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N. 96 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 11 settembre 2006. |
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Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria l'11 settembre 2006 (della Regione Veneto)
(GU n. 40 del 4-10-2006) |
Ricorso della Regione Veneto, in persona del vice presidente pro
tempore della giunta regionale - in assenza del presidente -
autorizzato mediante deliberazione della giunta stessa 7 agosto 2006,
n. 2555, rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine
del presente atto, dagli avv. prof. Mario Bertolissi di Padova,
Romano Morra di Venezia e Andrea Manzi di Roma, presso quest'ultimo
domiciliata in Roma, via F. Confalonieri n. 5;
Contro il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale e'
domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12, per la
declaratoria di illegittimita' costituzionale, per violazione degli
artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 Cost., degli artt. 2, commi 1 e
3; 3, 5, comma 2; 6, 12, comma 1; 13, 22, 26, 29, 30, 34, comma 1,
del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni
urgenti per il rilascio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia
di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale, n. 153 del 4 luglio 2006 (Rettifica Gazzetta
Ufficiale n. 159 dell'11 luglio 2006).
Fatto e diritto
1. - Il decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante
«Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonche'
interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale»
(c.d. decreto Bersani), prevede numerose norme, contenute negli artt.
2, commi 1 e 3; 3, 5, comma 2; 6, 12, comma 1; 13, 22, 26, 29, 30,
34, comma 1, che, ad avviso della Regione Veneto, si pongono in
contrasto con la Costituzione, violando l'autonomia legislativa,
amministrativa e finanziaria regionale, nonche' il principio di leale
collaborazione.
In particolare, molte di queste disposizioni ledono l'autonomia
legislativa, amministrativa e organizzativa regionale, non recependo
per altro gli orientamenti formulati da codesto ecc.mo Collegio,
sotto molteplici profili in ordine:
a) alla ricostruzione dei rapporti tra legislazione statale e
regionale definiti dal nuovo art. 117 Cost., anche alla luce del
principio di leale collaborazione tra Stato e regioni, di cui
all'art. 120 Cost., con specifico riferimento alle materie della
tutela della concorrenza, delle professioni, del commercio, della
programmazione socio-sanitaria e del trasporto pubblico locale;
b) all'attuazione e alla cogenza delle disposizioni di cui
all'art. 119 Cost., congiuntamente a quelle degli artt. 117, terzo
comma, e 118 Cost., con riferimento all'autonomia finanziaria e
contabile delle regioni e alla natura di principio delle norme di
coordinamento della finanza pubblica.
Per meglio illustrare i profili di illegittimita' costituzionale
denunciati si procedera' qui di seguito ad un'analisi di ciascuna
delle norme impugnate.
2. - L'art. 2, nella volonta' di dettare «Disposizioni urgenti
per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi
professionali», ha previsto, rispettivamente al comma 1 e al comma 3,
che «in conformita' al principio comunitario di libera concorrenza ed
a quello di liberta' di circolazione delle persone e dei servizi,
nonche' al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facolta' di
scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle
prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del
presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e
regolamentari che prevedono con riferimento alle attivita' libero
professionali e intellettuali:
a) la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime
ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento
degli obiettivi perseguiti;
b) il divieto, anche parziale, di pubblicizzare i titoli e le
specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio
offerto e il prezzo delle prestazioni;
c) il divieto di fornire all'utenza servizi professionali di
tipo interdisciplinare da parte di societa' di persone o associazioni
tra professionisti, fermo restando che il medesimo professionista non
puo' partecipare a piu' di una societa' e che la specifica
prestazione deve essere resa da uno o piu' professionisti previamente
indicati, sotto la propria personale responsabilita» e che «le
disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina
che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche
con l'adozione di misure a garanzia della qualita' delle prestazioni
professionali, entro il 1° gennaio 2007. In caso di mancato
adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto
con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle».
Appare evidente che le disposizioni in discorso contengono norme
di minuto dettaglio ed autoapplicative, che ledono l'autonomia
legislativa regionale.
L'art. 117 della Costituzione, al suo terzo comma, annovera tra
le materie di legislazione concorrente la disciplina delle
«professioni», attribuendo alle regioni la potesta' legislativa,
salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata
alla legislazione dello Stato.
Ora, le norme del «decreto Bersani» sopra riportate non hanno
nessuna delle caratteristiche che individuano un principio
fondamentale poiche' pongono in essere delle modifiche molto
puntuali, oltre che rilevanti, alla disciplina della materia,
abolendo la fissazione delle tariffe obbligatorie fisse o minime e
numerosi divieti fino ad ora vigenti, quali quello di pattuire
compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi (lett. a) o di
pubblicizzare titoli, specializzazioni e servizio offerto (lett. b) e
di fornire servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte
di societa' di persone o associazioni tra professionisti (lett. c).
Le abolizioni cosi' previste non necessitano in se' di alcuna
norma di dettaglio per darvi attuazione, privando, di conseguenza, le
regioni di qualsiasi potere in materia.
A nulla varrebbe invocare i principi comunitari di libera
concorrenza e di circolazione delle persone e dei servizi, richiamati
nel primo comma dell'art. 2 del decreto-legge n. 223 del 2006, al
fine di superare le censure prospettate e affermare la competenza
statale.
Come ha avuto modo di osservare codesto ecc.mo Collegio nella
sentenza 14 gennaio 2004, n. 14 e come vedremo meglio a breve in
altra parte del presente ricorso, una concezione cosi' ampia della
competenza attibuita allo Stato in materia di tutela della
concorrenza - «che non presenta i caratteri di una materia di
estensione certa, ma quelli di una funzione esercitabile sui piu'
diversi oggetti» - finirebbe per vanificare lo schema di riparto
dell'art. 117 Cost., secondo il quale sono «attribuite alla potesta'
legislativa residuale e concorrente delle regioni materia la cui
disciplina incide innegabilmente sullo sviluppo economico».
