Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 29 maggio 2012 (della Regione Veneto).
(GU n. 26 del 27.06.2012 )
Ricorso della Regione Veneto (c.f. ... e p.i.
...), in persona del Presidente pro tempore della Giunta
regionale, autorizzato mediante deliberazione della Giunta stessa del
7 maggio 2012, n. 773, rappresentata e difesa, come da procura
speciale a margine del presente atto, dagli avv.ti prof. Mario
Bertolissi del Foro di Padova (c.f. ..., pec:
...), Ezio Zanon dell'Avvocatura
regionale (c.f. ..., pec: ...),
Daniela Palumbo della Direzione Affari legislativi (c.f.
...) e Luigi Manzi del Foro di Roma (c.f.
...), presso quest'ultimo domiciliata in Roma, alla via
Federico Confalonieri, n. 5;
Contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso
la quale e' domiciliato ex lege, in Roma, alla via dei Portoghesi, n.
12, per la declaratoria di illegittimita' costituzionale degli
articoli: 1, comma 4; 25, comma 1, lett. a); 35, comma 8, 9, 10, 13;
36, comma 1, lett. a); 66, comma 9, decreto-legge 24 gennaio 2012, n.
1, recante «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo
delle infrastrutture e la competitivita')», cosi' come risultanti
dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27, in Suppl. ordinario
n. 53 alla Gazz. Uff., 24 marzo 2012, n. 71; per violazione degli
artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 114, 117, 118, 119, 120 Cost., nonche'
del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120,
comma 2, Cost., dell'art. 9, comma 2, della legge costituzionale n.
3/2001 e dei parametri interposti di cui alla legge 5 maggio 2009, n.
42 e al d.lgs. n. 85/2010;
F a t t o
In data 24 gennaio 2012 veniva pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 19, S.O. n. 18, il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1,
meglio conosciuto come «decreto Monti», relativo alle cosiddette
«liberalizzazioni».
Nell'ambito del citato provvedimento normativo, la Regione Veneto
individuava alcune disposizioni (segnatamente i commi 8, 9 e 10
dell'art. 35) lesive di proprie prerogative costituzionalmente
sancite e tutelate, nonche' numerosi profili di contrasto con il
dettato costituzionale, che ridondavano in altrettante lesioni
dell'autonomia regionale e degli enti locali, Province e Comuni.
Per questo, promuoveva avanti codesta Ecc.ma Corte un giudizio di
legittimita' costituzionale in via principale, con contestuale
istanza di misura cautelare, inserito al ruolo con il n. 60/2012.
In pendenza del citato giudizio, il Parlamento nazionale
interveniva, convertendo, con modificazioni, il summenzionato
decreto-legge, con legge 24 marzo 2012, n. 27.
Il complesso delle disposizioni normative risultante dalla
conversione in legge non e' immune da censure di legittimita'
costituzionale. Tali doglianze la Regione Veneto solleva, mediante
l'odierno ricorso, con riferimento ai seguenti profili di
D i r i t t o
1. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 4, del
decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito della
conversione in legge n. 27/2012.
La Regione lamenta, anzitutto, l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi'
come risultante a seguito della conversione in legge 24 marzo 2012,
n. 27.
Questo il testo del disposto impugnato: «I Comuni, le Province,
le Citta' metropolitane e le Regioni si adeguano ai principi e alle
regole di cui ai commi 1, 2 e 3 entro il 31 dicembre 2012, fermi
restando i poteri sostituitivi dello Stato ai sensi dell'articolo 120
della Costituzione. A decorrere dall'anno 2013, il predetto
adeguamento costituisce elemento di valutazione della virtuosita'
degli stessi enti ai sensi dell'articolo 20, comma 3, del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni,
dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. A tal fine la Presidenza del
Consiglio dei Ministri, nell'ambito dei compiti di cui all'articolo
4, comunica, entro il termine perentorio del 31 gennaio di ciascun
anno, al Ministero dell'economia e delle finanze gli enti che hanno
provveduto all'applicazione delle procedure previste dal presente
articolo. In caso di mancata comunicazione entro il termine di cui al
periodo precedente, si prescinde dal predetto elemento di valutazione
della virtuosita'. Le Regioni a statuto speciale e le Provincie
autonome di Trento e Bolzano procedono all'adeguamento secondo le
previsioni dei rispettivi statuti».
La disposizione di cui all'art. 1, comma 4, impone a Regioni,
Province, Comuni, Citta' metropolitane di adeguarsi ai principi di
cui ai primi tre commi del medesimo articolo e stabilisce che la
conformita' ad essi costituisca «elemento di valutazione della
virtuosita' degli enti» stessi. Spettera', poi, alla Presidenza del
Consiglio dei Ministri comunicare al Ministero dell'Economia e delle
Finanze l'elenco degli enti che abbiano provveduto all'applicazione
delle procedure di legge; in caso di mancato invio della citata
lista, si prescindera' dalla valutazione di virtuosita' rispetto al
parametro fissato nella norma.
1.1 La previsione impugnata e' illegittima, in primo luogo, in
relazione all'obbligo dettato per le Regioni.
Anzitutto deve chiarirsi l'ambito di afferenza della disciplina
censurata.
Quanto, nello specifico, all'impugnato quarto comma, esso sembra
riguardare il «coordinamento della finanza pubblica», dal momento che
pone per gli enti territoriali un obbligo al cui adempimento si
ricollegano importanti conseguenze circa la cogenza degli obiettivi
di finanza pubblica e la determinazione della contribuzione degli
enti stessi alla manovra annuale. Esso, pero', non puo' dirsi
legittimo rispetto a quest'ambito, in quanto contiene previsioni di
dettaglio ed auto applicative, che vanno ben oltre la potesta'
sull'individuazione dei principi fondamentali della disciplina ai
sensi dell'art. 117, comma 3, Cost.
Tuttavia, non e' questo l'unico ambito competenziale interessato
dalla disciplina e cio' appare immediatamente se solo si mette il
comma impugnato in relazione con le disposizioni normative che lo
precedono e a cui esso espressamente si ricollega.
Il senso della disciplina complessiva, infatti, e' quello di
imporre alle Regioni di adottare interventi normativi (abrogazioni) o
comportamenti (interpretativi e applicativi) negli ambiti piu'
disparati, alcuni di certa competenza legislativa regionale
concorrenziale (come il «governo del territorio») altri di potesta'
esclusiva (come ad esempio il «commercio»); dunque, negli ambiti
materiali di cui all'art. 117, comma 3 e 4, Cost.
La disciplina di asserito principio, contenuta nei primi tre
commi dell'art. 1, quella che dovrebbe fungere da «faro» illuminante
l'operato della Regione, e', poi, posta in presunta «attuazione del
principio di liberta' di iniziativa economica sancito dall'articolo
41 della Costituzione e del principio di concorrenza sancito dal
Trattato dell'Unione europea». Questi ultimi, dunque, sembrerebbero
essere, al fine, secondo il legislatore statale, i titoli
legittimanti l'intervento de quo anche eventualmente in spregio
dell'autonomia legislativa regionale.
Il punto merita qualche considerazioni piu' approfondita, anche e
soprattutto in ragione del fatto che molto complesso - come
illustrato - e', in realta', il panorama delle competenze legislative
regionali incise dalla disposizione impugnata.
La Corte costituzionale ha gia' chiarito, fin dalle piu'
risalenti pronunce sull'art. 41 Cost., che esso tutela la «liberta'
di concorrenza» quale «manifestazione della liberta' d'iniziativa
economica privata... (sentenze n. 46 del 1963 e n. 97 del 1969)». In
seguito, e' stata offerta una nozione piu' ampia della garanzia della
liberta' di concorrenza ed e' stato osservato, in primo luogo, che
essa ha «una duplice finalita': da un lato, integra la liberta' di
iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli
imprenditori e, dall'altro, e' diretta alla protezione della
collettivita', in quanto l'esistenza di una pluralita' di
imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualita'
dei prodotti e a contenerne i prezzi (sentenza n. 223 del 1982)»; in
secondo luogo, che la concorrenza costituisce un «valore basilare
della liberta' di iniziativa economica [...] funzionale alla
protezione degli interessi dei consumatori (sentenza n. 241 del
1990)» (cfr. piu' di recente, ex multis, Corte cost. sent. n. 270 del
2010).
La previsione legislativa impugnata, tuttavia, nulla ha che a
vedere con lo specifico profilo della liberta' concorrenziale in
rapporto alla libera iniziativa economica che la Corta ha enucleato
dall'art. 41 Cost., dal momento che non attiene in alcun modo alla
competizione tra imprenditori e ai relativi vantaggi per il
consumatore. La previsione di cui all'art. 41 Cost., di conseguenza,
non puo' porsi quale titolo legittimante l'invasione statale delle
competenze normative regionali.
Quanto al riferimento al principio di concorrenza sancito dal
Trattato dell'Unione europea, nelle materie di competenza regionale,
spetta alla Regione dare attuazione ai vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario (art. 117, comma 1 e 5, Cost.), senza
che cio' richieda un intervento statale intermedio. Dunque, anche
sotto questo profilo, la disciplina impugnata non puo' dirsi
legittima.
Certo, a legittimazione dell'imposizione di un vincolo alla
potesta' legislativa concorrente o esclusiva regionale, potrebbe
invocarsi la potesta' legislativa esclusiva statale in punto di
«tutela della concorrenza» (art. 117, comma 2, lett e), Cost.).
Deve, dunque, ricordarsi quale significato la Corte ha
riconosciuto alla locuzione. Essa, in particolare, ha rilevato che la
«tutela della concorrenza» «comprende, tra l'altro, interventi
regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali:
le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad
oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono
negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati e ne
disciplinano le modalita' di controllo, eventualmente anche di
sanzione; le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire
un mercato o a consolidarne l'apertura, eliminando barriere
all'entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi
della capacita' imprenditoriale e della competizione tra imprese, in
generale i vincoli alle modalita' di esercizio delle attivita'
economiche (sentenze n. 430 e n. 401 del 2007 (...) sentenze n. 80
del 2006, n. 242 del 2005, n. 175 del 2005 e n. 272 del 2004)».
La disciplina impugnata - in relazione al fine dichiarato (di
promozione della concorrenza) piu' che all'efficacia ad essa
connessa, come si vedra' scarsa - potrebbe, dunque, al piu' essere
sussunta nell'ambito della «tutela della concorrenza» di cui all'art.
117, comma 2, lett. e), Cost., che - come noto - ha una capacita'
pervasiva trasversale.
Cio' non basterebbe, comunque, a far ritenere conforme a
Costituzione la previsione di tali precise prescrizioni limitanti
l'autonomia normativa, concorrenziale o esclusiva, regionale, codesta
Ecc.ma Corte ha, infatti, chiarito che, anche una volta ricondotta
una norma nell'ambito della «tutela della concorrenza», «spetta alla
Corte effettuare un rigoroso scrutinio delle relative norme statali,
volto ad accertare se l'intervento normativo sia coerente con i
principi della concorrenza, e se esso sia proporzionato rispetto a
questo fine (sentenza nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303 e 38
del 2007)» (v. Corte cost. sent. n. 326 del 2008, poi ripresa, tra le
altre anche da Corte cost. sent. n. 270 del 2010).
Ora, le novelle imposte ai legislatori regionali non possono
certamente essere considerate coerenti e adeguate rispetto al fine
perseguito.
La disciplina suppostamente di principio alla quale la Regione
Veneto dovrebbe conformarsi, infatti, e' talmente generale e
generica, indefinita e perplessa, da perdere qualsiasi capacita' di
fungere da riferimento e garantire l'obiettivo di tutela che essa si
pone. Come tale, e', dunque, inoltre, inficiata da un autonomo vizio
di illegittimita' costituzionale per contrasto con il principio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
Le indicazioni e l'ambito di applicazione delle imposte
abrogazioni (comma 1) e del precetto di interpretazione e
applicazione in senso tassativo e restrittivo (comma 2), infatti, per
una parte, sono o dovrebbero ritenersi del tutto inutili (cosi', ad
esempio, per la previsione che vuole prive di cittadinanza nel nostro
ordinamento le disposizioni in contrasto con l'ordinamento
comunitario o viziate da irragionevolezza) e, per un'altra, sono
tanto ampli quanto lo sono le ipotesi di eccezione o contrappeso
contenute nei medesimi disposti normativi. E', quest'ultimo, il caso
dell'imposta abrogazione di disposizioni normative solo se non
giustificate da un non meglio precisato interesse generale o se non
ragionevoli, non adeguate, non proporzionate.
Ma lo stesso ragionamento puo' essere esteso ai prescritti limiti
all'obbligo di interpretazione e applicazione restrittiva e tassativa
delle disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni
all'accesso o all'esercizio di attivita' economiche: il riferimento
ai «possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al
patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla liberta', alla
dignita' umana» e ai «possibili contrasti con l'utilita' sociale, con
l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi
comunitari ed internazionali della Repubblica» (comma 2) e', infatti,
talmente vasto da lasciare ben poco margine all'applicazione del
principio di cui sopra, prima facie lapidario.
Un tanto osservato e considerato, dunque, e' evidente che
l'intervento legislativo statale interviene sull'autonomia
legislativa regionale, esclusiva o concorrenziale, menomandola, senza
esserne legittimato neppure dall'esercizio di una competenza
trasversale quale la «tutela della concorrenza» perche' privo dei
requisiti di ragionevolezza ed adeguatezza che la stessa Corte
costantemente richiede alle previsioni del legislatore centrale che
si muova in questo ambito materiale.
Se cosi' e', dunque, neppure potra' imporsi alle Regioni di
adeguarsi alle indicazioni che, ai sensi dell'art. 1, comma 3,
saranno date dal Governo entro la fine del 2012 con atti
regolamentari (chiamati ad individuare le attivita' per le quali
permane l'atto preventivo di assenso dell'amministrazione e a
disciplinare i requisiti per l'esercizio delle attivita' economiche
nonche' i termini e le modalita' per l'esercizio dei poteri di
controllo dell'amministrazione). Un tanto perche' un obbligo di tal
guisa si porrebbe in contrasto con l'art. 117, comma 6, Cost., che
attribuisce allo Stato potesta' regolamentare unicamente nell'ambito
delle materie di sua competenza legislativa esclusiva.
Nella denegata ipotesi, comunque, in cui si riconoscessero alla
disciplina impugnata caratteri di ragionevolezza, proporzionalita' ed
adeguatezza tali da consentire di ricondurla nell'ambito della
«tutela della concorrenza», la competenza statale cosi' esercitata
non potrebbe certo dirsi - in ragione delle censure gia' espresse -
prevalente e, dunque, in grado di escludere il riferimento alle
competenze legislative costituzionalmente garantite alle Regioni, qui
incise. Ne discenderebbe che dinnanzi a un concorso di competenze,
non potendosi formulare un giudizio di prevalenza dell'una
sull'altra, il legislatore nazionale, avrebbe dovuto ricorrere a
strumenti di leale collaborazione (cfr. ex multis, Corte cost. 30
dicembre 2009, n. 339). Dal momento che cio' non e' affatto avvenuto,
la disciplina impugnata deve essere comunque dichiarata
costituzionalmente illegittima per contrasto con il principio di
leale collaborazione.
Quanto all'imposto obbligo di interpretare e, soprattutto,
applicare le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o
condizioni all'accesso e all'esercizio delle attivita' economiche
secondo le indicazioni dell'art. 1, comma 2, la Regione deve
rilevare, inoltre, il contrasto dello stesso con l'autonomia
nell'esercizio delle funzioni amministrative sancito e tutelato per
essa dall'art. 118 Cost. E tale profilo di difformita' rispetto al
dettato costituzionale e', ancora una volta, aggravato dal contenuto
perplesso ed indefinito della disposizione normativa di riferimento.
Il tutto non potra' che ingenerare incertezze e ritardi nell'operato
delle amministrazioni, anche regionali, che si rifletteranno in una
menomazione del principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.
1.2 La disposizione normativa di cui all'art. 1, comma 4, qui
impugnata, poi, presenta un ulteriore profilo di illegittimita'
costituzionale. Essa, infatti, oltre ad imporre alle Regioni il
rispetto dei primi tre commi del medesimo articolo, introduce una
nuova forma di controllo sull'operato - addirittura legislativo -
delle Regioni, in palese contrasto con il principio autonomistico di
cui all'art. 5 Cost., ma anche con quello di equiordinazione tra enti
costituenti la Repubblica (art. 114 Cost.) e con il principio di cui
all'art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.
3, che ha abrogato le forme di controllo di cui agli artt. 125 e 130
Cost. perche' non piu' coerenti con il disegno delle autonomie
territoriali successivo alla revisione costituzionale del 2001.
Al fine di rendere piu' chiara la censura appena proposta, sembra
opportuno analizzare i caratteri della verifica cui il legislatore
nazionale assoggetta gli enti territoriali: oggetto, parametro,
soggetto deputato alla valutazione, presupposti del controllo,
conseguenze della valutazione effettuata.
Quanto all'oggetto di controllo, esso e' - come si e' visto - la
stessa attivita' legislativa (comma 1 e 3) e amministrativa (comma 2
e 3) della Regione.
Il parametro e' costituito dalle disposizioni di preteso
principio contenute soprattutto nei commi 1 e 2, disposizioni che,
tuttavia, come gia' si e' rilevato, mancano dei requisiti minimi di
chiarezza, univocita' ed intelligibilita' che sono necessari allo
scopo. Tale carenza, stante il carattere rigido e sanzionatorio del
controllo predisposto, finisce, da un lato, con l'ingenerare
incertezza nell'ente che dovrebbe adeguarsi ai summenzionati principi
(parametri del controllo) e, da un altro lato, con il dilatare la
discrezionalita' del controllore, al punto che per essa sembra piu'
corretto parlare di arbitrio.
Lo svolgersi delle considerazioni induce, dunque, a ragionare
circa l'identita' e la natura del soggetto deputato al controllo: si
tratta del Ministero dell'Economia e delle Finanze, su
sollecitazione-comunicazione del Presidente del Consiglio dei
Ministri. E' evidente che non si tratta di un soggetto terzo ed
imparziale rispetto ai termini della valutazione che la legge dello
Stato gli attribuisce e cio' e' tanto piu' evidente laddove si
consideri che la disposizione impugnata rimette al Governo
addirittura la decisione sull'an stesso del controllo e, dunque, sui
presupposti della verifica.
Quanto, infine, alle conseguenze, non si tratta certo di un
controllo di natura collaborativa, come i tanti gia' esistenti e
«fatti salvi» da codesta Ecc.ma Corte, proprio in considerazione
della loro natura (cfr. Corte cost. sent. n. 29 del 1995). Al
contrario, alla valutazione svolta dal Ministero competente si
ricollegano pesanti conseguenze economico-finanziarie per l'ente. Il
mancato inserimento dello stesso nel novero degli enti virtuosi ai
sensi dell'art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98,
importa, infatti, da un lato, un aggravamento della responsabilita'
nel concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica
e, dall'altro, un innalzamento del contributo dell'ente stesso alla
manovra annuale.
