Ricorso n. 98 del 29 ottobre 2013 (Regione Veneto)
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in
cancelleria il 29 ottobre 2013 (della Regione Veneto) .
(GU n. 49 del 4.12.2013)
Ricorso proposto dalla Regione Veneto (c.f. … - P. IVA
02392630279), in persona del Presidente pro tempore della Giunta
regionale dott. Luca Zaia (c.f. …), a cio' autorizzato
con D.G.R. n. 1827 del 15 ottobre 2013 allegata, rappresentato e
difeso, giusta mandato a margine del presente atto, tanto unitamente
quanto disgiuntamente, dagli avv.ti Ezio Zanon (c.f.
…) coordinatore dell'Avvocatura regionale, Daniela
Palumbo (c.f. …) della Direzione Affari Legislativi e
Andrea Manzi (c.f. ..) del Foro di Roma, con domicilio
eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, Via Confalonieri, n.
5 (per eventuali comunicazioni: fax .., posta elettronica
certificata …);
Nei confronti del Presidente pro tempore del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei
Portoghesi, n. 12, per la dichiarazione di illegittimita'
costituzionale degli articoli 18, comma 9; 41, comma 4 e 56-bis,
comma 11, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 recante
«Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia», nel testo
risultante per effetto della conversione della legge 9 agosto 2013,
n. 98 pubblicata nella G.U. n. 194 del 20 agosto 2013 S.O. n. 63, per
violazione degli artt. 5, 42, 97, 117, 118, 119, della Costituzione,
nonche' del principio di leale collaborazione di cui all'art.120
della Costituzione medesima.
Fatto
Con la legge 9 agosto 2013, n. 98 pubblicata nella G.U. n. 194
del 20 agosto 2013 S.O. n. 63, e' stato convertito in legge il
decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 recante «Disposizioni urgenti per
il rilancio dell'economia».
Il testo della legge di conversione, che e' intervenuto
significativamente sull'assetto normativo del decreto legge, contiene
una pletora di disposizioni simultaneamente incidenti in una
pluralita' di contesti di interesse piu' generale, quali la
semplificazione amministrativa, la digitalizzazione della pubblica
amministrazione, la riprogrammazione di interventi sul territorio,
l'adeguamento infrastrutturale, nonche' le ormai immancabili misure
di contenimento della spesa, ma introduce anche disposizioni
concernenti ambiti di disciplina decisamente puntiformi e di
novellazione parziale, utilizzando ancora una volta la decretazione
d'urgenza quale veicolo di intervento legislativo completamente
avulso da qualsiasi meccanismo di inquadramento sistematico.
Diritto
Proprio nell'assoluta consapevolezza della situazione di
eccezionale gravita' nella quale versa l'Esecutivo statale, tenuto ad
adottare tutte le misure necessarie a conseguire quel rilancio
dell'economia che risulta essere l'obiettivo dichiarato degli
interventi normativi oggetto del presente giudizio, l'impugnazione
delle disposizioni di seguito specificate in riferimento ai
pedissequi parametri puntualmente indicati, risponde unicamente
all'elementare necessita' di applicare rigorosamente i precetti di
rango costituzionale statuiti a tutela di attribuzioni garantite alle
Regioni nei singoli contesti considerati, per consentire un'effettiva
ed attiva partecipazione delle stesse alla realizzazione degli scopi
dell'intervento legislativo.
Conseguentemente, la disamina delle norme impugnate procedera'
partitamente, seguendo l'ordine progressivo degli articoli come
strutturati nel decreto-legge.
Profili di illegittimita' costituzionale dell'articolo 18, comma 9
del d.l. n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98/2013 per violazione
degli articoli 5, 117, 118 e 119 della Costituzione, del principio di
leale collaborazione di cui all'articolo 120 della Costituzione, del
principio di sussidiarieta' di cui all'articolo 118 della
Costituzione e del principio di imparzialita' e buon andamento
sancito dall'articolo 97 della Costituzione.
L'articolo 18, comma 9 prevede la stipula di una convenzione tra
il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l'Associazione
Nazionale dei Comuni Italiani, di seguito ANCI, per l'assegnazione di
finanziamenti statali a favore di interventi realizzati dai Comuni.
In dettaglio l'articolo 18, comma 9 del decreto-legge n. 69/2013
autorizza l'assegnazione di ingenti risorse statali alla
realizzazione di una pluralita' di interventi, da parte delle
Amministrazioni comunali, in quanto ricomprese nel primo Programma
suggestivamente denominato «6000 Campanili». Gli interventi devono
essere muniti di tutti i pareri, autorizzazioni, permessi o
qualsivoglia altro nulla osta, in conformita' alla normativa di
riferimento. La disposizione, quindi, stabilisce i requisiti dei
beneficiari ed i limiti di spesa, nonche' l'importo ammissibile del
contributo per singolo progetto. Le istanze di contributo, inoltre,
per il tramite di ANCI, devono essere presentate al Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, che approva il programma. Proprio in
considerazione di tale frapposizione procedimentale, era stato
stabilito che entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione del decreto, e quindi entro il 20
settembre 2013, con apposita convenzione tra il Ministero competente
ed ANCI fossero disciplinati i criteri per l'ammissibilita' degli
interventi che fanno parte del Programma all'utilizzo delle risorse.
Il legislatore statale in sostanza, avrebbe disposto una
«esternalizzazione» delle funzioni amministrative proprie, perche'
correlate all'assegnazione di contributi statali, conferendole ex
lege ad un organismo rappresentativo dei Comuni. La conseguente,
totale estromissione dell'ente regionale al procedimento
amministrativo, ovviamente statale, di assegnazione delle risorse
certamente statali, tuttavia, e' reputata dal patrocinio regionale
confliggente con gli articoli 5, 117, 118 e 119 della Costituzione
per le ragioni di seguito dettagliatamente argomentate.
Va precisato che la difesa regionale e' consapevole di come,
prima facie, trattandosi di competenza procedimentale e di risorse
finanziarie di spettanza esclusiva statale, senza alcuna
compartecipazione regionale, la posizione regionale possa apparire
del tutto avulsa dal contesto normativo di riferimento, e,
conseguentemente, del tutto priva di qualsivoglia fondamento di
legittimazione a ricorrere, non essendo immediatamente percepibile il
vulnus subito alle proprie attribuzioni costituzionalmente garantite.
Ma non e' cosi' e per comprendere agevolmente le circostanze
generatrici delle lesioni lamentate, si richiama l'attenzione di
codesta Ecc.ma Corte sullo sviluppo della vicenda che ha dato origine
alla disposizione odiernamente censurata, allo scopo di evidenziare,
contestualizzandola, la ratio della medesima, come desumibile dagli
Atti preparatori.
In punto, come indicato nel Dossier Studi della Camera dei
deputati, la norma in commento disciplina una procedura che
coinvolge, per un verso, i Comuni e, per altro verso, il Ministero
competente, analogamente a quanto gia' previsto per il «Piano
nazionale per le citta'» disciplinato dall'articolo 12 del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 convertito, con modificazioni,
con la legge 7 agosto 2012, n. 134. Quest'ultima disposizione, in
vigore dal 12 agosto 2012, ha introdotto nell'ordinamento una
procedura standardizzata di coordinamento interistituzionale,
orientata all'efficientamento finanziario, conseguito mediante la
razionalizzazione delle modalita' di individuazione e realizzazione
degli interventi.
