R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Sent. N. 5117/2004

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I, composto dai Signori:
1) dott. Corrado Calabrò Presidente
2) dott. Nicola Gaviano Consigliere relatore
3) dott. Alberto di Nezza Referendario
sul ricorso
n. 117/2004 Reg. Gen., proposto dalla Federazione dei Verdi, in persona del legale rappresentante p.t. on. Alfonso Pecoraro Scanio, rappresentata e difesa dagli avv.ti Vincenzo Cerulli Irelli, Maria Athena Lorizio, Luca De Lucia e Corrado Giuliano,
contro
-il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (C.I.P.E.), la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i Ministeri dell’Economia e delle Finanze, delle Infrastrutture e dei Trasporti, dell’Ambiente e della Tutela del Territorio nonché per i Beni e le Attività Culturali, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t.;
la Regione Sicilia, in persona del Presidente della G.R. p.t.;
l’Azienda Nazionale delle Strade s.p.a. – A.N.A.S., in persona del legale rappresentante p.t.:
tutti rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato;
- la Regione Calabria, in persona del Presidente della G.R. p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Scalzi;
-il Comune di Villa San Giovanni, in persona del sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv.ti Attilio Cotroneo, Vito Crimi e Giuseppina Caminiti;
-il Comune di Messina, in persona del sindaco p.t., n.c.;
- la società Rete Ferroviaria Italiana s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Stefano Vinti;
- la società Stretto di Messina s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Angelo Clarizia, Benedetto Giovanni Carbone e Piero D’Amelio;
e nei confronti
della Società Fintecna s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difeso dagli avv.ti Stefano Vinti e Salvatore Alberto Romano
per l'annullamento
1. del provvedimento del CIPE n. 066 del 1° agosto 2003, successivamente conosciuto, con il quale “ai sensi e per gli effetti dell’art. 3 del decreto legislativo n. 190/2002 e della legge n. 1158/1971, come modificata ed integrata dal decreto legislativo n. 114/2003, è approvato, con le prescrizioni proposte dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nell’allegato che forma parte integrante della presente delibera, il progetto preliminare del “Ponte sullo Stretto di Messina"; ivi compreso l’allegato foglio di condizioni dettate dal Ministero delle Infrastrutture e Trasporti;
2. della proposta di parere di valutazione di impatto ambientale, formulata in data 20 giugno 2003 dalla Commissione speciale di VIA, relativamente al progetto preliminare di “Ponte sullo Stretto di Messina”;
3. dei pareri resi dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nell’ambito della procedura di valutazione di impatto ambientale e di approvazione del suddetto progetto preliminare, e, in particolare, della nota di trasmissione del parere di VIA da parte del Ministro per i Beni e le Attività Culturali al Ministero delle Infrastrutture e Trasporti in data 29 luglio 2003;
4. dei pareri e delle intese resi dalla Regione Calabria in ordine all’approvazione e localizzazione del predetto progetto preliminare; in particolare, della nota del Presidente della Giunta regionale del 31 luglio 2003 di consenso alla localizzazione dell’opera, della nota del dirigente generale preposto all’assessorato all’urbanistica della Regione del 30 luglio 2003, nonchè della relazione istruttoria del 28 luglio 2003 sulla stessa localizzazione;
5. dei pareri e delle intese resi dalla Regione Sicilia in ordine all’approvazione e localizzazione del progetto preliminare;
6. della delibera del CIPE del 21 dicembre 2001, n. 121/01, di approvazione del primo programma strategico di opere;
7. di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale a quelli indicati.
VISTO il ricorso ed i relativi allegati;
VISTI gli atti di costituzione in giudizio delle amministrazioni e degli altri soggetti intimati;
VISTE le memorie presentate dalle parti a sostegno delle loro rispettive difese;
VISTI gli atti tutti di causa;
UDITI alla pubblica udienza dell’11\2\2004 il relatore ed altresì gli avv.ti V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, C. Giuliano, G. Caminiti, V. Crimi, M. Sanino su delega di F. Scalzi, B.G. Carbone, A. Clarizia, P. d’Amelio, S. Vinti, S.A. Romano, e l’avv. dello Stato Criscuoli;
RITENUTO e CONSIDERATO in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O e D I R I T T O
Con il ricorso in esame, ritualmente notificato e depositato, la Federazione dei Verdi impugnava il provvedimento di approvazione del progetto preliminare del ponte sullo Stretto di Messina (delibera CIPE 1° agosto 2003 n. 066), unitamente agli atti del relativo procedimento individuati in epigrafe.
A fondamento dell’impugnativa venivano introdotti diciotto motivi di gravame (che saranno analiticamente esaminati in prosieguo), alcuni dei quali trovavano ulteriore sviluppo in memorie depositate il 5 e l’11\2\2004, con cui si insisteva per l’accoglimento del ricorso.
Si costituiva in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato in resistenza al gravame per il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (C.I.P.E.), la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i Ministeri dell’Economia e delle Finanze, delle Infrastrutture e dei Trasporti, dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, per i Beni e le Attività Culturali, ed anche per la Regione Sicilia e per l’Azienda Nazionale delle Strade s.p.a. – A.N.A.S.. La difesa erariale con la propria memoria eccepiva alcuni profili di parziale inammissibilità del ricorso e ne deduceva l’infondatezza nel merito.
In opposizione all’impugnativa si costituivano altresì la Regione Calabria e le società Fintecna, Stretto di Messina e Rete Ferroviaria Italiana; quest’ultima, in particolare, allegava una memoria di resistenza al ricorso con la quale ne eccepiva degli aspetti di inammissibilità e, comunque, l’infondatezza nel merito.
Si costituiva in giudizio anche il comune di Villa San Giovanni, che per converso aderiva alle censure della ricorrente, argomentando a loro sostegno, e concludeva per l’accoglimento del gravame.
In prossimità della pubblica udienza dell’11\2\2004 la parte ricorrente presentava una richiesta di rinvio della trattazione della causa, al fine di attendere la decisione del Consiglio di Stato sulle istanze per regolamento di competenza presentate nell’ambito di analoghi giudizi impugnatori che erano stati proposti da altri soggetti dinanzi al T.A.R. della Calabria e della Sicilia. Alla richiesta si opponevano le resistenti difese.
All’udienza stabilita, esauritasi la discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.
1 Il Tribunale osserva in via preliminare, in relazione all’istanza di rinvio appena detta, di non ravvisare ragioni per dubitare della propria competenza a conoscere dell’impugnativa, competenza che del resto nella presente causa è incontroversa. In presenza, invero, di una norma di legge che qualifica “il collegamento stabile viario e ferroviario … tra la Sicilia e il continente" quale “opera di preminente interesse nazionale" (art. 4 legge n. 1158 del 17\12\1971, come sostituito dall’art. 2 del d.lgs. n. 114 del 24\4\2003), gli effetti degli atti oggetto di gravame non possono essere considerati ristretti all’area geografica dello Stretto –che già di per sé, peraltro, interessa allo stesso modo due regioni-, ma trascendono tale ambito, chiamando in causa interessi del Paese nella sua interezza ed unità.
Tanto opportunamente premesso, la richiesta di rinvio sottoposta al Tribunale contrasta con la lettera e lo spirito acceleratorio delle norme in materia processuale dettate dall’art. 14 del d.lgs. n. 190 del 20\8\2002, a norma del quale “Nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa che comunque riguardino le procedure di progettazione, approvazione e realizzazione delle infrastrutture ed insediamenti produttivi e relative attività di espropriazione … : a) l’udienza di merito del ricorso non richiede la domanda di fissazione ed avviene non più tardi del quarantacinquesimo giorno dalla data di deposito dello stesso presso la segreteria del giudice competente". Questa previsione non permette, infatti, dilazioni ispirate a mera opportunità, ma potrebbe tollerarne, al più, unicamente se motivate da ragioni di necessità.
Poiché, quindi, il ricorso deve essere deciso senza differimenti, ne consegue che la richiesta di rinvio non può essere accolta.
2 Il ricorso è infondato.
Prima di avviare la disamina del merito della causa occorre, peraltro, intrattenersi su alcune eccezioni in rito.
3 La difesa erariale ha eccepito rispetto a vari motivi di gravame il difetto di interesse e di legittimazione attiva di parte ricorrente.
Anche ammettendo -è stato detto- che le associazioni ricorrenti siano portatrici di interessi diffusi alla tutela dell’ambiente, rivolti sostanziamente ad evitare l’esecuzione di un’opera pubblica in quanto implicante problematiche di impatto ambientale, in ogni caso l’interesse a sostegno della formulazione di alcune particolari censure, attinenti più strettamente alle modalità dell’esecuzione dell’opera, fuoriuscirebbe dall’ambito degli interessi prima citati. Di tale specifico interesse, perciò, le ricorrenti non potrebbero essere ritenute titolari (memoria erariale, pagg. 49, 55 e 57, a proposito dei motivi undicesimo, quindicesimo e sedicesimo).
L’eccezione è priva di pregio.
La giurisprudenza, se per un verso indubbiamente ha enunciato il principio che le associazioni ambientalistiche riconosciute sono legittimate ad agire in giudizio per far valere interessi diffusi, in forza dell’art. 18 della legge n. 349 dell’8\7\1986, solo in quanto sia in questione la contestazione di provvedimenti idonei a pregiudicare il bene dell’ambiente nella sua qualificazione giuridica di diritto positivo, escludendo l’impugnabilità da parte loro degli atti che abbiano una valenza meramente urbanistica o comunque priva di ricadute su valori ambientali in senso stretto (cfr., tra l’altro, C.d.S., IV, n. 223 del 28\2\1992 e n. 3878 dell’11\7\2001), ha anche riconosciuto, però, che all’interno di questo ambito di legittimazione a ricorrere non possono esistere limiti quanto alle censure deducibili, nel senso che le stesse associazioni possono proporre, oltre che doglianze attinenti alla violazione delle norme poste proprio a salvaguardia dell’ambiente, anche motivi riflettenti interessi pubblici di diversa natura, sempre che strumentalmente idonei a procurare l’annullamento del provvedimento impugnato (C.d.S., IV, n. 181 del 13\3\1991; VI, n. 754 del 18\7\1995).
E questa soluzione, ad avviso della Sezione, si impone (in disparte la pur non trascurabile difficoltà di distinguere con sicurezza tra le doglianze dirette alla tutela ambientale e quelle, invece, prive di tale nota), sia per la sua coerenza con il consolidato principio della sufficienza degli interessi a ricorrere di tipo anche solo strumentale, sia alla luce del disposto dell’art. 113 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che la tutela giurisdizionale “non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione".
Questa prima eccezione deve perciò essere respinta.
4 Le resistenti difese hanno eccepito, inoltre, l’inammissibilità di tutte le censure mosse da parte ricorrente aventi ad oggetto la mancata valutazione della c.d. “alternativa zero” , vale a dire la possibilità di evitare la realizzazione del ponte sullo Stretto addivenendo a soluzioni alternative, senza nuovi manufatti.
4a Secondo le tesi svolte in ricorso, l’incidenza ambientale irreversibile del ponte avrebbe dovuto indurre a valutare attentamente anche la possibilità di escluderne la realizzazione a vantaggio della naturale alternativa di un semplice potenziamento dei sistemi di traghettamento marittimo. Nella stessa direzione spingerebbero l’asserito sovradimensionamento della struttura rispetto alle effettive esigenze di mobilità da soddisfare, e l’effetto di riduzione dell’occupazione e dello sviluppo economico nel periodo medio-lungo che sarebbe proprio della soluzione oggetto di contestazione.
In sintesi, dunque, con il ricorso ci si duole della omessa valutazione, in un’ottica comparativa, delle positive implicazioni ambientali ed economiche dell’alternativa consistente nel non realizzare il ponte.
4b Di simili censure è stata eccepita l’inammissibilità da molteplici angolazioni.
E’ stato opposto che esse avrebbero la pretesa di incidere su valutazioni e decisioni attinenti ad indirizzi generali di politica sociale ed economica, trascendenti l’ambito della discrezionalità amministrativa ed aventi natura politica. Risalendo la scelta di realizzare il ponte ad un atto legislativo, essa non potrebbe essere sindacata alla stregua di una ordinaria scelta amministrativa, ma sarebbe incensurabile nelle sedi giurisdizionali.
E’ stato poi rilevato che, dal momento che è stato lo stesso legislatore a dichiarare la realizzazione dell’opera “di preminente interesse nazionale”, nulla sarebbe contestabile all’Amministrazione per avere omesso di ponderare la c.d. opzione zero, ossia la possibilità di non realizzare l’ “opera di preminente interesse nazionale” continuando indefinitamente ad avvalersi dei servizi di traghettamento. Tale opzione, infatti, potrebbe essere resa possibile solo dalla noncuranza per l’esistenza del detto dato legislativo, e avrebbe oggettivamente l’effetto di vanificarlo.
Infine, è stato eccepito, in via subordinata, che il momento idoneo per far valere ogni doglianza relativa alla mancata valutazione della c.d. opzione zero avrebbe dovuto essere, a tutto concedere, quello di una tempestiva impugnazione della delibera CIPE n. 121\2001 (recante l’approvazione del programma delle infrastrutture a carattere strategico e di preminente interesse nazionale, nel quale veniva incluso il ponte), e non quello della successiva delibera di approvazione del progetto preliminare. E’ con la delibera n. 121 che la scelta del collegamento stabile avrebbe ottenuto recepimento a livello amministrativo, con la correlativa esclusione dell’alternativa zero: e tale provvedimento, consolidando questa impostazione, sarebbe già stato direttamente lesivo degli interessi contrari alla scelta di realizzare il ponte. Sicché tutte le censure concernenti la mancata valutazione dell’opzione zero sarebbero irrimediabilmente tardive.
