciplinano le modalita' per la stipula, l'approvazione e la
pubblicazione di tali accordi di programma.
L'art. 183, comma 1, procede alla definizione dei termini: g)
«smaltimento»; h) «recupero»; m) «deposito temporaneo»; n)
«sottoprodotto» q) «materia prima secondaria», definita con
rferimento alle caratteristiche stabilite ai sensi dell'art. 181); u)
«materia prima secondaria per attivita' siderurgiche e
metallurgiche», la cui disciplina sara' integrata da un decreto
ministeriale «senza valore regolamentare».
In tale maniera, si attua una deregolamentazione contrastante
con le normative europee.
Le definizioni di smaltimento e recupero non sono conformi con
quanto indicato nella direttiva 75/442/CEE art. 1, lettere e) e f).
Le definizioni di sottoprodotto e di materia prima secondaria (MPS)
sono in contrasto con le sentenze della Corte di giustizia europea
(sentenze C-4l8/1997 e C-419/1997 - «Arco»; C-9/2000 - «Palim
Granit»; C-114/2001 «AvestaPolarit Chrome», e in particolare
C-457/2002 «Niselli».
La sottrazione dei sottoprodotti e delle cd. materie prime
secondarie alla disciplina dei rifiuti e' gia' stato oggetto di una
prima sentenza di condanna a seguito di procedura d'infrazione che ha
colpito il d.m. 5 febbraio 1998, che invece l'art. 181, comma 6, del
decreto legislativo impugnato mantiene transitoriamente, ma
illegittimamente, in vigore in attesa, di un nuovo decreto
ministeriale che fissi le caratteristiche dei materiali ottenuti come
materie secondarie.
D'altro canto, e' vero che sono inclusi nella «definizione» dei
rifiuti, ma in realta' la norma, che cosi' li classifica, delimita
l'ambito di applicazione della disciplina nel momento in cui prevede
che «non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del
presente decreto i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non
sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in
particolare...» (art. 183, comma 1, lettera n).
L'articolo 181, prevedendo appositi decreti ministeriali ed
accordi di programma, sottrae al regime dei rifiuti e alle relative
autorizzazioni, adempimenti e controlli, molte sostanze o materiali
che nella legislazione vigente, invece, vi sono assoggettati.
L'orientamento della giurisprudenza e la normativa comunitaria
impongono, invece, una nozione estensiva del concetto di «rifiuto»
comprendente i sottoprodotti e le materie prime secondarie.
Con la previsione del ricorso agli accordi di programma,
l'articolo qui censurato e' in contrasto con la disciplina normativa
ed il sistema, perche' non vi e' piu' una disciplina unitaria, ma una
serie indeterminata di accordi applicabili.
Di qui il contrasto con la normativa europea, che non consente
che le attivita' di recupero possano essere escluse dal regime
autorizzatorio (cfr. direttive n. 75/442/CEE e n. 91/156/CEE).
La dispensa dall'autorizzazione e' possibile solo fissando norme
generali che fissano i tipi e le quantita' di rifiuti.
Le motivazioni appena dedotte sostengono l'eccezione di
illegittimita' anche nei confronti dei commi 3 e 5 dell'art. 214,
nella parte in cui ammettono, rispettivamente, l'accordo
«deregolatorio» per le procedure semplificate di smaltimento di
rifiuti e richiamano il d.m. 5 febbraio 1988 per la fase transitoria,
in attesa della fissazione delle nuove regole.
L'art. 186, poi, prevede una generale esenzione per le terre e
rocce da scavo ed i residui della lavorazione della pietra destinati
all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, ecc. che non
costituiscono rifiuti e, pertanto, sono «esclusi dall'ambito di
applicazione della parte quarta del presente decreto solo nel caso in
cui, anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da
sostanze inquinanti derivanti dalle attivita' di escavazione,
perforazione e costruzione siano utilizzati, senza trasformazioni
preliminari, secondo le modalita' previste nel progetto sottoposto a
valutazione di impatto ambientale ovvero, qualora il progetto non sia
sottoposto a valutazione di impatto ambientale, secondo le modalita'
previste nel progetto approvato dall'autorita' amministrativa
competente, ove cio' sia espressamente previsto, previo parere delle
Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione
dell'ambiente, sempreche' la composizione media dell'intera massa non
presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi
previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3».
La previsione contrasta con la normativa comunitaria perche' si
tratta di esclusione disposta in via generale, senza tener conto
della generale disciplina europea.