La norma, in realta', contiene la scansione di un meccanismo
piuttosto complesso, che, innanzitutto, impone ai Comuni la
predisposizione di un piano dedicato alla riqualificazione di aree
urbane, avuto particolare riferimento a quelle degradate. Viene,
altresi', istituita una Cabina di regia per la realizzazione del
piano di cui si tratta, alla quale dovrebbero partecipare, tra gli
altri, oltre ai rappresentanti di organismi statali, anche due
rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province
Autonome, un rappresentante dell'Agenzia del Demanio, uno della Cassa
Depositi e Prestiti, nonche' un rappresentante di ANCI. E' stato,
inoltre, previsto che le Amministrazioni comunali strutturino le
proposte di Contratto di valorizzazione urbana, costituite da un
insieme coordinato di interventi, inviandole alla Cabina di regia che
e' tenuta a selezionare le proposte in base agli specifici criteri,
pure indicati nella disposizione medesima. Infine, la stessa Cabina
di regia, che ha il compito di definire gli investimenti attivabili,
sulla base degli apporti e delle risorse conferiti dagli organismi
partecipanti, richiede al Ministero l'accantonamento di tali risorse
in un apposito Fondo finanziario e promuove, d'intesa con il Comune
interessato, la sottoscrizione del Contratto di valorizzazione urbana
che regola i reciproci rapporti tra soggetto finanziatore e soggetto
destinatario del beneficio economico. L'insieme dei Contratti cosi'
sottoscritti integra il Piano nazionale per le citta'. La procedura
sopra descritta ha trovato puntuale attuazione in conformita' ai
dettami normativi, e le proposte delle Amministrazioni comunali sono
state considerate nel decreto dipartimentale n. 1105/2013, che ha
approvato la devoluzione delle risorse disponibili al Fondo citato.
Conseguentemente, i progetti che dovessero superare positivamente
la selezione potranno beneficiarie di un cofinanziamento nazionale
pari a complessivi 318 milioni di euro.
Tale premessa argomentativa, apparentemente estranea al presente
giudizio, e' invece, ad avviso del patrocinio regionale, doverosa,
poiche' risulta del tutto incomprensibile per quale ragione,
diversamente da quanto appena delineato, la norma impugnata, che
regola sostanzialmente una procedura ad effetti analoghi a quella
gia' considerata, sia quanto alla natura degli impegni finanziari,
sia per quanto attiene ai destinatari dei finanziamenti stessi,
escluda radicalmente qualsiasi partecipazione dell'Amministrazione
regionale, che viene invece relegata nel ruolo secondario ed
eventuale di soggetto istituzionale solo incidentalmente suscettibile
di intervento nel singolo procedimento amministrativo, limitatamente
al segmento di competenza esercitabile.
Attesa l'evidente corrispondenza tra le fattispecie oggetto delle
due diverse disposizioni, a tal punto assimilate e legate da un
vincolo di specularita', da porre la questione circa la concreta
compatibilita' e simultanea applicabilita' di entrambe, risulta pero'
del tutto assente, nella norma odiernamente impugnata, la previsione
di percorsi di concertazione istituzionale formale o semplificata,
seppure mediante la partecipazione al procedimento di rappresentanti
della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome.
Per converso, tale norma, travolgendo gli assetti istituzionali
esistenti, investe direttamente ANCI di fondamentali compiti
istituzionali, attribuendole non certo un mero ruolo di «semplice
intermediario» bensi' quello di «codecisore», chiamato a determinare
, in posizione paritetica con il Ministero competente, i criteri di
assegnazione dei finanziamenti.
Rinviando a quanto infra verra' precisato in ordine alla natura
ed agli effetti della partecipazione dell'Associazione al
procedimento, in riferimento specifico alle possibili relazioni
intercorrenti tra le due disposizioni oggetto di comparazione, gia'
negli atti del Servizio Studi presso il Senato era stata prospettata
l'eventualita' di un collegamento funzionale tra le medesime, tanto
evidente da alimentare il dubbio che gli interventi previsti dal
comma 9 dell'articolo 18 del decreto-legge n. 69/2013, benche'
diversamente qualificati e dettagliatamente elencati, fossero i
medesimi dell'articolo 12 del decreto-legge n. 83/2012.
Qualora l'assunto circa la sovrapponibilita' dei due interventi
legislativi dovesse trovare conferma, ne conseguirebbe,
inevitabilmente, la violazione delle prerogative regionali posta in
essere dalla disposizione oggetto del presente giudizio, che,
configurandosi come idonea a destrutturare significativamente
l'impianto normativo e procedimentale posto dall'articolo 12 del
decreto-legge n.83/2012, ne precluderebbe l'esercizio in modo
immotivato e quindi irragionevole. Peraltro, secondo un diverso, pur
possibile, orientamento ermeneutico, potrebbe anche darsi che la
destinazione della somma pari a 100 milioni di euro per l'anno 2014,
come derivante dal Fondo di cui al comma 1 dell'articolo 18 in
argomento ed assegnata con la procedura derogatoria di carattere
finanziario-contabile di cui al comma 2 del medesimo articolo, si
riferisca in realta' ad altri cespiti finanziari, raggranellati in
questa attuale situazione di contingenza economica e di dissesto, per
essere posti a disposizione delle Amministrazioni comunali in
sofferenza finanziaria, con una strutturazione ultronea rispetto a
quella precedente.
Ma l'irragionevolezza dell'estromissione regionale nella
procedura de qua si induce anche dal contenuto del soppresso comma
9-bis del medesimo articolo che originariamente prevedeva appunto una
specifica intesa con la Conferenza Unificata, comprensiva ovviamente
delle Regioni, per definire modalita' e criteri per la prosecuzione
fino al 2020 dei programmi annuali denominati, con letteraria sintesi
evocativa, «6000 Campanili».
Infine, ad ulteriore riprova dell'insopprimibilita' del ruolo
regionale, si osserva che, nel testo del parere formulato in data 11
luglio 2013, la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome,
relativamente al disegno di legge di conversione del decreto-legge 21
giugno 2013 n. 69, aveva subordinato la positivita' del medesimo
all'accoglimento di uno specifico emendamento finalizzato a
sostituire l'intervento di ANCI con la Regione, per consentire alla
stessa la necessaria valutazione della coerenza degli interventi con
gli strumenti di pianificazione regionale. Quest'ultimo dato,
infatti, e' estremamente significativo e conferma l'effettivita'
dell'assunto concernente la sussistenza della competenza regionale,
riferita alla materia di tipo concorrente del «governo del
territorio», ed esercitabile in relazione anche all'attivita'
programmatoria ed amministrativa. Tale attivita', infatti, e'
concretamente realizzabile solo nell'ambito di una corretta rete
informativa e comunicativa degli interventi di utilizzo del
territorio, in un piu' generale contesto di rispetto delle
prerogative istituzionalmente garantite e tutelate dalla Carta
Fondamentale. La disposizione censurata, innegabilmente, enuclea una
serie complessa di opere ontologicamente riconducibili a quell'«uso
del suolo» che, per costante orientamento di codesta ecc.ma Corte e'
ascrivibile proprio alla materia «governo del territorio», ed in
ordine alla quale non soltanto rimarrebbe radicalmente precluso alle
Regioni il corretto esercizio delle proprie funzioni di controllo
pianificatorio, ma verrebbe pregiudicato, soprattutto, l'esercizio
delle competenze legislative e amministrative, precostituendo
situazioni di fatto e di diritto incompatibili con successive
statuizioni.