E' evidente che un controllo siffatto si pone in radicale
difformita' rispetto all'assetto autonomistico sancito e tutelato
dalla Costituzione per le Regioni e gli enti territoriali e, stante
le conseguenze appena ricordate ad esso ricollegate, finisce con
l'incidere, menomandola, sull'autonomia finanziaria della ricorrente
di cui all'art. 119 cost. e alla legge che di quest'ultima
disposizione fa applicazione: legge 5 maggio 2009, n. 42.
In particolare, risultano lesi: i principi di autonomia di
entrata e di spesa (art. 1, comma 1); il principio di «certezza delle
risorse e stabilita' tendenziale del quadro di finanziamento», dal
momento che il legislatore statale si riserva di procedere a
riduzione dei finanziamenti, (art. 2, comma 2, lett. ll), e, ancor
piu' specificamente, il principio di «premialita' dei comportamenti
virtuosi ed efficienti nell'esercizio della potesta' tributaria,
nella gestione finanziaria ed economica» e la relativa previsione di
sanzioni di cui all'art. 2, comma 2, lett. z). Non si puo' ignorare,
infatti, che le sanzioni cui si riferisce la disposizione da ultimo
citata sono quelle per gli enti che «non rispettano gli equilibri
economico-finanziari o non assicurano i livelli essenziali delle
prestazioni (...) o l'esercizio delle funzioni fondamentali di cui
all'articolo 117, secondo comma, lett. p)». I presupposti di questo
sistema sanzionatorio non sono affatto quelli di cui alla verifica
prevista all'art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 1/2012.
Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta
Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi
come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27 per
violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, 117 (comma 1, 2, 3, 4, 5, 6),
118, 119 Cost., nonche' all'art. 9, comma 2, della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, del principio di leale
collaborazione e dei principi di cui all'art. 1, comma 1, all'art. 2,
comma 2, lett. ll) e all'art. 2, comma 2, lett. z), della legge 5
maggio 2009, n. 42.
2. Sull'illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 25,
comma 1, lett. a), del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante
a seguito della conversione in legge n. 27/2012.
Del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come convertito con legge 24
marzo 2012, n. 27, la Regione Veneto, impugna, in parte qua, anche
l'art. 25, comma 1, lett. a).
Tale disposizione stabilisce di inserire nel corpo del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, un articolo 3-bis recante
«Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento
dei servizi pubblici locali».
In particolare, della suddetta nuova disposizione, si contesta la
legittimita' costituzionale dei commi 2, 3, 4, 5.
2.1 Prima di procedere con la prospettazione delle diverse
censure di legittimita' costituzionale della disciplina impugnata, si
ritiene opportuno svolgere una breve premessa in relazione al riparto
tra competenze legislative che, nell'ambito di cui si discute,
vengono in rilievo.
Il patrocinio della Regione e' consapevole, in via preliminare,
di quale sia, nella disciplina dei servizi pubblici locali, la
capacita' di penetrazione trasversale, riconosciuta, per
giurisprudenza costante, da codesta Corte (cfr., ovviamente, sent. n.
325 del 2010), della materia «tutela della concorrenza», di
competenza statale esclusiva.
E tuttavia, nel contempo, non ignora nemmeno che
l'assolutizzazione del valore della concorrenza finisce con il
«lasciare in ombra il rapporto con gli utenti. ... Non e' senza
significato che, trasformando il servizio pubblico in un problema di
"competizione" fra gestori, i destinatari si trasformano in clienti,
soggetti che non necessariamente coincidono con la collettivita' ...
[L'ente territoriale] non si deve ridurre al rango di mero custode
dell'interesse della concorrenza, ma deve rivendicare la propria
tradizionale fisionomia di amministrazione chiamata a effettuare
scelte politiche a favore della collettivita'» (cosi' F. Fracchia, I
servizi pubblici e la retorica della concorrenza, in Foro it., 2011,
c. 11-112).
Ogni rilievo di legittimita' costituzionale che si svolgera' qui
di seguito trae il suo primo fondamento proprio della rilevata
necessita' che si torni a dare centralita' ai destinatari del
servizio, destinatari di cui e' l'ente ad essere esponenziale e
responsabile.
2.2 Il comma 2 del nuovo art. 3-bis, dispone che «In sede di
affidamento del servizio mediante procedura ad evidenza pubblica,
l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione costituisce
elemento di valutazione dell'offerta».
Si tratta evidentemente - alla luce della giurisprudenza
costituzionale - di una previsione normativa afferente l'ambito
materiale di potesta' legislativa esclusiva statale di «tutela della
concorrenza».
In questi casi, il bilanciamento fra le ragioni della concorrenza
e quelle poco sopra richiamate dell'utenza passa attraverso il
necessario vaglio di ragionevolezza, proporzionalita' e adeguatezza
della disciplina impugnata, bilanciamento che si richiede oggi a
codesta Ecc.ma Corte, consapevoli che l'esercizio della potesta'
normativa esclusiva dello Stato in tema di tutela della concorrenza
potra' risultare legittimo solo a condizione che tali canoni siano
rispettati, specie ove travalichi competenze regionali (cfr. sentt.
n. 14 del 2004, n. 407 del 2002, n. 272 del 2004).
Proprio alla luce della citata giurisprudenza costituzionale,
appare fondata la censura del disposto di cui al comma 2, del
medesimo art. 3-bis, «la' dove stabilisce, dettagliatamente e con
tecnica auto applicativa» uno dei «criteri in base ai quali la gara
viene aggiudicata» (cfr. sent. n. 272 del 2004).
L'estremo dettaglio nell'indicazione di questo criterio
(l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione), che per altro
non prende irragionevolmente in considerazione nessun ulteriore
requisito dei candidati aspiranti pur utili alla buona gestione del
servizio a livello locale (quod non, ad esempio, il ridotto impatto
ambientale, ovvero il risparmio energetico, l'economicita' della
gestione, la promozione delle iniziative imprenditoriali e giovanili
femminili?), va al di la' della pur doverosa tutela degli aspetti
concorrenziali inerenti alla gara, che peraltro appaiono
sufficientemente garantiti dalle normative gia' vigenti (e' una
parafrasi della sent. n. 272 del 2004).
Se cio' e' vero, l'intervento del legislatore statale «pone in
essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiche'
risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all'obiettivo
della tutela della concorrenza» (cfr. Corte cost. sent. n. 272 del
2004), con cio' ledendo gli artt. 3, quanto al principio di
ragionevolezza, e 117 Cost.
Parallelamente essa determina una compressione dell'autonomia
regionale nell'esercizio delle funzioni amministrative, tutelata
all'art. 118 Cost., sotto il profilo della contrazione della
possibilita' di gestire liberamente l'affidamento e il servizio,
magari tenendo in conto, alla luce dei principi di sussidiarieta',
differenziazione ed adeguatezza, delle specificita' territoriali
proprie.
2.3 Il comma 3 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011,
dispone che: «A decorrere dal 2013, l'applicazione di procedure di
affidamento dei servizi a evidenza pubblica da parte di regioni,
province e comuni o degli enti di governo locali dell'ambito o del
bacino costituisce elemento di valutazione della virtuosita' degli
stessi ai sensi dell'articolo 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio
2011, n. 111. A tal fine, la Presidenza del Consiglio dei ministri,
nell'ambito dei compiti di tutela e promozione della concorrenza
nelle regioni e negli enti locali comunica, entro il termine
perentorio del 31 gennaio di ciascun anno, al Ministero dell'economia
e delle finanze gli enti che hanno provveduto all'applicazione delle
procedure previste dal presente articolo. In caso di mancata
comunicazione entro il termine di cui al periodo precedente, si
prescinde dal predetto elemento di valutazione della virtuosita'».
La previsione impugnata si appalesa costituzionalmente
illegittima sotto due profili.
Il primo attiene, nello specifico, la previsione di una nuova
forma di controllo sull'attivita' della Regione che passa attraverso
la c.d. valutazione di virtuosita'. Con riferimento alla contrarieta'
a Costituzione di forme di controllo siffatte si e' gia' argomentato
al punto 1.2 della parte di diritto del presente ricorso, alla quale,
dunque, si rinvia integralmente.
Il secondo aspetto di contrasto con la Costituzione e', invece,
del tutto peculiare della fattispecie normativa ora in esame.
Gli elementi che compongono il controllo di virtuosita' degli
enti, ma, soprattutto, le deteriori conseguenze derivanti
dall'eventuale mancata inclusione della Regione fra gli enti virtuosi
sono tali, sotto il profilo economico-finanziario, specie nella
situazione in cui versa il Paese, da indurre - rectius obbligare - di
fatto la Regione e gli enti territoriali ad utilizzare sempre la
procedura ad evidenza pubblica per l'affidamento dei servizi, a
discapito delle procedure in house, anche nelle residuali ipotesi in
cui le stesse dovessero risultare preferibili in termini di
efficienza e/o economicita'.
Una disposizione normativa di tal fatta deve, allora, essere
dichiarata costituzionalmente illegittima, anzitutto, per violazione
dell'art. 117, comma 1, Cost., per contrasto della stessa con la
disciplina comunitaria.
Se e' ben vero che, con riferimento ai sistemi di affidamento dei
servizi, il legislatore nazionale gode, rispetto al dettato
comunitario, di un certo margine di apprezzamento, e' altrettanto
vero che dall'ordinamento UE e' possibile trarre il principio per cui
l'affidamento ad evidenza pubblica non e' l'unico possibile, potendo
ben essere affiancato, seppur in ipotesi marginali, da altre forme di
attribuzione della responsabilita' del servizio, quali l'in house,
qualora queste si rivelino, di fatto, piu' ragionevoli ed efficienti,
non essendo permesso agli Stati membri escludere tout court dette
tipologie in modo assoluto.
La disposizione impugnata, inoltre, viola l'art. 117 Cost., anche
con riferimento al riparto della potesta' normativa tra il
legislatore statale e quello regionale. Non puo' dimenticarsi,
infatti, che il legislatore statale gode di potesta' legislativa
esclusiva nell'ambito della «tutela della concorrenza», di cui
all'art. 117, comma 2, lett. e), Cost., ma che un intervento
legislativo statale in questa materia puo' sperare di superare il
sindacato di legittimita' costituzionale solo se «coerente con i
principi della concorrenza, e se esso sia proporzionato rispetto a
questo fine (sentenza nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303 e 38
del 2007)» (v. Corte cost. sent. n. 326 del 2008, poi ripresa, tra le
altre anche da Corte cost. sent. n. 270 del 2010).
La previsione normativa de qua, tuttavia, e' manifestamente
sproporzionata rispetto al fine dato. Lo dimostra, anzitutto,
l'irragionevolezza stessa della disciplina nella parte in cui finisce
con l'escludere nei fatti la possibilita' di affidamenti in house, in
seguito ad una valutazione negativa operata ex ante, mentre e' ben
possibile, in concreto, che questa tipologia di affidamento di
servizi si dimostri in concreto piu' efficiente e virtuosa. Nessuna
possibilita' di vincere la presunzione di «tossicita'»
dell'affidamento e' resa possibile, invece, dal legislatore statale
(il controllo operato dal Ministero sulla base della comunicazione
della Presidenza del Consiglio, infatti, si svolge addirittura senza
alcuna forma di contraddittorio): di qui un ulteriore profilo di
irragionevolezza.
In pratica agli enti territoriali e' negata la possibilita' di
valutare le proprie esigenze e di scegliere la modalita' di gestione
dei servizi rispetto a tali esigenze piu' confacente. In cio' sta la
denunciata violazione dell'art. 118 Cost., leso anche con specifico
riferimento al principio di sussidiarieta' (dal momento che la
valutazione sulle modalita' di affidamento avviene, una volte per
tutte, ad opera del livello di governo centrale). La logica
conseguenza e' il contrasto - del pari meritevole di censura - della
disciplina impugnata rispetto al principio di buon andamento
dell'amministrazione, anche in relazione ai principi di efficienza,
efficacia ed economicita' (art. 97 Cost.).
Anche qui puo' giovare il confronto con la diversa sensibilita'
per la questione in ambito comunitario: se in Italia «anche a livello
normativo, nella scelta dell'organizzazione del servizio pubblico (si
pensi all'atteggiamento restrittivo serbato dal nostro ordinamento
nei confronti dell'in house), sembra risultino prevalenti le ragioni
della concorrenza (...) nel contesto comunitario, la centralita' dei
destinatari e' molto evidente. A cio' si aggiunga che, in quel
contesto, pure gli affidamenti diretti, se utili per lo svolgimento
della "missione", non sono affatto preclusi in assoluto» (cosi' F.
Fracchia, I servizi pubblici e la retorica della concorrenza, in Foro
it., 2011, c. 11-112). La prospettiva del legislatore comunitario sul
punto e', dunque, ben piu' ragionevole!
Non puo' sottacersi, infine, che il marcato disfavore per sistemi
di affidamento diversi dall'evidenza pubblica, che deriva dal
disposto di cui all'art. 25 qui censurato del decreto-legge n.
1/2012, cosi' come risultante per opera della conversione in legge,
si pone anche in netta contraddizione con la previsione di cui al
successivo comma 4. Questo, infatti, al contrario, prevede che i
gestori di servizi non selezionati tramite procedura ad evidenza
pubblica possano accedere a finanziamenti speciali, alla sola
condizione che l'Autorita' abbia di fatto (dunque, con valutazione in
concreto) verificato l'efficienza gestionale e la qualita' del
servizio reso, con ogni conseguenza in termini di mancata coerenza
interna del testo normativo de quo.
2.4 Il comma 4 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011,
dispone che «Fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai
servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi
europei, i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su
risorse pubbliche statali ai sensi dell'articolo 119, quinto comma,
della Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di
governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai
relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura ad
evidenza pubblica o di cui comunque l'Autorita' di regolazione
competente abbia verificato l'efficienza gestionale e la qualita' del
servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall'Autorita'
stessa».
Come codesto Ecc.mo Collegio ha chiarito, infatti, in via
generale, solamente due tipologie di fondi possono essere considerate
rispettose del dettato dell'art. 119 Cost.: i) un fondo perequativo,
senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacita'
fiscale per abitante (art. 119, comma 3, Cost.), che, insieme ad
entrate e tributi propri e compartecipazione al gettito di tributi
erariali riferibile al proprio territorio (art. 119, comma 2, Cost.),
serve a finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite a
Regioni ed Enti locali (art. 119, comma 4, Cost.) e ii) «risorse
aggiuntive» ed «interventi speciali» in favore di determinate
Regioni, Province, Citta' metropolitane e Comuni, al fine di
«promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarieta'
sociale, (...) rimuovere gli squilibri economici e sociali, (...)
favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, (...)
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni»
(art. 119, comma 5, Cost.).
Dal momento che si potrebbe esser tentati di sussumere la
fattispecie in esame nella seconda ipotesi di fondo, si ricorda che,
proprio in relazione a questi ultimi, codesto Ecc.mo Giudice delle
leggi ha precisato che essi «non solo debbono essere aggiuntivi
rispetto al finanziamento integrale (...) delle funzioni spettanti ai
Comuni o agli altri enti, e riferirsi alle finalita' di perequazione
e di garanzia enunciate nella norma costituzionale, o comunque a
scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni, ma debbono essere
indirizzati a determinati Comuni o categorie di Comuni (o Province,
Citta' metropolitane, Regioni)» e che «l'esigenza di rispettare il
riparto costituzionale delle competenze legislative fra Stato e
Regioni comporta altresi' che, quando tali finanziamenti riguardino
ambiti di competenza delle Regioni, queste siano chiamate ad
esercitare compiti di programmazione e di riparto dei fondi
all'interno del proprio territorio» (cosi' Corte cost., sent. n. 16
del 2004; Corte cost., sent. n. 22 del 2005).
Ora, i finanziamenti di cui all'impugnato comma 3 dell'art.
3-bis, introdotto dall'art. 25, comma 1, lett. a) del decreto-legge
n. 1/2012, cosi' come risultante dalla conversione in legge: i) non
possono dirsi aggiuntivi rispetto all'integrale finanziamento delle
funzioni in materia di servizi pubblici, a causa della ben nota
cronica sottostima del fabbisogno degli enti sul punto; ii) non sono
indirizzati esclusivamente agli enti territoriali e per giunta questi
non sono predeterminati con sufficiente precisione; iii) in relazione
a detti finanziamenti, che pur si muovono nell'ambito di competenze
regionali, nessun coinvolgimento delle Regioni e' previsto, ne' in
punto di programmazione, ne' in punto di distribuzione.
Pertanto la disciplina normativa citata deve dichiarasi
costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 119 Cost. e,
quanto al mancato coinvolgimento delle Regioni, per violazione del
principio di leale collaborazione.
2.5 Il comma 5 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011,
ad opera dell'art. 25 della l. n. 27/2012, dispone che «Le societa'
affidatarie in house sono assoggettate al patto di stabilita' interno
secondo le modalita' definite dal decreto ministeriale previsto
dall'articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n.
112, convertito, con modificazioni, con legge 6 agosto 2008, n. 133,
e successive modificazioni. L'ente locale o l'ente di governo locale
dell'ambito o del bacino vigila sull'osservanza da parte delle
societa' di cui al periodo precedente dei vincoli derivanti dal patto
di stabilita' interno».
La summenzionata disposizione ripropone sostanzialmente il
contenuto della prima parte della lett. a) del comma 10 dell'art. 23
bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (recante «Disposizioni
urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la
perequazione Tributaria»), convertito, con modificazioni dalla legge
6 agosto 2008, n. 133.
L'art. 23-bis cit. e' stato aggiunto all'originario corpo
normativo dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 ed e'
entrato in vigore, in forza dell'art. 1, comma 4, di detta legge, in
data 22 agosto 2008. Esso e' poi stato modificato dall'art. 15, comma
1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 («Disposizioni urgenti
per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di
sentenze della Corte di giustizia delle Comunita' europee»)
convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166.
La lett. a) del comma 10 dell'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 (nel
testo risultante dalla modifica operata dal citato art. 15, comma 1,
decreto-legge n. 135/209, convertito in legge n. 166/2009) disponeva
che «Il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le
regioni ed entro il 31 dicembre 2009, sentita la Conferenza unificata
di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281,
e successive modificazioni, nonche' le competenti Commissioni
parlamentari, adotta uno o piu' regolamenti, ai sensi dell'articolo
17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di: a)
prevedere l'assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in
house di servizi pubblici locali al patto di stabilita' interno,
tenendo conto delle scadenze fissate al comma 8, e l'osservanza da
parte delle societa' in house e delle societa' a partecipazione mista
pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l'acquisto
di beni e servizi e l'assunzione di personale».