In altre parole la tutela della concorrenza non puo' essere
utilizzata quale fondamento di legittimazione del potere normativo
statale esercitato in modo da non lasciare, irragionevolmente, il
minimo spazio non solo per un'ipotetica legislazione ulteriore, ma
persino per una normazione secondaria di mera esecuzione.
3. - Analogo richiamo alle disposizioni dell'ordinamento
comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera
circolazione delle merci e dei servizi viene svolto nell'art. 3 del
decreto-legge impugnato, recante «Regole di tutela della concorrenza
nel settore della distribuzione commerciale».
Per poter evidenziare i profili di illegittimita' costituzionale
delle norme contenute nell'articolo ora citato e' necessario
riportare qui di seguito per esteso il testo della disposizione:
«Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in
materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci
e dei servizi ed al fine di garantire la liberta' di concorrenza
secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme
funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori
finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita'
all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi
dell'art. 117, secondo comma, lettere e) ed m), della Costituzione,
le attivita' economiche di distribuzione commerciale, ivi comprese la
somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte senza i seguenti
limiti e prescrizioni:
a) l'iscrizione a registri abilitanti ovvero possesso di
requisiti professionali soggettivi per l'esercizio di attivita'
commerciali, fatti salvi quelli riguardanti la tutela della salute
igienico-sanitaria degli alimenti;
b) il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attivita'
commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio;
c) le limitazioni quantitative all'assorbimento merceologico
offerto negli esercizi commerciali;
d) il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato
predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello
territoriale sub regionale;
e) la fissazione di divieti generali ad effettuare vendite
promozionali, a meno che non siano prescritti dal diritto
comunitario;
f) l'ottenimento di autorizzazioni preventive e le
limitazioni di ordine temporale allo svolgimento di vendite
promozionali di prodotti, effettuate all'interno degli esercizi
commerciali» (comma 1);
«Sono fatte salve le disposizioni che disciplinano le vendite
sottocosto e i saldi di fine stagione» (comma 2);
«A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto
sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari statali di
disciplina del settore della distribuzione commerciale incompatibili
con le disposizioni di cui al comma 1» (comma 3);
«Le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni
legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al
comma 1 entro il 1° gennaio 2007» (comma 4).
La disciplina relativa alla distribuzione commerciale che il
legislatore statale ha dettato, ritenendo di far uso delle proprie
competenze nelle materie «tutela della concorrenza» e di
«determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti
i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale», viola l'autonomia legislativa e amministrativa
riconosciuta alla regione, ai sensi degli artt. 117 e 118 Cost., in
materia di commercio.
Giova a questo riguardo ricordare che la disciplina del commercio
rientra, ai sensi del comma 4 dell'art. 117 Cost., nella potesta'
legislativa piu' ampia delle regioni, non essendo compresa nelle
materie elencate nel secondo e terzo comma del medesimo articolo
(come codesto ecc.mo Collegio ha precisato, tra l'altro, nella
sentenza 13 gennaio 2004, n. 1 e nell'ord. 11 maggio 2006, n. 199).
A questo punto pero' si rendono necessarie alcune osservazioni
sui rapporti tra la competenza legislativa statale esclusiva in
materia di «tutela della concorrenza» e quella regionale in materia
di commercio.
Tale «materia» (materia-non materia, per usare una significativa
espressione utilizzata dalla dottrina), al pari di quella di cui alla
lettera m) dello stesso secondo comma dell'art. 117 Cost., rientra
tra quelle a cui la maggior parte degli autori, seguiti dalla
giurisprudenza costituzionale (a partire dalla sent. 26 giugno 2002,
n. 282), attribuisce una portata «trasversale» o «orizzontale», in
quanto si intersecano con materie intese in senso tradizionale e che,
quindi, fondando un potere legislativo statale determinano
interferenze tra potesta' statale e regionale non solo nell'ambito
delle materie di competenza, ma anche all'interno delle materie che
dovrebbero essere di competenza c.d. residuale delle regioni, ai
sensi del comma 4, dell'art. 117 Cost.
Senza poter affrontare in questa sede i problemi inerenti
all'individuazione dei caratteri distintivi e dei confini tra materie
«trasversali» e materie di competenza legislativa concorrente o la
questione circa l'attitudine delle prime a costituire un «tipo» di
competenza distinto da quelli espressamente indicati dall'art. 117
Cost., giova rilevare come con riferimento alle materie «trasversali»
si avverta generalmente il problema di evitare che un'interpretazione
lata di queste vanifichi di fatto il sistema di riparto delle
competenze tra regioni e Stato a tutto vantaggio di quest'ultimo.
Focalizzando l'attenzione sulla «tutela della concorrenza», non
vi sono dubbi che si arriverebbe certamente all'assurdo se il rilievo
trasversale della competenza statale potesse essere esasperato fino
ad avallare un'interpretazione che precluda alle regioni di porre in
essere qualsiasi disciplina, in quanto costituzionalmente
illegittima, che possa avere un rilievo nei rapporti tra imprese o
una ricaduta sul mercato.
In dottrina si e' espresso il timore che l'intervento normativo
statale, in presenza dei vincoli comunitari in tema di concorrenza,
possa risultare «ripetitivo» e «ridondante», ovvero che comprima
eccessivamente i margini di autonomia spettanti alle regioni (cfr. R.
Caranta, La tutela della concorrenza, le competenze legislative e la
difficile applicazione del Titolo V della Costituzione, in Le
Regioni, 2004, n. 4, 990 s.).