Ed invero, la verifica dell'osservanza e della conformita' delle
infrastrutture alla pianificazione regionale ed alla normativa
regionale di settore non puo' e non deve essere effettuata ne' dal
Ministero competente ne', a fortiori, da ANCI e tuttavia tale
funzione di verifica e' necessaria ed aggiuntiva rispetto a quella di
mera selezione amministrativa dei progetti da parte dell'organismo
statale di riferimento.
Alle lesioni supra individuate si aggiunge, ad avviso dello
scrivente patrocinio, la violazione del principio di leale
collaborazione di cui all'articolo 120 della Costituzione. Per
pacifica giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte, appare ormai fuor di
dubbio che spetta al legislatore statale determinare, quanto ai
procedimenti di propria competenza, le modalita' di partecipazione
dei vari soggetti istituzionali. Ma, in materia di «governo del
territorio», ove e' radicato l'intreccio delle diverse competenze tra
Stato e Regione, la scelta di escludere l'Amministrazione regionale
da qualsiasi attivita' connessa alla realizzazione degli interventi,
sia essa normativa, pianificatoria, istruttoria o comunque
funzionale-amministrativa, si configura come immediatamente lesiva
della totalita' delle competenze regionali esistenti in materia,
particolarmente se avviene in assenza di un'intesa istituzionale sui
punto, nell'elementare rispetto del principio di leale
collaborazione, che, per le caratteristiche delle misure approvate,
non puo' che essere una concertazione sfociante nell'intesa.
La partecipazione procedimentale, infatti, altro non e' se non la
piu' efficace, celere modalita' di conseguire gli obiettivi
prefissati nell'intervento, qualunque esso sia, contemperando i
diversi interessi e, per cio' stesso, deve essere rispondente al
canone costituzionale della leale cooperazione.
Poiche', come autorevolmente affermato da codesta ecc.ma Corte,
l'impugnativa rappresenta unicamente lo strumento di tutela
disponibile nei confronti di possibili, eventuali prassi applicative
distorsive, perche' non concretamente rispettose della doverosa leale
collaborazione tra Stato e Regioni (cfr. la sentenza n. 6/2004),
l'odierno ricorso sollecita appunto il vaglio di costituzionalita',
in ordine alla disposizione in esame, nel convincimento che la stessa
violi il rispetto delle regole di leale collaborazione che il giudice
delle leggi e' tenuto a tutelare.
La solida consistenza giuridica del principio invocato non
risulterebbe sminuita neppure qualora si ammettesse l'eventualita'
che le cennate funzioni fossero attratte nell'alveo esclusivo della
competenza amministrativa statale, poiche', anche in tal caso, non
verrebbe meno l'obbligatorieta' dell'intesa con gli enti territoriali
gia' titolari di tali funzioni. Si rinvia, al riguardo, alla sentenza
n. 163/2012, con la quale codesta ecc.ma Corte si e' pronunciata a
proposito di finanziamenti di progetti strategici statali, da
realizzare con il concorso delle imprese e degli enti titolari di
reti e impianti di comunicazione, senza lasciare spazio alcuno alla
Regione, sebbene competente in materia di «ordinamento delle
comunicazioni» e «governo del territorio.».
Nel brano della decisione, che si riporta di seguito, sono
inequivocabilmente e dettagliatamente evidenziati tutti i profili
che, delineando il ruolo regionale nelle materie di attribuzione
legislativa concorrente, riaffermano la valenza insopprimibile delle
procedure concertative istituzionali. In tale pronuncia, infatti si
legge che: "Anche in relazione alla normativa ora all'esame di questa
Corte, la chiamata in sussidiarieta' risulta giustificata dalla
necessita' che sia assicurata, nella materia della realizzazione
delle infrastrutture di comunicazione elettronica sull'intero
territorio nazionale, una visione unitaria. Nello stesso tempo,
tuttavia, considerata la rilevanza del progetto strategico di
individuazione degli interventi finalizzati alla realizzazione delle
infrastrutture di telecomunicazione da banda larga ed ultralarga e la
sua diretta incidenza su territorio e quindi sulle relative
competenze regionali, anche in tal caso risulta costituzionalmente
obbligata la previsione di un'intesa fra gli organi statali ed il
sistema delle autonomie territoriali (Conferenza unificata
Stato-Regioni), da un lato, con riguardo alla predisposizione del
predetto progetto strategico, e, dall'altro, con le singole Regioni
che siano, di volta in volta, interessate dagli specifici e concreti
interventi di realizzazione del progetto sul proprio territorio.
Il comma 1 dell'art. 30 del d.l. n. 98 del 2011 e', pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che il
Ministero dello sviluppo economico, con il concorso delle imprese e
gli enti titolari di reti e di impianti di comunicazione elettronica
fissa o mobile, predisponga un progetto strategico, senza una previa
intesa con la Conferenza unificata, in quanto viola il principio di
leale collaborazione,
Del pari illegittima si rivela la disposizione di cui al comma 3
del medesimo art. 30 del citato d.l. n. 98 del 2011, nella parte in
cui non prevede che, ogniqualvolta si provveda a dare realizzazione
concreta sul territorio di una singola Regione a specifici interventi
attuativi del progetto strategico, cio' avvenga sulla base di
un'intesa con la Regione interessata. La Regione puo' essere,
infatti, spogliata della propria capacita' di disciplinare la
funzione amministrativa attratta in sussidiarieta', «a condizione che
cio' si accompagni alla previsione di un'intesa in sede di esercizio
della funzione, con cui poter recuperare un'adeguata autonomia, che
l'ordinamento riserva non gia' al sistema regionale complessivamente
inteso, quanto piuttosto alla specifica Regione che sia stata privata
di un proprio potere (sentenze n. 383 e n. 62 del 2005, n. 6 del 2004
e n. 303 del 2003)».
Per altro aspetto, con modalita' non meno problematiche sotto il
profilo degli assetti ordinamentali, la disciplina interloquita
assegna ad un organismo «terzo ma non imparziale» un segmento del
procedimento amministrativo statale, in violazione dei principi di
sussidiarieta', buon andamento ed imparzialita'.
Il novellato articolo 118 della Costituzione ha elevato al rango
della Carta Fondamentale il principio di sussidiarieta' nella sua
accezione «verticale» in riferimento alla pluralita' di autonomie
territoriali, e nella sua accezione «orizzontale» in connessione alle
relazioni intercorrenti tra il pubblico potere ed i cittadini.
Mentre la prima categoria concettuale concerne la c.d.
«sussidiarieta' istituzionale», che consente il ricorso alle
istituzioni pubbliche di cui al comma primo del medesimo articolo
118, in combinato disposto con l'art. 5, della Costituzione, per
l'esercizio delle funzioni amministrative indicate nel successivo
comma secondo del medesimo articolo; la seconda categoria concettuale
riguarda la c.d. «sussidiarieta' sociale» che consente a forme di
rappresentanza della comunita', singole o associate, lo svolgimento
di attivita' di interesse generale.