Come noto, tale disposizione e' stata dapprima colpita da
parziale declaratoria di illegittimita' costituzionale «limitatamente
alle parole: l'assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di
servizi pubblici locali al patto di stabilita' interno e» ad opera
della sentenza n. 325/2010 di codesta Corte (pubblicata il 24
novembre 2010); successivamente l'intero art. 23-bis e' stato
integralmente abrogato a seguito dell'esito del referendum popolare
del 12-13 giugno 2011 (cfr. d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113). E' cosi'
rimasto privo di base normativa anche l'intero d.P.R. attuativo (7
settembre 2010, n. 168 recante Regolamento in materia di servizi
pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell'articolo 23-bis,
comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), ivi incluso, in
particolare, l'art. 5, rubricato, per l'appunto, «Patto di stabilita'
interno».
Diversamente detto, a causa della caducazione imposta dal Giudice
delle leggi, era venuto meno il presupposto legislativo per potersi
affermare l'assoggettabilita' delle societa' in house al patto di
stabilita' interno.
Sennonche', prima della predetta legge novembrina n. 166/2009 (di
modifica dell'originario art. 23-bis del d.l. n. 112/2008) e,
ovviamente, prima della pubblicazione della citata sentenza n.
325/2010, l'art. 19, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102
(recante Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge
1° luglio 2009, n. 78, recante provvedimenti anticrisi, nonche'
proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni
internazionali e pubblicata in G.U. del 4 agosto 2009) aggiungeva
all'art. 18 del d.l. n. 112/2008, un comma 2-bis in sostanziale
continuita' con l'originale formulazione dell'art. 23-bis dal
seguente tenore: «con decreto del Ministro dell'economia e delle
finanze, di concerto con i Ministri dell'interno e per i rapporti con
le regioni, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive
modificazioni, da emanare entro il 30 settembre 2009, sono definite
le modalita' e la modulistica per l'assoggettamento al patto di
stabilita' interno delle societa' a partecipazione pubblica locale
totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di
servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni
volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere
non industriale ne' commerciale, ovvero che svolgano attivita' nei
confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni
amministrative di natura pubblicistica». A conferma
dell'assoggettabilita' al patto di stabilita' interna delle societa'
in house previa definizione delle relative modalita' per via
ministeriale.
In definitiva, il nuovo art. 18, comma 2-bis, sebbene fosse ab
origine coerente con i contenti dell'art. 23-bis del medesimo
decreto-legge n. 112/2008 (e, in fondo, servisse a segnalare che
l'ivi previsto regolamento governativo non era ancora stato
adottato), fini' inopinatamente con l'operare in aperta
contraddizione rispetto ad esso, quando quest'ultimo fu colpito da
incostituzionalita' e parzialmente annullato: con il risultato
paradossale della sopravvenuta antinomia fra l'una disposizione che
assoggettava le societa' in house al patto di stabilita' con rinvio,
quanto al quomodo, ad un adottando decreto ministeriale e l'altra
disposizione annullata proprio perche' assoggettava le medesime
societa' in house al patto di stabilita' con la stessa tecnica del
rinvio ad uno o piu' adottandi regolamenti governativi.
La situazione, lungi dall'avviarsi al chiarimento, si fece ancor
piu' nebulosa.
Infatti, in totale spregio tanto dell'esito referendario, quanto
dell'acclarata illegittimita' costituzionale dell'art. 23-bis e in
asserita reviviscenza dell'art. 18, comma 2-bis, il legislatore
statale, peraltro con la dichiarata finalita' di «Adeguamento della
disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla
normativa dell'Unione europea», (nuovamente) disponeva, al comma 14
dell'art. 4 del d.l. 13 agosto 2001, n. 138 (recante «Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo.
Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul
territorio degli uffici giudiziari», convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148), che «Le societa' cosiddette
"in house" affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici
locali sono assoggettate al patto di stabilita' interno secondo le
modalita' definite, con il concerto del Ministro per le riforme per
il federalismo, in sede di attuazione dell'articolo 18, comma 2-bis
del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con legge 6
agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni. Gli enti locali
vigilano sull'osservanza, da parte dei soggetti indicati al periodo
precedente al cui capitale partecipano, dei vincoli derivanti dal
patto di stabilita' interno». Un tanto (non in via generale, ma) con
le espresse limitazioni di cui al comma 34 che esclude dall'intera
disciplina dell'art. 4 i settori del servizio idrico integrato
(tranne i commi da 19 a 27), del servizio di distribuzione di gas
naturale (salvo il comma 33), del servizio di distribuzione
dell'energia elettrica, del servizio di trasporto ferroviario
regionale, della gestione delle farmacie comunali.
2.5.1 Entro l'accennato contesto normativo va considerata la
disposizione qui gravata, introdotta dall'art. 25 del d.l. n. 1/2012,
convertito in legge n. 27/2012.
In prima battuta non puo' che osservarsi che con siffatta
disposizione, lo Stato (Governo, prima, e Parlamento, poi),
demandando nuovamente ad una fonte sub-legislativa la definizione
delle modalita' per l'assoggettamento al patto di stabilita' interno
delle societa' in house, pretende - come usa dire - di far rientrare
dalla finestra quanto codesto Giudice aveva poco prima fatto uscire
dalla porta.
Contro tale indebito tentativo e' agevole opporre e riproporre il
medesimo giudizio gia' espresso da codesta Corte, la quale ha
riconosciuto la fondatezza delle doglianze regionali contro la
disciplina statale (del comma 10, lett. a), prima parte, dell'art.
23-bis del d.l. n. 112/2008) «in cui si prevede che la potesta'
regolamentare dello Stato prescriva l'assoggettamento dei soggetti
affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilita'
interno».
Segnatamente, va rammentato che «l'ambito di applicazione del
patto di stabilita' interno attiene alla materia del coordinamento
della finanza pubblica (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009; n. 267 del
2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di
competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto
l'art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potesta'
regolamentare» (cosi' sent. n. 325 del 2010).
Donde la violazione, nel caso di specie, dell'art. 117, terzo e
sesto comma, Cost.: lo Stato, non avendo potesta' legislativa
esclusiva in subiecta materia, e' privo anche della potesta'
regolamentare e ad essa non puo' far rinvio, ne' ipotizzando
regolamenti governativi ex art. 17, secondo comma, l. n. 400/1988,
ne' ipotizzando decreti ministeriali ex art. 18, comma 2-bis, d.l. n.
112/2008.
2.5.2 Come osservato, l'assoggettamento delle societa' in house
al patto di stabilita' interno secondo modalita' da definirsi per via
regolamentare e' stato previsto (con varie formulazioni), a tacer
d'altro, dalla legge (di conversione) 6 agosto 2008, n. 133 del d.l.
n. 112/2008, dall'art. 19, comma 1, della legge 3 agosto 2009 n. 102;
dall'art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135/2009, convertito, con
modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166; e' stato
dichiarato incostituzionale con sentenza n. 325/2010; e' stato
reintrodotto dall'art. 4 del decreto-legge n. 138/2011 (convertito in
legge n. 148/2011); e' stato ribadito dal qui gravato art. 25 del
decreto-legge n. 1/2012 (convertito in legge n. 27/2012).
Cio' premesso, non si dica che la doglianza non e' fondata
assumendo che il denunciato contrasto non tanto riguarda la
disposizione censurata, quanto, i suoi «antecedenti storici», in
particolare, il «remoto» art. 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/2008 e
il piu' recente art. 4, comma 14, del d.l. n. 138/2011.
Fin d'ora, infatti, laddove fosse ritenuto necessario, il
sottoscritto patrocinio insta espressamente affinche' il presente
giudizio sia esteso d'ufficio alle citate disposizioni per
autorimessione della relativa questione avanti a se stessa,
sull'assunto, piu' volte ribadito, che il giudizio di legittimita'
costituzionale ha ad oggetto la norma (come «situazione normativa») e
non le singole disposizioni-atti.
E, comunque sia, rileva:
a) quanto all'art. 18, comma 2-bis cit.: da un lato, che
esso, a ben vedere, e' stato implicitamente abrogato dal successivo
art. 23 bis (nel testo risultante dalla modifica operata dal citato
art. 15, comma 1, d.l. n. 135/209, convertito in legge n. 166/2009),
il quale, a sua volta, e' stato poi dichiarato incostituzionale (e,
per insegnamento costante, l'incostituzionalita' della norma
abrogante non determina l'automatica reviviscenza della norma
abrogata); dall'altro, che la sua illegittimita' avrebbe
dovuto/potuto essere dichiarata dalla stessa Corte in via
conseguenziale (stante il rapporto di sostanziale identita' fra le
due disposizioni): illegittimita' che «deriva come conseguenza dalla
decisione adottata» ex art. 27 l. n. 87/1953; infine, che esso,
contrastando ictu oculi con gli effetti prodotti dalla citata
sentenza n. 325/2010, in conseguenza dell'intervenuto annullamento
dell'art. 23-bis, sarebbe quanto meno divenuto inapplicabile se non
automaticamente illegittimo;
b) quanto all'art. 4, comma 14, d.l. n. 138/2011 cit.: che la
disposizione oggi sub judice (art. 25 cit.) ha, indubbiamente,
rispetto alla prima disposizione, forza e contenuto novativi: i) per
un verso, perche' non si risolve in una mera duplicazione di quanto
gia' prevedeva il citato art. 4, comma 14, d.l. n. 138/2001: infatti
essa afferma il vincolo del rispetto del patto di stabilita' a carico
di tutte le societa' affidatarie in house in termini generalizzati,
estendendolo a tutte le societa' partecipate dagli enti senza piu'
contemplare quelle esclusioni (i.e. quelle di cui al comma 34), che,
precedentemente limitavano l'ambito di applicazione dell'art. 4 del
d.l. n. 138/2011; ii) perche', anche con riguardo alle societa' in
house costituite ai sensi (e nei limiti) del citato art. 4 d.l. n.
138/2011 (non, dunque, quelle escluse dal comma 34), riduce da 900
mila a 200 mila euro il valore economico del servizio oggetto di
affidamento gara (cfr. art. 25, d.l. n. 1/2012, lett. b, punto 5);
iii) perche' il nuovo assoggettamento «ministeriale» non richiede
piu' il «concerto del Ministro per le riforme per il federalismo», ma
si limita a richiedere il «decreto ministeriale previsto
dall'articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n.
112, convertito, con modificazioni, con legge 6 agosto 2008, n. 133,
e successive modificazioni»; iv) perche', infine, e' proprio la
tuttora perdurante mancata adozione del decreto ministeriale che
alimenta di novita' normativa le disposizioni da ultimo adottate
dallo Stato.
E, in definitiva, il novum di normativita' espresso dalla
disposizione gravata giustifica la sua autonoma impugnazione in
questa sede. E con essa l'interesse regionale a che ne venga
dichiarata l'illegittimita' costituzionale.
Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta
Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale in
parte qua dell'art. 25, comma 1, lett. a), del decreto-legge 24
gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in legge
24 marzo 2012, n. 27 per violazione degli artt. 3, 97, 117 (comma 1,
2, 3, 4, 6), 118, 119 Cost., nonche' del principio di leale
collaborazione.
3. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 35, comma 8, 9,
10 e 13, del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito
della conversione in legge n. 27/2012.
3.1 Con la conversione in legge del decreto che ha re-introdotto
il sistema di tesoreria unica, la Regione Veneto si vede costretta a
riproporre, ovviamente alla luce delle intervenute modifiche, le
doglianze che gia' in principalita' aveva avanzato avverso l'atto
governativo.
In particolare, fa osservare che, in virtu' della previsione di
cui all'art. 52 della propria legge regionale n. 39 del 29 novembre
2001 (recante «Ordinamento del Bilancio e della Contabilita' della
Regione»), ha in corso con l'istituto Unicredit Banca s.p.a. un
contratto per l'affidamento del servizio di tesoreria, stipulato in
Venezia il 17 dicembre 2008, della durata di anni cinque, con
decorrenza dal 1° gennaio 2009 e scadenza al 31 dicembre 2013, che
viene (rectius veniva) svolto secondo le modalita' e i contenuti
previsti dal Capitolato speciale d'oneri allegato allo stesso.
In adempimento a questo contratto, Unicredit Banca s.p.a.
eseguiva per conto della Regione Veneto, il «complesso di operazioni
connesse alla gestione finanziaria dell'Amministrazione Regionale,
tra l'altro alla riscossione delle entrate, al pagamento delle spese,
nonche' all'amministrazione e alla custodia dei titoli e valori ed,
in generale, agli adempimenti previsti dalla Legge di contabilita'
regionale n. 39 del 29 novembre 2001».
Tale servizio costituisce una fonte di entrata per
l'Amministrazione regionale dato che alle operazioni esecutive degli
obblighi contrattuali viene applicato a credito sui depositi
(giacenze di cassa) «un tasso attivo a capitalizzazione trimestrale
di interesse lordo pari a + 66 (sessantasei) punti base di spread
sull'Euribor un mese (base 365) media mese precedente pro tempore»
(cfr. art. 4 del contratto), verso un tasso passivo per le
anticipazioni di tesoreria pari a «+ 41 (quarantuno) punti base
sull'Euribor un mese (base 365) media mese precedente pro tempore».
Il contratto non prevede altri oneri, ne' commissioni bancarie a
carico di terzi, ne' addebiti per incassi o emissioni, RID - MAV,
commissioni pagamenti all'estero, spese postali, etc. ne' per ogni
altra imposta o onere conseguente all'attivita' oggetto di appalto
(cfr. art. 5 del contratto). Ne' prevede aggio o corrispettivo alcuno
per il tesoriere (cfr. art. 11 del Capitolato d'oneri, allegato D al
contratto).
Conseguentemente, ogni attivita' viene gestita dalla Unicredit
Banca s.p.a. attraverso la propria filiale di Venezia, sita in San
Marco - Mercerie dell'Orologio, 191, presso la quale e' aperto il
conto corrente speciale n. 000100537110 sul quale, quotidianamente,
corrisponde la Direzione Ragioneria della Regione, sia per
l'esecuzione dei mandati emessi, sia per la registrazione delle
reversali di incasso, che per ogni altra operazione inerente al
rapporto.
Come da estratto conto al 31 dicembre 2011, a fine anno questo
presentava un saldo di ? 346.659,50 a fronte di una movimentazione
nel mese di dicembre 2011 di ? 1.469.623.076,07 in entrata e di ?
1.481.967.129,32 in uscita, che corrispondono all'andamento medio
mensile della finanza regionale, che opera per bilancio di cassa con
circa 14 miliardi di euro all'anno.
Quanto alle risorse amministrate queste provengono da piu' fonti:
accanto alla entrate per trasferimenti dallo Stato, si registrano
anche entrate proprie, distinguibili perche' derivanti sia dai
tributi, sia da entrate patrimoniali conseguenti a rapporti, vuoi di
diritto pubblico vuoi di diritto privato.
Quanto alle entrate da tributi propri, queste derivano in buona
parte da imposte quali: l'addizionale regionale IRPEF (per un gettito
di circa due miliardi di euro) e l'IRAP; il «bollo auto» (per un
gettito nel 2011 di 676,05 milioni di euro circa) e le varie tasse di
concessione regionale, tasse universitarie e di abilitazione, il
tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti, le accise
per gasolio e benzina, l'addizionale regionale sul gas metano ed
altre entrate proprie registrate al Titolo 1° fra i tributi propri
(per un gettito di 284,5 milioni di euro circa).
3.2 Il Governo nazionale, con il decreto-legge 24 gennaio 2012,
n. 1, all'art. 35, commi 8, 9, 10 e 13, ha introdotto, a sedicenti
fini di «tutela dell'unita' economica della Repubblica e del
coordinamento della finanza pubblica», disposizioni a contenuto
sostanzialmente ablativo delle risorse della Regione e lesivo delle
attribuzioni costituzionali di quest'ultima. Cio' senza soprattutto
distinguere - e qui la peculiare gravita' dell'iniziativa - fra
risorse provenienti dallo Stato e risorse che sono il provento
dell'attivita' propria dell'amministrazione regionale.
Il significato concreto di tali disposizioni e' ricavabile dal
contenuto degli artt. 7, 8 e 9 del decreto legislativo 7 agosto 1997,
n. 279 (recante «Nuove modalita' di attuazione del sistema di
tesoreria unica»), il quale, derogando al regime di tesoreria unica
di cui alla previgente legge 29 ottobre 1984, n. 720, aveva, in
sintesi, previsto che le Regioni, attraverso un percorso
istituzionale ben definito, potessero, in modo progressivo, dotarsi
di una propria tesoreria, in corrispondenza al maggior livello di
autonomia da queste conseguite: a) sia a coronamento degli ambiti di
competenza nel frattempo trasferiti dallo Stato, anche in materia
tributaria; b) sia in adeguamento al nuovo quadro istituzionale
proveniente dai cd. «Decreti Bassanini» (in particolare legge n.
59/1997 e decreto legislativo n. 112/1998); c) sia in ragione della
prevista modifica dell'assetto costituzionale delle autonomie locali
poi trasfuso nella revisione del Titolo V della seconda parte della
Costituzione.
In breve, attraverso il meccanismo introdotto dal decreto
legislativo n. 279/1997, dapprima in via sperimentale ai sensi
dell'art. 9, quindi attraverso successivi provvedimenti del
Presidente del Consiglio dei Ministri, intercorsi tra il 1999 e il
2001 (transitati attraverso le procedure di cui all'art. 8), tutte le
entrate della Regione, comprese quelle proprie (ai sensi dell'art. 7
originariamente non destinate ad essere versate nella tesoreria unica
nazionale), sono state gestite in sede locale attraverso propri
servizi di tesoreria.
Viceversa, dal novello impianto normativo dell'art. 35 del
decreto-legge n. 1/2012 si ricava, in tutta evidenza, come l'effetto
proprio dei commi 8, 9 e 10 sia oggi essenzialmente quello di
concentrare presso la tesoreria unica dello Stato (sulle
«contabilita' speciali (...) aperte presso la tesoreria statale»)
tutto il patrimonio in numerarlo della Regione: a) quello formato da
trasferimenti dello Stato; b) il portato delle entrate tributarie
proprie; e c) il risultato della propria attivita' afferente ai
rapporti esclusivi, di diritto pubblico o di diritto privato.
Ad aggravare la gia' evidente lesione dell'autonomia e lo stato
di incertezza generato dall'intervento normativo, per giorni (rectius
settimane), lo Stato, non ha comunicato all'Amministrazione regionale
i tempi e i modi per poter continuare a svolgere le proprie funzioni
di entrata e di spesa attraverso la tesoreria unica dello Stato.
L'unico documento sul punto e' stata una nota ABI: un «Messaggio
urgente da inviare alle direzioni e agli uffici organizzazione e
tesoreria enti soggetti utenti del SITRAD», privo di data e di firma,
con il quale l'ABI (l'associazione delle banche italiane) ha
informato Unicredit Banca s.p.a. circa i «Criteri di versamento
presso le contabilita' speciali degli enti» in «attuazione» dell'art.