4c Osserva in primo luogo il Tribunale che questa eccezione di tardività è priva di pregio. Se è vero che è stato con la delibera CIPE n. 121\2001 che la scelta legislativa del collegamento stabile tra la Sicilia ed il continente ha cominciato a trovare attuazione in sede amministrativa, è però decisivo osservare che un conto è che una scelta trovi a livello amministrativo un’esternazione astratta (il che è appunto accaduto con la delibera anzidetta), ed altro è che la stessa assuma anche connotati di concretezza e lesività. Ed è solo questo secondo momento di sviluppo dell’azione amministrativa che può integrare, come è noto, estremi idonei a radicare un onere di impugnativa in giudizio.
Dovendosi pertanto escludere che esistesse un onere di immediato gravame avverso la detta delibera (la quale figura, di contro, tra gli atti attualmente impugnati), l’eccezione di irricevibilità delle censure in discorso deve essere respinta.
4d Le rimanenti eccezioni esposte, invece, colgono nel segno.
Punto dal quale, per la sua centralità, non è consentito prescindere, è quello della presenza di una norma di legge che qualifica “il collegamento stabile viario e ferroviario … tra la Sicilia e il continente" quale “opera di preminente interesse nazionale" (art. 4 legge n. 1158 del 17\12\1971, come sostituito dall’art. 2 del d.lgs. n. 114 del 24\4\2003; ma è importante ricordare che già il testo originario dell’art. 1 di tale legge conteneva un’espressione analoga).
Ora, non sembra possibile negare che con questa disposizione l’opera del ponte sullo Stretto sia stata positivamente apprezzata nella sua utilità nell’interesse pubblico, analogamente a quanto tipicamente avviene con il modello della dichiarazione di pubblica utilità ex lege.
E’ quindi esatta l’affermazione di principio che le critiche e riserve esposte in ricorso in ordine all’utilità dell’opera avrebbero la pretesa di incidere su valutazioni e decisioni che, per il rilievo politico-sociale ed economico riconosciuto all’iniziativa, sono state invece consacrate in un atto legislativo, e come tali, diversamente dalle comuni scelte amministrative, sono vincolanti tanto per le amministrazioni chiamate all’attuazione dell’opera quanto per ogni giudice, tutti essendo per definizione soggetti alla legge.
Con norme simili a quella riportata il legislatore riconosce direttamente la pubblica utilità di una singola opera o di un’intera categoria di opere, senza avvalersi al riguardo dell’intermediazione discrezionale dell’Amministrazione.
A quest’ultima, in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità “ex lege" rimane, naturalmente, pur sempre da accertare il fatto che l’intervento da eseguire in concreto rientri nello spettro di quelli considerati dalla norma recante la valutazione di pubblica utilità (C.g.A., 29 giugno 1988 n. 112); affinché la dichiarazione di p.u. ex lege giunga a produrre lesione, inoltre, è necessario che essa trovi specificazione e radicamento mediante la scelta dell’area, attraverso l’approvazione di un progetto. E in tutto ciò si esprimeranno degli indubbi margini di discrezionalità dell’Amministrazione.
La sindacabilità dei corrispondenti atti amministrativi sussiste, però, solo nei limiti in cui in occasione di essi trovino espressione delle scelte proprie dell’Amministrazione, e non la mera attuazione che questa faccia di un’indicazione legislativa che la vincola, quale è appunto anche quella circa la pubblica utilità dell’infrastruttura oggetto di causa: e tanto meno in questi casi l’azione amministrativa può essere contestata, quasi non esistesse la norma legislativa sul “preminente interesse nazionale" dell’opera, per un preteso inadeguato approfondimento della possibilità di escludere la realizzazione dell’infrastruttura a cagione di una sua ipotetica carenza di utilità.
E’ opportuno rimarcare che con la dichiarazione di pubblica utilità ex lege viene perseguita, al di là di possibili aspetti di snellimento dei procedimenti ablatori, la semplificazione e convergenza dei processi decisionali delle amministrazioni coinvolte. La presenza della norma evita in radice, difatti, la possibilità di valutazioni difformi o diversificate da parte delle medesime, imponendo alla Pubblica Amministrazione nel suo insieme un’azione unitaria e coerente in funzione dell’obiettivo prescelto dal legislatore.
In questo quadro, si rivela pertanto esatta l’obiezione delle resistenti secondo la quale, dal momento che è stato il legislatore a dichiarare l’opera “di preminente interesse nazionale”, non è in via di principio contestabile all’Amministrazione di avere omesso di ponderare la c.d. opzione zero in quanto la stessa richiederebbe una disapplicazione del dato legislativo che per contro esige, finché vigente, di essere rispettato ed attuato, al pari di ogni altra manifestazione di volontà legislativa. La ponderazione dell’opzione zero era nel caso concreto necessaria, di conseguenza, solo agli specifici e limitati fini della valutazione di impatto ambientale, giusta l’apposita previsione dell’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 190 del 2002 (richiamato dai vigenti artt. 4 e 5 l. n. 1158 del 1971).
5 Tanto osservato in rito, si può dare ingresso al merito della causa.
Il primo gruppo di motivi di ricorso ha per oggetto la presunta violazione di norme poste a tutela dell’ambiente, ed in particolare di disposizioni attinenti alla valutazione di impatto ambientale.
5a Il primo mezzo, segnatamente, è imperniato sul principio di precauzione.
Nel ricorso viene ricordato che tale principio figura espressamente menzionato nell’art. 174, comma 2, del Trattato UE, dove è previsto che “La politica della Comunità in materia ambientale mira a un livello elevato di tutela … . Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga” “.
Detto ciò, viene sottolineato che nella specie è in discussione la realizzazione di un’opera che, unica al mondo nel suo genere, è gravida di rischi per i pregi ambientali del contesto, rischi non calcolabili integralmente in quanto una così sostanziale trasformazione produrrebbe in tutta l’area dello Stretto effetti sull’ecosistema inconoscibili ex ante con completezza.
In presenza di interventi potenzialmente pregiudizievoli per l’ambiente senza sufficienti certezze scientifiche, come quindi questo, il principio di precauzione esigerebbe un iter decisionale particolarmente approfondito ed ispirato a criteri di cautela. Il principio imporrebbe, al decisore pubblico che abbia individuato un’esigenza, l’espletamento di un’istruttoria tesa ad un’approfondita e completa ricognizione degli effetti delle possibili iniziative sull’ecosistema: e solo alla luce delle certezze scientifiche circa i loro effetti potrebbero essere stabilite le concrete modalità di soddisfacimento dell’interesse da perseguire, che dovrebbero essere le più idonee a tutelare i valori ambientali.
Nella fattispecie, dunque, secondo la parte ricorrente, in aderenza al principio di precauzione l’Amministrazione avrebbe dovuto dapprima acquisire un quadro conoscitivo completo degli effetti dell’infrastruttura sull’ambiente, e solo all’esito decidere se, e come, agire.
Lo Stato italiano non si sarebbe attenuto, però, a questa sequenza logica, ma avrebbe deciso di realizzare il ponte a prescindere da ogni sua effettiva utilità e dal suo impatto ambientale. Nelle attività fin qui svolte nessuna attenzione sarebbe stata prestata agli effetti ambientali nell’ottica imposta dal principio di precauzione. Di ciò darebbe dimostrazione il lungo elenco di prescrizioni impartite con il parere della Commissione speciale di VIA e riportate in allegato alla delibera del CIPE, le quali denoterebbero l’incertezza esistente circa gli effetti che l’opera produrrà sull’ambiente, che non ha però impedito l’approvazione del suo progetto preliminare (con il che tutte le incognite sarebbero state traslate sul successivo livello progettuale).
5b Queste critiche non possono essere condivise.
La lettura della Comunicazione della Commissione europea invocata in ricorso rende agevole comprendere come il principio di precauzione integri un criterio orientativo solo generale e di larga massima (e per giunta ancora in via di definizione e consolidamento), capace di ispirare in qualche modo le attività normative ed amministrative dell’Unione europea e degli Stati membri ma, almeno allo stato, non suscettibile di tradursi, per difetto di concretezza, nel preciso comando giuridico che è stato ipotizzato con la doglianza in esame (né è senza rilievo, al riguardo, il fatto che i dati di prassi giuridica posti a fondamento della citata Comunicazione -paragr. 3 del relativo testo- riflettano iniziative di tipologia profondamente diversa rispetto all’applicazione del principio che si sarebbe voluta nel caso concreto).
Ciò premesso, occorre pure considerare che -come le resistenti difese non hanno mancato di far notare- alle istanze della salvaguardia ambientale nel settore delle opere pubbliche è già dedicata la normativa (comunitaria e nazionale) sulla V.I.A., la cui osservanza, va pure sottolineato, è stata fatta salva anche dalla normativa speciale della cui applicazione si tratta (sicché priva di riscontro è l’idea che il legislatore nazionale abbia imposto la realizzazione dell’opera in controversia disinteressandosi del suo impatto ambientale). Ora, non si può escludere che la recente codificazione del principio di precauzione possa suscitare una riforma della relativa disciplina. Finché ciò non avvenga, peraltro, sembra chiaro che è alle regole positive vigenti che deve farsi riferimento; la tesi di parte ricorrente (al di là delle sue oscurità: cfr. la memoria di R.F.I alle pagg. 5-6) per contro, implicando sin d’ora una immediata riscrittura di tutta la disciplina di settore non può, in carenza di precise indicazioni normative e giurisprudenziali che la suffraghino, trovare adesione.
Anche ammesso che le precedenti osservazioni possano ipoteticamente essere superate, infine, va evidenziato che in nessun modo la ricorrente potrebbe essere seguita laddove mostra di considerare l’elenco di prescrizioni allegate alla delibera del CIPE come indice dimostrativo della contrarietà dell’azione dell’Amministrazione al richiamato principio.
E’ vero, semmai, il contrario, come è stato convincentemente replicato ex adverso.
In primo luogo, va sgombrato il campo dall’idea che il progetto di un’opera da sottoporre a VIA non debba determinare, per essere assentito, alcun impatto sull’ambiente, imponendosi semmai un giudizio comparativo che tenga conto, da un lato, della necessità di salvaguardare preminenti valori ambientali, ma dall’altro dell’interesse pubblico sotteso all’esecuzione dell’opera (in termini C.d.S., VI, n. 1 del 2004).
In secondo luogo, proprio il fatto dell’avvenuta formulazione di molteplici, analitiche e dettagliate prescrizioni, interessanti praticamente tutti gli aspetti di incidenza dell’opera sull’ambiente, può essere considerato come una garanzia di rispetto delle istanze di ponderazione e cautela sottese all’interpretazione proposta in ricorso. E questo non solo nel senso, minimale ed empirico, che le prescrizioni stesse, con la loro presenza, attestano il fatto materiale che l’Amministrazione non ha mancato di farsi carico delle problematiche connesse alla tutela ambientale: ma anche nel più preciso senso (concordemente ammesso dalle resistenti: cfr. la pag. 28 della memoria erariale e le pagg. 11, 13 e 42 della memoria R.F.I.) che attraverso le prescrizioni in discorso, cui va riconosciuta natura vincolante, la valutazione positiva di impatto ambientale condizionatamente espressa sul progetto è stata subordinata all’esito favorevole dei successivi controlli previsti, con la conseguenza che se le prescrizioni impartite non risulteranno, nel prosieguo, positivamente adempiute, non potrà ritenersi avverata la condizione apposta.
In presenza di una disciplina positiva che prevede una graduale progressione della progettazione lungo tre livelli di progressivo maggior dettaglio deve ritenersi, del resto, pienamente fisiologico il rinvio per approfondimenti di analisi dal primo al successivo livello progettuale (soluzione di rinvio –non, quindi, meramente passivo- che esprime un adeguato contemperamento tra le diverse esigenze in giuoco).
Da quanto detto risulta, pertanto, l’infondatezza di questo primo motivo.
6 Il secondo mezzo d’impugnativa poggia sulla premessa che, ai sensi della vigente normativa comunitaria (direttive 79/409/CE e 92/43/CEE) e nazionale (d.P.R. 8 settembre 1997 n. 357), i progetti di opere che riguardano aree di interesse comunitario (SIC) e zone di protezione speciale (ZPS) devono essere sottoposti, nell’ambito della procedura di VIA, alla valutazione di incidenza ambientale.
6a Su questo presupposto sono stati articolati due distinti profili di doglianza.
Secondo il primo, mentre la regola appena detta postula una preventiva esatta individuazione delle aree protette, lo studio di impatto ambientale elaborato nel caso concreto non permetterebbe di ricavare un quadro completo di queste ultime. Come aree direttamente o indirettamente interessate dal progetto vi sarebbero infatti, si precisa in ricorso, 11 SIC, 2 ZPS ed una Riserva Naturale Orientata (tutte recentemente istituite), laddove lo studio presentato si limiterebbe a segnalare solo l’esistenza di 4 SIC.
Il secondo profilo dedotto, ampiamente sviluppato nelle memorie di parte ricorrente, si incentra invece sull’assunto della mancata effettuazione della prescritta valutazione di incidenza ambientale, ovvero della sua inadeguatezza.
6b Nessuna di queste critiche è fondata.
6b1 Con il primo profilo di doglianza si lamenta, come si è appena visto, un’incompleta ricognizione dei siti di interesse comunitario e delle zone a protezione speciale interessati dall’iniziativa. Soprattutto, viene denunziata la omessa considerazione del sito di Capo Peloro – Laghi di Ganzirri (il quale integra, al tempo stesso, un SIC, una ZPS ed una Riserva Naturale Orientata).
