Ricorso n. 9 del 26 gennaio 2010 (Presidente del Consiglio dei ministri)
RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 26 gennaio 2010 , n. 9
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 26 gennaio 2010 (del Presidente del Consiglio dei ministri).
(GU n. 9 del 3-3-2010)
Ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato presso cui e' domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12, contro Provincia autonoma di Bolzano, in persona del Presidente pro tempore della Giunta provinciale per la declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 9 legge provinciale di Bolzano 13 novembre 2009 n. 10, pubblicata nel BUR n. 48 del 24 novembre 2009 della Provincia autonoma di Bolzano, recante norme in materia di commercio, artigianato, alpinismo, esercizi pubblici, turismo e miniere, nella parte in cui detta il nuovo testo dell'art. 4, comma 8 della legge provinciale 19 maggio 2003, n. 7. La legge n. 10 del 13 novembre 2009 della Provincia di Bolzano pubblicata nel BUR n. 48 del 24 novembre 2009 della Provincia Autonoma di Bolzano detta disposizioni in materia di commercio, artigianato, alpinismo, esercizi pubblici, turismo e miniere. Piu' precisamente, il capo V dispone in materia di miniere e l'art. 9 prevede modifiche alla precedente legge provinciale 19 maggio 2003, n. 7, recante la disciplina delle cave e delle torbiere. L'art. 9 sostituisce infatti gli artt. da 1 a 13 della predetta legge provinciale n. 7 del 19 maggio 2003: l'art. 1 definisce l'ambito di applicazione della normativa, l'art. 2 disciplina la coltivazione delle cave e delle torbiere, l'art. 3 la procedura di presentazione e l'istruttoria delle domande di coltivazione, l'art. 4 la procedura di autorizzazione alla coltivazione delle cave e delle torbiere. In particolare l'art. 4 nuovo testo legge provinciale n. 7/2003 nel disciplinare l'autorizzazione alla coltivazione dispone che: «1. Il parere positivo rilasciato dalla Conferenza di servizi in materia ambientale oppure il provvedimento positivo rilasciato nell'ambito della procedura di impatto ambientale costituisce la base per il rilascio dell'autorizzazione da parte dell'assessore competente per materia. 2. Il rilascio dell'autorizzazione avviene nel rispetto del seguente ordine: proprietario del suolo, usufruttuario, enfiteuta oppure i loro aventi causa. Il rispettivo titolo e il possesso del consenso espresso dal proprietario del suolo devono essere provati. 3. Con il provvedimento di autorizzazione e' approvato il disciplinare sull'esercizio della cava o torbiera. 4. Il disciplinare contiene le prescrizioni indicate nell'autorizzazione e nel parere e fissa la durata dell'autorizzazione, tenuto conto dell'entita' del giacimento e della sua razionale utilizzazione, nonche' le misure atte a contenere eventuali danni causati ai terreni confinanti dalle attivita' connesse all'esercizio della cava o torbiera. 5. Copia dell'autorizzazione e' comunicata al sindaco del comune competente, il quale rilascia la concessione edilizia relativamente agli impianti, agli immobili e alle infrastrutture compresi nel progetto, che, ai sensi della normativa vigente, soggiacciono all'obbligo della concessione edilizia. 6. L'autorizzazione ha una durata massima di dieci anni. In caso di coltivazione in sotterraneo, l'autorizzazione puo' avere una durata di 20 anni. 7. Su richiesta motivata, l'assessore competente puo' prorogare l'autorizzazione fino ad un massimo di otto anni. 8. Sulle aree estrattive dotate di impianti di lavorazione autorizzati ai sensi del presente articolo e' consentita la lavorazione di materiali inerti provenienti anche da altre cave, sbancamenti, scavi, gallerie, fiumi, torrenti, rii o zone colpite da eventi naturali eccezionali ubicati ad una distanza non superiore a 15 chilometri dall'impianto. 9. La realizzazione e l'esercizio di impianti per la lavorazione di materiali diversi da quelli indicati nel comma 8, nonche' impianti per la produzione di calcestruzzi o di conglomerati bituminosi e impianti di riciclaggio dei materiali da costruzione e demolizione sono consentiti solo su aree destinate nei piani urbanistici comunali alla lavorazione di ghiaia, ad eccezione di impianti temporanei interni ai cantieri. 