35, commi 8-13, del decreto-legge n. 1/2012. Espone, infatti, il
citato messaggio quanto l'ABI avrebbe «appreso per le vie brevi dai
competenti uffici ministeriali»: segno tangibile di una assoluta
mancanza di indicazioni attuative provenienti da parte di chi avrebbe
dovuto esercitare la dovuta attivita' di informazione circa
l'esecuzione del provvedimento legislativo.
A questo riguardo spiace poi dover notare che le informazioni per
«le vie brevi» fornite dai «competenti uffici ministeriali» (quali?)
sarebbero peraltro state date dopo essere state «condivise con i
rappresentanti (...) della Conferenza delle Regioni» (quando?).
Malgrado queste fantasiose affermazioni, nulla di cio' e' affatto
avvenuto. Qualora fosse stato espresso un consenso in sede
istituzionale dalle Regioni, questo si sarebbe dovuto quantomeno
tradurre in un verbale di incontro, in una nota scritta o in una
qualsiasi altra forma di documento, dei quali non vi e' traccia
alcuna.
Il messaggio dell'ABI, poi, oltre a non dare - come rilevato - le
essenziali disposizioni attuative, si prodiga, invece, a fornire
istruzioni gravemente lesive degli obblighi negoziali previsti nel
contratto di prestazione del servizio di tesoreria, laddove queste
impongono alle banche associate e, nel caso di specie ad Unicredit
banca s.p.a., adempimenti ultronei rispetto al decreto-legge, senza
averne - all'evidenza - la necessaria forza e legittimazione.
Inter alia, secondo l'ABI, (ma non ai sensi del decreto-legge),
che nuovamente riferisce le indicazioni di non meglio definiti
«competenti uffici ministeriali», il trasferimento de quo riguarda
anche le somme pignorate presso il tesoriere, malgrado il vincolo
giudiziario di indisponibilita' gravante sulle stesse, a meno di non
presupporre (ma nuovamente il decreto-legge in questo senso non dice
nulla) il trasferimento ex re alla tesoreria unica anche degli
obblighi del terzo pignorato.
Rilevati numerosi profili di illegittimita' costituzionale della
normativa statale richiamata, la Regione Veneto ha promosso un
giudizio di legittimita' costituzionale in via principale avanti alla
Corte costituzionale (reg. ric. n. 60/2012). Analogamente ha fatto la
Regione Piemonte (ricorso inserito nel registro ricorsi della Corte
al n. 35/2012).
Contestualmente, la Regione, come molti altri enti territoriali
(Comuni e Province, non solo del Veneto), ha promosso un giudizio
cautelare avanti il Giudice ordinario competente (per la vicenda,
quello di Venezia), allo scopo di ottenere, rilevata l'illegittimita'
costituzionale della disciplina normativa, una sospensione della
stessa: in particolare, degli effetti conseguenti all'avvicendarsi
delle diverse scadenze ivi previste.
Inopinatamente il ricorso promosso, cosi' come - seppur con le
peculiarita' delle singole vicende - le ulteriori iniziative cui si
e' accennato, non hanno sortito buon esito, dal momento che il
Tribunale ordinario ha, in alcuni casi, declinato la giurisdizione,
in altri, negato la tutela cautelare e persino la possibilita' stessa
di rimettere la questione alla Corte, con cio' negando giustizia.
Le disposizioni normative di cui all'art. 35 del d.l. n. 1/2012
sono state, in seguito, quasi integralmente confermate in sede di
conversione del menzionato decreto, avvenuta con legge 24 marzo 2012,
n. 27.
Ai fini di semplificare la lettura e la comprensione del presente
atto, si riportano per intero, i commi 8, 9, 10 e 13 del menzionato
art. 35, cosi' come risultanti a seguito della conversione in legge:
«8. Ai fini della tutela dell'unita' economica della Repubblica e
del coordinamento della finanza pubblica, a decorrere dalla data di
entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2014, il
regime di tesoreria unica previsto dall'articolo 7 del decreto
legislativo 7 agosto 1997, n. 279 e' sospeso. Nello stesso periodo
agli enti e organismi pubblici soggetti al regime di tesoreria unica
ai sensi del citato articolo 7 si applicano le disposizioni di cui
all'articolo 1 della legge 29 ottobre 1984, n. 720 e le relative
norme amministrative di attuazione. Restano escluse dall'applicazione
della presente disposizione le disponibilita' dei predetti enti e
organismi pubblici rivenienti da operazioni di mutuo, prestito e ogni
altra forma di indebitamento non sorrette da alcun contributo in
conto capitale o in conto interessi da parte dello Stato, delle
regioni e delle altre pubbliche amministrazioni.
9. Alla data del 29 febbraio 2012 i tesorieri o cassieri degli
enti ed organismi pubblici di cui al comma 8 provvedono a versare il
50 per cento delle disponibilita' liquide esigibili depositate presso
gli stessi alla data di entrata in vigore del presente decreto sulle
rispettive contabilita' speciali, sottoconto fruttifero, aperte
presso la tesoreria statale. Il versamento della quota rimanente deve
essere effettuato alla data del 16 aprile 2012. Gli eventuali
investimenti finanziari individuati con decreto del Ministero
dell'economia e delle finanze - Dipartimento del Tesoro da emanare
entro il 30 aprile 2012, sono smobilizzati, ad eccezione di quelli in
titoli di Stato italiani, entro il 30 giugno 2012 e le relative
risorse versate sulle contabilita' speciali aperte presso la
tesoreria statale. Gli enti provvedono al riversamento presso i
tesorieri e cassieri delle somme depositate presso soggetti diversi
dagli stessi tesorieri o cassieri entro il 15 marzo 2012. Sono fatti
salvi eventuali versamenti gia' effettuati alla data di entrata in
vigore del presente provvedimento.
10. I tesorieri o cassieri degli enti ed organismi pubblici di
cui al comma 8 provvedono ad adeguare la propria operativita' alle
disposizioni di cui all'articolo 1 della legge 29 ottobre 1984, n.
720, e relative norme amministrative di attuazione, il giorno
successivo a quello del versamento della residua quota delle
disponibilita' previsto al comma 9. Nelle more di tale adeguamento i
predetti tesorieri e cassieri continuano ad adottare i criteri
gestionali previsti dall'articolo 7 del decreto legislativo 7 agosto
1997, n. 279.
13. Fermi restando gli ordinari rimedi previsti dal codice
civile, per effetto delle disposizioni di cui ai precedenti commi, i
contratti di tesoreria e di cassa degli enti ed organismi di cui al
comma 8 in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto
possono essere rinegoziati in via diretta tra le parti originarie,
ferma restando la durata inizialmente prevista dei contratti stessi.
Se le parti non raggiungono l'accordo, gli enti ed organismi hanno
diritto di recedere dal contratto».
In sintesi, questi i contenuti.
Il comma 8 sospende il sistema di tesoreria c.d. mista.
Il comma 9 rivolge all'attuale Tesoriere l'ordine di consegnare
l'ammontare della cassa detenuta presso il conto corrente intestato
alla Regione Veneto, con due versamenti da effettuarsi, il primo al
29 febbraio 2012, il secondo il 16 aprile successivo; infine, impone
la smobilizzazione degli investimenti finanziari da individuarsi con
futuro decreto ministeriale.
Il comma 10, a seguito della conversione in legge, impone alla
banca tesoriere di adeguare la propria operativita' al nuovo-antico
regime di tesoreria a partire dal 17 aprile 2012, consentendo che,
nelle more, essa continui ad adottare i criteri gestionali in uso.
Come questi si concilino con un sistema di tesoreria completamente
diverso e con la materiale assenza di liquidita' nelle casse del
Tesoriere rimane un mistero.
Il comma 13, il cui portato e' di ancor piu' difficile
interpretazione, consente alle parti del contratto di tesoreria di
rinegoziarne i termini «ferma restando la durata inizialmente
prevista dei contratti stessi», e gli «ordinari rimedi previsti dal
codice», nonche' la possibilita', per le parti, di recedere dal
contratto.
Contestualmente alla conversione sono intervenute le prime
indicazioni applicative-attuative o - sarebbe forse piu' corretto
definirle - integrative. Si tratta: della circolare del Ministero
dell'economia e delle finanze 24 marzo 2012, n. 11 e del decreto
ministeriale prot. 35041 del 27 aprile 2012. Questi atti sono stati,
da ultimo, fatti oggetto di gravame innanzi al Tribunale
amministrativo per il Lazio.
In questa sede la Regione impugna le disposizioni normative di
cui all'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge n. 1/2012,
cosi' come risultante a seguito della conversione in legge avvenuta
con provvedimento 24 marzo 2012, n. 27, perche' poste in spregio a
precisi valori costituzionali, nei termini di cui alle seguenti
considerazioni di diritto.
3.3 Prima di addentrarsi in medias res, urge una premessa
preliminare.
Sostiene Silvio Trentin che non e' diritto, ma una pura e
semplice manifestazione di forza materiale, cio' che non corrisponde
a un agire razionale, che e' tale quando si dimostra coerente con le
regole del gioco (1) . Ed aggiungeva, parlando dello Stato: «E' per
questo motivo che quest'ultimo, pena il rendersi completamente
estraneo alla Societa', quindi il cessare di essere Stato, deve
sempre piu' organizzarsi come un ordine delle autonomie» (2) . Non
puo' sorprendere, dunque, questa ulteriore annotazione, che da' conto
di cio' che nella storia d'Italia e' sempre accaduto, vale a dire che
appaiono e sono istituzioni gracili lo Stato-apparato e lo
Stato-ordinamento (3) : «Il problema eterno dello Stato e' proprio
quello di insediare Io Stato nella Societa', e' quello di impedire
che l'ordine di integrazione implichi la sparizione, l'annientamento
degli ordini integrati» (4) . Tra tante condizioni, ve n'e' una
esemplare, che va rispettata: e' la clausola delle clausole, quella
su cui si fonda il patto costituzionale - il foedus -, che si
riassume nel noto brocardo pacta sunt servanda. Se ragioni
contingenti oppure sistemiche suggeriscono o addirittura impongono un
mutamento di aspetti essenziali delle regole del gioco lo si fara'
dialogando, nel rispetto - come la Corte costituzionale ha da tempo
immemorabile affermato - del principio di leale collaborazione. Non
certo operando alla luce di un altrettanto noto adagio: l'Etat c'est
moi, oltretutto svilito da un testo primitivo, quale e' l'art. 35,
co. 8, 9, 10 e 13 in particolare, del decreto-legge 24 gennaio 2012,
n. 1, dedicato a un vecchio arnese: la tesoreria unica.
Nell'esaminare il dettato normativo, il meno che possa accadere
e' che si riprendano massime tralatizie, ignorando quel che le ha
rese tali, secondo uno schema mentale che fa della fissita' il
criterio ordinatore degli eventi: secondo, appunto, una prospettiva
collaudata, che vede la dottrina «sempre tarda a teorizzare la
realta'» (5) . Infatti, quest'ultima rappresenta il contenitore,
all'interno del quale e' stato calato dal Governo, tra l'altro, il
disposto secondo cui «fino al 31 dicembre 2014, il regime di
tesoreria unica previsto dall'articolo 7 del decreto legislativo 7
agosto 1997, n. 297 e' sospeso», mentre «si applicano le disposizioni
di cui all'articolo 1 della legge 29 ottobre 1984, n. 720 e le
relative norme amministrative di attuazione» (art. 35, co. 8,
decreto-legge n. 1/2012). Dunque, un testo normativo fu in vigore dal
1984, uno ulteriore rinnovato dal 1997, quello impugnato dinanzi a
codesta Corte e' operante dall'entrata in vigore dell'atto
governativo avente forza di legge: dall'anno 2012. Successione di
atti normativi, modificazione di regime giuridici, ritorno
all'antico, giustificato piu' o meno cosi': lo Stato ha bisogno di
cassa. Di liquidita'.
Come un tempo e con le ragioni di allora? (6) . Il Giudice delle
leggi, nel definire nei suoi caratteri essenziali il regime di
tesoreria unica di cui alla legge n. 720/1984, con la sent. n.
132/1993 ha precisato che «la ratio del complesso di norme ora
ricordato e' quella di consentire allo Stato, in riferimento a un
interesse dell'intera comunita' nazionale, il controllo della
liquidita' e la disciplina dei relativi flussi monetari e, in
particolare, di evitare che somme reperite dallo Stato attraverso il
ricorso al mercato finanziario e comportanti, pertanto, il pagamento
di onerosi interessi da parte dello Stato stesso, finiscano per
giacere presso i tesorieri regionali, dando cosi vita a una
produzione di interessi a favore delle Regioni scaturente, in
definitiva, da erogazioni di somme prese a prestito dallo Stato». Ed
ha aggiunto: «Questo circolo vizioso delle finanze pubbliche e'
impedito dal "sistema della tesoreria unica", il quale, per
riprendere valutazioni gia' espresse da questa Corte ..., e' ispirato
alla "esigenza fondamentale per lo Stato (di) limitare l'onere
derivante dalla provvista anticipata dei fondi rispetto all'effettiva
capacita' di spesa degli enti (regionali)". Tale esigenza e le norme
di legge che ad essa si ispirano sono, dunque, espressione del potere
di coordinamento della finanza regionale con quella nazionale e degli
enti locali, che l'art. 119 della Costituzione attribuisce allo
Stato».
Dunque, la finalita' era quella di evitare un «circolo vizioso
delle finanze pubbliche» - un cortocircuito - in caso di «provvista
anticipata dei fondi rispetto all'effettiva capacita' di spesa» delle
Regioni, in un contesto di finanza territoriale caratterizzato non
dall'autonomia del prelievo tributario, ma - pure la Corte lo ha
ripetutamente riconosciuto, oltretutto dopo l'entrata in vigore della
legge costituzionale n. 3/2001 - da una larga prevalenza dei
trasferimenti erariali. Del resto, e' scritto a chiare lettere nei
lavori preparatori e nel testo della legge di delega n. 42/2009,
avente ad oggetto l'attuazione dell'art. 119 Cost. (7) . L'interesse
tutelato era quello generale, che trovava la sua piu' limpida
giustificazione nella necessita' di non dissipare risorse pubbliche
pagando - a chiunque, fossero pure soggetti pubblici - interessi, da
finanziare, comunque, attraverso la fiscalita'. Perche', c'e' sempre
qualcuno che paga (8) . Si era in presenza di interessi non
frazionabili.
Condivisibili o meno che fossero quegli assunti (9) (si dira'
oltre in che termini comunque criticabili), e' fuori discussione che
non possono essere - il discorso si fa rigoroso, perche' impiega le
categorie del ragionamento scientifico - trasferiti omisso medio nel
2012. Tra il 1984 e il 2012 non solo sono passati poco meno di una
trentina d'anni; non solo si sono verificati i mutamenti
istituzionali, economici e sociali ordinari; non solo e' intervenuta
nel 2001 una riforma del Titolo V della Parte IL della Costituzione;
si sono prodotti anche eventi che hanno interferito sulle relazioni
tra Stati e, all'interno degli Stati, tra i livelli di governo ed i
cittadini, soprattutto quando costoro sono contribuenti: come tali,
destinati a sobbarcarsi, nonostante le tante partite del dare e
dell'avere che spesso si traducono in partite di giro, il grave
fardello del debito pubblico, ora comunemente denominato debito
sovrano (10) . E' con il debito sovrano che ha a che fare la
tesoreria unica dell'anno di grazia 2012.
Si tratta di un rilievo - decisivo, a parere della difesa della
Regione Veneto - che si puo' spiegare con solare limpidezza.
Da un lato, riprendendo una millimetrica annotazione (11) , si
deve essere ben consapevoli che «i motivi per cui Mario Draghi,
presidente della Bce, ha aperto il rubinetto della liquidita' sono
molti. Innanzi tutto bisognava salvare molte banche che stavano
morendo per asfissia finanziaria: nessuno prestava piu' loro i soldi
necessari per vivere. Tanti analisti sono convinti che senza il suo
intervento di emergenza, il 2012 avrebbe registrato piu' di un
fallimento bancario in Europa. Inoltre bisognava creare liquidita'
per favorire l'acquisto di titoli di Stato: rendimenti al 7 e oltre
erano insostenibili per Paesi come l'Italia o la Spagna. Dato che la
Bce piu' di tanto non poteva comprare BTp, ha dovuto finanziarie le
banche perche' lo facessero al posto suo. Questi due obiettivi sono
gia' stati raggiunti: lo dimostra l'euforia che c'e' sul mercato dei
titoli di Stato e sulle banche. E' pero' il terzo obiettivo, quello
piu' strutturale, che ancora manca all'appello: la politica della Bce
raggiungera' veramente l'obiettivo solo quando fara' ripartire il
circuito del credito. Insomma: quando i soldi arriveranno
all'economia reale. La logica della Bce e' questa: le imprese in
Europa ottengono l'87 dei finanziamenti in banca (contro il 24
negli Stati Uniti), per cui se gli istituti sono impossibilitati ad
erogare credito, le imprese muoiono. Salvando le banche, con
maxi-prestiti agevolati, la Bce spera dunque di far ripartire il
motore della crescita. Che questo accada, pero', non e' affatto
scontato» (12) .
D'altro lato, non si deve dimenticare (13) che: «Dal 2007 al 2011
i contribuenti europei hanno speso duemila miliardi di euro per
salvare le banche, l'equivalente del nostro debito pubblico. In
Italia non e' stato speso un euro, grazie al nostro prudente modello
di banca commerciale e all'attenta azione di vigilanza svolta dalla
Banca d'Italia. Se altrove gli Stati hanno salvato le banche, in
Italia le banche hanno evitato il collasso del debito pubblico. Di
cio' l'Italia deve essere orgogliosa» (14) .
Ergo: in estrema sintesi e con molte approssimazioni, anche in
Italia, dopo il 2008 il debito pubblico si e' impennato a tal punto
da essere comunemente definito sovrano, perche' dello Stato; in
Italia, una quota-parte significativa e' nelle mani del sistema
bancario; i principali istituti di credito e il sistema creditizio
nel suo insieme sono gravati, in termini di affidabilita', dal
rischio-Paese, che ha determinato declassamenti in sede di
attribuzione del rating, che hanno accresciuto il gia' enorme debito.
Tutto questo ed altro ancora, unitamente alla crisi economica in
atto, ha posto all'ordine del giorno i temi della liquidita' e del
rischio, che hanno inciso pesantemente sul rapporto banche-imprese,
cui non e' estraneo il settore pubblico, che acquisisce presso terzi
beni, prestazioni e servizi, e non paga. O paga con tempi biblici.