E’ però un dato di fatto quello che, se non sin dall’inizio del procedimento, quanto meno in occasione dello studio integrativo presentato da parte della Società Stretto di Messina nel maggio 2003 (oggetto di richiesta da parte della Commissione speciale di VIA del marzo del 2003) la necessaria ricognizione completa dei siti protetti è stata fatta (come è praticamente ammesso anche nella memoria di parte ricorrente del 5\2\2004, pag. 3). E questa circostanza è già sufficiente a comprovare l’infondatezza del rilievo.
6b2 Venendo alla prospettata mancanza della valutazione di incidenza ambientale prescritta dall’art. 6 della direttiva 9243/43 e dall’art. 5 del d.P.R. n. 357\1997, anche questa deduzione è priva di pregio.
Tale valutazione risulta, invero, essere stata compiuta (onde non assume importanza la problematica interpretativa, tuzioristicamente sollevata da parte ricorrente, che avrebbe potuto indurre, in tesi, a sollevare una pregiudiziale comunitaria analoga a quella formulata nell’ordinanza C.d.S., VI, n. 1115\2003). Lo studio integrativo appena menzionato recava, difatti, anche la relazione occorrente ai fini della valutazione di incidenza, circoscritta a cinque siti in quanto per gli altri era stata esclusa ogni potenzialità di coinvolgimento anche solo indiretto (cfr. la produzione della Società Stretto di Messina, Integrazione n. 13 allegata al doc. n. 27, pagg. 6 e 7/46). E la Commissione per la VIA, all’esito, ritenendo evidentemente esaustivi e condivisibili i dati e le valutazioni ivi offerti ai fini della valutazione di incidenza, li ha recepiti.
6b3 Quanto ai contenuti della detta valutazione, ricorda parte ricorrente che, in base alla normativa sopra citata, alla luce delle conclusioni della valutazione di incidenza le autorità nazionali competenti possono dare il loro assenso sul singolo progetto “soltanto dopo avere avuto la certezza che esso non pregiudicherà l’integrità del sito".
Ciò posto, in ricorso viene lamentata l’apoditticità dell’affermazione della Commissione speciale che “ … non sono presenti interferenze dirette di occupazione e distruzione con siti di Importanza Comunitaria proposti (pSIC) e Zone di Protezione Speciale (ZPS) …”. In nessun atto del procedimento, obietta parte ricorrente, si dà conto dell’assenza di rischi per i SIC e ZPS coinvolti nell’opera; in particolare, la parte insiste sull’interessamento da parte del progetto del sito di Capo Peloro, assumendo l’insufficienza –e, anzi, la sintomaticità- delle prescrizioni dettate in proposito per salvaguardare i flussi idrodinamici dei suoi due pantani.
Il Tribunale, richiamato in contrario quanto è stato appena detto nel paragrafo precedente, a proposito di questo specifico sito ritiene utile soggiungere quanto segue.
L’unico sicuro aspetto di incidenza del progetto sull’area in attenzione, descritto negli atti di parte ricorrente in termini di “attraversamento ed occupazione” da parte del costruendo viadotto, è limitato a ciò: che sul sito in discorso, la cui superficie è pari a 56 ha, è previsto il passaggio, ad una quota di metri 50 di altezza, di una campata del costruendo viadotto Pantano, per una superficie di sovrapposizione aerea di 600 mq (vale a dire appena l’1,1 per mille della superficie del sito) (doc. ult. cit., pag. 8/46). Il rischio specificamente generato da tale sovrapposizione è stato giudicato, privo di particolare significato (doc. cit., pag. 15/46 e segg.), senza che questa valutazione sia stata specificamente contestata in questa sede.
Altro aspetto indagato, di maggiore spessore, attiene alla necessità di garantire l’integrità dei flussi idrodinamici che regolano l’esistenza dei due pantani assicurando il perfetto isolamento idraulico degli scavi da compiere nelle vicinanze del sito.
La parte ricorrente assume che la presenza di prescrizioni dettate proprio per salvaguardare i flussi idrodinamici dei pantani rivelerebbe per ciò stesso l’esistenza di un rischio per l’integrità del sito, con la conseguenza della non autorizzabilità dell’opera.
La stessa parte, peraltro, ricorda nei propri scritti (memoria dell’11\2\2004, pag. 4) che per attivare le salvaguardie di cui all’art. 6 della direttiva c.d. habitat occorre, se non una certezza, almeno una probabilità di incidenze significative: ed il raggiungimento sotto lo specifico profilo indicato di una soglia siffatta non è stato fatto constare, né risulta dalla documentazione in atti. Tanto meno, poi, la ricorrente ha fatto constare che il rischio ipotizzato (e che potrebbe comunque rivelarsi privo di effettiva consistenza, oppure neutralizzabile mediante apposite misure), assurga a vero e proprio rischio per l’integrità del sito.
Allo stato, insomma, il rischio in discorso risulta costituire solo l’oggetto di una astratta ipotesi di lavoro. Ne consegue che l’intenzione dell’Amministrazione di approfondire questo aspetto (non reputando essa sul punto del tutto tranquillanti, evidentemente, gli elementi forniti dalla Società nella sua Integrazione documentale n. 2, che si concludeva con l’esclusione di ogni possibilità di interferenze idrogeologiche), testimoniando con ogni evidenza l’attenzione dedicata alla salvaguardia dei valori ambientali e la serietà dell’istruttoria compiuta, non può essere di certo assunta come dimostrazione della sussistenza del vizio dedotto.
7 Con il successivo mezzo l’illegittimità del parere di compatibilità ambientale reso dall’apposita Commissione in data 20\6\2003 viene fatta risalire alla mancata considerazione da parte di tale atto dell’insieme delle opere connesse al ponte.
Si afferma in ricorso che la direttiva comunitaria n. 85/337 deve essere interpretata nel senso che la sottoposizione alla VIA deve avere luogo non per ogni singolo progetto, ma, unitariamente, per la totalità dei progetti tra loro collegati, la separazione dei quali potrebbe condurre ad un’elusione delle finalità proprie della procedura.
Nella fattispecie, invece, nella VIA non sono state incluse opere propedeutiche e complementari necessarie per la funzionalità dei collegamenti stradali o ferroviari, ma la cui realizzazione competeva ad altri enti: e ciò ad avviso di parte ricorrente non avrebbe consentito di pervenire ad un apprezzamento complessivo di tutti gli effetti dell’intervento nel suo complesso.
Nemmeno questo vizio risulta sussistente.
Non può negarsi, naturalmente, che esista una certa relazione tra il ponte per cui è causa e le opere stradali e ferroviarie elencate alla pag. 56 del ricorso. Tale relazione, però, non si traduce in un nesso di appartenenza organica, quale quello di una parte rispetto al tutto, né in un legame di strumentalità necessaria, non essendo stato fatto realmente constare che le ulteriori opere indicate dalla parte ricorrente siano necessarie per la costruzione del ponte (che costituisce invero un’opera a sé stante) o per il suo esercizio, come le altre che invece, proprio in ragione della loro complementarità qualificata, sono state inserite nel progetto preliminare e sottoposte a VIA unitamente all’infrastruttura principale (si veda specialmente l’all. n. 24, pagg. 2-3). Piuttosto, come deduce la difesa della società RFI, risulta trattarsi di interventi semplicemente utili ad accrescere la funzionalità e quindi l’utilità dell’opera, che peraltro fanno capo alla competenza di soggetti diversi e formano oggetto di procedimenti del tutto distinti, oltre che autonomamente finanziati.
Tenuto conto di queste caratteristiche delle opere in parola, va pure rammentata la circostanza che la giurisprudenza comunitaria richiamata a base della censura, se indubbiamente mette in luce l’importanza dell’effetto cumulativo dei progetti, è però essenzialmente orientata al fine, qui non rilevante, di evitare che un loro artificioso frazionamento possa permettere di aggirare gli obiettivi della disciplina in materia, sottraendo iniziative unitarie alle soglie della VIA.
Né può essere trascurata la specialità della disciplina cui soggiace il ponte in tema di VIA, che è quella che è stata dettata dal d.lgs. n. 190 del 2002 unicamente per le infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale.
In forza di tutto ciò si deve concludere, pertanto, che, non avendo la ricorrente fornito elementi sufficienti a dimostrare che le opere sopra dette dovessero sottostare a VIA unitamente al ponte, anche questo motivo deve essere disatteso.
8 Il quarto motivo può essere trattato, per connessione, congiuntamente all’undicesimo: con entrambi i mezzi viene, difatti, mossa la critica della mancata considerazione delle possibili alternative progettuali, realizzative e tecnologiche.
8a Si sostiene che il progetto preliminare e lo studio di impatto ambientale non prenderebbero in debita considerazione le varie alternative possibili sino all’opzione zero, come invece previsto, oltre che dalla normativa generale in materia di VIA, anche dall’art. 19 del d.lgs. n. 190 del 2002 (nella fattispecie la necessità di analizzare approfonditamente l’alternativa zero sarebbe stata resa vieppiù stringente dalla presenza nell’area di molteplici siti di interesse ambientale comunitario).
Nello studio di impatto ambientale presentato dalla società interessata sarebbero contenuti, a proposito dell’opzione zero, dei dati tra loro contraddittori, nonché in contrasto con le conclusioni di cui al rapporto finale dell’advisor circa le differenti prestazioni della “soluzione ponte” e dello “scenario intermodale”. Il detto studio si presenterebbe, quindi, piuttosto che come una verifica dell’impatto dell’opera prevista sull’ambiente, come un mero rapporto giustificativo, dove manca un’effettiva comparazione tra la “soluzione ponte” e le restanti, e la prima viene aprioristicamente prospettata come soluzione assolutamente superiore ad ogni altra. Ed il pronunciamento della Commissione speciale, recependo tale studio, ne mutuerebbe, in sostanza, la difettosa impostazione.
8b Viene altresì osservato in ricorso che l’esclusione della soluzione del ponte a più campate operata nel 1990, allora giustificata sulla base delle conoscenze del tempo, avrebbe meritato oggi ben altra considerazione. Ciò sia per le maggiori conoscenze sui fondali marini nel frattempo acquisite, sia in forza della nuova esperienza rappresentata dal ponte di Corinto (struttura in via di completamento che unisce sponde distanti mt. 2500 e poggia su pile fondate a 65 mt. di profondità), il quale dimostrerebbe la possibilità tecnica di realizzare, ormai, un ponte a più campate anche in condizioni paragonabili a quelle dello Stretto.
L’Amministrazione, però, mancando di attenzione verso le tecnologie più avanzate, non avrebbe più ripreso in esame questa ipotesi: il che si sarebbe tradotto in una lacuna di un elemento fondamentale del progetto preliminare e della procedura di VIA.
8c Queste doglianze non appaiono condivisibili.
Sono già stati indicati sopra, al n. 4d, i limitati termini entro i quali le contestazioni di parte circa la mancata valutazione della c.d. opzione zero possono trovare ingresso nel presente giudizio.
In questa sede si preferisce piuttosto mettere in evidenza che non risponde al vero che la suddetta alternativa (effettivamente da indagare nell’ambito e ai fini della VIA ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 190\2002) sia stata pretermessa.
La documentazione in atti rivela, infatti, che anche l’ipotesi di lasciare il collegamento dei due versanti alla sola modalità del trasporto marittimo -naturalmente, però, potenziato in funzione delle esigenze da soddisfare- è stata oggetto di analisi. La stessa, in particolare, è stata confrontata con la “soluzione ponte” sia mediante la relazione dell’Advisor PriceWaterHouseCoopers, sia in occasione dell’aggiornamento dello studio di impatto ambientale da parte dell’a.t.i.. di ciò incaricata, nell’apposita elaborato di “valutazione ambientale strategica” (V.A.S.), studi che hanno entrambi concluso nel senso della preferibilità dell’intervento che forma oggetto di contestazione.
Da parte ricorrente questa realtà non è, del resto, contraddetta. La critica in esame si appunta, semmai, sul livello di attenzione che la prospettiva indicata ha ricevuto, che, si assume, avrebbe dovuto essere qualitativamente diversa, vale a dire più approfondita ed obiettiva (ci si richiama inoltre alla presenza, nell’area, di SIC e ZPS, ed altresì alla tematica delle opere complementari al ponte: ma su questi temi appare sufficiente rinviare alle osservazioni già svolte ai nn. 6b1 e segg. e 7).
Ora, non occorre spendere molte parole per evidenziare come una critica così impostata rischi di sconfinare ad ogni passo in un inammissibile sindacato di merito della scelta tecnico-discrezionale impugnata.
Ai fini di causa è però più importante rilevare, con la difesa di RFI, che il motivo in trattazione (che oltretutto verte in materia tecnica) potrebbe ottenere successo solo attraverso una rigorosa dimostrazione di un travisamento dei fatti, di una illogicità o irragionevolezza di specifici contenuti delle valutazioni assunte dall’Amministrazione sul versante delle alternative possibili. Per contro nell’economia del ricorso, lungi dal rinvenirsi dimostrazioni del genere, si colgono soltanto affermazioni di tipo generico, quali vaghi richiami alla “letteratura internazionale” o astratte asserzioni circa l’esistenza di contraddizioni (pag. 59 del ricorso) delle quali, inoltre, tacendosi l’entità, si lascia nell’ombra a maggior ragione la rilevanza ed efficienza causale.