Tale contrasto con le norme comunitarie determina non solo la
illegittimita' alla stregua dell'art. 117, comma primo, della
Costituzione, ma anche con la legge di delega (e quindi con l'art. 76
Cost.) che, come ricordato, fissa tra i criteri direttivi (art. 1,
comma 8) la «piena e coerente attuazione delle direttive comunitarie,
al fine di garantire elevati livelli di tutela dell'ambiente e di
contribuire in tale modo alla competitivita' dei sistemi territoriali
e delle imprese, evitando fenomeni di distorsione della concorrenza»
(lettera e), e l'«affermazione dei principi comunitari di
prevenzione, di precauzione, di correzione e riduzione degli
inquinamenti e dei danni ambientali e del principio "chi inquina
paga"», (lettera f).
L'illegittimita' per violazione delle competenze regionali e'
evidente.
I «rifiuti» costituiscono materia in cui si intersecano gli
interessi ambientali con quelli di tutela del territorio, nonche'
della tutela igienico-sanitaria e di sicurezza della popolazione.
Pur volendosi invocare il «criterio di prevalenza» elaborato
dalla giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte, e quindi la competenza
dello Stato a legiferare in base all'art. 117, comma 2, 1ettera s),
la legge statale deve sempre rispettare precisi limiti.
Invero, nella legislazione vigente, il ruolo fondamentale delle
Regioni, nell'attuazione del quadro normativo nazionale, ha trovato
un suo riconoscimento. Sicche' la notevole compressione di tale ruolo
regionale, che si realizza incidendo su attribuzioni alle Regioni
gia' riconosciute nell'attuale assetto normativo, ridonda in
ulteriore violazione della delega, che vincola il legislatore al
rispetto dell'assetto amministrativo e al riparto di competenze
vigente.
L'art. 189, al comma 3, contempla l'obbligo di comunicare
annualmente alle Camere di commercio le quantita' e le
caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto di attivita' di
raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti (c.d. MUD,
ossia il «modello unico» introdotto dalla legge n. 70/1994). Ne sono
esentate le imprese e gli enti che producono rifiuti non pericolosi.
Cio' comporta una caduta di informazioni relativamente a
molteplici categorie di rifiuti. Le strutture chiamate a svolgere i
controlli ambientali non saranno nelle condizioni di conoscere i dati
relativi alla produzione indispensabili per seguire il percorso dei
rifiuti.
2.3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 101, comma 7, per
violazione degli artt. 117, comma 1 e 3, e 76 Cost. violazione della
normativa comunitaria.
L'art. 101, comma 7, assimila alle acque reflue domestiche gli
scarichi derivanti dalle imprese agricole, includendo in esse anche
quelle che svolgono attivita' di trasformazione o valorizzazione dei
prodotti agricoli, purche' tale attivita', inserita con carattere di
normalita' e complementarieta' funzionale nel ciclo produttivo
aziendale, riguardi materia prima lavorata proveniente in misura
prevalente dall'attivita' di coltivazione dei terreni di cui si abbia
a qualunque titolo la disponibilita'.
E' noto che tali reflui possono avere un considerevole impatto
ambientale.
Al riguardo, l'art. 28, comma 7, lett. c), del d.lgs. n. 152/1999
(recante «Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e
recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento
delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla
protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati
provenienti da fonti agricole») imponeva un preciso rapporto minimo
tra materia prima derivante dalla propria produzione e materia prima
derivante da produzioni altrui.
A fronte di tale criterio, l'attuale intervento statale
sostituisce il limite di 2/3 con il concetto elastico di «misura
prevalente».
Palese l'accentuata discrezionalita', con cio' che ne deriva in
termini di disparita' di trattamento.
Palese, ancora, che la «fiessibilita» del nuovo criterio e
l'impropria classificazione degli scarichi delle imprese agricole,
che esercitano anche attivita' di trasformazione dei prodotti
agricoli, comportano livelli di trattamento meno rigorosi, con
conseguenze inevitabili in termini di danno ambientale.
Si ripropone, ancora una volta, il vizio per contrasto con la
legge di delegazione che ha fissato tra i principi e criteri
direttivi il «miglioramento della qualita' dell'ambiente, della
protezione della salute umana, dell'utilizzazione accorta e razionale
delle risorse naturali...» (lettera a), dell'art. 1, comma 8), e
l'obiettivo di «... pianificare, programmare e attuare interventi
diretti a garantire la tutela e il risanamento dei corpi idrici
superficiali e sotterranei, previa ricognizione degli stessi...»
(lettera b) del comma 9).
Cosi' come la violazione dell'ulteriore criterio del rispetto
delle attribuzioni gia' conferite alle regioni, giacche' sin dalla
legislazione di settore e dal decreto legislativo n. 112/1998 queste
funzioni risultano riconosciute.
