N. 90 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 5 dicembre 2003.
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 5 dicembre 2003 (del Presidente della giunta della
Regione Basilicata)
(GU n. 3 del 21-1-2004)

Ricorso del presidente della giunta della Regione Basilicata, on.
dott. Filippo Bubbico, rappresentato e difeso, in virtu' di procura a
margine del presente atto, giusta delibera di giunta regionale
n. 2201 del 28 novembre 2003 dal prof. avv. Angelo Piazza e dall'avv.
Maria Carmela Santoro e domiciliato presso lo studio del primo in
Roma alla piazza di Spagna n. 35;

Nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri per la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale ai sensi dell'art. 127
Cost.:
del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante
«Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e la correzione
dell'andamento dei conti pubblici» pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 229 del 2 ottobre 2003 supplemento ordinario n. 157,
relativamente all'art. 32 («Misure per la riqualificazione
urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione
dell'attivita' di repressione dell'abusivismo edilizio, nonche' per
la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazione di aree
demaniali»);
della legge di conversione n. 326 del 24 novembre 2003
(pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 274 del 25 novembre 2003 -
supplemento ordinario n. 181), relativamente all'art. 32.
Il decreto-legge del 30 settembre 2003, n. 269 (pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 229 del 2 ottobre 2003 - supplemento ordinario
n. 157/L), e la legge di conversione del 24 novembre 2003, n. 326
(pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 25 novembre 2003 -
supplemento ordinario n. 181), recanti disposizioni urgenti per
favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti
pubblici, all'art. 32 formulano una complessa normativa «per la
riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per
l'incentivazione dell'attivita' di repressione dell'abusivismo
edilizio, nonche' per la definizione degli illeciti edilizi e delle
occupazioni di aree demaniali».
Tale specifica norma, sia nella formulazione originaria del
decreto-legge sia in quella definitiva a seguito della conversione in
legge, si pone in contrasto con principi e norme costituzionali.
1. - La normativa censurata viola innanzitutto le competenze
legislative regionali concorrenti in materia di governo del
territorio stabilite dall'art. 117, terzo comma, della Costituzione e
conseguentemente lede anche gli interessi finanziari della stessa,
con violazione dell'art. 119 della Costituzione.
Infatti il decreto-legge n. 269 del 2 ottobre 2003 prevede e
disciplina il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria
delle opere esistenti, ultimate entro il 31 marzo 2003, non conformi
alla disciplina vigente e stabilisce l'applicazione delle
disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985,
n. 47, e dell'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, alle
opere abusive sanabili.
L'intervento statale relativo al condono edilizio viene a
sovrapporsi in questo modo, per gli aspetti amministrativi legati al
condono-sanatoria, alla legislazione regionale, la quale e' l'unica
legittimata dalla Costituzione a disciplinare compiutamente la
materia edilizia.
Sul punto si richiama la recente sentenza 1° ottobre 2003 della
Corte costituzionale, in base alla quale: «La materia dei titoli
abilitativi ad edificare appartiene storicamente all'urbanistica che,
in base all'art. 117 Cost., nel testo previgente, formava oggetto di
competenza concorrente. La parola "urbanistica" non compare nel nuovo
testo dell'art. 117, ma cio' non autorizza a ritenere che la relativa
materia non sia piu' ricompresa nell'elenco del terzo comma: essa fa
parte del "governo del territorio". Se si considera che altre materie
o funzioni di competenza concorrente, quali porti e aeroporti civili,
grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia, sono specificamente individuati
nello stesso terzo comma dell'art. 117 Cost. e non rientrano quindi
nel "governo del territorio", appare del tutto implausibile che dalla
competenza statale di principio su questa materia siano stati
estromessi aspetti cosi' rilevanti, quali quelli connessi
all'urbanistica, e che il "governo del territorio" sia stato ridotto
a poco piu' di un guscio vuoto.
... Giova premettere che i principiª della legislazione statale
in materia di titoli abilitativi per gli interventi edilizi non sono
rimasti, nel tempo, immutati, ma hanno subito sensibili evoluzioni.