Né possiede maggior consistenza l’asserto, solo apodittico, che lo studio di impatto ambientale compiuto si sarebbe atteggiato, piuttosto che come una verifica obiettiva degli effetti sull’ambiente dell’opera prevista, come un rapporto meramente giustificativo, dove non sarebbe stata effettuata un’effettiva comparazione tra soluzioni diverse ma la “soluzione ponte” sarebbe stata aprioristicamente preferita.
Né, infine, ci si poteva attendere dal suddetto studio una completa e pedissequa aderenza alla relazione dell’advisor, che del primo costituiva soltanto un supporto, rispetto al quale poteva quindi ben giustificarsi l’emersione di una diversità di accenti nel successivo ed autonomo momento valutativo promanante dal soggetto interessato.
La natura delle deduzioni svolte e la scarsità delle allegazioni fornite portano, dunque, a concludere che le valutazioni tecniche espresse negli atti impugnati non siano state idoneamente censurate.
8d La stessa conclusione si impone anche per i rilievi focalizzati sull’esclusione della soluzione del ponte a più campate.
Per le ragioni che sono state esposte in precedenza (supra, n. 3) il motivo si sottrae all’eccezione avversaria di difetto di legittimazione e\o di interesse. Va peraltro qui soggiunto che, ove lo stesso dovesse essere inteso come finalizzato a censurare il merito intrinseco della scelta effettuata dall’Amministrazione, non potrebbe naturalmente sfuggire ad un giudizio di inammissibilità.
Inteso quindi il mezzo -conformemente, del resto, alla prospettazione fattane da parte ricorrente- in termini di difetto di istruttoria e di motivazione, lo stesso si rivela comunque privo di pregio.
Come è stato opposto dalle difese avversarie, invero, nella relazione tecnica al progetto preliminare (all. n. 2, cap. 4) è stato dato ampio risalto agli studi condotti sulle possibili alternative al ponte a campata unica: non solo quelle aeree (come, appunto, il modello del ponte a più campate), ma anche quelle in galleria (alvea e subalvea, vale a dire sospesa nell’ambiente marino o scavata sotto il relativo fondale).
La parte ricorrente non contesta, in verità, che ciò sia avvenuto. Essa ha espresso l’avviso, però, che l’ipotesi del ponte a più campate sarebbe stata liquidata troppo sbrigativamente.
Ex adverso è stato replicato, tuttavia, che la pertinenza dell’esempio del ponte di Corinto, asserita ma rimasta indimostrata, doveva essere esclusa, in considerazione della marcata diversità e peculiarità delle condizioni proprie dell’area dello Stretto. Mentre il fondale dello Stretto di Corinto ha una profondità di 60 m. circa, quello dello Stretto di Messina si sviluppa con una morfologia molto più accidentata ad una profondità più che doppia, a circa 150 metri; nel secondo, inoltre, le correnti marine sono più forti ed esistono maggiori controindicazioni dal punto di vista sismologico. Né è stato taciuto il pesante impatto sull’ambiente marino della soluzione patrocinata da parte ricorrente, controindicazione da cui l’impostazione in contestazione è immune.
Queste precise repliche sono rimaste prive di confutazione.
In una situazione siffatta, dunque, la doglianza di parte ricorrente, in difetto di più puntuali allegazioni, se non si traduce per la sua apoditticità addirittura in una inammissibile contestazione di merito, si rivela comunque infondata.
9a Il seguente mezzo è parimenti inteso a far valere supposte -ma in realtà inesistenti- carenze dello studio di impatto ambientale e della omonima valutazione.
Il primo profilo sulla quale ci si sofferma in ricorso è quello delle indagini geologiche, in relazione alla sismicità dell'area: ma poiché il tema forma oggetto ex professo del tredicesimo motivo, che ad esso è specificamente dedicato, si può fare qui senz'altro rinvio al n. 16, dove l'argomento sarà unitariamente trattato.
Gli altri aspetti sui quali ci si intrattiene nel motivo sono quelli delle indagini archeologiche e paesistiche, delle interferenze con la falda idrica, delle pretese deficienze del piano di inquinamento acustico; viene dedotta, inoltre, la presenza di uno "scorretto e superficiale quadro di riferimento programmatico e ambientale" e di "carenze in ordine ai siti di cantiere e di discarica".
9b Tutti questi rilievi (ripresi anche, ma senza sostanziale autonomia di contenuti, nell’ambito del tredicesimo motivo), per quanto eterogenei, possono essere trattati in modo sostanzialmente unitario, in quanto, rivelandosi viziati da analoghi difetti di impostazione, prestano il fianco allo stesso tipo di perplessità.
Si tratta, infatti, di rilievi che, quando non oltremodo generici, si specificano in affermazioni soltanto apodittiche, mai suffragate da elementi dimostrativi anche solo parziali, nè qualificate dall’allegazione di precisi dati normativi.
Le carenze prospettate vengono enunciate muovendo sempre da valutazioni eminentemente soggettive di incompletezza-insufficienza dei pur complessi studi compiuti dall'Amministrazione, dei quali si intende contestare (in modo che rischia di apparire talvolta persino aprioristico) il livello di approfondimento.
E’ però appena il caso di ricordare che la valutazione di impatto ambientale è sindacabile, per il suo contenuto squisitamente tecnico ed ampiamente discrezionale, solo entro ben ristretti limiti, in relazione alla eventuale emersione degli estremi –che qui non si profilano- delle figure sintomatiche dell’illogicità manifesta e della contraddittorietà (cfr. C.d.S., VI, nn. 5590\2001 e 1\2004).
Si deve pur tenere conto, inoltre, del fatto che un parametro centrale nel valutare il livello di approfondimento che l’Amministrazione era chiamata a raggiungere nelle proprie indagini era quello composto dalle prescrizioni dettate per definire i contenuti delle relazioni illustrative dei progetti preliminari dall'art. 19 del d.P.R. n. 554 del 1999 (pur letto alla luce del più ampio contenuto dell'art. 3 del d.lgs. n. 190 del 2002). Dalle relative indicazioni normative, peraltro, le argomentazioni di parte ricorrente prescindono.
Ciò posto, è importante soggiungere quanto segue.
Nella formulazione anche di queste critiche di parte si trae occasione, e, in pratica, argomento pressoché esclusivo, dalla presenza sugli stessi oggetti di prescrizioni in seno al parere di VIA. L’esistenza di tali prescrizioni (cui il ricorso largamente attinge), cioè, sarebbe dimostrativa ipso facto dell’esistenza delle carenze di cui si parla.
Con questa impostazione, peraltro, a parte che l'approfondimento delle indagini di cui si tratta -almeno in alcuni ambiti, come ad esempio in materia di rischio archeologico o per le falde acquifere- potrebbe virtualmente non avere mai fine, si omette di considerare, da un canto, che le richieste di approfondimenti sulle quali si fa leva potrebbero ben essere dettate anche soltanto da ragioni di semplice opportunità, al cospetto di lacune inesistenti come tali o comunque inessenziali; dall'altro, che la legge specificamente prevede la possibilità che il provvedimento di compatibilità ambientale rechi, a parte il proprio contenuto essenziale, delle specifiche prescrizioni a valere sulla elaborazione del progetto definitivo, delle quali nel prosieguo dovrà essere puntualmente verificata l’ottemperanza (precisando le stesse norme, benché il provvedimento di compatibilità ambientale sia previsto come contestuale all’approvazione del progetto preliminare, che il relativo procedimento debba essere concluso, secondo le previsioni del relativo capo del decreto legislativo, “prima dell’avvio dei lavori” : cfr. gli artt. 20 comma 4, 18 comma 6 e 17 comma 2, d.lgs. n. 190 cit.).
Ne consegue che la presenza delle prescrizioni richiamate non può essere assunta automaticamente come indice -e tanto meno come prova da sola sufficiente dell'esistenza- dei vizi dedotti, rispetto ai quali non possiede alcun valore sintomatico (cfr., in relazione ad una situazione analoga, C.d.S., VI, n. 1\2004, nella quale è stato affermato con nettezza, appunto, che la formulazione di condizioni, in questa materia, non può affatto essere apprezzata quale dimostrazione dell’inidoneità del progetto originario a ricevere una valutazione positiva).
Si impone, dunque, la reiezione anche di questo mezzo.
10a Con il sesto motivo d'impugnazione si sostiene che l'art. 3 del d. lgs. n. 190 del 2002, per il fatto di raccordare la VIA al progetto preliminare e non al progetto definitivo dell'opera (come la normativa nazionale prevede per i lavori diversi da quelli sottoposti al regime della c.d. legge obiettivo), contrasterebbe con la direttiva comunitaria n. 85\337 del 27 giugno 1985.
Si osserva con questo mezzo, più in dettaglio, che l'anticipazione della VIA al progetto preliminare, che per sua natura consta unicamente di alcuni elementi descrittivi dell'opera ma non fornisce, di regola, le informazioni necessarie ad autorizzarne l'esecuzione, non consentirebbe di effettuare una valutazione delle effettive ripercussioni dell'intervento sull'ambiente nei termini richiesti dalla normativa comunitaria. Un semplice progetto preliminare non sarebbe, cioè, in grado di offrire elementi sufficienti ad apprezzare in modo appropriato gli effetti diretti e indiretti del progetto.
Di conseguenza, la VIA, così come disciplinata dal citato decreto legislativo, non consentirebbe una valutazione effettiva e realistica delle ripercussioni dell'opera sull'ambiente. La normativa nazionale, pertanto, a causa del suo contrasto con la disciplina comunitaria dovrebbe essere disapplicata; o, quanto meno, la normativa comunitaria andrebbe rimessa alla Corte di Giustizia ai fini di una sua interpretazione pregiudiziale.
10b Anche questo mezzo è destituito di fondamento.
La direttiva comunitaria in materia di VIA non distingue tra livelli di progettazione. Non può dirsi, quindi, che l'art. 5 di tale atto prescriva agli Stati membri di effettuare la valutazione di impatto ambientale su di un progetto da qualificarsi come definitivo, piuttosto che su un progetto preliminare. Semmai, la direttiva pone una questione sostanzialistica, di necessità di esame e valutazione dei fattori da essa presi in considerazione, siccome suscettibili di ripercuotersi sull'ambiente, prima che vengano iniziati i lavori di trasformazione del territorio.
Non assume rilievo, cioè, la qualificazione formale dei progetti, quanto il fatto che siano effettivamente valutabili in sede di VIA gli elementi significativi. E questo indipendentemente dalla fase procedurale nella quale in concreto si versi, essendo la relativa scelta rimessa dalla direttiva a ciascuno Stato membro, con l'unico limite che ai fini della VIA siano resi disponibili, appunto, gli elementi conoscitivi indicati dall’art. 5, commi 1 e 3 (e All. IV), dello stesso atto comunitario (e sempre che, come già detto, la valutazione avvenga anteriormente all'inizio dei lavori).
La parte ricorrente, piuttosto che soffermarsi sul distinguo formale tra progettazione preliminare e definitiva avrebbe dovuto, quindi, operare un sostanziale raffronto analitico tra le previsioni dell’art. 5 della direttiva e quelle di cui all’art. 18 del d.lgs. n. 190, dimostrando che il previsto raccordo della VIA al progetto preliminare attentava alla pienezza di contenuti prescritta a livello comunitario. Questo onere, però, è rimasto inadempiuto.
L'interpretazione della direttiva citata patrocinata da parte ricorrente si manifesta, pertanto, priva di pregio. Infondato, in particolare, è l'assunto che la valutazione di impatto ambientale dovrebbe avvenire, in forza dell’art. 2 della direttiva, in concomitanza con l’autorizzazione alla concreta esecuzione dei lavori (sicché la VIA dovrebbe essere raccordata ad uno stadio di dettaglio progettuale tale da consentire l’immediato avvio dell’opera: cfr. la pag. 66 del ricorso). Al contrario, l’art. 2, par. 2, della direttiva è assai chiaro nell’introdurre un vincolo solo teleologico, e non anche procedurale, disponendo che “La valutazione dell’impatto ambientale può essere integrata nelle procedure esistenti di autorizzazione dei progetti negli Stati membri … o nelle procedure da stabilire per raggiungere gli obiettivi della presente direttiva".
La disciplina nazionale si presenta tanto più in sintonia con l'impostazione della direttiva se si considera che essa contiene adeguati contrappesi alla scelta contrastata con il presente mezzo. Il d.lgs. n. 190 affida alla Commissione speciale di VIA, infatti, il compito di verificare se ed in che misura il progetto definitivo ottemperi alle prescrizioni del provvedimento di compatibilità ambientale (art. 19, comma 4: onde, come già detto, se le relative prescrizioni non risulteranno rispettate, il progetto non avrà superato la VIA). E’ previsto inoltre che, ove siano intervenute modifiche del progetto tali da determinare variazioni dell'impatto ambientale dell’opera, debba essere riaperta l’istruttoria, potendo essere allora imposto, a seconda dei casi, l’adeguamento dell’opera o il ripristino della situazione ambientale a spese del responsabile (art. 19 comma 6). Per quanto detto, dunque, sebbene il legislatore nazionale abbia raccordato la VIA, per l’opera in esame, al progetto preliminare, si può ben dire che le opportune garanzie si estendano al livello della progettazione definitiva.
Ne discende che anche questo motivo può essere respinto, senza che si ravvisi la necessità dell’ipotizzato rinvio pregiudiziale.