2.4) Illegittimita' costituzionale degli artt. 154 e 155, per
violazione degli artt. 117, quarto comma, 119 e 76 Cost.
L'art. 154 istituisce la« Tariffa per il servizio idrico», quale
«corrispettivo del servizio idrico integrato», e fissa i parametri,
con cui essa deve essere determinata, prescrivendo che debba tenersi
conto «della qualita' della risorsa idrica e del servizio fornito,
delle opere e degli adeguamenti necessari, dell'entita' dei costi di
gestione delle opere, dell'adeguatezza della remunerazione del
capitale investito e dei costi di gestione delle aree di
salvaguardia, nonche' di una quota parte dei costi di funzionamento
dell'autorita' d'ambito, in modo che sia assicurata la copertura
integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il
principio del recupero dei costi e secondo il principio "chi inquina
paga"».
Determina, poi, le competenze attuative, attribuendo: al Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio, su proposta
dell'Autorita' di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, il
compito di definire con decreto «le componenti di costo per la
determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i vari
settori di impiego dell'acqua»; al Ministro dell'economia e delle
finanze, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio, «al fine di assicurare un'omogenea disciplina sul
territorio nazionale», il compito di stabilire «i criteri generali
per la determinazione, da parte delle regioni, dei canoni di
concessione per l'utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi
ambientali e dei costi della risorsa e prevedendo altresi' riduzioni
del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle
acque reimpiegando le acque risultanti a valle del processo
produttivo o di una parte dello stesso o, ancora, restituisca le
acque di scarico con le medesime caratteristiche qualitative di
quelle prelevate».
In tale maniera vengono previsti poteri normativi di livello
ministeriale che incidono su ambiti riservati alle regioni, in
violazione della competenza legislativa ad esse spettante a termini
dell'art. 117, comma della Costituzione.
La materia dei servizi pubblici locali e', infatti, riservata
alla potesta' residuale delle regioni, sicche' non e' legittimo
l'intervento qui contestato.
La disciplina, per di piu', contrasta con l'evoluzione della
stessa legislazione statale che, nell'art. 13, legge n. 36/1994,
aveva fissato la necessita' di tener conto degli obiettivi di
miglioramento della produttivita'. Il venir meno di uno strumento
idoneo a favorire il miglioramento dell'efficienza delle gestioni con
la leva tariffaria, incide negativamente sul miglioramento
progressivo in termini di efficienza, previsto dalla precedente
normativa.
Alla violazione dell'art. 117, comma 4, in materia di disciplina
dei sevizi pubblici locali, si aggiunga la violazione dell'autonomia
finanziaria e tributaria garantita alle regioni dall'art. 119, commi
primo e secondo, Cost., in quanto si incide su una entrata la cui
disciplina ricade nella competenza regionale.
Si ripropone, ancora una volta, il vizio di contrasto con i
criteri e i principi fissati dalla legge di delega, laddove essa ha
vincolato il legislatore non solo al rispetto «delle attribuzioni
delle regioni e degli enti locali, come definite ai sensi
dell'art. 117 della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e
del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112» (art. 1, comma 8), ma
anche al conseguimento dello «Sviluppo e coordinamento, con
l'invarianza del gettito, delle misure e degli interventi che
prevedono incentivi e disincentivi, finanziari o fiscali, volti a
sostenere, ai fini della compatibilita' ambientale, l'introduzione e
l'adozione delle migliori tecnologie disponibili, come definite dalla
direttiva 96/61/CE del 24 settembre 1996 del Consiglio, nonche' il
risparmio e l'efficienza energetica, e a rendere piu' efficienti le
azioni di tutela dell'ambiente e di sostenibilita' dello sviluppo,
anche attraverso strumenti economici, finanziari e fiscali» (art. 1,
comma 8, lettera d).
Per altro verso, poi la norma impugnata non sembra neppure
rientrare negli oggetti della delega, non essendo previsto tra essi
l'introduzione ex novo dell'imposta in questione.
P. Q. M.
Si conclude affinche' l'ecc.ma Corte costituzionale voglia, in
accoglimento del presente ricorso, dichiarare l'illegittimita'
costituzionale degli artt. 63 e 64; 101, comma 7; 154; 155; 181,
commi 7, 8, 9, 10, 11; 183, comma 1; 186; 189, comma 3; 214, commi 3
e 5, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 recante «Norme in
materia ambientale», per violazione degli articoli 11, 76, 117 e 118
della Costituzione, del principio di leale cooperazione, del
principio di ragionevolezza nonche' della normativa comunitaria.
Napoli-Roma, addi' 31 maggio 2006.
Prof. Avv. Vincenzo Cocozza - Prov. Avv. Fabrizio Criscuolo - Avv.
Vincenzo Baroni
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