Del resto, come si e' gia' ricordato supra, codesta ecc.ma Corte
costituzionale, affrontando la questione del rapporto tra le
politiche statali di sostegno del mercato e le competenze legislative
delle regioni nel nuovo Titolo V della nostra Costituzione, con la
sentenza 13 gennaio 2004, n. 14 ha cosi' argomentato: «una volta
riconosciuto che la nozione di tutela della concorrenza abbraccia nel
loro complesso i rapporti concorrenziali sul mercato e non esclude
interventi promozionali dello Stato, si deve tuttavia precisare che
una dilatazione massima di tale competenza, che non presenta i
caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una
funzione esercitabile sui piu' diversi oggetti, rischierebbe di
vanificare lo schema di riparto dell'art. 117 Cost., che vede
attribuite alla potesta' legislativa residuale e concorrente delle
regioni materie la cui disciplina incide innegabilmente sullo
sviluppo economico».
Il problema e' stato risolto, come e' noto, facendo riferimento
al criterio sistematico che evidenzierebbe la volonta' del
legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato
«strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo
dell'intero Paese»; strumenti che sono espressione di un carattere
unitario e che, «interpretati gli uni per mezzo degli altri,
risultano tutti finalizzati ad equilibrare il volume di risorse
finanziarie inserite nel circuito economico».
In sintesi, dunque, l'intervento statale si giustifica «per la
sua rilevanza macroeconomica», mentre appartengono alla competenza
legislativa concorrente o residuale delle regioni gli interventi
«sintonizzati sulla realta' produttiva regionale», tali, comunque, da
non creare ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle
cose fra le regioni e da non limitare l'esercizio del diritto al
lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
Nel caso di specie un'interpretazione estensiva del carattere
«trasversale» della materia-non materia «tutela della concorrenza»
potrebbe di fatto cancellare la competenza legislativa esclusiva
regionale in materia di commercio.
Come e' stato osservato, una lettura della lett. e) del comma 2,
dell'art. 117, cosi' ampia da farvi rientrare non solo - come sarebbe
corretto - le «regole generali» della concorrenza o quelle
disposizioni che siano strettamente funzionali al mantenimento della
concorrenza, ma anche la disciplina di tutte le misure regolamentari
e amministrative che incidono sull'esercizio di attivita' economiche
«limiterebbe eccessivamente la potesta' esclusiva delle regioni, le
quali in materie come il commercio non potrebbero, ad esempio
occuparsi di autorizzazioni o di orari di apertura e chiusura degli
esercizi commerciali, in quanto aspetti che hanno riflessi
sull'esercizio delle attivita' economiche» (E. Freni, La tutela della
concorrenza, in Trattato di Diritto Amministrativo, IV, Milano, 2003,
3688).
Per altro, del tutto improprio appare il richiamo, contenuto nel
primo comma dell'art. 3, alla determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni, di cui all'art. 117, comma secondo, lett. m),
Cost., anch'essa materia trasversale in ordine alla quale valgono le
considerazioni sopra svolte sulle letture di tali materie che
finiscono per comprimere irragionevolmente gli ambiti di autonomia
regionale.
Infatti, proprio a questo tipo di interpretazione si dovrebbe
accedere se si volessero far rientrare le disposizioni in discorso
nell'ambito della individuazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale.
4. - Irrispettosa della competenza regionale in materia di
commercio, oltre che in materia di programmazione socio-sanitaria,
risulta anche la norma di cui al comma 2, dell'art. 5, del
decreto-legge impugnato.
La disposizione prevede che la vendita al pubblico dei farmaci da
banco o di automedicazione negli esercizi commerciali della
cosiddetta grande distribuzione sia consentita durante l'orario di
apertura degli stessi e debba essere effettuata nell'ambito di un
apposito reparto, con l'assistenza di uno o piu' farmacisti abilitati
all'esercizio della professione ed iscritti al relativo ordine.
Restano vietati i concorsi, le operazioni a premio e le vendite sotto
costo aventi ad oggetto farmaci.
Si tratta di una norma di mero dettaglio che non puo' definirsi
conforme a Costituzione, ne' facendo rientrare la disciplina in
discorso nell'ambito della materia del «commercio», di cui al quarto
comma dell'art. 117, ne' in quella della «tutela della salute», di
cui al terzo comma del medesimo articolo.
A tale proposito si puo' ricordare che nella sentenza n. 87 del
2006 codesto ecc.mo Collegio ha avuto modo di precisare come, pure
successivamente all'entrata in vigore del nuovo Titolo V della
Costituzione, la «materia» della organizzazione del servizio
farmaceutico vada ricondotta al titolo di competenza concorrente
della tutela della salute.
Notava peraltro sempre codesto ecc.mo Collegio che «la complessa
regolamentazione pubblicistica della attivita' economica di rivendita
dei farmaci e' infatti preordinata al fine di assicurare e
controllare l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal
senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute,
restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere
professionale sia l'indubbia natura commerciale dell'attivita' del
farmacista».
A ben vedere pero' proprio la ratio con cui sono state dettate le
norme dell'art. 5 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223,
costituisce una diversa prospettiva di disciplina della materia
rispetto alla precedente legislazione vigente in materia.
Nella volonta' del legislatore, che emerge inequivocabilmente dal
testo normativo, non si puo' affermare che «il carattere
professionale» e «l'indubbia natura commerciale dell'attivita' del
farmacista» restino «solo marginali» rispetto «al fine di assicurare
e controllare l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali», quando
tutta la disciplina viene dettata nell'obiettivo dichiarato di
ottenere dei vantaggi per i consumatori in termini di prezzi e di
orari di apertura, sfruttando le probabili dinamiche commerciali,
piuttosto che attraverso una regolamentazione pubblicistica
dell'attivita'.
La norma impugnata, sotto questo profilo, non puo' non venire a
ledere la competenza legislativa esclusiva che, come si e' visto
supra, spetta alle regioni in materia di commercio.
Ma analoga lesione dell'autonomia legislativa regionale si puo'
riscontrare anche riconducendo la materia nell'ambito della tutela
della salute.
Infatti, nelle materia di legislazione concorrente spetta allo
Stato la sola determinazione dei principi fondamentali, dovendosi
lasciare alle regioni la possibilita' di esercitare la potesta'
legislativa che a loro e' riconosciuta dall'ultimo periodo del terzo
comma, dell'art. 117 Cost., ora citato.