11 Il settimo motivo di gravame attiene alla procedura seguita ai fini della VIA.
11a La parte ricorrente, premessi brevi cenni sulla centralità dell’importanza rivestita in materia dai principi di pubblicità, trasparenza e partecipazione, rammenta che nel procedimento in esame la Commissione speciale ha richiesto alla proponente, con nota del 26 marzo 2003, di integrare la documentazione da questa già versata in atti: la documentazione richiesta è stata prodotta in parte in data 23 aprile 2003, e per il residuo il successivo 26 maggio. Analoga richiesta di integrazione è stata formulata dal Ministero dei Beni e Attività Culturali il 7 aprile 2003, ed ha trovato ottemperanza il 26 maggio dello stesso anno.
Su questa narrativa hanno trovato innesto nel ricorso tre distinti profili di doglianza.
Viene richiamato, innanzitutto, il disposto dell’art. 20, comma 3, del d.lgs. n. 190 del 2002, che prevede che, ove “il soggetto aggiudicatore non abbia provveduto alle richieste integrazioni entro i trenta giorni successivi, il parere si ritiene negativo". Ebbene: poiché nella specie parte della documentazione integrativa richiesta era stata depositata oltre il termine prescritto (sulla cui valenza non meramente formale la parte ricorrente ha insistito), nel rispetto della norma appena riportata la Commissione avrebbe dovuto rilasciare un parere sfavorevole, e non positivo.
A parte questo aspetto -prosegue il ricorso- l’avvenuto deposito della documentazione oltre il termine legale dei trenta giorni avrebbe dovuto quanto meno comportare la pubblicazione dell’avviso dell’avvenuto adempimento della formalità, in modo da mettere tutti gli interessati in condizione di presentare osservazioni su tutta la documentazione nel prescritto termine di –ulteriori- trenta giorni (art. 3, comma 9, legge n. 349 del 1986).
Sennonché, si conclude, non solo non vi è stata una nuova pubblicazione, ma alle associazioni in epigrafe sarebbe stato nei fatti precluso di prendere visione della documentazione integrativa depositata, e di fruire del termine di legge per predisporre in proposito osservazioni e pareri.
11b Nemmeno queste critiche si presentano persuasive.
A proposito del mancato rispetto del termine assegnato dall'art. 20, comma 3, d.lgs. cit., è il caso di ricordare, preliminarmente, che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale che accomuna le diverse tipologie di manifestazioni silenziose della Pubblica Amministrazione, è escluso che il perfezionarsi della singola fattispecie di silenzio significativo comporti per l'Amministrazione competente una perdita del potere di provvedere: le vicende concrete continuano, cioè, anche oltre la scadenza del termine legale, a soggiacere alla potestà decisionale pubblica.
Né si rinvengono ragioni per assoggettare la specifica problematica oggetto di controversia ad una soluzione opposta. La formulazione testuale della norma sopra citata, del resto, con la sua dizione "il parere si ritiene negativo" non si prospetta come rigidamente vincolante per l’Amministrazione, ma si limita a porre questa in condizione di sanzionare, ove ne sia il caso, il ritardato adempimento del proponente.
Tanto premesso, non è senza rilievo il fatto che nel caso concreto, lungi dall'essersi determinata la situazione di assoluta inerzia presupposta dalla norma, non solo si è verificato che soltanto una parte delle integrazioni documentali richieste è stata prodotta oltre il termine, ma, soprattutto, la proponente aveva anticipatamente rappresentato con chiarezza tale circostanza, preavvertendo dei motivi per i quali abbisognava di un maggiore lasso di tempo ed altresì della data entro la quale avrebbe potuto completare gli adempimenti impostile (così, inequivocabilmente, l’all. n. 27).
In questo contesto, dunque, immune da vizi appare la scelta della Commissione speciale dapprima di attendere la produzione delle ulteriori integrazioni, e indi di pronunziarsi sul merito della richiesta che le era stata sottoposta, prescindendo dalla intervenuta scadenza del termine. Si tratta, invero, di una scelta coerente con l’atteggiamento di sostanziale collaborazione che il soggetto proponente aveva tenuto, e perfettamente aderente al "preminente interesse nazionale" alla realizzazione dell'infrastruttura, e segnatamente alle marcate esigenze acceleratorie del procedimento sottostanti a tutta la disciplina di settore.
La parte ricorrente, verosimilmente consapevole per prima della rigidità formale della propria interpretazione, ha tentato di mettere in luce taluni risvolti lesivi del ritardo da essa lamentato.
Ha ricordato, infatti, che dopo il decorso del predetto termine di trenta giorni gli interessati possono chiedere di visionare la documentazione aggiuntiva, ed eventualmente formulare osservazioni e deduzioni al riguardo. Ma se le integrazioni vengono ammesse oltre il detto termine e senza preclusioni, in questo modo potrebbe vanificarsi l'esigenza di pubblicità e trasparenza della procedura, in quanto gli interessati sarebbero costretti a verificare di continuo presso gli uffici l'avvenuto deposito, con impegno estremamente gravoso e probabilmente disincentivante per la partecipazione. Per contro, la preclusione connessa alla violazione del termine di trenta giorni varrebbe a dare certezza al pubblico in ordine all'attività procedimentale in corso.
Dalla stessa angolazione parte ricorrente deduce altresì, come si è visto, che nella specie l’avvenuto deposito della documentazione oltre il termine di legge avrebbe dovuto quanto meno comportare la pubblicazione dell’avviso dell’avvenuto adempimento della formalità, in modo da mettere ogni interessato in condizione di presentare tempestive osservazioni su tutta la nuova documentazione. Sennonché, non solo tale nuova pubblicazione era mancata, ma alle associazioni in epigrafe sarebbe stato anche precluso, nei fatti, di prendere visione della documentazione integrativa depositata e di predisporre in proposito osservazioni e pareri.
Neppure queste deduzioni sono convincenti.
Giova ribadire che già nella nota con la quale la società Stretto di Messina aveva tempestivamente inviato parte dei documenti richiestile essa aveva preavvertito dell'esigenza di disporre di un maggiore lasso di tempo per soddisfare le ulteriori richieste documentali, indicando altresì la data entro la quale avrebbe potuto adempiere. Ne consegue che i terzi interessati erano in grado di apprendere agevolmente, tramite l’istituto dell'accesso ai documenti, non solo che una parte delle integrazioni richieste era già pervenuta, ma soprattutto che il soggetto proponente aveva chiesto ulteriore tempo per completare l'adempimento, e, infine, la data entro la quale l'ulteriore documentazione sarebbe stata trasmessa. Una minima diligenza nell'uso delle facoltà connesse all'istituto dell'accesso avrebbe pertanto permesso di venire tempestivamente a conoscenza, a tutti i fini della partecipazione procedimentale, anche della documentazione integrativa.
D'altra parte, nessuna norma applicabile al procedimento prevedeva l'obbligo di dare comunicazione agli interessati dell'avvenuto deposito degli atti integrativi in discorso. E, trattandosi di semplice documentazione integrativa, e non già dell’avvio di un nuovo procedimento, non era configurabile nemmeno un obbligo di pubblicare un nuovo avviso.
Né la parte ricorrente ha allegato elementi per dare consistenza all’illazione che la tardività di talune delle integrazioni avrebbe celato delle modifiche sostanziali del progetto.
Quanto all'ultimo profilo del motivo appare, infine, sufficiente osservare che da parte ricorrente non è stato dimostrato di avere in qualsiasi modo richiesto di poter acquisire contezza della documentazione integrativa prodotta, e di avere ricevuto un rifiuto sul punto.
Il motivo risulta pertanto infondato in tutte le sue componenti.
12a Anche il successivo mezzo affonda le sue radici nel procedimento preordinato alla VIA. Ne forma oggetto l’assunto della mancata valutazione delle osservazioni che erano state presentate nel relativo contesto dalle associazioni ambientalistiche.
Queste ultime hanno presentato un nutrito ventaglio di articolate osservazioni relativamente al progetto. La Commissione speciale, peraltro, -ci si duole in ricorso- non le ha fatte oggetto di attenzioni analitiche. Si è limitata all’affermazione che “tutte queste osservazioni sono state puntualmente esaminate singolarmente o per gruppi (vedi “Relazione Istruttoria”) e considerate ai fini dell’espressione del presente parere, recependole, ove ritenuto opportuno, anche nella formulazione delle prescrizioni e raccomandazioni".
Questa formula, per la sua genericità ed elusività, non essendo idonea a far comprendere quali osservazioni siano state fatte oggetto di effettiva considerazione costituirebbe, però, una sostanziale violazione dei canoni di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, e a maggior ragione delle precise norme che prevedono, invece, che le osservazioni in materia di VIA dei soggetti legittimati siano tenute in debito conto (art. 18, comma 4, d.lgs. n. 190\2002).
Né varrebbe in contrario il richiamo effettuato alla Relazione Istruttoria, atto interno che non è stato reso disponibile ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 241\1990, e nemmeno è stato esibito a parte ricorrente in sede di accesso.
12b Al Tribunale è agevole obiettare, muovendo da questi ultimi argomenti, che secondo il condivisibile orientamento della giurisprudenza l’inosservanza del disposto dell’art. 3, comma 3, della legge n. 241 del 1990 (id est, la mancata comunicazione dell’atto richiamato da una motivazione per relationem) non integra una causa di invalidità del provvedimento finale, ma può unicamente spiegare influenza sulla decorrenza del termine per la sua impugnazione in giudizio (cfr. ad es. C.d.S., V, n. 23 del 2\1\1997 e n. 1508 del 20\10\1998; IV, n. 1004 del 24\9\1997).
Quanto all’asserita circostanza della mancata ostensione della medesima Relazione istruttoria in sede di accesso, neppure tale fatto –peraltro, indimostrato- potrebbe integrare un vizio del provvedimento in contestazione. In merito ai rapporti fra l'istituto dell'accesso (nella sua proiezione c.d. partecipativa) e l'atto conclusivo del procedimento cui il primo può essere strumentale, la giurisprudenza ha da tempo precisato, difatti, che la lesione del diritto di accesso deve essere fatta valere mediante l'apposita azione disciplinata dall'art. 25 della legge n. 241\1990, non potendo costituire ex se oggetto di doglianza di invalidità in sede di impugnazione del provvedimento finale (C.d.S., VI, n. 1156 dell’11\9\1999; T.A.R. Lazio, I, n. 513 del 6\4\1994 e n. 890 del 25\5\1995).
Venendo al punto principale sollevato con il motivo in esame, quello dell’attenzione tributata nel procedimento alle osservazioni di parte ricorrente, si deve osservare quanto segue.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale maturato avendo riguardo agli apporti scaturibili dalla partecipazione procedimentale nelle più diverse materie, per principio generale non esiste per l’Amministrazione procedente un dovere di analitica disamina motivata di ciascun apporto pervenuto dagli amministrati (cfr., tra le tante: C.d.S., VI, n. 491 del 29\1\2002; IV, n. 2914 del 22\5\2000 e n. 123 del 17\12\1991), sufficiente essendo una motivazione anche succinta e non riferita a tutte le osservazioni.
Ora, questo indirizzo deve ritenersi applicabile anche in materia di VIA, dal momento che l’art. 18, comma 4, d.lgs. n. 190\2002 si limita a stabilire genericamente che delle osservazioni pervenute si “tiene conto”.
Una eventuale ragione di invalidità avrebbe potuto nella fattispecie risiedere, pertanto, solo nell’ipotesi in cui le osservazioni in parola fossero state in blocco, o almeno per la gran parte, effettivamente ignorate. L’esistenza di una situazione siffatta, peraltro, non è stata fatta constare, essendo rimasta priva di specifiche contestazioni la replica avversaria secondo la quale, al contrario, delle osservazioni in parola si era tenuto conto sia in sede di richiesta di integrazione della documentazione alla società Stretto di Messina, sia, all’esito, nella formulazione delle raccomandazioni e prescrizioni a questa imposte.
Di qui la necessità di respingere anche questo motivo.
13a Prima di esporre il nono motivo d’impugnazione è opportuno richiamare le previsioni dei commi 5 e 6 dell'art. 18 del d.lgs. n. 190\2002 :
"Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e, per le opere incidenti su aree sottoposte a vincolo di tutela culturale o paesaggistica, il Ministro per i beni e le attività culturali, decorsi novanta giorni dalla data di presentazione della documentazione ... , provvedono ad emettere la valutazione sulla compatibilità ambientale dell'opera ... “ (comma 5);
"Il provvedimento di compatibilità ambientale è adottato dal CIPE, contestualmente all'approvazione del progetto preliminare. In caso di motivato dissenso del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio o del Ministro per i beni e le attività culturali, l'adozione del provvedimento di compatibilità ambientale è demandata al Consiglio dei Ministri, che vi provvede nella prima riunione utile successiva ...” (comma 6).
Orbene, secondo l’avviso di parte ricorrente il Ministero dei beni e delle attività culturali (competente, si è appena visto, a rendere il parere di VIA sulle aree sottoposte a vincolo) non si sarebbe rivelato in condizione di esprimere il proprio parere sul progetto preliminare, valutando la sussistenza dell'interesse pubblico sotto i profili di sua competenza. La formula, contenuta nel suo atto, secondo la quale “ ... si potrà esprimere il conclusivo parere in fase di progetto definitivo allorché questo Ministero sarà messo in condizione di conoscere i dettagli degli studi effettuati posti a base delle scelte assunte, delle caratteristiche di tutte le nuove opere e degli interventi compensativi sugli squilibri indotti nel paesaggio" , andrebbe cioè intesa, in definitiva, come un diniego di parere.
Posta questa premessa, in ricorso ne viene tratta la conseguenza che il parere, per il suo sostanziale contenuto negativo, avrebbe dovuto indurre il CIPE ad un diniego di approvazione del progetto; o quanto meno, sempre secondo parte ricorrente, il conflitto che si sarebbe così aperto tra le diverse amministrazioni sarebbe dovuto necessariamente sfociare, in base al comma 6 poco sopra citato, in una pronuncia del Consiglio dei Ministri.