Tuttavia, in riferimento alle modalita' attuative del primo di
tali principi, ANCI non rientra tra gli Enti tassativamente indicati
nell'art. 114 della Costituzione e, conseguentemente, non puo' essere
considerato soggetto abilitato ad eventualmente esercitare funzioni
amministrative in attuazione del principio di «sussidiarieta'
verticale» ai sensi degli artt. 5 e 118 della Costituzione, nei
termini anzidetti. Ne consegue che i parametri di costituzionalita'
supra indicati risulterebbero violati, proprio per erronea
applicabilita' del principio medesimo alla fattispecie di cui si
tratta.
Correlativamente, peraltro, quanto alle modalita' attuative del
principio di sussidiarieta' orizzontale, si rileva che, a termini del
quarto comma dell'art. 118 della Costituzione, puo' collaborare con
la pubblica amministrazione qualunque organismo di estrazione
prettamente privatistica, al pari del singolo cittadino, qualora
questi sia in grado di aggregare una formazione sociale qualificabile
come «massa critica» nei confronti dei pubblici poteri, affinche' si
concretizzi la necessaria condizione di rappresentativita' di
interessi collettivi. Ai predetti soggetti non aprioristicamente
preclusa la partecipazione diretta alle decisioni o l'espletamento di
funzioni amministrative destinate al soddisfacimento di bisogni
imputabili alla collettivita'.
Da tale fattispecie, tuttavia, si deve necessariamente escludere,
in riferimento all'ambito applicativo della norma costituzionale,
come interpretata dalla dottrina maggioritaria e da alcune decisioni
di codesta ecc.ma Corte, qualsiasi soggetto, indipendentemente dalla
qualificazione giuridica posseduta ed in conformita' al concetto di
neutralita' proprio del diritto comunitario, che, per ragioni
strutturali o funzionali possa essere identificato come pubblica
amministrazione.
In posizione derogatoria, rispetto all'impostazione esegetica che
precede, si porrebbero alcune categorie quali le autonomie
funzionali, di marcata natura ibrida pubblico-privata, e quindi le
Camere di Commercio, le Universita', le Accademie, le Fondazioni.
Infatti, codesta ecc.ma Corte non ha mancato di enucleare i soggetti
che possono legittimamente esercitare funzioni in posizione di
sussidiarieta' «orizzontale», individuandoli nelle formazioni sociali
quali la famiglia, (cfr. sentenza n. 203/2013); nei soggetti
certificatori accreditati (cfr. sentenza n. 322/2009); persino nelle
fondazioni bancarie (cfr. sentenza n. 301/2003).
Inoltre, va adeguatamente considerato che l'individuazione dei
soggetti legittimati a relazionarsi con l'ente pubblico, oltre che
valutabile in connessione alle singole, concrete fattispecie, deve
essere strettamente correlata al concetto di «interesse generale». Al
riguardo si segnala, quale mero spunto argomentativo, rimesso al
vaglio di codesta ecc.ma Corte, che anche il Consiglio di Stato,
Sezione consultiva per gli atti normativi, nell'adunanza del 25
agosto 2003 n. 1440, con puntuale riferimento alla vicenda fattuale
di accesso diretto delle imprese a fondi statali, conseguita con
l'intermediazione delle Amministrazioni comunali, allude
all'interesse generale come a «qualcosa di piu' e di diverso della
possibilita' dei privati di accedere a fondi pubblici con l'assenso
degli enti locali». E, senza addentrarsi nella complessa e densissima
attivita' speculativa formatasi sul tema e tuttora in corso di
approfondimento anche a livello comunitario, ci si limita ad evocare
la basilare differenzazione, elaborata da parte della dottrina, tra
il concetto di «interesse pubblico», la cui cura e' attribuita ad uno
o piu' enti amministrativi, e la nozione di «interesse del pubblico»
inteso come sineddoche della destinazione obbligatoriamente
collettiva delle attivita', siano esse prestazioni a favore della
cittadinanza o interventi di tutela di beni comuni.
L'inevitabile, sicuramente breve ed inadeguata, premessa teorica
introduce le fortissime perplessita' che la norma odiernamente
impugnata suscita, laddove assegna all'Associazione Nazionale Comuni
Italiani il fondamentale compito di intermediazione nell'ambito del
procedimento amministrativo di competenza prettamente statale di
finanziamento di specifici progetti a favore delle Amministrazioni
comunali.
In estrema sintesi, si tratta di contributi disposti a favore di
enti pubblici erogata mediante l'assenso dell'associazione
rappresentativa dei medesimi beneficiari pubblici.
Poiche', per espressa clausola statutaria, l'Associazione in
argomento e' titolare della rappresentanza istituzionale dei comuni,
delle citta' metropolitane e degli enti di derivazione comunale, la
stessa, per quanto presenti una fisionomia squisitamente privata,
puo' comunque assumere un ruolo istituzionale qualora sia chiamata,
in qualita' di organismo di rappresentanza, ad esprimere gli
interessi propri delle Amministrazioni di appartenenza,
assiomaticamente rappresentative, a propria volta, di una specifica
comunita' locale.
E' evidente, pero', che, mentre per un verso l'Associazione non
puo' essere inclusa nella partizione precisata dall'articolo 114
della Costituzione, laddove indica i soggetti che istituzionalmente
compongono la Repubblica, per altro verso il meccanismo di duplice
rappresentativita' dato dall'essere Associazione, che accorpa gli
enti esponenziali delle comunita' territoriali, ostacola
l'identificabilita' dell'Associazione medesima quale formazione
sociale e la assimila, piuttosto, al concetto di apparato pubblico
nella sua accezione piu' ampia.
Ne consegue che ANCI, nonostante la denominazione, appare
estranea alla nozione di organismo associato per lo svolgimento di
attivita' di interesse generale, e, quindi risulta difficilmente
inquadrabile quale soggetto funzionalmente inseribile in un processo
di sussidiarieta' orizzontale, per di piu' in un procedimento
finalizzato all'erogazione di contributi destinati ad enti pubblici,
seppure esponenziali di interessi di privati cittadini.
Infine, se il concetto di «interesse generale» postula la
sussistenza di un obbligo istituzionale volto a garantire prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali a livello quantomeno
essenziale, fatte salve eventuali forme di maggior tutela, gli
interventi infrastrutturali oggetto della norma impugnata appaiono
difficilmente riconducibili a quelli suscettibili di modalita' di
esercizio da parte di soggetti terzi secondo i canoni tipici nei
quali si estrinseca il principio di sussidiarieta'.
Si richiama nuovamente, solo quale suggestione argomentativa, il
gia' citato parere formulato dal Consiglio di Stato, Sezione
Consultiva per gli atti normativi, nell'adunanza del 25 agosto 2003
n. 1440, nel quale si legge inoltre che «a prescindere dalla qualita'
del soggetto e' comunque certo che la metodica dell'ausilio
finanziario pubblico erogato in ambiti territoriali determinati puo'
essere applicata anche ai fenomeni tipici della sussidiarieta'
orizzontale purche' sussistano tutte le condizioni che implicitamente
sono poste dai precetti (costituzionali e ordinari): sussistenza di
un'attivita' a cura e iniziativa di cittadini, famiglie,
associazioni, comunita' che si riveli adeguata e di interesse
generale, tipicita' della stessa attivita' e sua riferibilita'
esclusiva a quei soggetti, giudizio da parte dell'ente pubblico della
necessita' che il servizio o l'attivita' possano continuare per
beneficio della comunita' di riferimento, erogazione dell 'ausilio
quale forma di concorso per l'implicita utilizzazione dei benefici
dall'intera collettivita', anche politica di riferimento.».