Prevedendo l'orario di vendita dei farmaci da banco o di
automedicazione, le modalita' di vendita (in apposito reparto con
l'assistenza di uno o piu' farmacisti) e divieti specifici per
concorsi, operazioni a premio e vendite sotto costo, il comma 2,
dell'art. 5 contiene innegabilmente statuizioni al piu' basso grado
di astrattezza, che, per il loro carattere di estremo dettaglio, sono
insuscettibili di sviluppi normativi ulteriori.
Non siamo, quindi, di fronte alla previsione di principi
fondamentali della materia, il solo tipo di norma che il legislatore
statale e' abilitato a dettare in materia di tutela della salute.
5. - Le norme di cui all'art. 6 e all'art. 12, comma 1, del
decreto-legge n. 223 del 2006, recanti, rispettivamente «Deroga al
divieto di cumulo di licenze per il servizio di taxi» e «Disposizioni
in materia di circolazione dei veicoli e di trasporto comunale e
intercomunale», violano la competenza regionale in materia di
autotrasporto non di linea e di trasporto pubblico locale, e, di
conseguenza, gli artt. 117 e 118 della Costituzione.
La prima delle due disposizioni - al fine di assicurare agli
utenti del servizio taxi una maggiore offerta, in linea con le
esigenze della mobilita' urbana» - ha aggiunto all'art. 8 della legge
15 gennaio 1992, n. 21, dopo il comma 2, un comma 2-bis del seguente
tenore: «fatta salva la possibilita' di conferire nuove licenze
secondo la vigente programmazione numerica, i comuni possono bandire
pubblici concorsi, nonche' concorsi riservati ai titolari di licenza
di taxi, in deroga alle disposizioni di cui ai commi 1 e 2, per
l'assegnazione a titolo oneroso di licenze eccedenti la vigente
programmazione numerica. Nei casi in cui i comuni esercitino la
facolta' di cui al primo periodo, i soggetti di cui all'art. 7
assegnatari delle nuove licenze non le possono cedere separatamente
dalla licenza originaria. I proventi derivanti dall'assegnazione a
titolo oneroso delle nuove licenze sono ripartiti, in misura non
superiore all'80 per cento e non inferiore al 60 per cento, tra i
titolari di licenza taxi del medesimo comune che mantengano una sola
licenza. In ogni caso i titolari di licenza devono esercitare il
servizio personalmente, ovvero avvalersi di conducenti iscritti al
ruolo di cui all'art. 6, il cui contratto di lavoro subordinato deve
essere trasmesso all'amministrazione vigilante entro le 24 ore del
giorno precedente il servizio. I comuni possono altresi' rilasciare
titoli autorizzatori temporanei, non cedibili, per fronteggiare
eventi straordinari».
Con il primo comma dell'art. 12 del decreto impugnato si e'
stabilito che «fermi restando i principi di universalita',
accessibilita' ed adeguatezza dei servizi pubblici di trasporto
locale ed al fine di assicurare un assetto maggiormente
concorrenziale delle connesse attivita' economiche e di favorire il
pieno esercizio del diritto dei cittadini alla mobilita», i comuni
possono prevedere «che il trasporto di linea di passeggeri
accessibile al pubblico, in ambito comunale e intercomunale, sia
svolto, in tutto il territorio o in tratte e per tempi
predeterminati, anche dai soggetti in possesso dei necessari
requisiti tecnico-professionali, fermi restando la disciplina di cui
al comma 2 ed il divieto di disporre finanziamenti in qualsiasi forma
a favore dei predetti soggetti. Il comune sede di scalo ferroviario,
portuale o aeroportuale e' comunque tenuto a consentire l'accesso
allo scalo da parte degli operatori autorizzati ai sensi del presente
comma da comuni del bacino servito».
Dalla lettura dei testi normativi ora riportati emerge come gli
stessi siano costituzionalmente illegittimi in considerazione del
fatto che la regione nella materia e' titolare di una competenza
legislativa esclusiva, ai sensi del quarto comma dell'art. 117,
secondo il quale, come e' noto «spetta alle regioni la potesta'
legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato».
Del resto, si deve ricordare che gia' il d.lgs. n. 422 del 1997
aveva conferito alle regioni ed agli enti locali funzioni e compiti
in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell'art. 4, comma
4, della legge 15 marzo 1997, n. 59.
L'impianto legislativo introdotto dal d.lgs. n. 422 del 1997,
posto in essere anteriormente alla promulgazione della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, per altro, si era
contraddistinto per una valorizzazione del ruolo svolto dalle regioni
in questo settore e per una sensibilita' verso il modello
concorrenziale elaborato a livello comunitario, pur rinvenendo per il
trasporto pubblico locale vincoli meno stringenti.
Come codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare
recentemente, «la materia del trasporto pubblico locale rientra
nell'ambito delle competenze residuali delle regioni di cui al quarto
comma, dell'art. 117 Cost., come reso evidente anche dal fatto che,
ancor prima della riforma del Titolo V della Costituzione, il d.lgs.
19 novembre 1997, n. 422 (Conferimento alle regioni ed agli enti
locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale,
a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) aveva
ridisciplinato l'intero settore, conferendo alle regioni ed agli enti
locali funzioni e compiti relativi a tutti `i servizi pubblici di
trasporto di interesse regionale e locale con qualsiasi modalita'
effettuati ed in qualsiasi forma affidati' ed escludendo solo i
trasporti pubblici di interesse nazionale» (cfr. sent. n. 222 dell'8
giugno 2005).
Se questa e' la natura delle competenze regionali in materia,
anche con riferimento alle norme di cui all'art. 6 ed al comma 1
dell'art. 12, non varrebbe il semplice richiamo alla necessita' di
adottare una disciplina di tutela della concorrenza per giustificare
l'intervento del legislatore statale.