Dal generale e indifferenziato onere della concessione edilizia
(legge n. 10 del 1977) si e' passati all'autorizzazione per gli
interventi di manutenzione straordinaria e fra questi al
silenzio-assenso quando non siano coinvolti edifici soggetti a
disciplina vincolistica (legge n. 457 del 1978). Il silenzio-assenso
e' stato successivamente ampliato ed esteso e fatto oggetto di
specifiche previsioni procedurali (legge n. 94 del 1982, che ha
convertito il decreto-legge n. 9 del 1982). Alle Regioni e' stato poi
attribuito (legge n. 47 del 1985) il potere di semplificare le
procedure ed accelerare l'esame delle domande di concessione e di
autorizzazione edilizia e di consentire, per le sole opere interne
agli edifici l'asseverazione del rispetto delle norme di sicurezza e
delle norme igienico-sanitarie vigenti, secondo un modello che, in
qualche modo, anticipa l'istituto della denuncia di inizio attivita'.
Ed ancora (decreto-legge n. 398 del 1993 convertito nella legge
n. 493 del 1993) sono state nuovamente regolate le procedure per il
rilascio della concessione edilizia, eliminando il silenzio-assenso e
prevedendo in sua vece la nomina di un commissario regionale ad acta
con il compito di adottare il provvedimento nei casi di inerzia del
comune. Si e' giunti quindi alla disciplina sostanziale e procedurale
della denuncia di inizio attivita' (DIA) per taluni enumerati
interventi edilizi imponendo alle Regioni l'obbligo di adeguare la
propria legislazione ai nuovi principi (legge n. 662 del 1996)».
E' dunque lungo questa direttrice, in cui lo Stato ha mantenuto
la disciplina dei titoli abilitativi come appartenente alla potesta'
di dettare i principiª della materia, che avrebbero, se del caso,
dovuto muoversi le disposizioni impugnate.
Se si considerano l'edilizia e l'urbanistica come afferenti al
«governo del territorio», e quindi incluse ai sensi dell'art. 117,
terzo comma, Cost., tra le materie a competenza concorrente, spetta
esclusivamente alla Regione la competenza a legiferare e dettare
disciplina di dettaglio, pur nel rispetto dei principi fondamentali
contenuti nella legislazione dello Stato.
E' evidente, invece, che la disciplina del condono contenuta
nell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 non costituisce un
insieme di principi fondamentali, in quanto, come affermato dalla
stessa Corte costituzionale (cfr. Corte costituzionale, sentenza
n. 177 del 1988), «non si possono considerare principi fondamentali
le norme che non siano espressive di scelte politico-legislative
fondamentali o quantomeno, di criteri o modalita' generali tali da
costituire un saldo punto di riferimento costante nel tempo ed in
grado di orientare l'esercizio del potere legislativo regionale».
Non possono, quindi, considerarsi principi fondamentali, anche al
di la' di una loro eventuale autoqualificazione, le norme che, come
quelle contenute nell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 in
materia di condono edilizio, sono sostanzialmente dotate di una forza
autoapplicativa ed hanno una natura sostanzialmente eccezionale e
derogatoria della disciplina vigente.
Sulla questione si e' espresso con una recentissima ordinanza di
rimessione della questione alla Corte costituzionale (la n. 27 del 20
novembre 2003) il TAR Emilia-Romagna - Sez. di Parma, rilevando
chiaramente che «... come e' stato ben osservato anche dalla
dottrina, con il condono lo Stato non detta principi generali (che
sono a lui riservati) ma introduce un'eccezione, invadendo una
competenza regionale, anche se ai primi commi dell'art. 32 il d.l.
n. 269/2003 si preoccupa di dichiararle salve.
Al riguardo ... le statuizioni condonistiche sono estremamente
precise e dettagliate, e fissano in modo esaustivo ogni aspetto della
materia, per cui il riferimento alla competenza regionale per il
«rispetto delle condizioni dei limiti e delle modalita' del rilascio
del titolo abilitativo sanante» non puo' che limitarsi di fatto,
nonostante la ridondanza dell'espressione, che ad aspetti di semplice
dettaglio del procedimento.
Sembra pertanto che il legislatore statale abbia esorbitato dalla
sua competenza che consiste nella semplice emanazione dei principi
fondamentali, che non possono essere di dettaglio o addirittura
regolamentari.
Ne' puo' fondatamente affermarsi che nella specie si tratta di
principi generali dell'ordinamento giuridico e di riforma
fondamentale economico-sociale: si tratta invece soltanto di
introduzione di un sistema moralmente discutibile per reperire subito
e comunque risorse finanziarie».