Da ultimo, un accenno alla sussistenza del requisito di
imparzialita' che ANCI, ad avviso dello scrivente patrocinio,
dovrebbe possedere ai fini di un eventuale, legittimo, inserimento
della stessa nella complessa procedura amministrativa sia di
valutazione che di erogazione dei benefici.
A termini dello Statuto, l'Associazione rappresenta una «impresa
non profit» istituita per svolgere attivita' di sostegno, assistenza
tecnica ed erogazione di servizi a favore dei comuni associati che,
corrispettivamente, conferiscono una quota associativa.
Un simile assetto non risulta facilmente conciliabile con la
nozione di «imparzialita'», necessariamente correlata alla
disponibilita' della piu' ampia autonomia da parte del soggetto, in
quanto oggettivamente svincolato da pubblici poteri sia dal punto di
vista organizzativo che finanziario. In realta', per effetto della
norma interloquite, ciascuna Amministrazione comunale, per essere
coadiuvata nella procedura in esame, deve necessariamente associarsi
ad ANCI, poiche' questa, essendo stata individuata ex lege quale
«intermediario», e' divenuta l'unico interlocutore giuridicamente
ammissibile.
Conclusivamente, ad avviso dello scrivente patrocinio, se la
norma censurata interpone ANCI nella libera amministrativa per
l'esercizio di funzioni in posizione di «sussidiarieta' verticale»,
viola gli artt. 5, e 118 della Costituzione; se invece presuppone
l'invocabilita', in capo ad ANCI di una posizione di «sussidiarieta'
orizzontale», determina la lesione degli artt. 117, comma terzo e 118
della Costituzione, atteso che ANCI, sebbene portatrice degli
interessi degli associati, pubblici, conserva una dimensione
privatistica che non consente di identificarla immediatamente e
sicuramente con un ente pubblico e, per di piu', difetta del
requisito della terzieta'.
Ne consegue che il conferimento ad ANCI di tutte le funzioni
specificate nella norma impugnata e' irragionevole nel contesto delle
Amministrazioni pubbliche che compongono il quadro costituzionale
disegnato dall'art. 114 Cost., perche' implica l'assegnazione a tale
Associazione di poteri configgenti con le attribuzioni
costituzionalmente garantite alle Regioni dagli artt. 117, comma
terzo e 118, della Carta Fondamentale. Il ritenuto difetto di
terzieta', in particolare, fonda la lesione dei principi, sanciti
dall'art. 97 della Costituzione, di imparzialita' e buon andamento
che devono sempre connotare l'attivita' amministrativa sin dalla fase
genetica della strutturazione normativa, e poi dei conseguenti
segmenti afferenti l'organizzazione e la gestione dell'attivita'
medesima.
La norma impugnata, per cio' stesso, non solo viola i principi di
sussidiarieta' ed imparzialita', ma si riflette sull'erogazione di
risorse finanziarie a favore dei comuni con modalita' disarmonica
rispetto alla Carta Fondamentale. Conseguentemente, richiamando un
consolidato orientamento di codesta ecc.ma Corte, «la stretta
connessione sussistente tra la spesa di tali enti e l'equilibrio
complessivo della finanza regionale», legittima la Regione del Veneto
a promuovere l'odierno giudizio, in forza delle proprie competenze
legislative e amministrative in materia di «governo del territorio»
(cfr. ex plurimis, v. la sentenza n. 298/2009).
Profili di illegittimita' costituzionale dell'articolo 41, comma 4
del d.l. n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98/2013 per violazione
dell'art. 117 Cost..
L'articolo 41, comma 4 del decreto in esame, interviene a
novellare l'art. 3, comma 1, lettera e.5) del D.P.R. 6 giugno 2001,
n. 380 introducendo un inciso, apparentemente innocuo quanto ad
effetti, riguardante le caratteristiche delle installazioni collocate
all'interno di strutture turistiche ricettive all'aperto.
Il connotato della presunta irrilevanza, quanto alle potesta'
legislative garantite alla Regione dalla Carta Fondamentale, delle
modifiche apportate con la norma interloquita e' un diretto portato
dell'ambito di intervento della disposizione, ovvero il turismo, di
esclusiva attribuzione regionale, non solo per tabulas, avuto
riguardo ai' settori contemplati dai commi secondo e terzo dell'art.
117 della Costituzione, ma anche per costante, pacifica
giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte alla quale si rinvia (v., ex
multis, la decisione n. 75/2012).
Tuttavia, secondo un taglio ermeneutico tutt'affatto differente,
la norma potrebbe essere interpretata nel senso che sarebbe stata
introdotta, attraverso la novellazione del D.P.R. n.380/2001, di
sicura competenza statale, una modifica alla definizione di nuova
costruzione, per la quale, quindi, e' necessario l'ottenimento del
relativo permesso. Altrimenti detto, l'interposizione dell'inciso
«ancorche' siano installati con temporaneo ancoraggio al suolo»,
incluso nel testo dell'art. 3, comma 1, lett. e.5) del decreto
presidenziale menzionato, con riferimento, anche, ai manufatti siti
all'interno delle strutture ricettive all'aperto, pone
necessariamente la questione dell'individuazione certa ed
indiscutibile della corretta perimetrazione dell'ambito oggettivo
della disposizione, in relazione ai profili di competenza legislativa
regionale, in conformita' ai precetti espressi dall'art. 117 della
Costituzione.
Premesso che, in ogni caso, la sola sussistenza di previsioni
normative suscettibili di diverse modalita' applicative, connesse
alle possibili interpretazioni, mina il principio fondamentale di
certezza del diritto, in dettaglio, l'inserimento nel tessuto
ordinamentale di disposizioni foriere di dubbi ermeneutici, non puo'
non riverberarsi sull'effettivo esercizio delle competenze
legislative regionali, con effetti potenzialmente pregiudizievoli
particolarmente in ambiti, quali quelli afferenti la disciplina del
turismo, che sono appunto di attribuzione esclusiva regionale.
In punto, attualmente la lett. e.5) nel comma 1 dell'art. 3, del
decreto in esame, presenta una precisazione, introdotta da una
congiunzione letteraria con valore concessivo, che tecnicamente
sortisce la conseguenza di annoverare, nel contesto degli «interventi
di nuova costruzione», ovvero di trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio diversi da quelli specificati alle lettere
a), b), c) e d) del medesimo articolo, anche l'installazione di
manufatti leggeri, prefabbricati, strutture di qualsiasi genere, non
diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, «ancorche' siano
installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di
strutture ricettive all'aperto, in conformita' alla normativa
regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti».
Una prima questione attiene, dunque, alle circostanze prescritte
ai fini della legittimita' dell'installazione dei beni o manufatti di
cui si tratta. Tali manufatti, attenendosi al dato formale emergente
dal punto specifico del decreto presidenziale disciplinante la
materia edilizia, oggetto di novellazione, potrebbero essere
collocati nelle strutture ricettive a destinazione turistica
solamente previo ottenimento del regolare permesso a costruire. In
altri termini, la congiunzione cennata renderebbe indifferente, ai
fini della normativa applicabile, la circostanza che il manufatto sia
da porsi appunto in dette strutture ricettive, ed abbia subito un
ancoraggio al suolo temporaneo, quale indicatore dell'amovibilita'
dello stesso e, per cio' stesso, in assenza di provvedimenti
concessori o comunque autorizzativi, proprio perche' concernente un
ambito di intervento non ascrivibile alla disciplina edificatoria.