Questo e' vero soprattutto se si considera che le norme impugnate
contengono una disciplina compiuta che non lascia spazio ad una
legislazione regionale ulteriore, con cio' dovendosi dubitare che le
disposizioni rispettino i parametri della adeguatezza e della
proporzionalita'.
6. - A finalita' di tutela della concorrenza si ispira
dichiaratamente anche l'art. 13 del decreto-legge impugnato, recante
«Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e
locali e a tutela della concorrenza».
Con le norme in esame il legislatore statale ha voluto evitare
alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e
assicurare la parita' degli operatori, impedendo che soggetti
destinatari dei cosiddetti «obblighi di servizio pubblico», solo
formalmente privatizzati - in quanto i pubblici poteri esercitano nei
loro confronti, direttamente o indirettamente, un'influenza dominante
per ragioni di proprieta', partecipazione finanziaria o in forza di
una normativa che la disciplina - possano operare, avvantaggiandosi
del regime speciale di cui godono, anche sul libero mercato,
producendo alterazioni e distorsioni della concorrenza.
Se queste sono le finalita' perseguite dalla disciplina statale
rimane da accertare se qeust'ultima rispetti la sfera di autonomia
regionale oppure se, facendo valere ragioni di tutela della
concorrenza, comprima irragionevolmente l'autonomia legislativa e
amministrativa della regione.
Leggiamo il testo delle disposizioni:
«Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e
del mercato e di assicurare la parita' degli operatori, le societa',
a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle
amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di
beni e servizi strumentali all'attivita' di tali enti, nonche', nei
casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di
funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare
esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono
svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati,
ne' in affidamento diretto ne' con gara, e non possono partecipare ad
altre societa' o enti» (comma 1);
«Le predette societa' sono ad oggetto sociale esclusivo e non
possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1» (comma
2);
«Al fine di assicurare l'effettivita' delle precedenti
disposizioni, le societa' di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi
dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attivita' non
consentite. A tale fine possono cedere le attivita' non consentite a
terzi ovvero scorporarle, anche costituendo una separata societa' da
collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto-legge 31
maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge
30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori dodici mesi» (comma 3);
«I contratti conclusi in violazione delle prescrizioni dei commi
1 e 2 sono nulli» (comma 4).
Come si puo' comprendere dalla lettura delle disposizioni ora
riportate con il decreto impugnato si e' posta in essere una
disciplina puntuale che non lascia alcuno spazio alla regione per
dettare una normativa che tenga conto delle necessita' locali e
nemmeno dei tempi di attuazione dei principi statali secondo criteri
di adeguatezza e proporzionalita'.
L'art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, accompagna,
infatti, la previsione dei limiti all'attivita' esercitabile e
all'oggetto sociale delle societa' a capitale interamente pubblico o
misto di cui al comma 1 con prescrizioni temporali tassative e con la
sanzione della nullita' dei contratti conclusi in violazione delle
prescrizioni contenute nei primi due commi.
Le norme in esame, dunque, incidono sull'autonomia organizzativa,
legislativa e amministrativa della regione e degli enti locali, non
risultando proporzionate e adeguate alle espresse esigenze di
liberalizzazione del mercato.
7. - L'art. 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, contiene
disposizioni che stabiliscono la riduzione delle spese di
funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali.
Sancisce il primo comma dell'articolo in esame che «gli
stanziamenti per l'anno 2006 relativi a spese per consumi intermedi
dei bilanci di enti ed organismi pubblici non territoriali, che
adottano contabilita' anche finanziaria, individuati ai sensi
dell'art. 1, commi 5 e 6, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, con
esclusione delle Aziende sanitarie ed ospedaliere, degli Istituti di
ricovero e cura a carattere scientifico, dell'Istituto superiore di
sanita', dell'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza
del lavoro, dell'Agenzia italiana del farmaco, degli Istituti
zooprofilattici sperimentali e delle istituzioni scolastiche, sono
ridotti nella misura del 10 per cento, comunque nei limiti delle
disponibilita' non impegnate alla data di entrata in vigore del
presente decreto. Per gli enti ed organismi pubblici che adottano una
contabilita' esclusivamente civilistica, i costi della produzione,
individuati all'art. 2425, primo comma, lett. b), nn. 6), 7) e 8),
del codice civile, previsti nei rispettivi budget 2006, concernenti i
beni di consumo e servizi ed il godimento di beni di terzi, sono
ridotti del 10 per cento. Le somme provenienti dalle riduzioni di cui
al presente comma sono versate da ciascun ente, entro il mese di
ottobre 2006, all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione
al capo X, capitolo 2961».
Il secondo comma dello stesso art. 22 prevede poi che «per le
medesime voci di spesa e di costo indicate al comma 1, per il
triennio 2007-2009, le previsioni non potranno superare l'ottanta per
cento di quelle iniziali dell'anno 2006, ferma restando quanto
previsto dal comma 57, dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2004,
n. 311. Le somme corrispondenti alla riduzione dei costi e delle
spese per effetto del presente comma sono appositamente accantonate
per essere versate da ciascun ente, entro il 30 giugno di ciascun
anno, all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione al capo
X, capitolo 2961. E' fatto divieto alle Amministrazioni vigilanti di
approvare i bilanci di enti ed organismi pubblici in cui gli
amministratori non abbiano espressamente dichiarato nella relazione
sulla gestione di avere ottemperamento alle disposizioni del presente
articolo».
La difesa della regione del Veneto non ritiene che le
disposizioni ora citate siano interpretabili in via estensiva tanto
da far rientrare nel loro ambito soggettivo di applicazione gli enti
pubblici non territoriali regionali.
Se pero' si volesse seguire una lettura cosi' ampia del dettato
normativo statale ne dovrebbe discendere necessariamente una
violazione da parte del medesimo dettato normativo degli artt. 117 e
119 Cost.
Infatti, con le disposizioni in oggetto il decreto-legge
impugnato avrebbe posto per le regioni vincoli puntuali ad una
singola voce di spesa, eccedendo in tal modo dai limiti della propria
competenza in materia di «coordinamento della finanza pubblica», ai
sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost., e violando l'autonomia
finanziaria di spesa di cui all'art. 119 Cost.