In conseguenza delle suddette violazioni, appare in tutta
evidenza come le disposizioni finiscano per incidere sugli interessi
finanziari della Regione, con sottrazione di risorse all'ambito
regionale e locale, in vantaggio del bilancio dello Stato. Appare
chiaro, infatti, che il venir meno dell'applicazione di sanzioni
amministrative e la definitiva regolarizzazione di abusi finisce per
creare le premesse per ulteriori interventi di riassetto del
territorio con utilizzazione di risorse della Regione e degli enti
locali, senza che sia previsto in modo esplicito la possibilita' di
utilizzare le risorse derivanti dal pagamento degli oneri imposti per
la regolarizzazione stessa. In altri termini, lo Stato incassa
risorse finanziarie depauperando la Regione e gli enti locali e
creando ulteriori dissesti territoriali le cui conseguenze in termini
negativi si riverberano direttamente in capo a Regione ed enti
locali. Non pare la strada migliore per la corretta applicazione
dell'art. 119 della Costituzione.
2. - La normativa censurata viola inoltre i principi di
eguaglianza, ragionevolezza, buona amministrazione e di tutela
ambientale, articoli 2, 3, 117, terzo comma, e 97 della Costituzione.
Il carattere della normativa sul condono e' sicuramente quello di
norma del tutto eccezionale. In Italia il condono e' gia' stato
varato due volte a distanza di circa otto anni, con la legge n. 47
del 1985 e con la legge n. 724 del 1994.
Una ulteriore reiterazione di tale soluzione non trova
giustificazione sul piano della ragionevolezza, come gia' affermato
dalla Corte costituzionale (cfr. Corte costituzionale, sentenza
n. 427 del 1995), in quanto finisce per vanificare del tutto le norme
repressive di quei comportamenti ritenuti illegali in quanto
contrastanti con la tutela del territorio.
Vero e' che, come osservato della stessa Corte costituzionale
(cfr. soprattutto le sentenze nn. 369/1988, 169/1994, 416/1995,
427/1995 e 256/1996), le norme sul condono prendono atto di una
situazione di illegalita' di massa che si intende ricondurre, per
esigenze di carattere economico-sociale e contemporaneamente per
esigenze di bilancio che spingono a ricercare spasmodicamente pronte
risorse finanziarie, nell'alveo del diritto, con attribuzione ad una
fattispecie mediatrice (l'autodenuncia) dell'efficacia di estinzione
dell'illiceita'; ma le stesse sentenze sottolineano che tale
esercizio del potere di clemenza deve avere carattere di
eccezionalita' e di chiusura di un'epoca, perche' in caso contrario
non giustificherebbe il contrasto insito nella natura per cosi' dire
premiale dell'abusivismo, con il comportamento della maggioranza dei
cittadini onesti e osservanti la legge, con conseguente violazione
dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e di buona
amministrazione.
Deve tenersi conto, inoltre, che una rottura del menzionato
carattere eccezionale della misura condonistica attenuerebbe le
remore della generalita' dei soggetti alla commissione di abusi, per
la speranza, ed anzi per la certezza, che in un prossimo futuro tale
misura sarebbe senz'altro riadottata e, per altro verso,
comporterebbe nei pubblici poteri un senso di sfiducia, di inutilita'
delle misure repressive e di inammissibile lassismo, a sua volta
generatore di ulteriori illeciti urbanistico-edilizi.
In particolare la Corte, con la sentenza n. 416 del 1995, non ha
legittimato l'equazione fra carenza di controllo e nuova necessita'
di condono, preannunciando sostanzialmente un eventuale giudizio di
incostituzionalita' qualora in futuro fosse stata emanata una nuova
legge al riguardo, soprattutto (come di fatto e' ora avvenuto) nella
forma della mera riapertura dei termini precedentemente scaduti.
Infatti, la Corte ha osservato che sarebbe stato inevitabile un
giudizio negativo nel caso di altra reiterazione della norma sul
condono, soprattutto con ulteriore e persistente spostamento dei
termini temporali di riferimento del commesso abuso edilizio, anche
perche' la gestione del territorio sarebbe stata certamente
compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o
ricorrente possibilita' di condono in sanatoria con conseguente
convinzione di impunita'.
In particolare la suddetta pronuncia sottolinea come: «...