Buon senso vorrebbe che le varie esigenze in campo fossero tra
loro coordinate e che non si impartissero ordini contraddittori. Ad
esempio, alle banche, di acquistare titoli del debito pubblico e di
fare credito, ad un tempo, ed anche di finanziare le imprese, ben
sapendo che cio' e' possibile se c'e' liquidita'. Ma le banche
usufruiscono di una liquidita' relativa, oltretutto perche' e' erosa
da enormi sofferenze dei crediti e dal costo via via crescente della
raccolta. Lapalissiano concludere che di tutto hanno bisogno le parti
che hanno stipulato il contratto di tesoreria, la Regione Veneto e il
tesoriere, meno che di vedersi sottratte le risorse finanziarie
depositate, che consentono a ciascuna di esse di operare impiegando
le stesse a beneficio dell'economia reale. La Regione paga i
fornitori, il tesoriere accorda finanziamenti. Da questo punto di
vista, la centralizzazione del comando e la disponibilita' della
cassa da parte dello Stato, se fa bene a quest'ultimo, fa male alla
Regione e all'economia della collettivita' di cui e' ente
esponenziale.
Tanto basta a rendere evidente quel che si e' Premesso: vale a
dire che il quadro di riferimento cui la Corte deve ricollegarsi e'
caratterizzato da peculiarita' tali da renderlo incomparabile con
esperienze del passato. In ogni caso, vale la pena di ricordare, a
mo' di rassegna, quel che si e' detto e scritto a caldo, a proposito
del contenuto dell'art. 35, co. 8, 9 e 10, del decreto-legge n.
1/2012: ad esempio, che, «come non si possono introdurre imposte che
colpiscano in modo incoerente i contribuenti solo perche' serve il
gettito, cosi' non si possono punire solo gli enti locali "colpevoli"
di avere liquidita' e di gestirla con contratti locali vantaggiosi»
(15) ; che si e' prodotto un «danno morale e costituzionale», dal
momento che e' lesa l'autonomia finanziaria di enti garantiti dalla
legge fondamentale (16) ; che, oltretutto, simili misure, in una
scala di efficacia che va da alto-medio-basso, hanno un grado «basso»
(17) ; che la marcia verso il federalismo - cosiddetto, ad essere
sinceri - e' «interrotta (forse per sempre) (18) .
L'Ecc.ma Corte consideri, infine, questo dato. Si e' osservato -
in tempi lontani, con grande lucidita' - che, «proprio nei momenti di
grave crisi fiscale dello Stato, si registra la tendenza ad aumentare
l'entita' dei tributi propri degli enti minori», e cio' «non sempre
in termini di autonomia tributaria», ove «ad una riduzione o,
comunque, ad un non aumento di trasferimenti dallo stato faccia
riscontro una fonte alternativa di risorse su cui l'ente locale possa
contare per finanziare le maggiori spese "obbligatorie"» (19) . E'
cio' che si e' avverato, a causa della terribile crisi in atto. La
singolarita' sta nel fatto che le risorse cosi' acquisite pure dalle
Regioni - e dalla Regione Veneto, in particolare - vengono assorbite
dallo Stato per essere dallo stesso impiegate: pronta cassa. In modo
conforme a Costituzione? Pare proprio di no, per le specifiche
ragioni che saranno a breve indicate.
3.4 L'incostituzionalita' del sistema di tesoreria unica di cui
alla legge n. 720/1984 rispetto, in generale, all'assetto delle
competenze (sul piano legislativo, amministrativo, fiscale)
Stato-Regioni, voluto dalla novella costituzionale del 2001, diviene
ancor piu' evidente se solo, nella prospettiva diacronica del
diritto, si considerano, sia pure brevemente, le tappe che segnarono
la sua introduzione e i rilievi critici con cui fu stigmatizzata.
Con riguardo alle Regioni, infatti, la tesoreria unica non fu
imposta uno actu ed ex abrupto, bensi' in via progressiva, quale
sorta di nodo scorsoio al collo dell'autonomia regionale
costituzionalmente (sulla carta) garantita.
Dapprima fu la legge n. 629/1966 (recante Norme circa la tenuta
dei conti correnti con il Tesoro): introduceva l'obbligo per «le
amministrazioni dello Stato, comprese quelle con ordinamento autonomo
e le gestioni speciali dello Stato, di tenere le disponibilita'
liquide in conti correnti con il Tesoro» (art. 1) e «per gli enti che
sotto qualsiasi forma beneficiano di contributi (...) a carico del
bilancio dello Stato» di tenere le disponibilita' liquide in conti
correnti con il Tesoro, «limitatamente all'ammontare dei contributi
medesimi» (art. 2).
Di essa, concordemente, dottrina e giurisprudenza esclusero
l'obbligatoria applicabilita' alle Regioni (20) , perche' «una simile
interpretazione (che avrebbe condotto a ritenere precluso alle
Regioni di disporre di una propria tesoreria in cui fare affluire le
somme liquide di propria pertinenza) confliggeva palesemente non solo
col comportamento di fatto tenuto dalle Regioni, che con proprie
leggi avevano disciplinato il servizio di tesoreria e avevano
stipulato apposite convenzioni con istituti bancari, ma altresi' con
l'art. 33 della legge statale n. 335 del 1976 sulla contabilita'
delle Regioni, secondo il quale "la legge regionale disciplina il
servizio di tesoreria delle Regione"» (21) .
Di fatto, tuttavia, la situazione era di segno diametralmente
opposto a causa degli inviti «ripetuti e pressanti» del Governo alle
Regioni «affinche' esse - anziche' chiedere il versamento di tutte le
entrate loro spettanti presso le tesorerie regionali - aprissero dei
conti correnti (fruttiferi) con il tesoro nei quali tenere depositate
le somme assegnate dallo Stato» (22) .
Ne' manco' chi, tempestivamente, rilevasse come tali richieste
governative tenessero «celate le intenzioni - poi rivelatesi nei
fatti - di generalizzare indiscriminatamente i depositi a tutte le
risorse derivanti dal bilancio dello Stato» (23) .
Altri si dolevano del fatto che era stata compiuta «in realta'
una ricostruzione dell'attuale situazione nel settore in termini
cosi' lontani dalla realta' effettiva che il rischio e' che gli
organi governativi possano trovarvi una insperata legittimazione
proprio dalla permanenza dell'attuale stato di fatto» col rischio «di
perpetuare ancora una ambigua situazione di fatto anticostituzionale»
(24) .
Fu la legge di riforma del bilancio dello Stato (n. 468 del 1978)
a introdurre, con l'art. 31, l'imposizione dell'obbligo alle Regioni
di tenere le somme trasferite dallo Stato, in conti correnti non
vincolati con il Tesoro; la legge finanziaria per il 1981 (n.
119/1981), con l'art. 40, a disporre l'imposizione di un limite
quantitativo alle disponibilita' che le Regioni potevano mantenere
presso i propri tesorieri; la disciplina successiva ad estendere a
tutto il settore pubblico allargato il sistema della tesoreria unica
(legge n. 720/1984, con gli interventi di modifica e integrazione che
ne seguirono).
A cio' si aggiunsero ulteriori restrizioni all'autonomia
finanziaria regionale.
Fra esse, segnatamente, vanno rammentate le seguenti: a) il
carattere infruttifero dei conti aperti con il Tesoro (a partire dal
d.m. del Tesoro 11 aprile 1981 in G.U. 4 maggio 1981, n. 120); b) i
vincoli relativi alle modalita' e ai tempi di prelevamento e
all'entita' delle somme prelevabili dalle Regioni dai conti correnti
(a partire dall'art. 26 decreto-legge n. 786/1982, convertito, con
modificazioni, nella legge 26 febbraio 1982, n. 51); c) i margini di
discrezionalita' del Ministero del Tesoro nell'erogazione delle somme
richieste (v. il d.m. e il decreto-legge supra citati); d) le
progressive contrazioni del quantitativo massimo imposto all'entita'
delle disponibilita' liquide, fino ad arrivare al 3 dell'ammontare
delle entrate previste dal bilancio di competenza (la legge n.
730/1983 ridusse il limite dal 12 al 6; la legge n. 720/1984 dal 6
al 4).
Gia' in allora gli argomenti usati da codesta Corte per «salvare»
dall'illegittimita' costituzionale la disciplina del servizio unico
di tesoreria furono di stampo contingente e scarsamente propensi a
valorizzare i profili di autonomia riconosciuti dalla Carta alle
Regioni e agli enti locali.
In tempi non sospetti, si ritenne di concludere che si poteva
«anche non mettere in discussione la soluzione legislativa e l'avallo
di legittimita' della Corte a patto che si dicesse "con franchezza"
che se la legge di contabilita' generale si deve intendere conforme a
Costituzione, allora significa, che il sistema finanziario in atto,
cosi' come si pretende delineato dal costituente, e' quello proprio
di un ordinamento unitario e non autonomistico"» (25) .
A maggior ragione oggi, le massime giurisprudenziali elaborate in
subiecta materia e tralatizia mente ripetute negli anni
Ottanta/Novanta, perdono in toto di pertinenza, depotenziate come
sono, oltre che dai limiti intrinseci che nel prosieguo si
evidenzieranno, dall'anacronismo da cui sono affette, a meno di non
voler assegnare loro un'efficacia dogmatica che non hanno.
In particolare, le istanze governative di aprire un apposito
conto corrente presso la tesoreria centrale vennero considerate
legittime «per il prevalente motivo che il tenore degli atti
impugnati [due telegrammi ministeriali contenenti gli inviti dei
quali si e' detto] e' tale da esprimere un invito, piuttosto che
un'imposizione», trattandosi di «direttive non vincolanti» non
finalizzate a «disporre in via diretta ed imperativa l'istituzione di
un conto corrente per ciascuna Regione» (cfr. sent. n. 155 del 1977).
Sennonche', cosi' facendo, si celava, dietro a qualificazioni
puramente formali, la realta' fattuale del blocco delle erogazioni da
parte dello Stato alle Regioni fino al momento della sollecitata
apertura del conto corrente presso la tesoreria centrale e, quindi,
la reale vincolativita' dei cosiddetti inviti.
Ancora. Si fece salvo l'art. 31 della legge n. 468/1978,
nonostante realizzasse «per via di imposizione autoritaria quel
risultato che precedentemente il Tesoro aveva perseguito mediante
inviti alle Regioni» (26) , perche' «l'obbligo di tenere le
disponibilita' liquide in conti correnti non vincolati con il tesoro
e' limitato ad assegnazioni, contributi e quant'altro provenienti dal
bilancio dello Stato, e non tocca in alcun modo fondi di altra
provenienza» (sent. n. 162 del 1982), sebbene tutti sapessero che la
finanza regionale era quasi esclusivamente finanza derivata, cioe'
finanza di trasferimento dal bilancio dello Stato, con l'effetto
conseguente che il limite imposto riguardava, in realta', la quasi
totalita' delle risorse regionali.
Si giustifico' l'art. 31 della legge n. 468/1978 in forza del
potere statale di «coordinare la finanza regionale con quella
statale» (art. 119 Cost.) in funzione di indispensabili economie di
spesa (sent. n. 162 del 1982, confermata dalle sentenze successive).
Un tanto, tuttavia, senza nel contempo dichiarare la criticita'
implicita nella premessa dell'argomento usato, vale a dire che, cosi'
inteso, il potere di coordinamento della finanza pubblica veniva (e
viene) concepito «come funzione organizzativa a se', riservata allo
Stato, esercitabile unilateralmente e suscettibile di sovrapporsi
all'organizzazione e al funzionamento dei poteri locali delineati
nella Costituzione», finendo, quindi, col costituire «in ogni caso
una ragione di potenziale e permanente compressione dell'autonomia
finanziaria locale, il cui contenuto non potrebbe essere valutato
alla stregua di parametri costituzionali sostanziali predeterminati,
bensi' definito lungo la linea variabile delle scelte discrezionali
operate di volta in volta dal legislatore» con l'avallo del Giudice
delle leggi (27) .
Si dichiaro' la legittimita' anche dell'art. 40 della legge n.
119/1981 in quanto espressione del potere riservato allo Stato di
«disciplina del credito, strettamente (connesso) alla stabilita'
della moneta e, quindi, ad un interesse che travalica l'ambito
regionale coinvolgendo la comunita' nazionale» (sent. n. 162 del
1982). Ma., al contrario, «che la disciplina in questione riguardi
l'attivita' creditizia, e non piuttosto la contabilita' regionale e
la gestione della cassa regionale, non sembra facilmente
sostenibile»; senza dire che «il limite ai prelievi, non correlato
all'effettivo fabbisogno di cassa, conduce non tanto a regolare i
flussi monetari dallo Stato alle Regioni, quanto a interrompere in
modo anomalo il nesso necessario fra attribuzione, da parte dello
Stato, di determinate risorse alle Regioni, ed effettiva possibilita'
per quest'ultime di spendere tali risorse secondo i fini e nei tempi
autonomamente prescelti, e nell'osservanza dei propri bilanci e delle
procedure contabili stabilite dalle leggi» (28) .
Non si ritenne incostituzionale neppure la previsione che voleva
infruttiferi i conti presso il tesoriere centrale perche' «anche se
ne deriva una minore redditivita' delle somme depositate nelle
tesorerie dello Stato rispetto a quella che si avrebbe presso le
aziende di credito», e' questa «una conseguenza di fatto che non
investe aspetti costituzionalmente tutelati, non incidendo
sull'autonomia finanziaria delle Regioni» (sent. n. 243 del 1985;
nello stesso senso v. anche le sentenze n. 162 del 1982 e n. 307 del
1983), assumendo, evidentemente, l'autonomia regionale in una
accezione puramente formale.
Il commento generalizzato (29) fu che «a questo punto, sembra
veramente difficile negare che - passo dopo passo - i conti
"obbligatori" delle Regioni presso la tesoreria statale siano
divenuti (se non lo sono stati fin dall'origine) quell'"anomalo
strumento di controllo sulla gestione finanziaria regionale" nel
quale secondo la Corte e' "essenziale" che essi invece non si
trasformino» (sent. n. 94 del 1981).
E' fin ovvio che, tale risultato e', a fortiori, inaccettabile
oggi.
3.5 Considerato ut supra come il testo e contesto del sistema
unico di tesoreria siano indubbiamente, radicalmente diversi oggi
rispetto a tre decenni fa e rammentati i profili di incompatibilita'
con la Costituzione che gia' affliggevano la medesima disciplina, e'
opportuno ora passare a denunciare le specifiche doglianze delle
disposizioni impugnate rispetto al testo costituzionale novellato nel
2001 in senso (sedicentemente) federalistico.
Macroscopica e' quella che ha come parametro il principio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
Infatti, delle due l'una.
O le disposizioni normative impugnate perseguono l'obiettivo di
attribuire allo Stato liquidita' di cui disporre: ma, in questo modo,
e' evidente che esse lederebbero patentemente le autonomie
territoriali costituzionalmente sancite e tutelate, privandole delle
risorse loro proprie.
O la disciplina gravata, dovendosi escludere che le somme
riversate nelle casse centrali possano, per cio' solo, entrare nella
libera disponibilita' dello Stato, e' priva di senso, assolutamente
irragionevole e contraddittoria. E cio' dicasi, in particolare:
a) rispetto al preteso scopo di tutelare l'unita' economica
della Repubblica nella particolare situazione di crisi del debito
sovrano, anche perche' si tratta (come si e' detto e si dira') di una
novella che, lungi dal consentire profitti, genera sprechi (ad
esempio con riguardo alla minore redditivita' sulle somme riversate),
non preventivamente quantificabili ma certamente significativi; b)
anche laddove si riconoscesse la finalita' di rendere piu' chiaro il
sistema di contabilita' locale, dal momento che l'intervento si
limita all'accentramento delle tesorerie, mentre altri (e piu'
adeguati) avrebbero potuto e dovuto essere gli interventi del Governo
per ottenere un risultato in questo senso (ad esempio perseguendo in
concreto l'obiettivo di rendere uniformi e trasparenti i bilanci
degli enti territoriali, previsto all'art. 2, co. 2, lett. h) della
legge n. 42/09); c) rispetto alla posizione degli istituti di
credito, che, da un lato, sono richiesti di finanziare le imprese, e,
dall'altro, sono privati della liquidita' necessaria.
Proprio la prima alternativa sembrerebbe essere l'obiettivo reale
perseguito dallo Stato, se e' vero, come si evince dalla relazione
governativa al testo normativo, che la «maggior giacenza di
liquidita' si tradurra' in una minore emissione di titoli del debito
pubblico», stimando un risparmio complessivo «per il bilancio dello
Stato» pari a 320 milioni di euro nel 2012, 150 milioni di euro nel
2013 e 150 milioni del 2014 e che «parte di questi risparmi saranno
utilizzati per... l'estinzioni di crediti maturati nei confronti dei
Ministeri per spese relative a consumi intermedi» (estratto dal
Dossier della Camera dei deputati). Altrimenti detto, il Governo si
appropria delle risorse degli enti locali al fine di estinguere
debiti per consumi intermedi dei Ministeri!
Le disposizioni normative impugnate, inoltre, sono assolutamente
irragionevoli nella parte in cui non prevedono una seria e completa -
seppur essenziale - disciplina di transizione e di attuazione dei
precetti in esse contenuti. Le censure sul punto hanno prettamente a
riguardo il novellato comma 10 dell'art. 35. In esso il legislatore
statale riconosce l'assoluta mancanza della disciplina di
adeguamento, tanto e' vero che il disposto impugnato stabilisce che i
tesorieri provvedano a conformarsi al nuovo sistema dopo aver
effettuato il secondo versamento (profilo di assoluta
irragionevolezza della previsione normativa), facendo nel mentre
applicazione del decreto legislativo n. 279 del 1997.
Ora, non si' puo', seriamente, pensare che ad attuare l'imposto
ritorno al sistema unico di tesoreria possano soccorrere i decreti
adottati a cavallo degli anni Ottanta, in quanto gia' in allora
criticati per la loro dubbia compatibilita' con il testo
costituzionale e certamente contrari al sistema delle autonomie
costituzionalmente previsto dopo il 2001. Per non parlare, poi, della
loro inutilizzabilita' pratica in concreto, dal momento che procedure
e strutture del passato non sono oggi facilmente e, soprattutto,
immediatamente replicabili.
L'irragionevolezza della disciplina sotto questo profilo e' tanto
piu' evidente laddove, proprio a cagione della sua lacunosita',
finisce indebitamente con il consentire a soggetti assolutamente non
legittimati allo scopo, quale l'associazione di categoria ABI, di
intervenire in supplenza, dettando previsioni che - come gia'
rilevato - non solo non sono contenute nel decreto-legge, ma anzi
sono ad esso contrarie e/o ne aggravano l'illegittimita'
costituzionale.