Nel medesimo senso, codesto ecc.mo Collegio in numerose pronunce
(ad esempio, nelle sentenze nn. 376 del 2003, 4, 36 e 390 del 2004,
417 e 449 del 2005) ha avuto modo di precisare, dichiarando
l'illegittimita' costituzionale di alcune norme statali, che lo Stato
puo' legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche
di bilancio - anche se con cio' si determina inevitabilmente una
limitazione indiretta dell'autonomia di spesa degli enti - purche'
pero' cio' avvenga attraverso una «disciplina di principio» e «per
ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali,
condizionati anche dagli obblighi comunitari».
Piu' precisamente, se l'imposizione di vincoli alle politiche di
bilancio di regioni ed enti locali vuole rimanere nell'ambito della
legittimita' costituzionale, essa dovrebbe avere ad oggetto o
l'entita' del disavanzo di parte corrente, oppure, ma solo «in via
transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio
della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale», la
crescita della spesa corrente. Alla legge statale, pertanto, viene
consentito di stabilire unicamente un «limite complessivo, che lascia
agli enti stessi ampia liberta' di allocazione delle risorse fra i
diversi ambiti e obiettivi di spesa».
La previsione da parte della legge statale di limiti all'entita'
di una singola voce di spesa non puo' essere considerata un principio
fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e
coordinamento della finanza pubblica, in quanto pone un precetto
specifico e puntuale sull'entita' della spesa e si risolve percio'
«in una indebita invasione», da parte dello Stato, dell'area
riservata alle autonomie regionali e locali, alle quali il
legislatore nazionale puo' prescrivere criteri ed obiettivi, quali,
ad esempio, il contenimento della spesa pubblica, «ma non imporre nel
dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli
obiettivi».
Pertanto, l'art. 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223,
recando disposizioni che stabiliscono la riduzione delle spese di
funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali, se
ritenuta applicabile agli enti non territoriali regionali,
oltrepasserebbe i limiti imposti al legislatore statale in materia di
coordinamento della finanza pubblica, che si sono qui delineati, in
violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione.
8. - Con l'art. 26 del decreto-legge impugnato sono stati
previsti controlli e sanzioni per il mancato rispetto della regola
sul contenimento delle spese da parte degli enti inseriti nel conto
economico consolidato delle pubbliche amministrazioni.
La disposizione prevede che «In caso di mancato rispetto del
limite di spesa annuale di cui all'art. 1, comma 57, della legge 30
dicembre 2004, n. 311, da parte degli enti individuati ai sensi dei
commi 5 e 6 del medesimo articolo, fatte salve le esclusioni previste
dal predetto comma 57, i trasferimenti statali a qualsiasi titolo
operati a favore di detti enti sono ridotti in misura pari alle
eccedenze di spesa risultanti dai conti consuntivi relativi agli
esercizi 2005, 2006 e 2007. Gli enti interessati che non ricevono
contributi a carico del bilancio dello Stato sono tenuti a versare
all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione al capo X,
capitolo 2961, entro il 30 settembre rispettivamente degli anni 2006,
2007 e 2008, un importo pari alle eccedenze risultanti dai predetti
conti consuntivi. Le amministrazioni vigilanti sono tenute a dare,
rispettivamente, entro il 31 luglio degli anni 2006, 2007 e 2008,
comunicazione delle predette eccedenze di spesa al Ministero
dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria
generale dello Stato».
La norma, dunque, impone anche agli enti che non hanno ricevuto
contributi statali il versamento delle eccedenze di spesa risultanti
dai consuntivi degli anni 2005, 2006 e 2007 entro il 30 settembre di
ogni anno.
Si tratta di una disposizione irragionevole, dato che stabilisce
il medesimo obbligo sia per gli enti che hanno ricevuto i contributi
statali sia per quelli che non li hanno ricevuti.
Un tal genere di disciplina sottraendo risorse al bilancio
dell'ente senza una base logica giustificativa risulta irrispettosa
della sfera di autonomia finanziaria e contabile riconosciuta alle
regioni e agli enti locali e contraria al principio di buon andamento
dell'azione amministrativa.
A questo proposito va rilevato come la norma in oggetto contenga
un precetto preciso (il versamento delle eccedenze di spesa,
espressamente individuate, entro un termine stabilito), che richiede
ai fini della propria concreta applicazione soltanto un'attivita' di
materiale esecuzione, e non possa quindi essere in alcun modo
riconosciuta alla stessa la natura di norma di principio
dell'armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della
finanza pubblica.
Pertanto, l'art. 26 del decreto-legge impugnato risulta dettato
in violazione degli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 Cost.
9. - Si pone in contrasto con il dettato costituzionale ed, in
particolare, con gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione anche
l'art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223.
La disposizione ora citata contiene norme di contenimento della
spesa per commissioni, comitati ed organismi, che, ai sensi del comma
6, non trovano diretta applicazione alle regioni, alle province
autonome, agli enti locali e agli enti del Servizio sanitario
nazionale, ma per i quali costituiscono comunque «disposizioni di
principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica».
La formulazione di quest'ultima norma - poco chiara, in verita',
- non e' comunque in grado di impedire che le norme contenute
nell'articolo citato abbiano la natura di disposizioni puntuali,
capaci di porre in essere vincoli precisi alla spesa di regioni ed
enti locali.
Il primo comma dell'art. 29 citato stabilisce che la spesa
complessiva sostenuta dalle amministrazioni per organi collegiali e
altri organismi, anche monocratici, comunque denominati, venga
ridotta del trenta per cento rispetto a quella sostenuta nell'anno
2005 e prevede, da un lato, che le amministrazioni adottino con
immediatezza, e comunque entro trenta giorni dalla data di entrata in
vigore del decreto, le necessarie misure di adeguamento ai nuovi
limiti di spesa, dall'altro lato, che tale riduzione si aggiunga a
quella prevista dall'art. 1, comma 58, della legge 23 dicembre 2005,
n. 266.