Ingiusto e discriminatorio sarebbe, altresi', il nuovo condono per il
futuro, attesoche' esso tenderebbe a fuoriuscire dalla eccezionalita'
e singolarita' che caratterizza il condono della legge n. 47 del 1985
ed a farsi sistema. Un sistema che precluderebbe l'applicazione anche
in futuro delle sanzioni previste dalla legislazione urbanistica e
che, scardinando con la sua reiterazione il sistema della legalita',
violerebbe il principio di uguaglianza dei cittadini producendo, nel
contempo, le condizioni per un ulteriore degrado ambientale e
amministrativo.
In proposito si richiama la sentenza n. 369 del 1988 di questa
Corte, con la quale si afferma che «il condono puo' giustificarsi in
circostanze eccezionali, quando il legislatore intenda imprimere un
nuovo orientamento alla disciplina di una materia e sia percio' quasi
"necessitato" nel cancellare il passato, ad incidere sulle sanzioni
penali poste a rafforzamento di quelle extra-penali».
Nulla di tutto questo sarebbe riscontrabile nel nuovo condono.
Infatti se il condono della legge n. 47 del 1985 pote' considerarsi
legittimo solo in quanto «eccezionale» e «singolare», cio' non
potrebbe certo valere per il nuovo condono che contraddirebbe, senza
mutare sul piano generale, i principi e i valori della normativa
urbanistica, convertendosi in norma di in giustificato privilegio e
insieme strumento di produzione di risorse statali sostitutive della
imposizione fiscale, tale essendo secondo la ricorrente, il principio
informatore stesso del condono edilizio. Ne deriverebbe la lesione
dei principi costituzionali surricordati (artt. 3, 97 e 117 della
Costituzione) nonche' la lesione dei principi fondamentali dello
Stato di diritto.
La gestione del territorio sulla base di una necessaria
programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della
ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilita' di
condono-sanatoria con conseguente convinzione di impunita', tanto
piu' che l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora
non segua la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il
semplice pagamento di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico
violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale».
Un'eccezione non puo' quindi risolversi in un principio.
Inoltre, rilevante e' la considerazione - come sopra accennato -
che il condono realizza un sistema ingiusto e discriminatorio proprio
nei confronti dei cittadini rispettosi delle leggi, che si vedono
privare di quei beni che anch'essi avrebbero potuto costruire
violando le norme, e che dall'altro sarebbero costretti, soprattutto
in mancanza delle specifiche situazioni di diritto soggettivo, esse
sole salvaguardate dalla legislazione condonistica, a subire il
degrado urbanistico prodotto dall'illegalita' edilizia, riemersa con
ostentazione e legalizzata con rischio che in futuro si producano le
condizioni per un ulteriore degrado.
Infine, sembra indubbio che il condono (come nel caso qui in
esame) introduce di fatto deroghe, e quindi limitate varianti, ai
piani regolatori, sanando costruzioni del tutto contrarie alle
disposizioni in essi contenuti, con invasione, anche sotto tale
profilo, delle competenze al riguardo del legislatore regionale e
degli enti locali, e creando conseguentemente un vulnus alla
disciplina urbanistica dettata dalla Regione.
3. - Nel testo dell'art. 32 conseguente alla conversione vi e'
una ulteriore innovazione, che, apparentemente, mira alla
semplificazione, ma, nella sostanza, e' foriera di contenuti che
vanno anche in questo caso contro l'indicazione della Corte
costituzionale (sentenza n. 302 del 9-10 marzo 1988) sul riparto di
competenze in materia paesistica.
Si tratta del comma 43 che ha modificato l'art. 32 della legge
n. 47 del 1985, di fatto stabilendo la possibilita' di pervenire alla
formulazione dei pareri, fra cui quello paesistico, mediante la
conferenza dei servizi.
La disposizione stabilisce anche che in tal caso il motivato
dissenso di una sola delle amministrazioni partecipanti, compresa la
soprintendenza competente, preclude il rilascio del titolo
abilitativo edilizio in sanatoria.
Si tratta di disposizione che innova in maniera inaspettata e
contraddittoria.