Seguendo un simile orientamento interpretativo, quindi,
indipendentemente dalla materia specifica oggetto di legislazione
regionale, ovvero l'urbanistica o il turismo, la precisazione
contenuta nella norma censurata, poiche' strutturalmente e
funzionalmente idonea ad incidere unicamente sulle caratteristiche
dell'intervento, Io qualificherebbe nuova costruzione, riconducendolo
cosi' nell'alveo della disciplina edificatoria di spettanza statale.
L'ipotesi interpretativa che precede non e' una mera congettura
di genere speculativo e rilevanza squisitamente dottrinale. Infatti,
a prescindere dalle note implicazioni di connotazione penalistica
afferenti le conseguenze dell'abuso edilizio, che peraltro rimangono
estranee al presente giudizio, l'asserzione circa l'equiparazione
alle «nuove costruzioni» anche delle case mobili ed assimilati, per
quanto non incorporati al suolo, trova autorevole conferma in una
recente decisione proprio della giurisprudenza di merito, pronunciata
relativamente ad una fattispecie nella quale si verteva di strutture
abitative mobili, rectius «furgoni attrezzati», che, «pure avendo la
parvenza della mobilita', hanno caratteristiche obiettive di
stabilita' e capacita' di trasformare in modo durevole l'area
occupata» (cfr. Cass.pen., Sez. III, sentenza n. 25015 del 22 giugno
2011).
Ma v'e' di piu'. Un'ulteriore questione, connessa alla
precedente, ma dotata di rilevanza autonoma, riguarda la valenza del
rinvio «alla conformita' alla normativa regionale di settore» che la
disposizione odiernamente censurata presenta e che si configura di
dubbia interpretazione.
Altrimenti detto ed in estrema sintesi, delle due l'una: o la
circostanza che l'installazione delle strutture sia avvenuta in
aderenza alla legislazione approvata da ciascuna Regione e'
irrilevante ai fini della novella di cui si tratta, considerato che
l'attrazione al contesto proprio della legislazione statale in
materia edilizia anche degli anzidetti interventi, li sottrae alla
competenza legislativa regionale, di cui all'art. 117, commi terzo e
quarto Cost., ledendola appunto laddove potrebbe incrinare i
presupposti della potesta' eventualmente, legittimamente esercitata
in riferimento alla disciplina del turismo; oppure, secondo un
diverso approccio ermeneutico, coerente, peraltro, con i contenuti
espressi al riguardo anche dal Dossier Studi del Senato al testo
modificativo, l'inciso integrerebbe una mera, doverosa precisazione,
e la congiunzione ripetutamente considerata, «ancorche'», sarebbe
preordinata, sebbene con tecnica legislativa maldestra, a
salvaguardare espressamente proprio le disposizioni regionali che
gia' avessero disciplinato le modalita' concernenti le summenzionate
installazioni, che, quindi, devono ritenersi escluse de plano
dall'ambito applicativo della novella medesima.
Per quanto specificamente attiene all'ammissibilita' di un simile
motivo di impugnazione, si invoca la sentenza n. 188/2012,
pronunciata da codesta ecc.ma Corte a conferma di un consolidato
orientamento giurisprudenziale nel medesimo senso, con la quale e'
stata affermata la proponibilita', nel giudizio in via principale, di
questioni prospettate con finalita' interpretative, «laddove si
deduca l'illegittimita' della norma estrapolabile dalla disposizione
oggetto di ricorso mediante processo esegetico e nel caso in cui
simile operazione non sia implausibile e irragionevolmente scollegata
dal testo di detta disposizione» (cfr., anche le sentenze nn.
249/2005, 88/2007 e l'ordinanza n. 342/2009).
Il patrocinio regionale, quindi, preferisce affrontare
l'eventualita' di una sentenza interpretativa di rigetto, emessa in
quanto viene riconosciuto erroneo od infondato un presupposto
interpretativo (V. ex plurimis le decisioni nn. 234, 241, 259, 299,
tutte del 2012), purche' venga conseguentemente riaffermata la
correttezza di un'opzione ermeneutica fondante la legittimita' di
possibili interventi legislativi regionali in materia (v. la sentenza
n. 16/2012).
Profili di illegittimita' costituzionale dell'articolo 56-bis, comma
11 del d.l. n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98/2013 per
violazione degli articoli 42, 117 e 119 della Costituzione.
L'articolo 56-bis, comma 11, del decreto in esame, ha modificato
la disciplina delle modalita' di trasferimento dei beni demaniali,
ponendo un vincolo di destinazione, a favore del Fondo per
l'ammortamento dei titoli di Stato, su una quota dei proventi
derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare originario
dell'ente.
In punto, la norma impugnata disciplina nuovamente il
procedimento amministrativo finalizzato al trasferimento in
proprieta', a titolo non oneroso, a comuni, province, citta'
metropolitane e regioni, dei beni immobili di cui all'articolo 5,
comma 1, lettera e), e comma 4 del decreto legislativo 28 maggio
2010, n. 85 «Attribuzione a comuni, province, citta' metropolitane e
regioni di un proprio patrimonio.» siti nel rispettivo territorio. Si
tratta dei beni immobili dello Stato, diversi da quelli
tassativamente elencati nelle lettere precedenti del medesimo comma 1
dell'articolo 5, nonche' dei beni immobili in uso al Ministero della
difesa e non utilizzati per le funzioni di difesa e sicurezza
nazionale. La disposizione, peraltro alquanto complessa articolandosi
in 13 commi, viene sottoposta al vaglio di codesta ecc.ma Corte con
riferimento specifico al comma 11 che si riporta di seguito per
comodita' di lettura: «In considerazione dell'eccezionalita' della
situazione economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di
riduzione del debito pubblico, al fine di contribuire alla
stabilizzazione finanziaria e promuovere iniziative volte allo
sviluppo economico e alla coesione sociale, e' altresi' destinato al
Fondo per l'ammortamento dei titoli di stato, con le modalita' di cui
al comma 5 dell'articolo 9 del decreto legislativo 28 maggio 2010, n.
85, il 10 per cento delle risorse nette derivanti dall'alienazione
dell'originario patrimonio immobiliare disponibile degli enti
territoriali, salvo che una percentuale uguale o maggiore non sia
destinata per legge alla riduzione del debito del medesimo ente, Per
la parte non destinata al Fondo per l'ammortamento dei titoli di
Stato, resta fermo quanto disposto dal comma 443 dell'articolo 1
della legge 24 dicembre 2012, n. 228.».
In sostanza, una quota dei proventi derivanti dall'alienazione
del patrimonio originario immobiliare disponibile dell'ente
territoriale viene assoggettata ad un vincolo di destinazione, a
favore di un Fondo statale.
Tale allocazione obbligatoria di risorse finanziarie, oltretutto,
avviene secondo un ordine di priorita' pure precisato dalla norma.