Gli effetti di una disciplina siffatta sono e saranno quelli di
ritardare, se non anche limitare, l'accesso di Regioni ed enti locali
alle proprie risorse. La Corte, tuttavia, ha gia' in passato chiarito
che «per non intralciare il ritmo delle spese regionali,
compromettendo l'indispensabile velocita' di erogazione e
costringendo le Regioni a far ricorso - in via alternativa - ad
indebitamenti sia pure di breve periodo, occorre pero' che la
reintegrazione delle quote dei proventi regionali depositabili presso
le aziende di credito sia resa possibile continuamente e nei modi
piu' solleciti, affinche' si possa far fronte ai pagamenti imprevisti
senza intaccare gravemente od esaurire del tutto le disponibilita' in
questione» (Corte cost., sent. n. 244 del 1985).
Per non dire della possibilita' che si generino veri e propri
vuoti di cassa, quando codesta Corte ha da sempre tenuto «ferma
l'esigenza (...) che i rapporti tra le tesorerie regionali e le
sezioni di tesoreria provinciale dello Stato siano regolati in modo
tale da escludere il pericolo di improvvisi vuoti di cassa, che
pregiudicherebbero il buon andamento dell'amministrazione e
paradossalmente frusterebbero gli intenti cui mira la legge n. 720,
imponendo alle Regioni di ricorrere ad onerose anticipazioni per
fronteggiare le spese indilazionabili» (Corte cost., sent. n. 243 del
1985).
E' evidente, poi, che le sopra citate lacunosita',
irragionevolezza e inadeguatezza agli scopi dichiarati della
disciplina impugnata sono destinate fatalmente a tradursi in ritardi,
disfunzioni, disagi nella concreta disponibilita' delle risorse e,
dunque, nell'erogazione dei servizi, in aperta violazione del canone
di buona amministrazione di cui all'art. 97 Cost.
3.6 La Regione Veneto censura, inoltre, le disposizioni normative
di cui all'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13 del decreto-legge n. 1/2012
per violazione dell'art. 41 Cost., secondo il quale «l'iniziativa
economica privata e' libera».
Come gia' anticipato, mentre in origine il sistema di tesoreria
unica era assicurato dalla Banca d'Italia (legge n. 720/84),
successivamente (in forza del decreto-legislativo n. 279/97) si
consenti' a Regioni ed enti locali (oltre ad altri enti enumerati) di
detenere le proprie risorse presso tesorieri scelti con gara, in
omaggio, tra l'altro, al principio di tutela della concorrenza.
Principio che, dunque, pure, deve considerarsi leso dalla previsione
di nuovo accentramento della tesoreria presso l'unica Banca d'Italia.
La Regione, quindi, come pure gli enti locali di cui si fa
tramite, ha in essere un contratto di tesoreria con un istituto di
credito, attivato previa indizione di una procedura ad evidenza
pubblica, secondo regole comunitarie, le cui clausole sono state
pattiziamente convenute sulla base di scelte rimesse alla autonoma
determinazione delle parti ed eseguite, fino ad oggi, in omaggio alla
regola elementare di civilta' per cui pacta sunt servanda.
Il legislatore del decreto impugnato si e' inserito in questo
rapporto contrattuale di diritto privato, in modo improvvido e
autoritativo, in assenza di presupposti facoltizzanti. Manca,
infatti, la ragione di «utilita' sociale» o - per meglio dire
utilizzando le parole di codesta Corte (v. Corte cost., sent. n. 31
del 2011) - «economico-sociale», che, ai sensi dell'art. 41, comma 2,
Cost. puo' autorizzare un intervento legislativo limitativo della
liberta' contrattuale. Per le argomentazioni gia' articolate, in
effetti, tale presupposto legittimante non puo' essere riconosciuto
nell'esigenza - illegittima e per molti versi irragionevole - di
drenare risorse dalle autonomie territoriali e dalle banche verso lo
Stato.
L'incostituzionalita' e' - se possibile - ancora piu' evidente e
grave per la Regione ricorrente ove si consideri che la disciplina
impugnata ha l'effetto ultimo di decretare l'inesorabile estinzione
del rapporto in essere con il tesoriere locale, posto che il relativo
contratto stabilisce nel 31 dicembre 2013 la sua naturale scadenza.
Resta, comunque, sul punto, l'illegittimita' della disposizione di
cui al comma 13 dell'art. 35, con la quale il legislatore statale
consente alle parti del contratto di tesoreria di rinegoziarne i
termini «ferma restando la durata inizialmente prevista dei contratti
stessi», e gli «ordinari rimedi previsti dal codice», nonche' la
possibilita', per le parti, di recedere dal contratto. Quale
significato abbia il disposto citato non e' chiaro da comprendere;
l'effetto sembra, tuttavia, essere nuovamente un intervento «a gambe
tese» sul prodotto dell'autonomia contrattuale delle parti, la cui
posizione, tra l'altro, a seguito dei versamenti presso la tesoreria
unica, non e' piu' paritaria: Regioni ed enti territoriali, infatti,
sono caduti in una posizione di assoluta inferiorita' e debolezza,
che incidera' certo negativamente sulle negoziazioni rese possibili.
Dal lamentato sbilanciamento contrattuale indotto dal complessivo
impianto normativa delle disposizioni impugnate discende la
violazione, in primo luogo, degli articoli 41 e 119 Cost., dal
momento che la predetta disposizione incide e pretende di
condizionare illegittimamente l'autonomia contrattuale della Regione
relativamente alla gestione delle proprie risorse siccome
costituzionalmente garantita. In secondo luogo, e' evidente che la
facolta' della rinegoziazione, considerata ex parte privata, ha la
mera funzione (o rappresenta, comunque, la concreta opportunita') di
compensare il periodo contrattuale «perso» a causa della
reintroduzione della tesoreria unica con l'introduzione di piu'
favorevoli condizioni negoziali, circostanza, quest'ultima, che, ex
parte publica, si traduce nell'ulteriore danno dell'assoluta
incertezza di poter nuovamente godere del contratto in allora
stipulato, se non, addirittura, nella certezza della reformatio in
pejus.
Ne' si puo' trascurare, tanto meno, che il comma 9 pretende di
incidere anche sugli «eventuali investimenti finanziari» degli enti
smobilizzandoli, prescindendo integralmente dalle scelte compiute da
questi ultimi nell'esercizio della propria liberta' economica,
violata anche nella parte in cui, privilegiando arbitrariamente
determinate forme di investimento (id est quelle in titoli di Stato)
rispetto ad altre, pretermette ogni autonoma determinazione a
riguardo.
Senza dire, infine, che, nel quadro dell'attuale gravissima crisi
economica, la sottrazione di liquidita' dalle casse degli istituti di
credito tesorieri e' di ostacolo all'esercizio della libera
iniziativa economica delle banche e alla loro forza propulsiva
rispetto al sistema delle imprese.
3.7 La disciplina legislativa impugnata e' - per espressa
previsione normativa - posta «ai fini della tutela dell'unita'
economica della Repubblica e del coordinamento della finanza
pubblica». La materia cui afferisce, dunque, e' proprio quella
dell'«armonizzazione dei bilanci pubblici e (del) coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario», di cui all'art. 117,
comma 3, Cost.
Del resto la stessa dottrina formatasi sulla giurisprudenza della
Corte antecedente la riforma del 2001 gia' non metteva in dubbio che
le previsioni di legge aventi ad oggetto il sistema di tesoreria
dovessero ascriversi proprio al citato coordinamento (30) .
Come noto, si tratta di un ambito materiale di competenza
legislativa concorrente, in relazione al quale «spetta alle Regioni
la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117,
comma 3, Cost. e art. 2, comma 2, lett. n, della legge n. 42/2009,
che impone il «rispetto della ripartizione delle competenze
legislative fra Stato e Regioni in tema di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario»).
Quando lo Stato si avvale della propria competenza legislativa a
dettare principi fondamentali di coordinamento della finanza
pubblica, «l'apprezzamento della legittimita' costituzionale della
disposizione impugnata comporta, per un verso, l'attribuzione ad essa
della preminente finalita' di contenimento razionale della spesa e,
per altro verso, la verifica che, nel perseguire siffatta finalita',
il legislatore statale non abbia prodotto norme di dettaglio» (v.
Corte cost., sent. n. 40 del 2010).
Quanto al primo profilo, gia' si e' piu' volte evidenziato come
la ratio del provvedimento impugnato debba con ogni probabilita'
ritrovarsi nella necessita' - addirittura esplicitata nel dossier di
documentazione della Camera - di raccogliere liquidita' e come la
stessa non possa dirsi conforme a Costituzione, non solo perche'
lesiva delle prerogative delle autonomie (come si sta spiegando), ma
anche in quanto non legittimata da alcun interesse pubblico
superiore. Quanto all'idoneita' della misura gravata rispetto
all'eventuale fine di ottenere risparmi di spesa, poi, pure si e'
gia' argomentato: lungi dal rispondere agli obiettivi, essa si
riverberera' in disfunzioni, sprechi e disagi, antitetici rispetto al
principio di buon andamento e di economicita'.
Con riferimento alla natura delle disposizioni impugnate, invece,
e' evidente che esse non si limitano a porre principi, ossia «criteri
ed obiettivi» che lascino alle Regioni un sufficiente «spazio di
manovra» nella «individuazione degli strumenti concreti da utilizzare
per raggiungere detti obiettivi» (cosi' in Corte cost., sentt. n. 340
del 2009, n. 237 e n. 200 del 2009, n. 401 del 2007), ma interviene
con previsioni specifiche e sedicentemente autoapplicative che
incidono sull'autonomia e nei confronti delle quali l'unica reazione
puo' essere il ricorso alla Corte.
E a destituire di fondamento l'assunto davvero non sembra potersi
invocare la «generosa» giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte con
riferimento alla qualificazione in termini di principio di norme
inequivocabilmente dettagliate (per tutte, sent. n. 16 del 2010),
perche', nel caso di specie, certo non si puo' ignorare il fatto che,
uno actu, le disposizioni del decreto-legge de quo pretendono di
sovrapporsi al precedente (necessario) concorso della disciplina
nazionale e regionale sul sistema delle tesorerie (decreto
legislativo n. 279/97 e legge regionale Veneto n. 39/01).
Assume valenza addirittura paradigmatica della presente doglianza
il comma 9 del citato decreto, laddove, pretendendo la
smobilizzazione degli «eventuali investimenti finanziari», demanda ad
un decreto ministeriale attuativo l'integrazione della disciplina ivi
posta, cosa da sottrarre a riguardo ogni margine valutativo,
normativo alle Regioni. Un tanto, ovviamente, anche in violazione
dell'art. 117, comma 6, Cost.
3.8 L'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge n. 1/2012
viola l'autonomia amministrativa regionale e degli enti locali
sancita dall'art. 118 Cost., dal momento che sottrae loro la
possibilita' di gestire in modo libero e responsabile il proprio
servizio di tesoreria.
La disciplina impugnata, inoltre, genera un vulnus all'autonomia
amministrativa regionale e degli enti territoriali minori proprio
perche' - come gia' fatto rilevare - diminuisce e rende - nella
migliore delle ipotesi - piu' difficoltoso l'accesso di Regioni ed
enti locali alle risorse proprie necessarie per svolgere le funzioni
amministrative loro attribuite dalla Costituzione e li costringe ad
una sicura perdita patrimoniale (rispetto agli interessi sulle
giacenze garantiti dai propri tesorieri).
Non puo' sottacersi, infine, la contrarieta' della disciplina
censurata rispetto ai principi di sussidiarieta', differenziazione ed
adeguatezza sanciti all'art. 118 Cost. Essi, infatti, non solo
consentono ma impongono che alle autonomie piu' vicine al cittadino
sia lasciata la gestione delle risorse raccolte da o comunque per la
collettivita' locale per il tramite dei servizi di tesoreria
decentrati e che siano valutati in concreto i rendimenti
istituzionali, che, proprio con riferimento alla tesoreria, per
altro, in non poche realta' (venete ma non solo) sono stati piu' che
buoni.
3.9 Grave - se possibile piu' di ogni altra - e' la lesione
dell'«autonomia finanziaria di entrata e di spesa» che l'art. 119
Cost. riconosce, nell'ordine, a Comuni, Province, Citta'
metropolitane e Regioni.
Si e' gia' ricordato come il sistema di tesoreria unica,
istituito con legge n. 720/84 (vigente un diverso riparto
costituzionale di competenze sul territorio) e a cui oggi si vorrebbe
ritornare, si giustificasse solo - e non senza qualche perlessita' -
in presenza di una finanza regionale alimentata, in larghissima e
prevalente misura, da trasferimenti statali.
Nel frattempo, pero', e' mutato, radicalmente, come gia'
osservato, a tacer d'altro, il quadro costituzionale e istituzionale
di riferimento.
Oggi, le Regioni hanno (e si reggono su) entrate proprie (da
intedersi, come noto, in un'accezione ampia, assimilabile a quella a
suo tempo riconosciuta per la Provincia di Trento, cfr. Corte cost.,
sent. n. 62 del 1987). Una parte consistente di esse deriva da
tributi propri regionali, dovendosi qualificare per tali tutti quelli
previsti all'art. 7 della legge n. 42/2009 (che proprio all'art. 119
cost. da' attuazione). E cio' senza considerare che, gia' prima della
riforma costituzionale del 2001, la Corte aveva riconosciuto «pur
sempre di pertinenza regionale» anche le risorse semplicemente
trasferite alle Regioni dallo Stato (v. Corte cost., sent. n. 132 del
1993).
E' evidente, dunque, che le risorse interessate dalle previsioni
del «decreto Monti» impugnate provengono dalle collettivita'
regionali, corrispondono cioe' alla «capacita' fiscale» (art. 119,
comma 3, Cost.) di chi abita e lavora nel Veneto, e sono destinate
alla responsabilita' gestoria degli enti territoriali che di questa
comunita' sono esponenziali.
Tanto premesso, e' evidente che, nel 2012, la scelta di distrarre
risorse finanziarie dalle tesorerie decentrate per riversarle in
quella statale si pone in netto contrasto con l'autonomia
costituzionalmente garantita agli enti che se ne vedono spogliati.
Lesa e', anzitutto, sotto molteplici profili, l'autonomia di
entrata.
In primo luogo perche' il provvedimento governativo pretende di
sottrarre al sistema di tesoreria delle Regioni le entrate proprie
delle Regioni, secondo l'accezione di cui sopra, mentre, ad esempio,
gia' la giurisprudenza risalente formatasi in materia di tesoreria
unica escludeva dai riversamenti presso la stessa le «entrate
acquisite direttamente dalle Regioni» (cfr. Corte cost., sent. n. 94
del 1981).
In secondo luogo perche' incide sull'autonomia stessa di creare
entrate. Si allude, in particolare, al fatto che dall'applicazione
delle disposizioni impugnate deriva la perdita, per Regioni ed enti
locali, dei significativi risparmi e vantaggi generati
dall'esecuzione dei contratti negoziati con i propri tesorieri e
delle relative maggiori entrate (per esempio sotto forma di maggiori
interessi). Ne' si dica che la perdita di redditivita' conseguente al
riversamento in tesoreria unica sia un «effetto privo di implicazioni
costituzionali» (per tutte Corte cost., sent. n. 162 del 1982), in
quanto tale assunto, gia' a suo tempo criticabile e criticato, e'
oggi privo di ogni pertinenza e attualita'. L'autonomia finanziaria
riconosciuta e sancita dalla novellati Costituzione e' anzitutto
un'autonomia sul reperimento di risorse e tali sono anche quelle
derivanti da interessi maturati sulla disponibilita' del denaro.
Violata e' pure l'autonomia finanziaria di spesa.
A causa delle disposizioni impugnate, infatti, il controllo sulla
gestione finanziaria regionale viene di fatto «manovrato in modo da
precludere od ostacolare la disponibilita' delle somme occorrenti
alle Regioni stesse per l'adempimento dei loro compiti istituzionali,
nelle orme nelle misure e nei temei variamente indicati dalla le
islazione statale», non diversamente da quanto accadeva nel passato,
quando inesorabilmente l'accentramento del deposito delle somme si
traduceva in indebite forme ingerenza nell'an, nel quando e nel
quomodo della concreta disponibilita' delle somme depositate. Effetto
quest'ultimo gia' stigmatizzato dalla Corte fin dagli anni Settanta e
non piu' tollerabile oggi (si rinvia a Corte cost., sent. n. 155 del
1977, ma anche alla sent. n. 162 del 1982).
Parimenti lesiva dell'autonomia finanziaria e' la previsione, di
cui al comma 9, che stabilisce che gli eventuali investimenti
finanziari individuati con decreto ministeriale (da emanare entro il
30 aprile), ad eccezione di quelli in titoli di Stato, saranno
smobilizzati. Un tanto per l'elementare ragione che essa incide sulla
pianificazione finanziaria degli enti, alterando in maniera
definitiva le scelte di spesa da questi compiute (per altro con
ricadute gravissime sull'economia reale e l'affidabilita' della
pubblica amministrazione) e creando un'indebita poziorita' tra forme
di investimento, privilegiando quello in titoli di Stato.
Alla luce, infine, dell'art. 2, comma 2, della legge n. 42 del
2009, le disposizioni contraddicono palesemente, i principi di:
«trasparenza del prelievo»; «efficienza nell'amministrazione dei
tributi» (lett. c); «tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e
beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da
favorire la corrispondenza tra responsabilita' finanziaria e
amministrativa» (lett. p); «trasparenza ed efficacia delle decisioni
di entrata e di spesa, rivolte a garantire l'effettiva attuazione dei
principi di efficacia, efficienza ed economicita' .» (lett. dd);
«tendenziale corrispondenza tra autonomia impositiva e autonomia di
gestione delle proprie risorse umane e strumentali.» (lett. ii);
«certezza delle risorse e stabilita' tendenziale del quadro di
finanziamento, in misura corrispondente alle funzioni attribuite»
(lett. ll).
3.10 Una delle violazioni piu' gravi compiute dal legislatore
statale e', poi, quella perpetrata nei confronti del principio di
leale collaborazione.
Sembra incredibile che un intervento normativo della portata
descritta sopra, anche e soprattutto per le autonomie territoriali,
sia stato adottato e sia entrato in vigore senza che alcuna forma di
dialogo o raccordo sia stata cercata e posta in essere quanto meno
con le Regioni.
La verita' di quanto appena denunciato e' confermata dal tenore
della premessa del decreto-legge e della sua relazione
accompagnatoria, che ignorano completamente il problema.
E non sembra si tratti di una svista, in quanto la presenza di
una volonta' consapevole e determinata ad evitare qualunque forma di
rapporto e collaborazione con le Regioni emerge proprio da come la
norma e' congegnata. Il riferimento e', nello specifico, alle
previsioni di cui al comma 9, il quale disciplina - in modo del tutto
unilaterale e lacunoso - il materiale riversamento delle somme
affidate ai tesorieri e cassieri degli enti nella tesoreria unica.
Esse non rivolge il suo dictat alle Regioni, come sarebbe stato piu'
ragionevole e opportuno aspettarsi, ma ordina a tesorieri e cassieri
di trasferire le risorse.