Finora era in vigore un assetto dei poteri e delle competenze
secondo cui, anche alla luce dell'art. 12 della legge n. 68/1988, che
aveva recepito il contenuto della citata sentenza della Corte
costituzionale, la competenza ad emanare i pareri paesistici di cui
all'art. 32 era delle Regioni (o degli enti territoriali da queste
subdelegati), mentre al Ministero ed ai suoi uffici centrali e
periferici era attribuita la potesta' di annullamento dei
provvedimenti emanati dall'autorita' delegata e subdelagata, alla
stregua delle nuove autorizzazioni paesistiche.
Sulle modalita' di esercizio di tali funzioni e sulla estensione
della potesta' di annullamento ministeriale si e' andata consolidando
una giurisprudenza, secondo cui la potesta' di annullamento attiene
ai profili di legittimita', senza mai estendersi al merito, non
potendosi mai verificare che l'Autorita' statale sostituisca un
proprio giudizio di merito a quello emanato dall'autorita' delegata o
subdelegata (in tal senso Cons. Stato, A.p. 4 settembre 2001, n. 9;
da ultimo Cons. Stato, Sez. VI, 16 giugno 2003, n. 3398).
Orbene la nuova formulazione dell'art. 32 della legge n. 47/1985,
introdotta dall'art. 32 del decreto-legge n. 269/2003, finisce per
distruggere l'equilibrio fra le attribuzioni di competenze,
riattribuendo alla Soprintendenza una competenza di merito, e non di
solo annullamento per motivi di legittimita', atteso che nella
conferenza di servizi essa potrebbe esprimere il proprio motivato
dissenso, idoneo a provocare il rigetto della istanza, senza alcuna
possibilita' di una riformulazione del parere.
Come dire che, con una disposizione apparentemente innocua e
presentata come finalizzata alla semplificazione del procedimento
(conferenza dei servizi) lo Stato si e' riappropriato di una
competenza di merito che la Corte costituzionale e la giurisprudenza
avevano inequivocabilmente ritenuto spettante alle Regioni.
4. - Infine deve rilevarsi che con la normativa censurata il
Governo ha violato il principio di leale collaborazione tra Stato e
Regioni, principio che implica il «contemperamento dei rispettivi
interessi», e che e' stato espressamente costituzionalizzato con la
riforma dell'art. 120 Cost. operata dalla legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3.
La giurisprudenza, diffusa, della Corte costituzionale ha
delimitato il principio di leale collaborazione (a volte facendo
riferimento ad un concetto di collaborazione «concordata» tra i
diversi livelli di Governo) facendo richiamo all'art. 5 della Cost.
(decisione n. 151 del 1986, n. 482 del 1995, n. 341 del 1996, n. 242
del 1997, n. 19 del 1997, n. 55 del 2001).
Tra l'altro, detto principio era gia' presente nella
giurisprudenza comunitaria, naturalmente con applicazione tra gli
organismi comunitari e quelli degli Stati membri (Corte giustizia
Comunita' europee, 4 luglio 1996, n. 50/94/1996; Corte giustizia
Comunita' europee, 10 giugno 1993, n. 183/91/1993).
Il principio appare violato dalle numerose disposizioni di
dettaglio contenute nell'art. 32 oggetto del ricorso che introducono
una disciplina di singoli istituti inerenti il condono e gli effetti
di esso sul territorio e la sua gestione senza che la Regione abbia
espresso un parere positivo o abbia partecipato in altro modo al
procedimento di formazione della volonta' legislativa. Anzi, dette
disposizioni finiscono, indipendentemente se intese di dettaglio o di
principio, per mortificare ogni politica di programmazione,
pianificazione e tutela del territorio da parte della Regione,
minando l'azione pubblica diretta al perseguimento di interessi
territoriali e paesistici che non sono nella disponibilita' esclusiva
di nessun livello di Governo, ma che pretendono la funzionalizzazione
di ogni intervento normativo ed amministrativo di qualsiasi livello
in un quadro di coerenza e condivisione di obiettivi. Nella
fattispecie tutto cio' non e' stato, rimanendo la disciplina
contestata incoerente e resa senza alcuna forma di partecipazione o
contributo da parte delle regioni.


P. Q. M.
Il presidente della giunta della Regione Basilicata conclude
chiedendo che la Corte dichiari la illegittimita' costituzionale
dell'art. 32 del decreto-legge e della legge di conversione indicati
in epigrafe.
Roma, addi' 27 novembre 2003
Avv. prof. Angelo Piazza - Avv. M. Carmela Santoro

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