Innanzitutto, i proventi derivanti dall'alienazione devono essere
utilizzati per ridurre il debito dell'ente proprietario del bene
immobile oggetto di dismissione. Quindi, una quota pari al 10 per
cento del ricavato deve essere destinata al Fondo per l'ammortamento
dei titoli di Stato. Infine, l'ente territoriale destina l'eventuale
quota residuale esclusivamente alla copertura delle spese di
investimento ai sensi del comma 6 del decreto legislativo 18 agosto
2000, n. 267 che, in ogni caso, trova applicazione solo per gli enti
locali e non per le Regioni.
Orbene, le censure oggetto dell'odierno giudizio riguardano
essenzialmente l'ambito oggettivo della disposizione, ovvero
l'identificazione dei beni suscettibili di dismissione ed individuati
nel patrimonio originario immobiliare disponibile dell'ente
territoriale.
Per quanto concerne il patrimonio regionale, si tratta dei beni
di proprieta' della Regione diversi da quelli attribuiti dallo Stato
ai sensi della procedura delineata nell'articolo 56-bis e quindi, in
sostanza, il patrimonio acquisito ex art. 11 della legge 16 maggio
1970, n. 281, rubricato «Provvedimenti finanziari per l'attuazione
delle Regioni a statuto ordinario» che rappresenta la c.d. «legge
attributiva del patrimonio» di cui al comma sesto dell'articolo 119
della Costituzione.
Conseguentemente, oggetto di vendita, rectius dismissione, e' un
bene gia' appartenente al patrimonio regionale sin dalla costituzione
dello stesso e, si ribadisce, non attribuito dallo Stato ai sensi del
decreto legislativo n. 85/2010.
Premesso che non puo' non condividersi in termini di legittimita'
dell'intervento l'ordine di priorita' indicato nella nonna che impone
quale destinazione prioritaria dei proventi la riduzione del debito
pubblico di pertinenza, consentendo solo per la parte eccedente la
copertura di spese di investimento, cio' che integra la lamentata
violazione delle prerogative regionali e' proprio il contestuale
obbligo di destinare una quota dei propri proventi ad un Fondo
statale.
Un analogo, quanto a modalita' di destinazione ripartita,
intervento legislativo era stato gia' vagliato da codesta ecc.ma
Corte con la decisione n. 205/2013. In tale occasione la scelta di
allocare le risorse per la riduzione del debito dell'ente
proprietario del bene dismesso e' stata «correttamente» motivata
dalla eccezionale emergenza finanziaria che il Paese sta
attraversando, ma nel contempo e' stata riaffermata, altresi', la
particolarissima connotazione della norma ivi considerata che, in
quanto afferente la politica economica nazionale, si configurava
quale espressione del perseguimento di un obiettivo di interesse
generale in un quadro di necessario concorso, anche delle autonomie,
al risanamento della finanza pubblica.
Dato per assunto che il vincolo alla riduzione del debito del
singolo ente territoriale e' ascrivibile al principio fondamentale
nella materia, di competenza concorrente, del coordinamento della
finanza pubblica, relativamente alla fattispecie dedotta nel giudizio
di cui si tratta, la compressione inferta all'autonomia
amministrativa regionale e' stata ritenuta accettabile da codesta
ecc.ma Corte, in quanto reputata «quasi inevitabile» per far fronte
alla contingente emergenza finanziaria.
Seguendo un analogo percorso argomentativo, il principio
fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, di cui al comma
sesto dell'articolo 119 Cost., trova una naturale declinazione nella
legislazione regolante la contabilita' pubblica, laddove consente che
la quota eccedente la copertura del debito pubblico di pertinenza
possa essere destinata a spese di investimento, con cio' lasciando
inalterato l'assetto istituzionale.
La limitazione apportata alla liberta' finanziaria regionale
trovava legittimazione, a giudizio di codesta ecc.ma Corte, nella
necessita' indifferibile di scongiurare l'eventualita' che, per
effetto di un esercizio inconsapevole o distorto dell'autonomia
finanziaria regionale, potessero rigenerarsi condizioni di
indebitamento tali da vanificare il ripianamento appena conseguito in
una spirale inarrestabile, a detrimento della fondamentale e suprema
esigenza nazionale di risanamento della finanza pubblica.
L'intervento legislativo oggetto del presente giudizio, tuttavia,
appare difficilmente riconducibile al contesto normativo gia'
ritenuto ammissibile da codesta ecc.ma Corte, nella parte in cui
impone un ulteriore vincolo di destinazione a favore di un Fondo
statale, in una collocazione ordinativa interposta tra la quota
vincolata alla riduzione del debito e quella, eventuale e residuale,
destinabile alle spese di investimento, proprie dell'ente obbligato.
Ed invero, se e' legittimo ed indiscutibile, oltre che logico,
che un ente territoriale sia tenuto a destinare quote dei proventi
ricavabili dalla dismissione dei «propri» beni pubblici a coprire il
«proprio» debito e le «proprie» spese di investimento, non
altrettanto puo' dirsi per la destinazione di tali proventi ad un
fondo di spettanza statale, disposta non meno obbligatoriamente,
anzi, prioritaria rispetto alle spese di investimento dell'ente
medesimo, indipendentemente dalla necessarieta' o meno delle stesse.
Il patrocinio regionale dubita che in tale fattispecie sia
ravvisabile un'ipotesi di concorso al conseguimento di un obiettivo
di finanza pubblica, trattandosi, piuttosto, una sorta di «intervento
speciale» imposto agli enti territoriali in ausilio allo Stato per
esigenze di solidarieta' finanziaria, quasi si trattasse di una forma
di compartecipazione al contrario, a favore dello Stato, non
contemplata dall'articolo 119 della Costituzione e come tale
illegittima.
Non puo' invocarsi, al riguardo, quale ricorrente, insuperabile
giustificazione per conseguire l'agognata stabilizzazione finanziaria
nazionale, rapportata alle esigenze prioritarie di riduzione del
debito pubblico, ed a sostegno di qualsiasi azione incidente
nell'assetto ordinamentale delineato dalla Carta Fondamentale,
l'eccezionalita' della situazione economica, che pare cosi
consolidata da connotarsi come strutturale. Al riguardo, codesta
ecc.ma Corte non ha mancato di censurare approcci argomentativi di
tale tenore, a proposito del contenzioso vertente su di una
fattispecie chiaramente assimilabile a quella in esame. Infatti nel
giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 66, comma 9,
secondo periodo, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 convertito,
con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 promosso,
peraltro, dall'odierna ricorrente, il punto 1) del dispositivo della
decisione n. 63/2013 dichiara l'illegittimita' della norma ivi
vagliata nella parte in cui prevede che gli enti territoriali, in
assenza di debito pubblico, o per la parte eventualmente eccedente il
ripianamento dello stesso, debbano destinare le risorse derivanti
delle operazioni di dismissione ad un Fondo per l'ammortamento dei
titoli di Stato. In quell'occasione codesta ecc.ma Corte ha
palesemente riconosciuto «l'indebita ingerenza nell'autonomia della
Regione» secondo una sequenza motivazionale che ci si permette di
riassumere brevemente.