Il motivo ha poi trovato approfondimento in memoria. Qui è stato puntualizzato che non si può ritenere che il parere omesso possa essere espresso in seguito dallo stesso Ministero nell'ambito della conferenza dei servizi prevista dall'art. 4 del d.lgs. n. 190 ai fini dell'approvazione del progetto definitivo: un conto è, infatti, il procedimento di VIA, ed altro le pronunce di nulla osta che il medesimo Ministero è competente a rilasciare ai fini della trasformazione di aree sottoposte ai vincoli di cui al d.lgs. n. 490 del 1999. Nella stessa memoria è stato analogamente precisato che la mancanza del predetto parere non potrà essere superata nel momento in cui si procederà alla verifica della rispondenza del progetto definitivo alle prescrizioni formulate nel parere di VIA ai sensi dell'art. 20 comma 4 del d.lgs. n. 190, poiché le relative prescrizioni del Ministero avevano carattere totalmente vago e generico, e, in ogni caso, in quanto in tale sede non vi sarebbe la possibilità di sanare il precedente vizio.
13b Il Tribunale, tuttavia, non condivide il presupposto sul quale poggia l’intero motivo: quello secondo il quale il Ministero per i beni e le attività culturali si sarebbe espresso in senso contrario alla compatibilità ambientale dell’intervento, o al più avrebbe omesso di rendere il parere di propria competenza.
Una serena lettura dell'atto di cui si tratta (doc. n. 29 della produzione della società Stretto di Messina) fa rendere conto, invero, che questo si atteggiava senz’altro come un parere favorevole (“Pertanto, si valuta che il progetto preliminare possa essere sviluppato nella fase definitiva …”), sia pure integrato da prescrizioni e contenente la riserva, quindi, di rivedere nel prosieguo il dossier, sulla falsariga del modus procedendi già visto sopra al 5 b.
A riprova dell'assenza di impedimenti per il procedimento nella determinazione in questione si può notare che il Ministero per i beni e le attività culturali si è riservata un'ulteriore pronuncia proprio nel prosieguo della procedura, in fase appunto di progetto definitivo. Non è un caso, inoltre, che in occasione dell'approvazione del progetto preliminare da parte del CIPE fosse presente anche un rappresentante del Ministero, nella persona del suo Sottosegretario, e che come gli altri membri del Comitato egli si sia espresso in favore dell'approvazione del progetto e della contestuale pronuncia di compatibilità ambientale.
Per radicare la procedura di conflitto prevista dal comma 6 sopra citato difettavano, quindi, le premesse, posto che essa avrebbe richiesto da parte dell'Amministrazione in parola un dissenso, non bastando un assenso pur correlato a prescrizioni e condizionato a successive verifiche.
Donde l’infondatezza anche di questo mezzo d’impugnativa.
14 Con il decimo mezzo si lamenta la mancata sottoposizione del progetto preliminare alla valutazione ambientale strategica (V.A.S.) disciplinata dalla direttiva 2001/42/CE del 27 giugno 2001.
Nello svolgimento della doglianza si precisa che la V.A.S. avrebbe dovuto trovare svolgimento in una fase anteriore a quella di approvazione del progetto preliminare, ed antecedente alla stessa delibera del CIPE n. 121\01 di approvazione del programma di opere strategiche.
La necessità dell’adempimento viene fatta risalire essenzialmente alla previsione del piano generale dei trasporti di cui al d.P.R. 14 marzo 2001 secondo la quale “nella realizzazione del piano sarà dato carattere di priorità a quelle opere che abbiano superato positivamente la prevista valutazione ambientale strategica", rammentando che l’approvazione del programma di opere di cui alla legge n. 443 del 2001 costituiva, ai sensi del suo art. 1, automatica integrazione del suddetto piano.
Il motivo è manifestamente infondato.
La direttiva testè citata deve essere recepita dagli Stati membri entro il 21 luglio 2004. Anche ammesso, perciò, che possa essere qualificata come direttiva self executing, la stessa non sarebbe stata comunque suscettibile di imporre l'effettuazione della VAS già all'indomani della propria pubblicazione, e quindi prima -e per giunta largamente- della scadenza del suddetto termine.
Il procedimento del quale si controverte non era perciò soggetto ad obblighi ricollegabili alla direttiva.
Nè la VAS poteva dirsi imposta nella fattispecie dal d.P.R. 14 marzo 2001 recante il piano generale dei trasporti, secondo la principale tesi di parte. Questo, infatti, lungi dal prescriverla a pena di invalidità per il caso di omissione, ricollega al suo compimento il riconoscimento di una semplice "priorità" per le opere che ne abbiano costituito oggetto, priorità che però per le infrastrutture di cui alla legge n. 443\2001 è autonomamente assicurata dall'apposita, speciale disciplina ad esse dedicata.
15a Nell'ambito del secondo gruppo di doglianze, che sono specificamente riferite al progetto preliminare, dopo il motivo di cui è stata anticipata la trattazione al n. 8 viene dedotta, con il dodicesimo mezzo, la mancanza di rispondenza dell'opera ad effettive esigenze collettive.
Ogni opera pubblica, viene osservato, deve essere concepita in relazione ai bisogni espressi dalla società. L’obiettivo del progetto approvato sarebbe, tuttavia, nient’altro che quello di realizzare un'opera ciclopica ed unica al mondo, la quale sarebbe avulsa dalla reale domanda di mobilità espressa dalla collettività nazionale.
Nel ricorso ci si sofferma, in particolare, sul dato della prevista larghezza del ponte, pari a 60 metri. Viene notato che strutture simili, alle quali si attagliano analoghe previsioni di traffico, sono larghe appena 25 metri: tenendo conto, quindi, che sul ponte sullo Stretto dovrebbe passare aggiuntivamente una linea ferroviaria, ad avviso di parte ricorrente lo stesso dovrebbe essere largo al massimo 33 metri.
Il sovradimensionamento dell'opera, di gran lunga eccedente le effettive esigenze di mobilità accertate nel procedimento (per far fronte alla domanda collettiva sarebbero sufficienti, si assume, due corsie), rappresenterebbe allora un ingiustificato spreco. E la sua maggiore larghezza, dettata da motivi statici, nulla avrebbe a che vedere con l'esigenza di mobilità che l’opera dovrebbe soddisfare. Di qui la doglianza di eccesso di potere per sviamento.
15b Anche questa critica è priva di fondamento.
Si è già avuto modo di porre in luce in precedenza (n. 4d) l’imprescindibilità del dato della presenza di una norma di legge che qualifica “il collegamento stabile viario e ferroviario … tra la Sicilia e il continente" quale “opera di preminente interesse nazionale" (art. 4 legge n. 1158 del 17\12\1971, come sostituito dal d.lgs. n. 114\2003).
E’ stata allora già osservata, e va qui ribadita, l’inammissibilità di ogni critica di legittimità che sia direttamente o surrettiziamente tesa a revocare in dubbio l’utilità dell’infrastruttura, per la ragione che la relativa doglianza avrebbe la pretesa di incidere su valutazioni e decisioni consacrate in un atto legislativo, e come tali vincolanti tanto per l’Amministrazione quanto per ogni giudice. La scelta legislativa ricordata, difatti, già accerta e comporta la rispondenza dell’opera di cui si tratta (benché solo astrattamente considerata) agli interessi della collettività. E questa rispondenza costituisce ai fini del presente giudizio un dato acquisito, in forza dell’univoca opzione compiuta dal legislatore, e pertanto un elemento che non può costituire materia di discussione.
Si è pure già visto (n. 8d) come, tra le diverse soluzioni in astratto possibili, quella del ponte a campata unica si è rivelata in sede tecnica, tenuto conto di tutte le caratteristiche dell’area, l’unica concretamente realizzabile.
Riprese queste indicazioni, sembra opportuno condensare la doglianza in trattazione notando che con essa, in pratica, parte ricorrente assume che delle quattro corsie destinate dal progetto alla viabilità ne sarebbero sufficienti già due, e che in luogo di due corsie dedicate alla manutenzione ne basterebbe una sola. In questo consiste, in buona sostanza, il prospettato sovradimensionamento dell’opera.
Ora, le resistenti difese non negano che la larghezza indicata sia stata imposta, anche a prescindere dagli attesi volumi di traffico, da esigenze prettamente ingegneristiche discendenti dalla lunghezza della campata del ponte. È stato chiarito, infatti, che, una volta dimostrata la necessità di realizzare una campata unica sospesa e fondare le torri di sostegno fuori alveo, il dimensionamento di m. 3300 dell'unica campata costituisce una lunghezza obbligata: e da tale dimensione derivano direttamente come dati consequenziali, entro margini solo limitati di variabilità, l'altezza delle torri, la dimensione dei cavi, e infine la larghezza dell'impalcato.
Non meno importante, però, è il fatto che la parte ricorrente non abbia contestato, dal canto suo, l’effettività delle esigenze tecniche determinative del dimensionamento dell’opera, di guisa che le stesse ai fini di causa vengono in rilievo, secondo la prospettazione delle resistenti, alla stregua di condizionamenti vincolanti.
Il Tribunale, d’altra parte, non può dare credito all’idea, implicita nelle tesi svolte in ricorso, che il progetto di un’infrastruttura possa essere commisurato unicamente in funzione dell’entità dei bisogni cui la stessa debba servire, quasi che non esistessero compatibilità tecniche da rispettare.
Da tutto ciò discende che la dedotta eccedenza strutturale del ponte, rispetto alle dimensioni che sarebbero state strettamente sufficienti a recepire le istanze collettive di mobilità, si rivela per definizione giustificata nell’interesse pubblico, quale scelta necessitata in vista della realizzazione dell’opera di “preminente interesse nazionale”.
16a Con il tredicesimo motivo viene denunziata la mancata dimostrazione della fattibilità tecnica dell'opera in relazione al carattere innovativo del suo progetto e alla sismicità dell'area (per gli ulteriori aspetti illustrati alle pagg. 98-99 del ricorso appare sufficiente rinviare alle osservazioni che sono state svolte sopra, ai nn. 9a e 9b).
Premette la parte ricorrente che la legge prescrive che nella relazione illustrativa del progetto preliminare sia dimostrata la fattibilità tecnica di ogni opera sulla scorta di indagini geologiche, geotecniche, idrologiche, idrauliche e sismiche. Quel che si richiede, cioè, è di accertare che il progetto sia effettivamente realizzabile e a determinati costi, il che implica che debbano essere eliminate tutte le incognite che possano incidere sulla costruzione della struttura.
Ciò posto, si assume che dagli atti impugnati emergerebbero gravi carenze istruttorie, le quali comproverebbero la presenza di ampie incertezze, idonee a mettere in forse la realizzazione del progetto.
Che l'opera sia gravata da incognite sarebbe già dimostrato dal fatto che il ponte sospeso più lungo del mondo in atto esistente (e, tra l’altro, destinato ad esclusivo uso stradale) misura m. 1991, ed è quindi notevolmente più breve del previsto ponte sullo Stretto.
Inoltre, il sito è geologicamente e sismicamente molto attivo (dati recenti sembrerebbero indicare che la Sicilia si allontana dalla Calabria di circa 1 centimetro all'anno). Nell'area esisterebbero elevati rischi sismo-tettonici non ancora quantificati, il che troverebbe conferma nelle prescrizioni dedicate a queste problematiche nella delibera CIPE di approvazione del progetto: e tali prescrizioni denoterebbero anche la presenza di carenze significative, in quanto gli approfondimenti richiesti atterrebbero a ricerche che dovevano essere svolte prima.
16b Neppure questo mezzo può trovare accoglimento.
Il Tribunale ritiene opportuno premettere che la disciplina positiva (artt. 18, lett. d), e 19, lett. c), d.P.R. n. 554 del 1999, in aderenza all’art. 16, comma 3, della legge n. 109 del 1994) esige ai fini della progettazione preliminare indagini geologiche, geotecniche, ideologiche, idrauliche e sismiche semplicemente “preliminari” e “di prima approssimazione” (dato, questo, del quale il motivo non si fa carico): ond’é che la relativa, limitata soglia di approfondimento prescritta sarebbe già sufficiente a rendere il progetto immune dal vizio dedotto.
La ricorrente, che non ha fornito a supporto delle proprie affermazioni elementi di spessore scientifico idonei, se non a contrapporsi agli approfonditi studi cui risulta essersi ispirata l’Amministrazione, a dimostrare il mancato rispetto da parte di questa della soglia appena indicata, nel prospettare la propria doglianza si è avvalsa essenzialmente di alcuni passaggi della delibera CIPE in epigrafe nonchè della relazione Steinman. Il fulcro delle osservazioni così strumentalizzate, però, lungi dall’essere di taglio critico a carico del progetto e dei sottostanti studi (per converso, invece, apprezzati sotto molteplici aspetti), era essenzialmente nel senso di promuovere un “costante aggiornamento” degli studi in materia, suggerimento operativo di indirizzo per i successivi sviluppi progettuali che può essere considerato, però, del tutto fisiologico nell’ambito di un processo di progressivo affinamento degli elaborati riflettenti un’opera tanto complessa ed impegnativa, e che nulla toglie alla serietà delle indagini condotte fino ad ora (l’argomento principale utilizzato in ricorso, quello della sismicità dell’area, per il suo carattere scontato non poteva non rientrare, del resto, tra i temi più approfonditi negli studi che hanno condotto al progetto impugnato).