Nei successivi commi 2 e 3 si stabiliscono, rispettivamente, per
le amministrazioni statali e per quelle non statali, le modalita'
specifiche di riordino degli organismi con la individuazione della
natura degli atti con cui le amministrazioni dovranno procedere e la
statuizione dei relativi criteri.
Si prevede inoltre che «gli organismi non individuati dai
provvedimenti previsti dai commi 1 e 2 sono comunque soppressi»
(comma 4) e che «scaduti i termini di cui ai commi 1, 2 e 3 senza che
si sia provveduto agli adempimenti ivi previsti e' fatto divieto alle
amministrazioni di corrispondere compensi ai componenti degli
organismi di cui al comma 1» (comma 5).
Prevedendo riduzioni percentuali precise ad una singola voce di
spesa e indicando le modalita' di contenimento della medesima, le
norme in oggetto stabiliscono limiti precisi e stringenti
all'autonomia finanziaria e di organizzazione delle regioni e degli
enti locali e sono del tutto inidonee a svolgere la funzione di
principi di coordinamento della finanza pubblica, come vorrebbe
definirle il legislatore statale.
Senza ripetere quanto gia' detto in ordine alla illegittimita'
costituzionale delle disposizioni che pongono limiti alle singole
voci di spesa di regioni ed enti locali, si puo' fermare
l'attestazione sul valore delle previsioni del tenore di cui al comma
6 dell'art. 29 del decreto-legge impugnato.
Non basta, per ritenere conforme a Costituzione la relativa
disciplina, che la norma si definisca disposizione di principio di
«coordinamento della finanza pubblica».
E' evidente, infatti, che autoqualificazioni di tal fatta non
esimono il legislatore statale dal rispettare i limiti costituzionali
ad esso imposti a tutela dell'autonomia regionale.
Affermare che le norme contenute nell'art. 29 del decreto-legge
n. 223 del 2006, di natura estremamente puntuale, non si applicano a
regioni ed enti locali, qualificandole subito dopo come principi di
coordinamento della finanza pubblica, significa semplicemente tentare
di superare con un artifizio retorico i confini del potere
legislativo statale in materia.
Come si e' piu' volte chiarito in questo ricorso, la natura del
principio della norma e' incompatibile con statuizioni del piu' basso
grado di astrattezza e che contengono una disciplina in se' compiuta
come quella contenuta nell'art. 29 impugnato.
10. - Il legislatore statale non ha rispettato la competenza
legislativa e finanziaria regionale nemmeno nel dettare l'art. 30 del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, con cui ha sostituito il comma
204 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, del resto gia'
impugnato dalla regione del Veneto.
La disposizione in discorso viola la sfera di autonomia delle
regioni, garantita dalla Costituzione, imponendo il divieto di
assunzioni di personale, a qualsiasi titolo, nel caso di mancato
conseguimento degli obiettivi di risparmio di spesa previsti nel
comma 198 della legge finanziaria per il 2006.
Giova a questo punto ricordare quanto stabilito dal citato comma
198: «le amministrazioni regionali e gli enti locali di cui
all'art. 2, commi 1 e 2, del testo unico di cui al d.lgs. 18 agosto
2000, n. 267, nonche' gli enti del Servizio sanitario nazionale,
fermo restando il conseguimento delle economie di cui all'art. 1,
commi 98 e 107, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, concorrono alla
realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando misure
necessarie a garantire che le spese di personale, al lordo degli
oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, non
superino per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008 il corrispondente
ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1 per cento. A tal fine si
considerano anche le spese per il personale a tempo determinato, con
contratto di collaborazione coordinata e continuativa, o che presta
servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o con
convenzioni».
Tornando alle norme contenute nell'art. 30 del decreto-legge
n. 223 del 2006, esse prevedono, ai fini del monitoraggio e della
verifica degli adempimenti di cui al comma 198, ora ricordato, la
costituzione di un tavolo tecnico con rappresentanti del sistema
delle autonomie designati dai relativi enti esponenziali, del
Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della
Ragioneria generale dello Stato, della Presidenza del Consiglio dei
ministri - Dipartimento della funzione pubblica, della Presidenza del
Consiglio dei ministri - Dipartimento degli affari regionali, con
l'obiettivo di:
«a) acquisire, per il tramite del Ministero dell'economia e
delle finanze, la documentazione da parte degli enti destinatari
della norma, certificata dall'organo di revisione contabile, delle
misure adottate e dei risultati conseguiti;
b) fissare specifici criteri e modalita' operative, anche
campionarie per i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti
e per le comunita' montane con popolazione fino a 50.000 abitanti,
per il monitoraggio e la verifica dell'effettivo conseguimento, da
parte degli enti, dei previsti risparmi di spesa;
c) verificare, sulla base dei criteri e delle modalita'
operative di cui alla lett. b) e della documentazione ricevuta, la
puntuale applicazione della disposizione ed i casi di mancato
adempimento;
d) elaborare analisi e proposte operative dirette al
contenimento strutturale della spesa di personale per gli enti
destinatari del comma 198».
Al comma 2004 della legge finanziaria per il 2006 viene poi
aggiunto un ulteriore comma 204-bis, contenente un obbligo di
comunicazione alla Corte dei conti, e il divieto di assunzione a
qualsiasi titolo in caso di mancato invio della documentazione da
parte degli enti, certificata dall'organo di revisione contabile,
delle misure adottate e dei risultati conseguiti.