10. In caso di esito sfavorevole dell'istruttoria, il direttore della ripartizione provinciale competente comunica al richiedente i motivi del diniego e ne da' notizia al sindaco del comune territorialmente competente. 11. Contro il provvedimento del direttore della ripartizione provinciale competente e' ammesso ricorso gerarchico alla Giunta provinciale ai sensi della legge provinciale 22 ottobre 1993, n. 17, e successive modifiche. La Giunta provinciale decide entro 90 giorni, sentito l'ufficio provinciale competente per le cave e le miniere.». La disposizione dell'art. 4, comma 8, legge provinciale n. 7/2003 nuovo testo sopra riportata appare costituzionalmente illegittima, sotto i profili che verranno ora evidenziati, e pertanto il Governo - giusta delibera del 13 gennaio 2010 del Consiglio dei ministri (che per estratto autentico si produce sub 1) ai sensi dell'art.127 Cost. la impugna con il presente ricorso per i seguenti M o t i v i 1. - Violazione dell'art.117, comma 2, lettera s) della Costituzione; dell'art. 117, comma 1 della Costituzione; degli artt. 4 e 8, comma 1, punto 14 d.P.R. 670/1972 Statuto Speciale Trentino Alto Adige; 1.1. - Come si e' detto, la legge della Provincia di Bolzano n. 10 del 13 novembre 2009, che detta norme in materia di commercio, artigianato, alpinismo, esercizi pubblici, turismo e miniere, e' censurabile relativamente alla modifica introdotta alla disciplina delle cave e delle torbiere. La Provincia infatti ai sensi dell'art. 8, comma 1, punto 14, del d.P.R 670/1972 Statuto speciale per il Trentino Alto Adige, ha competenza primaria in materia di miniere, comprese le acque minerali e termali, cave e torbiere, e, in base ai punti nn. 5 e 6, del medesimo art. 8 ha potesta' legislativa primaria in materia di «tutela del paesaggio» e «urbanistica» nonche', ai sensi dell'art. 9, punto 10, competenza legislativa concorrente in materia di «igiene e sanita'». Cio' premesso, la potesta' di disciplinare l'ambiente nella sua interezza e' stata affidata in via esclusiva allo Stato, dall'art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione, il quale, come e' noto, dispone che lo Stato ha competenza esclusiva in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema in termini generali e onnicomprensivi. Ne consegue che spetta allo Stato disciplinare l'ambiente come una entita' organica, dettare cioe' delle norme di tutela che hanno ad oggetto l'ambiente nella sua interezza e nelle singole componenti. In tal senso si e' espressa la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 378/2007. Al riguardo, e' necessario sottolineare che codesta Corte, nel delineare, in via generale, i confini della materia «tutela dell'ambiente», ha affermato ripetutamente che la relativa competenza legislativa, pur presentandosi «sovente connessa e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti» (sent. n. 32 del 2006), tuttavia, rientra nella competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), anche se cio' non esclude il concorso di normative regionali, fondate sulle rispettive competenze (quali quelle afferenti alla salute e al governo del territorio: art. 117, terzo comma, Cost.), volte al conseguimento di finalita' di tutela ambientale (sentenza n. 247 del 2006). In realta' dalla giurisprudenza della Corte, sia precedente che successiva alla nuova formulazione del titolo V della parte seconda della Costituzione, e' agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come «valore» costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia «trasversale» (sentenza n. 32 del 2006, n. 336, n. 232, n. 214, n. 62 del 2005, n. 259 del 2004, n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998). Si tratta di una impostazione che, analogamente a quanto avviene nella presente causa a proposito della provincia di Bolzano e' stata ribadita anche con riferimento alle Regioni ad autonomia speciale, quale la Sardegna, che nel proprio statuto reca come materia di competenza esclusiva l'edilizia e l'urbanistica e come materie di competenza concorrente il governo del territorio, la salute pubblica e la protezione civile, in quanto questo insieme di competenze ''non comprende ogni disciplina di tutela ambientale'' (sentenza n. 65 del 2005).» La disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente, attiene infatti ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario (sent. n. 151/1986) ed assoluto (sent. n. 210/1987) e deve garantire, come prescrive il diritto comunitario, un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore. Inoltre, la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere sulla disciplina dettata dalle regioni o dalle province autonome, in materie di competenza propria, ed in riferimento ad altri interessi. Cio' comporta che la disciplina ambientale, che scaturisce dall'esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, investendo l'ambiente nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua parte, costituisce un limite alla disciplina che le regioni e le province autonome dettano in altre materie di loro competenza (come ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 380/2007). Pertanto, nell'emanazione della legge in esame il legislatore provinciale, nell'esercizio della propria competenza legislativa, e' sottoposto al rispetto degli standards minimi ed uniformi di tutela dell'ambiente posti dalla legislazione nazionale, ex art. 117, comma 2, lettera s) Cost., oltre che al rispetto della normativa comunitaria di riferimento secondo quanto disposto dall'art. 8, comma 1 dello statuto speciale e dall'art. 117, comma 1 della Costituzione. La Corte costituzionale, ha ribadito nella sentenza n. 62/2008 che rientra nell'ambito della «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema» il potere dello Stato di determinare principi di tutela uniformi da valere sull'intero territorio nazionale; in particolare, ha precisato che «la competenza legislativa esclusiva in materia di ''tutela del paesaggio'' e ''urbanistica'' e la competenza legislativa concorrente in materia di ''igiene e sanita''» possono costituire un valido fondamento dell'intervento provinciale, ma tali competenze devono essere esercitate nel rispetto dei limiti generali di cui all'art. 4 dello statuto speciale, richiamati dall'art. 5. La Corte ha inoltre affermato, nella recente sentenza n. 315/2009, che alle regioni, nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale, e' demandato esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell'ambiente, evitando compromissioni o alterazioni dell'ambiente stesso. In questo senso e' stato affermato che la competenza statale, allorche' sia espressione della tutela dell'ambiente, costituisce «limite» all'esercizio delle competenze regionali e provinciali. Tutto cio' premesso e' censurabile, perche' invasiva della competenza esclusiva statale di cui all'art. 117, comma 2, lettera s) della Costituzione e esorbitante dai vincoli posti al legislatore provinciale dai suindicati artt. 8 e 9 dello Statuto, la disposizione contenuta nell'art. 4, comma 8, legge provinciale n. 7/2003 nuovo testo relativo alla lavorazione di materiali inerti, la quale dispone che «Sulle aree estrattive dotate di impianti di lavorazione autorizzati ai sensi del presente articolo e' consentita la lavorazione di materiali inerti provenienti anche da altre cave, sbancamenti, scavi, gallerie, fiumi, torrenti, rii o zone colpite da eventi naturali eccezionali ubicati ad una distanza non superiore a 15 chilometri dall'impianto». Questa disciplina contrasta con la vigente normativa nazionale di settore ed in particolare con la definizione di «rifiuto», cosi' come stabilita, in ambito nazionale, dalla parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 ed, in ambito comunitario, dalla direttiva 2006/12/CEE. La norma provinciale impugnata, infatti, nella parte in cui consente all'interno delle cave «la lavorazione di materiali inerti provenienti anche da altre cave, sbancamenti, scavi, gallerie, fiumi, torrenti, rii o zone colpite da eventi naturali eccezionali ubicati ad una distanza non superiore a 15 chilometri dall'impianto», senza assoggettare tale attivita' alle prescrizioni in materia di autorizzazioni all'esercizio di impianti di trattamento rifiuti, esclude aprioristicamente e genericamente che tali materiali (tra i quali sono ricompresi le terre e rocce da scavo e i materiali da demolizione) rientrino nell'ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti. A tal proposito, infatti, la sfera di applicazione della parte IV del decreto legislativo n. 152/2006 e delle altre disposizioni del settore e' individuata sulla base della definizione di «rifiuto» e