Anche in questo caso può concludersi, dunque, che la presenza di prescrizioni ed indicazioni quale quelle invocate dalla ricorrente non può essere assunta come prova dei vizi dedotti, rispetto ai quali non possiede alcun valore sintomatico (v. supra nn. 9b e 5b).
17 Il quattordicesimo motivo fa leva su di un presunto mancato accertamento della disponibilità delle aree da utilizzare.
17a La disciplina positiva, viene ricordato, prevede che i progetti preliminari contengano, tra l'altro, “l'accertamento in ordine alla disponibilità delle aree o immobili da utilizzare, alle relative modalità di acquisizione, ai prevedibili oneri e alla situazione dei pubblici servizi" (art. 19, c. 1, lett. d), d.P.R. n. 554 del 1999).
Per la realizzazione del ponte sullo Stretto è previsto un complesso sistema di viabilità di accesso e di servizio, con numerosi sottocantieri ed imponenti movimenti di materiale che dovrà essere estratto e variamente movimentato.
Il progetto si limiterebbe, peraltro, ad individuare i probabili siti di impianto dei sottocantieri e quelli di realizzazione di tutte le opere complementari, senza contenere alcun accertamento della “disponibilità” di tali aree, dei relativi “oneri” e delle “modalità di acquisizione”. Circa la quantificazione degli “oneri”, in particolare, nel quadro economico generale figurerebbe solo una sommaria indicazione complessiva di spesa, da nessun altro elaborato giustificata in via analitica.
17b Alla critica è stato esattamente opposto che la disciplina regolamentare sui progetti preliminari (artt. 18 e segg. del d.P.R. n. 554 del 21\12\1999) non include tra i contenuti del relativo livello progettuale il piano particellare a fini espropriativi (con la precisa individuazione ad esso propria delle coordinate fisiche e giuridiche dei terreni interessati dall’intervento), piano che fa invece parte solo dei documenti componenti il progetto definitivo (art. 25 d.P.R. cit.). La stessa normativa prevede, inoltre, che tali progetti debbano essere corredati da un calcolo semplicemente “sommario" della spesa, -salvo che per le opere ed i lavori- mediante semplici “valutazioni di massima" (art. 23 d.p.R. cit.).
In armonia con le previsioni appena menzionate, l’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 190\2002 si limita ad esigere, per quanto concerne le infrastrutture regolate da tale fonte, che il progetto preliminare evidenzi “con apposito adeguato elaborato cartografico, le aree impegnate, le relative eventuali fasce di rispetto e le occorrenti misure di salvaguardia", indicando altresì semplicemente “i limiti di spesa dell’infrastruttura da realizzare".
Nel riferirsi ad un livello progettuale al quale non è richiesto, pertanto, il piano particellare di esproprio, non sembra ragionevole attendersi che l’accertamento della “disponibilità delle aree” (ex art. 19, comma 1, lett. d), d.P.R. cit.) si spinga fino al punto di anticipare i risultati identificativi e cognitivi propri degli stadi progettuali successivi. E le convergenti indicazioni normative riportate sembrano decisive nel senso di un’interpretazione non rigoristica nemmeno della previsione della stessa norma (richiamata in ricorso) che, mentre vuole indicati nel progetto preliminare anche gli “oneri prevedibili" connessi all’acquisizione delle aree ed immobili da utilizzare, non impone però l’allegazione di elaborati analitici di supporto.
Alla luce di tutto ciò, dunque, ed anche considerando che agli elaborati inizialmente sviluppati dalla società Stretto di Messina si sono aggiunte nell’unitario procedimento in esame, in riscontro ad un’apposita richiesta di integrazione documentale, ulteriori sei planimetrie indicative degli espropri da compiere, pure questo motivo si appalesa infondato.
18 Con il successivo mezzo la parte ricorrente lamenta la mancata giustificazione della necessità dell’opera.
L’iniziativa, che implica costi enormi e trasformerebbe irreversibilmente il contesto naturale (con un complessivo impatto finale sull’ambiente conosciuto solo in parte), avrebbe finalità ed efficacia incerte.
Non sarebbe stato dimostrato che essa possa favorire lo sviluppo della Sicilia e della Calabria, le cui economie non necessiterebbero, né potrebbero giovarsi, di un intervento di tale complessità e proporzioni; i suoi benefici effetti sul mercato del lavoro e sul P.I.L. non avrebbero carattere strutturale, ma sarebbero circoscritti al periodo di realizzazione dell’opera.
Quanto all’esigenza di migliorare i collegamenti con l’Isola, l’alternativa di sviluppare l’attuale sistema di traghettamento (il c.d. scenario intermodale), pur implicando costi molto minori, incrementi a regime dell’occupazione ed un inferiore impatto sull’ambiente, non sarebbe stata seriamente approfondita né comparata con la soluzione prescelta.
La decisione di realizzare l’opera non risulterebbe, pertanto, ragionevole né proporzionata. Né la delibera di approvazione del progetto preliminare avrebbe esplicitato, in ogni caso, le ragioni della prevalenza degli interessi pubblici alla realizzazione del ponte su quelli, invece, inevitabilmente sacrificati dall’intervento.
A queste critiche le resistenti difese hanno replicato con l’argomento della mancata considerazione da parte avversaria dell’enorme semplificazione dei collegamenti che il ponte renderebbe possibile, la quale, secondo le valutazioni compiute nel procedimento, non mancherebbe di tradursi in benefici diffusi su tutto il tessuto socio-economico delle due regioni interessate.
A questo piano argomentativo, lo stesso sul quale si colloca la maggior parte delle doglianze di parte, il Tribunale non ritiene tuttavia di poter avere accesso, per le ragioni già anticipate (nn. 4d e 15b). Le valutazioni del caso in termini di utilità pubblica intrinseca dell’opera sia a vantaggio del sistema dei trasporti sia, più in generale, dei rapporti economici, sono state già compiute in sede politico-legislativa, all’epoca dell’adozione della legge n. 1158 del 1971 ma anche, assai di recente, con il d.lgs. n. 114 del 2003 (modificativo della prima in più punti).
Di questo imprescindibile ed assorbente dato non si può non tenere conto, dunque, anche nel porsi il quesito della sufficienza delle motivazioni svolte dall’Amministrazione, sui punti toccati in ricorso, a sostegno della scelta in contestazione (si veda, peraltro, anche quanto è stato esposto al n. 8c sullo specifico tema della VIA).
Di conseguenza, deve essere ribadito che la pregressa valutazione politico-legislativa dalla quale tutto il complesso procedimento in esame origina, data la natura giuridica degli atti nei quali si trova espressa, non è discutibile né tanto meno sindacabile in sede giurisdizionale.
E’ appena il caso di soggiungere, infine, che, dal momento che le deduzioni sostanziali svolte in ricorso, senza pervenire a dare dimostrazione di irrazionalità di evidenza oggettiva e manifesta, modellano una critica soggettiva di fondo –in tesi più o meno grave, ma comunque- di mera inopportunità della scelta, un ipotetico apprezzamento delle problematiche sollevate involgerebbe comunque valutazioni che per definizione sfuggirebbero ai parametri del giudizio di legittimità.
19a La doglianza seguente ruota intorno all’assunto della mancata dimostrazione della sostenibilità economica dell’opera.
Dagli atti impugnati si desume che l’iniziativa, del costo prossimo a 4.700 milioni di euro, non importerebbe oneri per lo Stato, dovendo il suo finanziamento per il 40 % essere assicurato dall’aumento di capitale della società Stretto di Messina, e per la rimanenza essere reperito sul mercato finanziario internazionale senza garanzie statali. Questo schema, peraltro, contrasterebbe con l’auspicio espresso dall’advisor circa la presenza nell’operazione di soggetti istituzionali che dovrebbero assumersi la responsabilità della realizzazione dell’opera.
Inoltre, l’analisi dell’advisor si baserebbe su stime di traffico altamente opinabili (di cui significativamente il CIPE avrebbe richiesto l’aggiornamento, e contraddette dallo studio prodotto da parte ricorrente), anche per non essersi fatte carico della concorrenza che potrebbe venire al ponte dalle previste nuove c.d. “autostrade del mare”.
19b Osserva il Tribunale sotto quest’ultimo profilo che la decisione comunitaria di finanziamento delle “autostrade del mare” risulta, secondo la stessa prospettazione fattane nell’atto introduttivo, posteriore agli atti in epigrafe, che pertanto di essa non avrebbero potuto tenere conto.
Venendo al nucleo essenziale del mezzo di parte, risulta in modo obiettivo dagli atti di causa (e nello stesso ricorso è ammesso) che il tema della sostenibilità economica dell’iniziativa sia stato analizzato (cfr. in particolare la relazione in all. n. 20).
Nessun dubbio, poi, che sia rinvenibile un certo tasso di opinabilità nelle stime dell’advisor. Ma poiché una condizione del genere è almeno entro certi limiti inseparabile dalle discipline della cui applicazione si discute, la semplice possibilità astratta di conclusioni difformi non può essere sufficiente a condurre all’invalidazione dell’analisi (invalidazione cui, diversamente opinando, ogni valutazione pubblica in materia sarebbe sempre inesorabilmente soggetta), non facendo di per sé emergere una violazione delle leges artis, che del resto non è stata nemmeno precisamente allegata.
Passando alle forme e all’intensità del previsto coinvolgimento di soggetti istituzionali nell’opera, già la stessa prospettazione del rilievo sarebbe sufficiente a far comprendere la sua insuscettibilità di tradursi in un motivo di illegittimità. Il mero fatto che sia stato disatteso l’auspicio di un advisor (alle cui opinioni non può evidentemente riconnettersi valore precettivo) non potrebbe, infatti, sostanziarsi in se stesso in una causa di illegittimità.
Soprattutto, però, preme mettere in luce il fatto che l’advisor, nel passaggio cui ha inteso fare riferimento la parte ricorrente –che per il resto non gli ha per vero lesinato critiche-, ha annoverato tra i “possibili soggetti istituzionali” di auspicabile intervento nel processo di sviluppo dell’opera non solo lo Stato e le amministrazioni locali, ma anche le Ferrovie dello Stato, l’ANAS e la società Stretto di Messina (relazione cit., pag. 155). E non può dirsi che questo auspicio sia stato tenuto in non cale.
Anche questo mezzo, pertanto, deve essere disatteso (ma non pare dubbio, comunque, a prescindere dalle sorti della censura, che laddove per avventura l’accesso al mercato dei capitali dovesse proprio risultare, alla prova dei fatti, notevolmente più oneroso rispetto alle previsioni, tale circostanza non mancherebbe di imporre una revisione attualizzata della sostenibilità economica del progetto).
20a Il diciassettesimo motivo attiene alle modalità di partecipazione al procedimento degli enti locali interessati.
Giova premettere, come già fatto dalla ricorrente, che l’approvazione del progetto preliminare comporta, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 190 del 2002, la localizzazione dell’opera, e la conforme variazione degli strumenti urbanistici vigenti. A tal fine, il relativo comma 5 dispone: “Il progetto preliminare non è sottoposto a conferenza di servizi. Il progetto preliminare, istruito secondo le previsioni del presente articolo, è approvato dal CIPE. Il CIPE decide a maggioranza, con il consenso, ai fini dell’intesa sulla localizzazione, dei presidenti delle regioni e province autonome interessate, che si pronunciano, sentiti i comuni nel cui territorio si realizza l’opera. La pronuncia deve intervenire nei termini di cui al comma che precede (n.d.r.: novanta giorni), anche nel caso in cui i comuni interessati non si siano tempestivamente espressi". Il comma 6 prevede, inoltre, le conseguenze del motivato dissenso delle regioni o province autonome interessate.
Ora, nel ricorso si deduce innanzi tutto che a nessuno dei comuni interessati sarebbe stata data la materiale possibilità di esprimere il proprio parere.
A proposito del comune di Messina, in particolare, il relativo organo consiliare era stato convocato per il 4 agosto 2003 per esprimersi sul progetto, che però era poi risultato essere stato approvato dal CIPE già il precedente giorno 1: sicché la relazione del competente dipartimento non aveva potuto essere vagliata dal Consiglio comunale.
Quanto al versante calabrese, nessun comune interessato dall’opera, e nemmeno la Provincia di Reggio Calabria, ha espresso il previsto parere. Ciò sarebbe dipeso dalla circostanza che la Regione Calabria, ricevuto il progetto in data 16\1\2003, e dovendo pronunciarsi ai fini dell’intesa entro novanta giorni da allora, solo il successivo 9\4\2003 aveva richiesto ai comuni interessati di pronunziarsi, dando loro quindi, così, appena una settimana di tempo per le valutazioni da esprimere. Il comportamento della Regione avrebbe quindi violato il principio di leale collaborazione.
Nel ricorso ci si sofferma, inoltre, sulla norma, sopra riportata, che prevede che la pronuncia dei presidenti delle regioni debba intervenire nel prescritto termine di novanta giorni anche ove i comuni interessati non si siano tempestivamente espressi. Si assume che questa previsione, degradando il parere municipale da obbligatorio (quale in materia normalmente è) a facoltativo, sarebbe in contrasto con il nuovo assetto costituzionale (che ha notevolmente ampliato la sfera delle autonomie locali), a meno di non ritenere che nei riguardi dei comuni rimasti silenti debba essere accordato un termine supplementare.
Nel ricorso viene dedotta poi anche, a monte, la violazione della L.R. Calabria n. 19 del 16 aprile 2002, la quale regola le modalità attraverso le quali il presidente della Giunta regionale può accordare l’intesa per la localizzazione di opere pubbliche statali.