Davvero e' mancata quella «lealta' istituzionale» di cui parla
l'art. 2, comma 2, lett. b), della legge n. 42/2009, che ha
l'ambizione di dare attuazione all'art. 119 della Costituzione.
3.11 Le disposizioni normative impugnate non possono passare
indenni il vaglio di legittimita' costituzionale richiesto a codesta
Corte neppure in forza del dettato dell'art. 120 Cost., che - come
noto - disciplina i casi e i modi in cui il Governo puo' sostituirsi
alle Regioni, alle Citta' metropolitane, alle Province e ai Comuni.
Di legittimo intervento sostitutivo non puo' parlarsi, con
riferimento alla fattispecie concreta in esame, in quanto: a) ne
mancano i presupposti; b) e' violato il principio di sussidiarieta';
c) completamente negletto e' il principio di leale collaborazione; d)
e' assente il carattere di proporzionalita' dell'intervento rispetto
alle finalita' perseguite, che, oltre ad essere richiesto dalla
giurisprudenza costituzionale, e' sancito all'art. 8 della legge n.
131/2003.
Quanto al punto sub a), non puo' certo ritenersi sufficiente ad
integrare il presupposto tassativamente richiesto dalla Costituzione
della tutela dell'«unita' economica» della Repubblica l'averne
evocato l'espressione nell'incipit della disciplina impugnata (art.
35, comma 8). Le considerazioni gia' svolte, infatti, hanno - si
crede - abbondantemente chiarito che la disciplina oggetto del
sindacato di codesta Corte non ha e non puo' raggiungere questo fine
anche perche' assolutamente inidonea allo scopo e, dunque,
sproporzionata (assente e', quindi, anche il requisito di cui alla
lett. d).
Infatti, delle due l'una: i) o essa e' finalizzata a drenare
liquidita' nelle casse dello Stato e allora e' incostituzionale per
lesione delle autonomie o, comunque, irragionevole perche' per
soddisfare esigenze di quest'ultimo piega enti territoriali (che, al
pari con questo, compongono la Repubblica da preservare), banche ed
imprese (che finanziano e rappresentano l'economia reale, l'ossigeno
di cui il sistema ha bisogno) e infine il sistema - Paese globalmente
inteso; ii) o e' totalmente priva di senso perche' assegna allo Stato
risorse inutilizzabili spezzando il nesso di corrispondenza tra
autonomia di prelievo e autonomia di gestione.
Quanto al mancato rispetto del principio di sussidiarieta' (v.
lett. b), pure si e' scritto. E', infatti, incomprensibile come un
intervento che accentra il sistema di tesoreria presso lo Stato possa
dirsi conforme al disegno costituzionale sul punto, che chiaramente
non si limita a promuovere (art. 5) e garantire (artt. 117, 118 e 119
Cost., in specie) le autonomie e la differenziazione, ma assegna al
livello di governo piu' vicino al cittadino la responsabilita' della
gestione delle risorse.
Infine, incredibile dictu, la necessita' di rispettare il
principio di leale cooperazione istituzionale (v. lett. c) non e'
stata minimamente avvertita dal Governo.
3.12 Si e' gia' spiegato quali effetti materiali si ricolleghino
al ritorno al sistema della tesoreria unica per la Regione (e gli
enti locali) imposto dal decreto-legge n. 1/2012. Il riferimento, in
particolare, a tacer d'altro, e' alla circostanza che: i) il
provvedimento sottrae alle Regioni la libera gestione (non solo delle
risorse derivanti dai trasferimenti statali, ma anche) delle risorse
proprie; ii) diminuisce il rendimento di queste ultime in termini di
interessi; iii) si insinua unilateralmente e con effetti
sostanzialmente caducatori su un rapporto contrattuale legittimamente
in corso tra le parti in esecuzione di norme imperative rispettose
della potesta' legislativa concorrente tra Stato e Regioni; iv) esige
la «smobilizzazione» degli «eventuali investimenti finanziari» (tra
l'altro da individuarsi con futuro decreto ministeriale).
E' evidente che quella predisposta dal legislatore statale e' una
macroscopica e maldestra forma di «espropriazione» della proprieta'
in capo alle Regioni e agli enti locali (per non parlare degli
istituti di credito), in contrasto con l'art. 42 Cost., aggravata
dall'assenza, nel caso di specie, di una effettiva ragione di
interesse generale che possa legittimare l'intervento de quo.
3.13 Come si e' visto, quindi, le disposizioni censurate
comportano una diminuzione delle entrate previste e inserite in
bilancio (certa almeno con riferimento a quelle provenienti dalla
differenza con gli interessi sulle somme depositate garantiti dai
tesorieri decentrati). Esse agiscono, pero', anche sul versante della
spesa dal momento che il materiale e completo ritorno al sistema di
tesoreria unica non potra' avvenire senza costi, in termini di
risorse umane e finanziarie.
Gia' nel 1984, infatti, la dottrina aveva evidenziato che
l'innovazione della tesoreria unica comportava maggiori costi, «forse
comprimibili ma non certo eliminabili», collegati: al venire meno
della «gratuita' delle prestazioni» fornite dagli istituti di
credito; alla minore correntezza nella provvista dei fondi da parte
degli enti, con una probabile accentuazione della necessita' di
ricorrere ad anticipazioni di cassa; a appesantimenti di carattere
contabile e macchinosita' procedurali; alle operazioni di
ristrutturazione degli uffici di tesoreria dello Stato al fine di
renderli idonei alle nuove, antiche funzioni (31) .
La legge, dunque, importa nuove e maggiori spese, contestualmente
decurtando le entrate e, quel che qui conta, senza indicare i mezzi
per farvi fronte, con cio' ponendosi in patente violazione dell'art.
81 Cost.
3.14 E' evidente che, ancora una volta, «alle origini della
vicenda medesima sta il modo scomposto e disordinato con il quale lo
Stato si muove nei rapporti con le Regioni anche in un settore molto
delicato quale quello del coordinamento finanziario» (32) . La
Pretesa e' quella di imporre unilateralmente, con discipline a
carattere derogatorio e suppostamente straordinario, il sacrificio
delle autonomie per far fronte alle esigenze di cassa (divenute
invece ordinarie), senza aver messo mai davvero mano alle cause dei
problemi.
«Non v'ha dubbio che il susseguirsi, di anno in anno, di
provvedimenti a carattere contingente, in deroga alla disciplina
ordinaria, renda quantomai disorganico e provvisorio il quadro
attuale della finanza regionale» (v. Corte cost., cent. n. 307 del
1983). E quando cio' che era e doveva essere provvisorio si ripropone
con pervicace frequenza, la provvisorieta' diventa tendenza e
l'effetto e' quello di alterare in via permanente l'equilibrio delle
autonomie, disegnato e tutelato, anzitutto, dall'art. 5 Cost., non a
caso inserito tra i Principi fondamentali, e dalle succitate
disposizioni del Titolo V.
Il monito, in definitiva, e' quello che Calamandrei fece proprio
durante il suo discorso all'Assemblea costituente pronunciato il 4
marzo 1947: «Noi dobbiamo volere che questa Costituzione sia una
Costituzione seria, e che sia presa sul serio dagli italiani»:
«bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli
italiani dicano anch'essi: "Non e' vero nulla"»!
Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta
Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge 24 gennaio 2012,
n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012,
n. 27 per violazione degli artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 117, 118, 119,
120 Cost. nonche' del principio di leale collaborazione e dei
principi di cui all'art. 2, comma 2, lett. b), c), p), dd), ii), ll),
della legge n. 42 del 2009, quale parametri interposti.
4. Sull'illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 36,
comma 1, lett. a), del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante
a seguito della conversione in legge n. 27/2012.
L'articolo 36, nel testo originario del decreto, prevedeva che il
Governo avrebbe dovuto presentare, entro tre mesi dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione, un disegno di legge
istitutivo di un'Autorita' indipendente di regolazione dei trasporti
e che, in attesa di detta istituzione, le funzioni regolatorie del
settore fossero svolte dall'Autorita' per l'energia elettrica ed il
gas.
A seguito delle modifiche operate con la conversione in legge,
invece, oggi, l'art. 36 istituisce detta Autorita' di regolazione dei
trasporti e ne disciplina natura (di organo collegiale indipendente),
composizione (nelle persone di un presidente e due componenti
nominati secondo le procedure di cui all'art. 2, comma 7, della legge
n. 481/1997) e funzioni. In particolare essa e' «competente nel
settore di trasporti e dell'accesso alle relative infrastrutture e ai
servizi accessori, in conformita' con la disciplina europea e nel
rispetto del principio di sussidiarieta' e delle competenze delle
regioni e degli enti locali di cui al titolo V della parte seconda
della Costituzione».
E' evidente, tuttavia, che una tale previsione si risolve in
niente piu' che in una petizione di principio la quale non puo'
bastare a ritenere la disciplina statale conforme al riparto delle
competenze tra autonomie territoriali titolari di una qualche
competenza costituzionalmente sancita nell'ambito della materia in
cui l'Autorita' viene ad acquisire funzione regolatoria. Non basta,
in particolare, secondo la Regione ricorrente, con riferimento alle
previsioni, contenute nell'impugnato art. 36, comma 1, lett. a), per
cui:
i) spetta all'Autorita' definire, nell'ambito dei servizi di
trasporto locale, «i criteri per la fissazione da parte dei soggetti
competenti delle tariffe, dei canoni, dei pedaggi, tenendo conto
dell'esigenza di assicurare l'equilibrio economico delle imprese
regolate, l'efficienza produttiva delle gestioni e il contenimento
dei costi per gli utenti, le imprese, i consumatori» (art. 37, comma
2, lett. b) del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come modificato) e,
con particolare riferimento al settore autostradale, «stabilire per
le nuove concessioni sistemi tariffari di pedaggi basati sul metodo
del price cap» (art. 37, comma 2, lett. g) del decreto-legge n.
201/2011);
ii) «definire gli schemi dei bandi delle gare per
l'assegnazione di servizi di trasporto in esclusiva e delle
convenzioni da inserire nei capitolati delle medesime gare» (art. 37,
comma 2, lett. f) del decreto-legge n. 201/2011) e, ugualmente, per
il settore autostradale, «definire gli schemi di concessione da
inserire nei bandi di gara relativi alla gestione o costruzione; a
definire gli schemi dei bandi relativi alle gare cui sono tenuti i
concessionari autostradali per le nuove concessioni» (art. 37, comma
2, lett. g) del decreto-legge n. 201/2011);
iii) «stabilire i criteri per la nomina delle commissioni
aggiudicatrici» (art. 37, comma 2, lett. f) del decreto-legge n.
201/2011).
Prima di procedere con l'illustrazione delle censure di
legittimita' costituzionale per ciascuno di questi tre gruppi di
discipline, e' necessario individuare l'ambito materiale di afferenza
delle previsioni normative qui in analisi rispetto al dettato
dell'art. 117 Cost.
A tal fine deve, anzitutto, richiamarsi la materia del trasporto
pubblico locale, certamente rientrante nell'ambito delle «competenze
residuali delle Regioni di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost.,
come reso evidente anche dal fatto che, ancor prima della riforma del
Titolo V della Costituzione, il decreto legislativo 19 novembre 1997,
n. 422 (...) aveva ridisciplinato l'intero settore, conferendo alle
Regioni e agli enti locali funzioni e compiti relativi a tutti i
"servizi pubblici di trasporto di interesse regionale e locale" con
qualsiasi modalita' effettuati ed in qualsiasi forma affidati ed
escludendo solo i trasporti pubblici di interesse nazionale» (cosi'
in Corte cost. sent. n. 222 del 2005).
Normalmente, tuttavia, la Corte riconduce questo genere di
disposti, nell'ambito prevalente - e, per certi versi, travolgente -
della «tutela della concorrenza», di cui all'art. 117, comma 2, lett.
e), Cost.
Non si intende, infatti, ignorare la giurisprudenza
costituzionale ormai consolidata che tende a sussumere nell'ambito
della «tutela della concorrenza» interventi legislativi di portata
simile a quelli oggi oggetto di impugnazione, pur se incidenti
profondamente nell'ambito dei trasporti o dei servizi pubblici locali
(cfr. ex plurimis, Corte cost. sent. n. 272 del 2004; Corte cost.
sent. n. 325 del 2010).
Tuttavia, proprio perche' la tutela della concorrenza e' una
cosiddetta materia-funzione, riservata alla competenza esclusiva
dello Stato, la quale non ha un'estensione rigorosamente circoscritta
e determinata, ma, e', per cosi' dire, «trasversale» (cfr. sentenza
n. 407 del 2002) e si intreccia inestricabilmente con una pluralita'
di altri interessi - alcuni dei quali rientranti nella sfera di
competenza concorrente o residuale delle Regioni - connessi allo
sviluppo economico-produttivo del Paese, «e' evidente la necessita'
di basarsi sul criterio di proporzionalita-adeguatezza al fine di
valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza
legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato»
(cfr. Corte cost. 27 luglio 2004, n. 272).
4.1 Ora, l'attribuzione all'Autorita' di regolazione dei
trasporti del potere di fissare i criteri delle tariffe, da un lato,
e l'assegnazione alla neo istituita Autorita' indipendente di
competenze specifiche sugli schemi di bandi di gara e sugli schemi di
concessione, sono disposizioni che: i) in primo luogo, non risultano
proporzionate alle esigenze da soddisfare, ossia quelle di apertura
alla concorrenza e potenziamento dei servizi, dal momento che si
limitano a demandare ad un soggetto - per altro estraneo della logica
della responsabilita' politica e amministrativo-contabile - la
determinazione di discipline di impatto macroeconomico rilevante,
senza neppure offrire seri vincoli e/o parametri di indirizzo e
controllo; ii) in secundis, non rispondono ad esigenze unitarie tali
da imporre di ignorare gli enti territoriali che, sul punto, anche
rispetto al principio di sussidiarieta', differenziazione ed
adeguatezza ben potrebbero aver un contributo significativo da
apportare. Di qui anche la lesione dei rammentati principi sanciti
all'art. 118 Cost.
Nella denegata ipotesi in cui, poi, le specifiche attribuzioni
all'Autorita' qui censurate fossero ritenute legittima espressione
dell'esercizio, da parte dello Stato, dalla propria potesta'
esclusiva, stante il concorso sul punto di molte altre, importanti
competenze legislative regionali, esclusive e concorrenti, dovrebbe
ritenersi necessaria la previsione di una qualche forma di
coinvolgimento delle Regioni, qui, invece, assente. In cio' si
realizza la violazione del principio di leale collaborazione.
Infine, con precipuo riferimento, alla competenza della
neo-istituita Autorita' circa la determinazione dei criteri per la
fissazione delle tariffe, nella parte e nella misura in cui queste
concorrono a costituire risorse proprie della Regione, la
disposizione impugnata si segnala anche perche' lesiva dell'autonomia
finanziaria di cui all'art. 119 Cost.
4.2 Infine, qualche considerazione deve svolgersi relativamente
all'illegittimita' costituzionale della disposizione che rimette
all'Autorita' de qua il potere di stabilire i criteri per la nomina
delle commissioni giudicatrici.
Tale disciplina e' costituzionalmente illegittima per violazione
degli artt. 117 e 118 Cost., in quanto non si rileva l'esistenza di
esigenze unitarie tali da sottrarre l'individuazione dei commissari
(con riferimento al numero, alla qualifica del presidente, dei
commissari, nonche' alle modalita' della loro scelta) dall'ambito
organizzativo delle singole stazioni appaltanti, che ben potranno
modularli tenendo conto della complessita' dell'oggetto della gara,
nonche' dell'importo della medesima.
L'illegittimita' costituzionale della richiamata disposizione e'
resa palese da un precedente di codesta Ecc.ma Corte proprio in punto
di commissione di gara, in allora disciplinata dal Codice di
contratti (art. 84), secondo cui «non e' condivisibile la tesi
secondo cui la normativa delegata - attinente alla composizione ed
alle modalita' di scelta dei componenti della Commissione
giudicatrice - troverebbe fondamento nella competenza legislativa
esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza. Essa
presuppone, infatti, che tali norme abbiano ad oggetto specificamente
i criteri e le modalita' di scelta del contraente, idonei ad incidere
sulla partecipazione dei concorrenti alle gare e, dunque, sulla
concorrenzialita' nel mercato, nel senso che dai diversi moduli
procedimentali utilizzati potrebbero derivare conseguenze sulla
minore o maggiore possibilita' di accesso delle imprese al mercato
medesimo, e sulla parita' di trattamento che deve essere loro
riservata». La sentenza citata prosegue, poi, chiarendo che «la norma
in esame, invece - pur disciplinando aspetti della stessa procedura
di scelta - e' preordinata ad altri fini e deve seguire il generale
regime giuridico che e' loro proprio, senza che possano venire in
rilievo le esigenze di salvaguardia della competitivita' nel mercato,
le quali giustificano, in base a quanto disposto dall'art. 117,
secondo comma, lettera e), della Costituzione, l'intervento
legislativo dello Stato. Orbene, gli aspetti connessi alla
composizione della Commissione giudicatrice e alle modalita' di
scelta dei suoi componenti attengono, piu' specificamente, alla
organizzazione amministrativa degli organismi cui sia affidato il
compito di procedere alla verifica del possesso dei necessari
requisiti, da parte della imprese concorrenti, per aggiudicarsi la
gara. Da cio' deriva che non puo' essere esclusa la competenza
legislativa regionale nella disciplina di tali aspetti» (cosi' in
Corte cost. sent. n. 401 del 2007).
Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta
Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale in
parte qua dell'art. 36, comma 1, lett. a), del decreto-legge 24
gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in legge
24 marzo 2012, n. 27 per violazione degli artt. 117, 118, 119,
nonche' del principio di leale collaborazione.
5. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 66, comma 9, del
decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito della
conversione in legge n. 27/2012.
L'art. 66 contiene una serie complessa di disposizioni normative
in tema di dismissioni di terreni demaniali agricoli e a vocazione
agricola.
In particolare, il comma 7 prevede che Regioni, Province e
Comuni, anche su richiesta di soggetti interessati, possano vendere o
cedere in locazione beni agricoli o a destinazione agricola di loro
proprieta'. A tal fine, essi possono conferire all'Agenzia del
territorio mandato irrevocabile; quest'ultima dovra', poi, trasferire
agli enti i proventi raccolti al netto dei costi sostenuti e
documentati.
Il comma 9, oggetto di impugnazione del presente ricorso, dispone
dell'utilizzabilita' delle risorse derivanti dalle operazioni di
dismissione: esse, sempre al netto dei costi di dismissione, dovranno
essere destinate dagli enti territoriali alla riduzione del debito
pubblico e, in assenza del debito o per la parte eventualmente
eccedente, al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato.