dei limiti di applicazione della stessa. In tal senso, l'art. 183, comma 1, lettera a), del dcereto legislativo n. 152/2006 definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie di cui all'allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi»; mentre l'art. 185 del decreto legislativo n. 152/2006, rubricato «Limiti al campo di applicazione», precisa le categorie di rifiuti esclusi dal campo di applicazione della parte IV e le relative condizioni di esclusione. Tale ultima norma non comprende pero' i materiali inerti in questione stabilendo un criterio non derogabile dalla disciplina regionale o provinciale. Infine l'art. 186 del decreto legislativo n. 152/2006, rubricato «Terre e rocce da scavo» permette il riutilizzo solo a determinate e rigide condizioni. Secondo tali definizioni, risulta evidente che i suddetti materiali rientrano nella definizione di rifiuto (Codice CER 01 e 17). Ne' potrebbe essere ritenuto sufficiente a sottrarre detti materiali dalla disciplina in materia di rifiuti la circostanza per cui essi sono «riutilizzati». Questa conclusione e' condivisa anche in ambito comunitario, in quanto la Corte di Giustizia - in merito all'applicazione della definizione di rifiuto di cui all'art. 1, paragrafo 1, lettera a) della direttiva 12/2006/CE - ha piu' volte ribadito che la sfera di applicazione della vigente direttiva 12/2006/CE in materia di rifiuti e' determinata congiuntamente dalla definizione di rifiuto e dall'art. 2, paragrafo 1, della stessa direttiva, che indica quali tipi di rifiuti sono o possono essere esclusi dall'ambito di applicazione della direttiva. Inoltre la Corte ha precisato che la sfera di applicazione non puo' essere limitata dalle norme nazionali mediante disposizioni che traviserebbero necessariamente l'ambito di applicazione della direttiva stessa e che «sono le circostanze specifiche a fare di un materiale un rifiuto o meno e che pertanto le autorita' competenti devono decidere caso per caso». Invero, alla luce dei principi espressi nella materia dalla Corte di giustizia - da ultimo ribaditi nella sentenza 18 dicembre 2007, in relazione all'esclusione delle terre e delle rocce da scavo destinate all'effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati dall'ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti, ad opera dell'art. 10 della legge 23 marzo 2001, n. 93 (Disposizioni in campo ambientale) e dell'art. 1, commi 17 e 19, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, recante «Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attivita' produttive» (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana) - deve ritenersi che la norma denunciata si ponga in contrasto con la direttiva 2006/12/CE. Ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE si intende per rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi». Le «terre e rocce» di cui al capitolo 17, sezione 17 05, del catalogo europeo dei rifiuti contenuto nella decisione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 (Decisione della Commissione che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all'art. 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'art. 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti), vanno qualificate come «rifiuti», ai sensi della direttiva sopra citata, se il detentore se ne disfa ovvero ha l'intenzione o l'obbligo di disfarsene. Tenuto conto dell'obbligo di interpretare in modo ampio la nozione di rifiuto, la possibilita' di considerare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di estrazione o di fabbricazione che non e' principalmente destinato a produrlo, un sottoprodotto di cui il detentore non intende disfarsi, deve essere limitata alle situazioni in cui il riutilizzo non e' semplicemente eventuale, bensi' certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (Corte di giustizia, sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli; sentenza 11 settembre 2003, causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome; sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit Oy). Al riguardo la Corte di giustizia ha precisato che la modalita' di utilizzo di una sostanza non e' determinante per qualificare o meno quest'ultima come rifiuto, poiche' la relativa nozione non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva sui rifiuti intende, infatti, riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C -194/05, Commissione c. Repubblica italiana; sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit Oy; sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, Tombesi). La norma provinciale fa sorgere la presunzione che, nelle situazioni da esse previste, le terre e rocce da scavo costituiscano sottoprodotti che presentano per il loro detentore, data la sua volonta' di riutilizzarli, un vantaggio o un valore economico anziche' un onere di cui egli cercherebbe di disfarsi. Se tale ipotesi in determinati casi puo' corrispondere alla realta', non puo' esistere alcuna presunzione generale in base alla quale un detentore di terre e rocce da scavo tragga dal loro riutilizzo un vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dal mero fatto di potersene disfare (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana). La norma provinciale impugnata della legge provinciale, dunque, sottraendo alla nozione di rifiuto taluni residui che invece, in base a quanto esposto, corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, si pone in contrasto con la direttiva medesima, la quale funge da norma interposta atta ad integrare il parametro per la valutazione di conformita' della normativa regionale all'ordinamento comunitario, in base all'art. 117, primo comma, della Costituzione (cfr in termini Corte cost. n. 62/2008). Quanto sopra affermato e' stato anche ribadito dalla Commissione Europea nella «Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti» (Bruxelles, 21 febbraio 2007 COM(2007) 59) destinata al Parlamento ed al Consiglio europeo. Nella citata comunicazione la Commissione ha infatti chiarito che non esiste «una distinzione netta tra i materiali e rifiuti ''e che'' per applicare la normativa sui rifiuti occorre tracciare caso per caso, una linea chiara tra le due situazioni giuridiche stabilendo se il materiale di cui si tratta costituisce rifiuto o meno». Per le ragioni sopra esposte si ritiene che consentire la lavorazione delle terre e rocce da scavo e i materiali da demolizione, cosi' come stabilito dalla disposizione provinciale impugnata, significa escluderli automaticamente in via preventiva anziche' tramite un esame caso per caso dalla categoria dei rifiuti, in maniera non coerente con la normativa nazionale e comunitaria sui rifiuti. La norma provinciale viola quindi anche il vincolo del rispetto delle norme comunitarie derivante dall'art. 117, primo comma, della Costituzione, rappresentato nella materia dei rifiuti disciplinata dalla direttiva 2006/12/CE e dai principi generali stabiliti dalla Corte di giustizia europea in ordine alla definizione di «rifiuto», e potrebbe esporre altresi' l'Italia al rischio di infrazione comunitaria. Sulla base di quanto esposto, la normativa provinciale impugnata, dettando disposizioni confliggenti con la normativa nazionale vigente, espressione della potesta' legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente di cui all'art.117, comma 2, lett. s) della Costituzione, nonche' con le disposizioni di derivazione comunitaria, in violazione dell'art. 117, comma 1 Cost., eccede dalle competenze provinciali di cui agli artt. 8 e 9 dello Statuto speciale di autonomia. Si impone quindi l'annullamento dell'art. 9 legge provinciale di Bolzano 13 novembre 2009, n. 10, pubblicata nel BUR n. 48 del 24 novembre 2009 della Provincia autonoma di Bolzano, recante norme in materia di commercio, artigianato, alpinismo, esercizi pubblici, turismo e miniere, nella parte in cui detta il nuovo testo dell'art. 4, comma 8, della legge provinciale 19 maggio 2003, n. 7.
P. Q. M. Si chiede che venga dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art. 9, legge provinciale di Bolzano 13 novembre 2009, n. 10, pubblicata nel BUR n. 48 del 24 novembre 2009 della Provincia autonoma di Bolzano, recante norme in materia di commercio, artigianato, alpinismo, esercizi pubblici, turismo e miniere, nella parte in cui detta il nuovo testo dell'art. 4, comma 8, della legge provinciale 19 maggio 2003 n. 7. Si producono la norma impugnata e per estratto copia conforme della delibera del Consiglio dei ministri del 13 gennaio 2010 (con allegata relazione). Roma, addi' 21 gennaio 2010 L'Avvocato dello Stato: Chiarina Aiello