Nella fattispecie trattata, la questione riguardava la
dismissione di terreni demaniali agricoli ed a vocazione agricola e,
a giudizio di codesta ecc.ma Corte, il vulnus perpetrato al principio
dell'autonomia finanziaria regionale traeva appunto origine dalla
previsione di un'illegittima appropriazione, da parte dello Stato, di
risorse appartenenti agli enti territoriali, perche' realizzate
attraverso la dismissione di beni di loro proprieta'. In altri
termini, e' stata censurata la sottrazione, da parte dello Stato, di
risorse finanziarie proprie della Regione, in pregiudizio
all'assolvimento dei compiti istituzionali che gli enti territoriali
sono chiamati a svolgere, cosi' violando i precetti di cui agli
articoli 117 e 119 della Costituzione. D'altro canto, l'autonomia
finanziaria consacrata nell'articolo 119 della Costituzione e'
finalizzata a garantire quella consistenza patrimoniale adeguata al
finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite agli enti
territoriali medesimi secondo un principio di autosufficienza. La
sottrazione di tali risorse per il ripianamento del debito nazionale
costituisce, quindi, una spoliazione a detrimento del regolare
esercizio della potesta' sia legislativa che amministrativa
regionale. Se, dunque, e' stata gia' dichiarata illegittima ed
irragionevole la sottrazione di risorse finanziarie per esigenze di
risanamento economico nazionale, in quanto ultronea al principio
fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, la consueta
motivazione leggibile nella prima parte della disposizione impugnata,
invocante i noti principi di coordinamento della finanza pubblica,
ormai degradata a mera clausola di stile, appare alla difesa
regionale radicalmente priva di fondamento e, quindi, inutiliter
data. Per altro aspetto, anche l'ulteriore e diverso riferimento
espresso nell'incipit della disposizione interloquita in questa sede,
laddove evoca la promozione di «iniziative volte allo sviluppo
economico e alla coesione sociale» non permette di superare il vizio
di incostituzionalita' eccepito. Infatti, la promozione dello
sviluppo economico e la coesione sociale, indicate a sovrabbondante
giustificazione della sottrazione in argomento, pare del tutto avulsa
anche dal comma quinto dell'articolo 119 della Costituzione.
Quest'ultimo, per l'appunto, contempla tali finalita' quali
fondamenti costituzionali dell'istituibilita' di Fondi statali
concernenti «risorse aggiuntive statali» e «interventi speciali
statali» in favore degli enti territoriali e non puo' fondare, come
presenta la struttura della disposizione in argomento, la soluzione
inversa, cioe', sostanzialmente, la costituzione di Fondi statali
implementati da «risorse aggiuntive territoriali» e «interventi
speciali degli enti territoriali».
Da ultimo, un breve cenno ai profili afferenti la ritenuta
violazione dell'articolo 42 della Costituzione relativo alla
proprieta' pubblica degli enti dello Stato. Come gia' reiteratamente
asserito, la disposizione, indiscutibilmente, si riferisce a beni
originariamente di proprieta' degli enti territoriali e, quindi, i
proventi derivanti dalle operazioni di alienazione sono
inequivocabilmente di spettanza esclusiva dell'ente proprietario,
senza alcuna possibilita' di ravvisare posizioni pretensive statali
su tali cespiti. Per correttamente evidenziare la modalita',
surrettizia, con la quale, il canone costituzionale si intende leso,
la difesa regionale richiama l'attenzione di codesta ecc.ma Corte sul
netto distinguo che connota la disposizione oggetto del presente
giudizio rispetto alla previsione di cui al comma 5 dell'articolo 9
del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, al quale, peraltro, la
norma interloquita espressamente rinvia per quanto riguarda le
modalita' attuative della contestata destinazione. La disposizione da
ultimo citata prevede che le risorse derivanti a ciascuna Regione
dall'eventuale alienazione degli immobili del patrimonio disponibile
loro attribuito ai sensi del presente decreto, e quindi trasferiti
dallo Stato, siano destinate alla riduzione del debito dell'ente;
solo in assenza del debito, o comunque per la parte eccedente il
ripianamento dello stesso, a spese di investimento ed infine, per una
quota pari al 25 per cento, al Fondo per l'ammortamento dei titoli di
Stato. Correlativamente, e' stato stabilito che con successivo
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri siano definite le
modalita' di applicazione. Le fattispecie di cui al decreto
legislativo n. 85/2010 sono incentrate su beni di proprieta' dello
Stato e successivamente trasferiti agli enti territoriali secondo la
procedura dettagliatamente delineata, da ultimo, dai commi da 1 a 10
nell'articolo 56 bis del decreto-legge n. 69 del 2013 limitatamente
ad una determinata categoria di beni statali. Si sottolinea, sul
punto, che la Regione del Veneto non contesta il comma 10
dell'articolo 56-bis, del decreto de quo, che, peraltro, riproduce
integralmente il comma 5 dell'articolo 9 del decreto legislativo n.
85/2010 riguardante l'alienazione degli immobili trasferiti appunto
ai sensi dell'articolo 56-bis. L'odierno patrocinio impugna il comma
11, del medesimo articolo, proprio perche' inserisce, in un contesto
normativo pacificamente applicabile ai soli beni statali trasferiti
alle autonomie territoriali, una «disposizione spuria», concernente
beni propri delle autonomie territoriali, estendendo palesemente ed
illegittimamente il medesimo ordine di priorita' di destinazione
delle risorse, specificamente previsto per tali beni, all'alienazione
dell'originario patrimonio immobiliare disponibile degli enti. In
conclusione, la disposizione censurata scardina il concetto di
proprieta' di cui all'articolo 42 della Costituzione a causa della
lamentata ed inammissibile estensione oggettiva del regime valevole
per taluni beni, oggetto di successivo conferimento, ad altri beni,
naturalmente sottratti a detto regime, strutturando una modalita' di
flussi finanziari, dall'ente territoriale allo Stato, in palese,
ingiustificabile contraddizione con l'impianto normativo delineato
dall'articolo 119 della Costituzione, nonche' in aperta violazione
del giudicato di codesta ecc.ma Corte di cui alla sentenza n.
63/2013.
Per tutto quanto sopra esposto e con riserva di ulteriormente
dedurre ed argomentare con memoria aggiuntiva da depositare in
prossimita' dell'udienza di discussione, la Regione del Veneto ut
supra rappresentata e difesa,
P.Q.M.
Chiede:
1) che codesta ecc.ma Corte, respinta ogni contraria istanza,
voglia accogliere il suesteso ricorso e, per l'effetto, dichiari
l'illegittimita' costituzionale degli articoli 18, comma 9, 41, comma
4 e 56-bis, comma 11 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 recante
«Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia», convertito
dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, per violazione degli artt. 5, 42,
97, 117, 118, 119, della Costituzione, nonche' del principio di leale
collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione medesima;
2) in via meramente subordinata, voglia pronunciarsi in
ordine all'interpretazione corretta da attribuire al disposto
dell'art. 41, comma 4 del decreto in argomento, limitatamente
all'inciso di novellazione, ribadendo, per l'effetto, la potesta'
normativa regionale in ordine alla disciplina dell'installazione dei
manufatti di cui all'art. 1, comma 3, lettera e.5) del D.P.R. n. 380
del 2001.
Si deposita copia conforme all'originale della D.G.R. n. 1827 del
15 ottobre 2013 di autorizzazione alla proposizione del ricorso e
affidamento dell'incarico di patrocinio per la difesa regionale.
Venezia-Roma, addi' 16 ottobre 2013
Avv. Zanon - avv. Palumbo - avv. Manzi