Questo il testo della disposizione impugnata: «Le risorse
derivanti dalle operazioni di dismissione di cui ai commi precedenti
al netto dei costi sostenuti dall'Agenzia del demanio per le
attivita' svolte, sono destinate alla riduzione del debito pubblico.
Gli enti territoriali destinano le predette risorse alla riduzione
del proprio debito e, in assenza del debito o per la parte
eventualmente eccedente al Fondo per l'ammortamento dei titoli di
Stato».
L'ambito materiale di afferenza della disposizione impugnata e'
quello del «coordinamento della finanza pubblica», di cui all'art.
117, comma 3, Cost.
E' superfluo ricordare che si tratta di un ambito materiale di
competenza legislativa concorrente, in relazione al quale «spetta
alle Regioni la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione
dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato»
(art. 117, comma 3, Cost. e art. 2, comma 2, lett. n, della legge n.
42/2009, che impone il «rispetto della ripartizione delle competenze
legislative fra Stato e Regioni in tema di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario»).
Quando lo Stato si avvale della propria competenza legislativa a
dettare principi fondamentali di coordinamento della finanza
pubblica, l'apprezzamento della legittimita' costituzionale della
disposizione impugnata comporta sempre «la verifica che, nel
perseguire siffatta finalita', il legislatore statale non abbia
prodotto norme di dettaglio» (v. Corte cost., sent. n. 40 del 2010).
La disposizione impugnata non si limita a porre principi, ossia
«criteri ed obiettivi» che lascino alle Regioni un sufficiente
«spazio di manovra» nella «individuazione degli strumenti concreti da
utilizzare per raggiungere detti obiettivi» (cosi' in Corte cost.,
sentt. n. 340 del 2009, n. 237 e n. 200 del 2009, n. 401 del 2007),
ma interviene con previsioni specifiche e autoapplicative che
incidono sull'autonomia di spesa della Regione, imponendo una
specifica destinazione per le somme reperite per il tramite delle
operazioni di dismissione.
Sotto questo profilo, e' evidente, dunque, che la denunciata
lesione dell'art. 117 Cost. si riverbera anche in un rilevante
contrasto con l'autonomia di spesa sancita e tutelata all'art. 119
Cost. e con legge 5 maggio 2009, n. 42, che del menzionato disposto
costituzionale fa applicazione (il riferimento, in particolare, e':
all'art. 1, comma 1; all'art. 2, comma 2, lett. a)). Lo Stato,
infatti, avrebbe dovuto, caso mai, limitarsi ad indicare l'obiettivo
della riduzione del debito, mai potendo giungere alla precisa
individuazione dello strumento necessario - a suo dire - per ottenere
il risultato sperato.
Si consideri, poi, che se il provento della dismissione di beni
divenuti propri deve essere utilizzato secondo le indicazioni dello
Stato e, addirittura, in caso di assenza di debito regionale da
ridurre, per incrementare il Fondo per l'ammortamento dei titoli di
Stato, e' come se i beni dimessi non fossero mai appartenuti alla
Regione: si realizza cosi una lesione della proprieta' pubblica di
cui all'art. 42 e 119, comma 6, Cost.
Quest'ultima disposizione e' stata poi attuata con legge 5 maggio
2009, n. 42, in particolare all'art. 19, relativo al patrimonio degli
enti territoriali. I principi ivi contenuti sono stati
successivamente oggetto di un ulteriore intervento normativo di
attuazione, per mezzo del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85.
Proprio con riferimento al provvedimento normativo da ultimo
citato, meglio noto come decreto sul c.d. federalismo demaniale, deve
rilevarsi un diverso profilo di illegittimita' costituzionale. L'art.
2, comma 4, del d.lgs. n. 85/2010, infatti, stabilisce che l'ente
territoriale che riceva beni nell'interesse della collettivita'
rappresentata e' tenuto a favorirne la massima valorizzazione
funzionale «a vantaggio diretto o indiretto della medesima
collettivita' territoriale rappresentata». Ora, la previsione di cui
all'art. 66, comma 9, nella parte in cui consente-impone che i
proventi della dismissione siano utilizzati per coprire il Fondo di
ammortamento dei titoli di Stato, sottrae alle collettivita'
territoriali presso le quali si trova il bene le risorse ottenute
proprio valorizzando quest'ultimo e, per cio' stesso, e'
incostituzionale.
I profili di illegittimita' rilevati in riferimento alla lesione
dell'autonomia normativa e finanziaria regionale si riverberano
inevitabilmente in una compromissione della stessa potesta' di
esercizio autonomo delle funzioni amministrative, con cio' rivelando
la lesivita' della disposizione impugnata rispetto all'art. 118 Cost.
Stupisce, infine, che in un ambito di competenza concorrente, nel
quale in gioco vi e' la valorizzazione di beni propri degli enti
territoriali e la destinazione delle risorse da questi derivanti, una
disposizione di tal fatta non sia stata fatta oggetto di un confronto
con le Regioni o che non sia quanto meno previsto che esse debbano
essere consultate in sede di deliberazione dei proventi raccolti
dalle dismissioni. In cio' si sostanzia la lesione del principio di
leale collaborazione.
Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta
Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 66, comma 9, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi'
come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27 per
violazione degli artt. 117, 118, 119 Cost., nonche' del principio di
leale collaborazione e dei principi di cui agli artt. 1, comma 1; 2,
comma 2, lett. a), 19 della legge n. 42/2009, nonche' del principio
di cui all'art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 85/2010, quali parametri
interposti.
Sulla legittimazione della Regione a far valere lesioni delle
attribuzioni costituzionali degli enti locali
La Regione si rivolge a codesta Ecc.ma Corte per denunciare
l'illegittimita' delle disposizioni normative impugnate non solo per
violazione della propria autonomia costituzionalmente garantita,
bensi' anche denunciando la lesione delle attribuzioni degli enti
locali, pure gravementi danneggiati dal recente intervento del
legislatore statale.
La legittimazione della Regione a un tal tipo di denuncia non
puo' essere revocata in dubbio: come chiarito da codesto Collegio,
essa sussiste in capo all'ente regionale addirittura
indipendentemente dalla prospettazione della violazione della
competenza legislativa regionale, in quanto «la stretta connessione,
in particolare (...) in tema di finanza regionale e locale, tra
attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di
ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente
idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali»
(cosi' Corte cost., sent. n. 298 del 2009, richiamando i seguenti
precedenti: sentenze n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n.
196 del 2004).
E cio' senza considerare un dato normativo essenziale, ossia
quello di cui all'art. 9 della legge La Loggia (n. 131/2003), il
quale da' modo agli enti stessi di chiedere alla Regione di attivarsi
a loro difesa.
Istanza cautelare
Con l'odierno ricorso, questo patrocinio rivolge a codesta Ecc.ma
Corte la richiesta di un intervento cautelare che, pendente il
giudizio di legittimita', sospenda l'esecuzione di alcune delle
disposizioni normative impugnate. Si tratta, nella specie, dell'art.
35, comma 8, 9, 10 e 13.
Con riferimento al fumus boni juris, presupposto che
evidentemente deve sostenere un tal genere di domanda, si confida di
aver gia' sufficientemente argomentato nella parte in diritto.
Quel che e' necessario, ora, e' che si evidenzi la presenza di
quel «rischio di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico o
all'ordinamento giuridico della Repubblica» e del «rischio di un
pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini», che,
ai sensi dell'art. 35 della legge costituzionale n. 87 del 1953,
legittimano l'assunzione di provvedimenti cautelari e l'anticipazione
dell'esame e della discussione in contraddittorio della questione
sottoposta al sindacato di legittimita'.
La disciplina normativa contenuta nei commi 8, 9, 10 e 13
dell'art. 35 del decreto-legge n. 1/2012 era gia' stata fatta oggetto
di istanza cautelare contestualmente alla presentazione del ricorso
avverso detto provvedimento normativo. La domanda di sospensione
degli effetti della summenzionata disciplina viene ripresentata oggi
che ad essere impugnata e' il prodotto della sua conversione in
legge.
Da un lato, infatti, i citati disposti prevedono una serie di
adempimenti, finalizzati a ritornare al sistema di tesoreria unica, a
scadenze serrate e ravvicinatissime, molte delle quali, purtroppo,
gia' venute a scadenza. Pendente rimane, tuttavia, il termine del 30
giugno p.v. fissato per lo smobilizzo degli eventuali investimenti
finanziari degli enti territoriali individuati con decreto dello
scorso 27 aprile. E' evidente, dunque, che se si attenderanno gli
ordinari tempi del giudizio di legittimita' costituzionale, la
pronuncia interverra' quando il ritorno al sistema di tesoreria
vigente prima del 1997 sara' ormai gia' compiuto e l'illegittimita'
che ad esso si associa avra' gia' prodotto danni difficili da
calcolare a priori, ma certamente gravissimi e irreparabili.
Tali danni avranno - o, per meglio dire, dopo il 29 febbraio
scorso, hanno - a riguardo: a) le autonomie, locali e regionali,
gravemente lese sotto i diversi profili gia' denunciati; b) i diritti
dei cittadini, nella duplice veste di contribuenti (per lo spreco
delle gia' scarse risorse finanziarie che si associa alla previsione
impugnata) e di utenti-fruitori delle forniture e dei servizi
pubblici (la cui continuita' e' seriamente messa a repentaglio dal
passaggio, mal governato, delle ricchezze da un sistema consolidato e
che aveva dato buona prova di se' ad uno oramai superato sotto
molteplici profili e della cui adeguatezza e' dato dubitare; c) le
imprese, che gia' soffrono degli incredibili ritardi nei pagamenti
della pubblica amministrazione e che vedranno diminuire ulteriormente
le proprie possibilita' di accesso al credito delle banche per le
ragioni gia' spiegate; d) last but not least, le banche stesse o, per
meglio dire, il sistema bancario.
(1) S. Trentin, La crisi del Diritto e dello Stato, prima edizione
italiana, a cura di G. Gangemi, Gangemi Editore, Roma, 2006.
Questa affermazione rappresenta il filo conduttore della sua
straordinaria opera, definita da F. Geny «esempio di indipendenza
di pensiero, d'energia morale indomabile, di alta virtu' critica,
di fedelta', senza compromessi, ne' riserve, al puro ideale del
Diritto» (ivi, 52).
(2) S. Trentin, La crisi, cit., 198.
(3) S. Cassese, Lo Stato introvabile. Modernita' e arretratezza delle
istituzioni italiane, Donzelli, Roma, 1998; ID., L'Italia: una
societa' senza Stato?, il Mulino, Bologna, 2011. Se ne dovrebbe
trarre una qualche conclusione, anche alla luce di quanto hanno
scritto, da ultimi, G. De Rita - A. Galdo, L'eclissi della
borghesia, Laterza, Bari, 2011, spec. 28.
(4) S. Trentin, La crisi, cit., 199.
(5) E' l'assunto - un chiodo fisso - di chi aveva una certa
dimestichezza con le istituzioni. Il rilievo sta in L. Einaudi,
Il buongoverno, Laterza, Bari, 2004, 85, il quale aveva notato,
poco prima, che «la "dottrina" e' stata fabbricata dai cultori
del diritto pubblico, i quali argomentano dal testo delle
costituzioni scritte e si accorgono delle consuetudini solo
quando esse sono codificate in trattati venerandi per l'autorita'
degli scrittori»: ivi, 80. Emblematico quel che riferisce, a
proposito di Antonio De Viti De Marco, S. Cassese, Lo Stato
introvabile, cit., 55-56. Tutto cio', per sottolineare come la
questione di legittimita' costituzionale qui prospettata non si
presti ad essere risolta a colpi di combinati disposti o di mere
riprese di una giurisprudenza che appartiene alla storia: antica.
(6) A questo interrogativo va data una risposta di carattere
preliminare, onde evitare l'esito, perverso e fuorviante, di
pretendere che l'odierno giudizio di legittimita' costituzionale
sia risolto alla luce di una giurisprudenza formatasi si' su un
medesimo testo normativo, ma in altro, differente contesto.
Dunque, come si chiarira' nel prosieguo, quella giurisprudenza
non e' riferibile al caso di specie, di cui qui si discute.
(7) Di questa legge e dei relativi decreti delegati si sono dette e
scritte un'infinita' di cose. Se ne e' sempre trattato con
realismo e - si crede - senso di equilibrio, avendo in mente ben
radicata una teoria dello Stato, negli scritti comparsi su
Federalismo fiscale, anno 2007 e seguenti.
(8) E' risaputo, in teoria; non lo e', in pratica. V., quindi, S.
Holmes - C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perche' la liberta'
dipende dalle tasse, il Mulino, Bologna, 2000, e, di recente, G.
Bergonzini, I limiti costituzionali quantitativi dell'imposizione
fiscale, vol. 1, Jovene, Napoli, 2011, 53 ss., nonche' F. Gallo,
Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, il
Mulino, Bologna, 2007.
(9) E' appena il caso di osservare che l'istituto della tesoreria
unica fu necessariamente ricondotto all'accentramento. D'altra
parte, l'attributo «unica» e' compatibile con il «plurale»?
Talvolta, anche l'osservazione banale e' rivelatrice, magari di
cio' che il ragionamento alla don Ferrante nasconde. O prova,
senza successo, a nascondere.
(10) M. Bertolissi, Contribuenti e parassiti in una societa' civile,
Jovene, Napoli, 2012.
(11) Ineccepibile per chi conosce la crisi del 2008: la sua genesi e
i relativi sviluppi. V., ad es., A.R. Sorkin, Too Big To Fail,
trad. it., Istituto geografico De Agostini, Novara, 2010,
nonche' A. Roncaglia, Economisti che sbagliano. Le radici
culturali della crisi, Laterza, Bari, 2010; J.E. Stiglitz,
Bancarotta. L'economia globale in caduta libera, Einaudi,
Torino, 2010; G. Rossi, Capitalismo opaco, Laterza, Bari, 2005.
(12) M. Longo, Europa e Stati Uniti, la grande sfida della
super-liquidita', in Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2012. Si tratta di
considerazioni discusse quotidianamente: v., sempre nei tempi
piu' recenti, ad es., D. Masciandaro, Gli errori inglesi e la
via italiana, ivi, 28 febbraio 2012; A. Orioli, Primo passo per
crescere. Ora tocca ai debiti dello Stato, ivi, 29 febbraio
2012; B. Quintieri, Dalle banche piu' risorse a chi esporta,
ivi, 4 marzo 2012.
(13) V., ad es., D. Di Vico, «Le banche non lavorano gratis», in
Corriere della Sera, 4 marzo 2012, e M. Mucchetti, La Bce, le
banche e la nuova demagogia, ivi.
(14) Ecco perche' oggi firmiamo l'avviso comune (di A. Azzi, G.
Mussari, C. Fratta Pasini, A. Patuelli e C. Venesio), in Il Sole
24 Ore, 28 febbraio 2012. V., inoltre, G. Gentili, Senza credito
non c'e' ripresa, in Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2012.
(15) G. Muraro, Tesoriere. La protesta e' fondata, in il mattino di
Padova, 2 marzo 2012.
(16) G. Trovati, Tesoreria unica, versamenti bloccati, in Il Sole 24
Ore, 29 febbraio 2012.
(17) In Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2012, 15.
(18) S. Romano, C'era una volta il federalismo, in Corriere della
Sera, 29 febbraio 2012. D'altra parte, v. L. Salvia, Una «cassa»
centrale per controlli piu' facili, ivi, 28 febbraio 2012.
(19) F. Gallo, L'autonomia tributaria degli enti locali, il Mulino,
Bologna, 1979, 21, nota 16. In modo conforme, M. Bertolissi,
Lineamenti costituzionali del «federalismo fiscale». Prospettive
comparate, Cedam, Padova, 1982.
(20) Cfr., rispettivamente, G. Spezzaferri, La prassi dei conti
correnti presso la Tesoreria centrale in rapporto all'autonomia
finanziaria delle Regioni, in Nuova Rass., 1976, p. 38 e Corte
cost., sent. n. 155 del 1977.
(21) Cosi' V. Onida, Autonomia finanziaria e controllo sulla «cassa»
delle Regioni, in Le Regioni, 1983, p. 194.
(22) Cosi' V. Onida, op. ult. cit., p. 192.
(23) Cosi' G. Spezzaferri, op ult. cit., p. 40, nota 7.
(24) Cfr. U. De Siervo, La Corte si impegna per l'autonomia
finanziaria regionale, ma il Tesoro continua ad erogare il
mensile alle Regioni, in Giur. cost., 1977, p. 1567.
(25) M. Bertolissi, Le «disponibilita'» finanziarie delle Regioni...
non sono disponibili, in Le Regioni, 1981, p. 1087.
(26) V. Onida, op. cit., p. 198.
(27) M. Bertolissi, Riflessioni sulla finanza delle Regioni
ordinarie, in Dir. Reg.,1983, p. 899.
(28) Cosi' V. Onida, op. cit., pp. 215 e 221.
(29) Sintetizzato nelle parole di V. Onida, op. it., pp. 220-221.
(30) Per tutti, V. Onida, Autonomia finanziaria e controllo sulla
«cassa» delle Regioni, in Le Regioni, 1983, 192 ss. e S.
Bartole, La Corte (si) difende (dal)la tesoreria unica facendo
appello a precedenti e tests di giudizio, in Le Regioni, 1986,
461 ss.
(31) V.M. Bertolissi, Tesoreria unica e finanza derivata: appunti
sulla legge n. 720/1984, in Il dir. della Regione, 1984, 467 ss.
(32) La citazione e' di S. Bartole, La Corte (si) difende (dal)la
tesoreria unica facendo appello a precedenti e tests di
giudizio, in Le Regioni, 1986, 513.
P. Q. M.
Si chiede che codesto Ecc. mo Collegio voglia:
in via cautelare: sospendere l'esecuzione delle disposizioni
normative impugnate;
nel merito:
dichiarare l'illegittimita' costituzionale degli articoli:
1, comma 4: 25, comma 1, lett. a): 35, comma 8, 9, 10, 13; 36, comma
1, lett. a); 66, comma 9, decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1,
recante «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle
infrastrutture e la competitivita')», cosi' come risultanti dalla
conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27, in Suppl. ordinario n. 53
alla Gazz. Uff., 24 marzo 2012, n. 71;
per violazione degli artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 114, 117,
118, 119, 120 Cost., nonche' del principio di leale collaborazione di
cui agli artt. 5 e 120, comma 2, Cost., dell'art. 9, comma 2, della
legge costituzionale n. 3/2001 e dei parametri interposti di cui alla
legge 5 maggio 2009, n. 42 e al d.lgs. n. 85/2010.
Si allega:
1) Deliberazione della Giunta della Regione Veneto 7 maggio
2012, n. 773, recante l'autorizzazione alla proposizione del ricorso.
Padova-Venezia-Roma, 20 maggio 2012
Avv. prof. Berolissi - avv. Zanon - avv. Palumbo - avv. Manzi