Dispone, infatti, il comma 204-bis che «le risultanze delle
operazioni di verifica del tavolo tecnico di cui al comma 204 sono
trasmesse con cadenza annuale, alla Corte dei conti, anche ai fini
del referto sul costo del lavoro pubblico di cui al titolo V del
d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Il mancato invio della documentazione
di cui alla lettera a) del comma 204 da parte degli enti comporta, in
ogni caso, il divieto di assunzione a qualsiasi titolo».
Molte sono le censure che si possono sollevare con riferimento
alle disposizioni contenute nell'art. 30 del decreto-legge impugnato,
che si sono appena riportate.
In tutta evidenza, siamo di fronte a norme contenenti precetti
puntuali e specifici, autoapplicative, che non lasciano alla regione
margini di disposizione in via autonoma, nonostante la materia
rientri nell'ambito del «coordinamento della finanza pubblica» di cui
all'art. 117, comma terzo, Cost., in cui allo Stato spetta solo il
potere di dettare i principi fondamentali e non l'intera disciplina
della materia.
Del resto, codesto ecc.mo Collegio, con la sentenza n. 390 del
2004, ha gia' dichiarato costituzionalmente illegittime analoghe
norme statali contenute nella legge finanziaria 2003.
Senza voler annoiare il Collegio, che certamente ben conosce la
sua giurisprudenza, si ricordera' che nella sentenza ora citata sono
state accolte le censure mosse alle disposizioni di cui al comma 11
dell'art. 34 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (legge finanziaria
2003), con le quali si stabiliva che le assunzioni a tempo
indeterminato delle regioni e degli enti locali, «fatto salvo il
ricorso alle procedure di mobilita', devono, comunque, essere
contenute, fatta eccezione per il personale infermieristico del
Servizio sanitario nazionale, entro percentuali non superiori al 50
per cento delle cessazioni dal servizio verificatesi nel corso
dell'anno 2002».
Nella pronuncia n. 390 del 2004, prima ricordata, codesto ecc.mo
Collegio ha osservato che la norma della legge finanziaria 2003 «non
si limita a fissare un principio di coordinamento della finanza
pubblica, ma pone un precetto specifico e puntuale sull'entita' della
copertura delle vacanze verificatesi nel 2002, imponendo che tale
copertura non sia superiore al 50 per cento: precetto che, proprio
perche' specifico e puntuale e per il suo oggetto, si risolve in una
indebita invasione, da parte della legge statale, dell'area
(organizzazione della propria struttura amministrativa) riservata
alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge
statale puo' prescrivere criteri (...) ed obiettivi (ad esempio,
contenimento della spesa pubblica) ma non imporre nel dettaglio gli
strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi».
Anche la norma impugnata presenta analoghi caratteri di
illegittimita' costituzionale, prevedendo divieti di assunzioni di
personale quale conseguenza del mancato conseguimento degli obiettivi
di risparmio di spesa, che violano l'autonomia regionale in materia
di organizzazione degli uffici, unitamente alla autonomia di spesa,
di cui agli artt. 117, 118 e 119 Cost.
11. - E' costituzionalmente illegittimo - in quanto introduce
norme che incidono sull'autonomia legislativa e finanziaria regionale
- anche l'art. 34, comma 1 del decreto-legge impugnato, recante
«Criteri per i trattamenti accessori massimi e pubblicita' degli
incarichi di consulenza».
La disposizione ora citata aggiunge un ulteriore periodo
all'art. 24, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Quest'ultimo
articolo dispone che con contratto individuale venga stabilito il
trattamento economico fondamentale per gli incarichi di uffici
dirigenziali di livello generale, assumendo come parametri di base i
valori economici massimi contemplati dai contratti collettivi per le
aree dirigenziali, e vengono determinati gli istituti del trattamento
economico accessorio, collegato al livello di responsabilita'
attribuito con l'incarico di funzione ed ai risultati conseguiti
nell'attivita' amministrativa e di gestione, ed i relativi importi.
Il periodo aggiunto dalla norma qui censurata prevede che «con
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il
ministro dell'economia e delle finanze sono stabiliti i criteri per
l'individuazione dei trattamenti accessori massimi, secondo principi
di contenimento della spesa e di uniformita' e perequazione.
Come si puo' comprendere dalla semplice lettura del testo della
disposizione ora richiamata, anche in questo caso siamo di fronte ad
una norma statale in materia di finanza pubblica dal contenuto
specifico, dettagliato e autoapplicativo.
Se pure legittimamente finalizzata al contenimento della spesa
pubblica, la previsione in oggetto non rispetta il dettato degli
artt. 117, comma 3 e 119, perche' non costituisce un principio
fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e non consente
al legislatore regionale di porre in essere alcuna normativa di
dettaglio della materia non solo in via legislativa, ma nemmeno
attraverso una normazione secondaria di mera esecuzione.
Infatti, precedendo una disciplina uniforme posta in essere con
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri si impedisce alle
regioni di stabilire un diverso regime economico dei trattamenti
accessori massimi per gli incarichi di uffici dirigenziali di livello
generale, in relazione alle concrete realta' regionali.
Da quanto si e' esposto nel presente ricorso ritiene la difesa
della regione del Veneto che risulti con chiarezza il mancato
rispetto del dettato costituzionale da parte di tutte le norme del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, impugnate.
P. Q. M.
Si chiede che l'ecc.ma Corte costituzionale vogli dichiarare, nei
termini e nelle proposizioni suindicati, l'illegittimita'
costituzionale degli artt. 2, commi 1 e 3; 3, 5, comma 2; 6, 12,
comma 1; 13, 22, 26, 29, 30, 34, comma 1, del decreto-legge 4 luglio
2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico
e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa
pubblica, nonche' interventi in materia di entrate e di contrasto
all'evasione fiscale», per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117,
118, 119 e 120 della Costituzione.
Si allega deliberazione della giunta regionale del Veneto n. 2555
del 7 agosto 2006, di autorizzazione alla proposizione del ricorso.
Padova-Roma, addi' 31 agosto 2006
Avv. Prof. Mario Bertolissi - Avv. Romano Morra - Avv. Andrea Manzi
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