Tale legge prevede, all’art. 16, che la volontà di intesa venga espressa dalla Giunta, previa convocazione di una conferenza di servizi con la partecipazione delle province, dei comuni e degli altri enti territoriali interessati: e questa disciplina non farebbe che adeguare l’ordinamento regionale ai principi della legislazione statale, alla cui stregua la conferenza dei servizi è istituto generale per localizzare opere pubbliche difformi dagli strumenti urbanistici e prevede la partecipazione necessaria dei comuni coinvolti.
Viene precisato in ricorso che la citata legge regionale non potrebbe essere ritenuta incompatibile con il disposto dell’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 190\2002, e quindi da esso superata. Ciò in quanto la norma statale non si occuperebbe delle modalità attraverso le quali le regioni dovrebbero determinarsi in ordine all’intesa sulla localizzazione, materia che ricadrebbe nell’ambito riservato alla legislazione regionale (le due discipline avrebbero, perciò, oggetti ed ambiti di efficacia diversi, e tra loro sussisterebbero al più delle semplici e non decisive interferenze).
La Regione Calabria, pertanto, illegittimamente avrebbe omesso di convocare la conferenza di servizi e di fare esprimere il proprio organo giuntale, giusta le prescrizioni dettate dalla propria legge n. 19\2002. E ciò avrebbe viziato l’intesa espressa in seno al CIPE dal suo presidente e, mediatamente, la delibera dello stesso Comitato Interministeriale.
20b Neppure queste critiche sono convincenti.
20b1 In relazione al primo profilo dedotto il Tribunale deve far notare come i comuni interessati siano stati posti, nei fatti, pienamente in grado di esprimere e far pervenire i loro punti di vista agli organi decisori del procedimento. Le rispettive Regioni, difatti, dopo averli chiamati ad esprimersi, hanno atteso un lasso di tempo del tutto congruo prima di constatarne l’inerzia e concludere i relativi subprocedimenti esprimendo i propri consensi.
Il comune di Messina, in particolare, risulta essere stato invitato dalla Regione Sicilia a presentare le proprie osservazioni con nota n. prot. 14198 del 4\3\2003 (cfr. l’all. n. 33, ultimo periodo, della produzione della società resistente). La relativa pratica fu tosto istruita dai competenti servizi, tanto che la relazione del Dipartimento Politica del Territorio era stata approntata già nel successivo mese di aprile (come è stato precisato dalla difesa di RFI senza ricevere contestazioni ex adverso: d’altra parte, la copia della relazione prodotta dalla ricorrente non evidenzia alcuna data), ma il Consiglio comunale, pur disponendo di un ampio lasso di tempo, non ha mai assunto determinazioni in proposito. Sicché la Regione, dopo avere atteso sino al 30\7\2003 (all. n. 32 RFI; quindi, dopo un’attesa superiore al termine previsto dalla legge), ha doverosamente dato seguito al procedimento pur nell’assenza delle osservazioni del detto Comune.
Considerazioni simili possono essere fatte anche per gli enti del versante calabrese.
E’ pacifico che la Regione Calabria abbia inviato il 9 aprile del 2003 alle amministrazioni locali la richiesta di esprimersi, e altrettanto sicuro è che il consenso della stessa Regione sia stato espresso, a chiusura del procedimento, solo con nota del successivo 31 luglio: dati, questi, già sufficienti a rendere evidente ictu oculi come anche le amministrazioni del versante calabrese abbiano avuto a disposizione un congruo lasso di tempo per esprimersi (anche in questo caso di durata superiore ai novanta giorni). Non senza aggiungere che l’esistenza della procedura in itinere era ampiamente pubblicizzata e quindi risaputa, soprattutto a livello locale, con la conseguente possibilità di attivarsi per tempo: tant’è che il comune di Villa San Giovanni già nel precedente mese di marzo aveva espresso alla Regione delle valutazioni in argomento, che, ancorché ristrette a talune problematiche soltanto, dimostravano comunque già una conoscenza di partenza dei lineamenti progettuali sui quali si sarebbe dovuto prendere in seguito posizione.
In definitiva, perciò, le amministrazioni locali calabresi, anche ove fosse stato effettivamente impossibile esprimere le osservazioni di competenza in soli sette giorni, avrebbero ben potuto, anche senza la formale richiesta di una proroga, pronunciarsi non appena possibile, il che avrebbe comunque assicurato l’acquisizione dei loro punti di vista al procedimento.
Di conseguenza, nemmeno alla Regione Calabria –la quale prima di chiudere il subprocedimento di propria competenza ha congruamente atteso- potrebbe essere ascritta una violazione del principio di leale collaborazione.
20b2 Il secondo profilo del mezzo in trattazione verte sulla previsione (ex art. 3, comma 5, d.lgs. n. 190\2002) che la pronuncia dei presidenti delle regioni debba essere resa nel prescritto termine di novanta giorni anche ove i comuni interessati non si siano tempestivamente espressi.
Nel ricorso si deduce, come si è visto, che questa disposizione, degradando il parere dei comuni da obbligatorio a facoltativo, contrasterebbe con il nuovo assetto costituzionale. E’ già la stessa premessa da cui muove questo ragionamento, però, a presentarsi difettosa, posto che la norma citata, disegnando una fisionomia procedurale che non può prescindere affatto dalla richiesta dell’avviso in discorso (che non può quindi essere omessa), ma solo dal fatto della sua acquisizione entro un congruo termine, non cessa di farne un parere obbligatorio ai sensi della normativa vigente (art. 16 legge n. 241\1990).
Ciò posto, non sembra consentito dubitare della costituzionalità della norma per il fatto che essa permette, dinanzi al contegno di inerzia degli enti locali interessati, di prescindere dall’acquisizione delle osservazioni invano loro richieste. Poiché, infatti, a tali enti è comunque normativamente assicurata -sol che essi intendano avvalersene- la possibilità di una partecipazione attiva al procedimento, ciò si presenta sufficiente al rispetto del ruolo loro riconosciuto dalla Costituzione. Laddove, per converso, se la disciplina positiva dovesse imporre al procedimento di attendere comunque e senza limiti di tempo un’espressa presa di posizione da parte loro, un simile assetto, traducendosi in una inammissibile subordinazione degli interessi statali a quelli locali, anche in conflitto con il valore del buon andamento, sarebbe esso, allora sì, incompatibile con la Carta.
La stessa parte ricorrente si mostra consapevole di ciò quando ipotizza, in conclusione, che i propri dubbi di costituzionalità potrebbero essere fugati attraverso la mera condizione dell’assegnazione ai comuni rimasti silenti di un termine supplementare per esprimersi (pag. 117 dell’atto introduttivo): assunto al quale pare sufficiente replicare, nel merito, che esso lascia inesplicata la ragione per la quale il congruo termine che la legge già contempla dovrebbe essere reputato insufficiente da solo ai fini del rispetto delle garanzie costituzionali, e quindi lesivo di queste.
Donde la manifesta infondatezza di questo primo sospetto di legittimità costituzionale.
20b3 Il contenuto residuo del motivo investe i rapporti tra il d.lgs. n. 190\2002 e la L.R. Calabria n. 19\2002 (art. 16), della quale si lamenta la violazione.
Il Tribunale non condivide, a questo riguardo, la tesi di parte ricorrente secondo la quale la citata legge regionale sarebbe compatibile con il disposto dell’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 190\2002.
Dalla lettura del decreto legislativo (del quale rilevano, oltre che l’art. 3, anche l’art. 1, commi 1 e 2), ma, ancor prima, della legge di delega n. 443 del 2001 (cfr. l’art. 1, c. 2, lett. b) e c)), si evince come il legislatore statale, in funzione dell’obiettivo della celerità delle opere in questione, si sia dedicato con ottica semplificatrice alla disciplina dell’intera sequenza procedurale destinata a mettere capo all’approvazione del progetto preliminare delle relative iniziative, ivi compreso “quanto necessario per la localizzazione dell’opera d’intesa con la regione o la provincia autonoma competente, che, a tal fine, provvede a sentire preventivamente i comuni interessati" (legge n. 443\2001, art. 1, comma 2, lett. b)).
Non solo, quindi, la materia di cui si occupa l’art. 16 della citata L.R. Calabria ricade, rispetto alle opere in discorso, nello spettro d’azione della prevalente lex specialis statale. Ma l’ottica proposta in ricorso dell’applicazione integrata delle relative due discipline, sostanziandosi nel forzoso innesto nell’agile sequenza delineata dal legislatore statale di ulteriori momenti procedurali l’appesantirebbe inevitabilmente, attentando alla primaria esigenza di speditezza e predeterminazione di tempi che costituisce l’imperiosa parola d’ordine di tutto il procedimento speciale.
Una specifica attenzione merita, in questo senso, la previsione dell’art. 3 del d.lgs. n. 190, che espressamente esclude le conferenze di servizi per i progetti preliminari delle opere rientranti entro queste speciali procedure. Occorre soffermarsi sul fatto che questa norma è stata collocata ad apertura dello stesso comma, il 5°, che si occupa principalmente proprio della partecipazione delle autonomie regionali e comunali al procedimento: da ciò consegue che dal punto di vista dell’interpretazione letterale appare corretto, come ha fatto l’Amministrazione, intendere la disposta esclusione delle conferenze di servizi riferendola anche ai segmenti procedurali della partecipazione delle succitate autonomie all’intesa sulla localizzazione.
D’altra parte, gli scritti della ricorrente non lasciano comprendere su quali basi venga ipotizzata la necessità costituzionale di ricorrere indefettibilmente proprio allo specifico modulo della conferenza di servizi, laddove, come si è detto poco sopra, ai fini del rispetto dello statuto costituzionale degli enti locali deve ritenersi sufficiente la garanzia della possibilità di una partecipazione attiva da parte loro al procedimento, quali che siano le forme di tale partecipazione (e sempre che, naturalmente, la garanzia sia effettiva).
Per quanto esposto, alle amministrazioni intimate non è possibile addebitare neppure la violazione della legge regionale più volte detta.
Né può ritenersi che con le riportate previsioni dell’art. 3 del d.lgs. n. 190, interpretate nei termini illustrati, siano stati travalicati i confini della potestà legislativa statale, come viene apoditticamente asserito in ricorso.
Il tema così evocato presenta, in realtà, uno spessore più articolato e problematico di quanto traspaia dagli scritti di parte.
La Consulta, infatti, con la recente decisione n. 303 del 1°\10\2003, essendo stata chiamata a stabilire se il complesso iter procedimentale prefigurato dal legislatore statale con il citato decreto fosse ex se invasivo delle attribuzioni regionali, ha puntualizzato -tra l’altro- che “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente … significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che … giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze" (par. n. 2.1), ed ha sottolineato come queste istanze unitarie possano prevalere ove “la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza … e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata" (par. n. 2.2).
Delineati così i parametri con i quali una questione di legittimità costituzionale nella specifica materia dovrebbe indefettibilmente confrontarsi, è immediato osservare che quella prospettata nel presente giudizio non soddisfa siffatta necessità.
Di qui la manifesta infondatezza anche di questo dubbio di costituzionalità così apoditticamente esposto, ed il conclusivo rigetto anche del diciassettesimo motivo di ricorso.
21 Con l’ultimo motivo d’impugnazione si denunzia una situazione di incertezza circa l’attuale assetto dei regimi urbanistici dell’area.
Richiamato il disposto dell’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 190\2002, secondo il quale l’approvazione del progetto preliminare comporta “l’automatica variazione degli strumenti urbanistici vigenti e adottati", nel ricorso si deduce che la genericità e superficialità del progetto impugnato non consentirebbe un effettivo adeguamento della strumentazione urbanistica (il che richiederebbe idonee accurate definizioni cartografiche). Il progetto lascerebbe, cioè, largamente indeterminata la disciplina urbanistica di vaste aree interessate dal ponte, o comunque connesse all’iniziativa, violando il principio cardine che non tollera situazioni di incertezza nelle destinazioni degli immobili.
Dimostrazione di tanto sarebbe offerta dalle molteplici prescrizioni allegate alla delibera CIPE attinenti alle modalità di sviluppo del progetto definitivo, dalle quali trasparirebbe l’insufficiente approfondimento di tutti gli aspetti connessi alla localizzazione dell’opera e, in pratica, l’intento di fondo di rinviare ogni decisione alle successive fasi della progettazione.
Con ciò, però, ancora una volta la ricorrente fa riferimento esclusivo a –una congerie di- prescrizioni di approfondimento ed aggiornamento che accedono al progetto impugnato per inferirne automaticamente l’esistenza di vizi nel medesimo. Le predette prescrizioni, tuttavia, rispecchiano in se stesse –e fino a puntuale dimostrazione del contrario- nulla più che il naturale rapporto di graduale specificazione che intercorre tra i diversi modi di essere dei distinti livelli di progettazione, nel progressivo divenire e definirsi dell’idea progettuale di partenza.
La prospettazione della censura non si fa adeguatamente carico, inoltre, della circostanza che quello per cui è causa è, dopo tutto, soltanto un progetto preliminare.
In conclusione, anche questo motivo deve essere rigettato, non essendo stati allegati né tanto meno dimostrati i precisi profili in relazione ai quali il progetto in questione risulterebbe indeterminato o insufficientemente approfondito in relazione agli standard vigenti per il corrispondente stadio progettuale.
22 Per le ragioni esposte, in definitiva, il ricorso, essendo risultato nel suo insieme infondato, deve essere respinto.
Si rinvengono, tuttavia, ragioni tali da giustificare la compensazione delle spese processuali tra tutte le parti in causa.
P Q M
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I, respinge il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
La decisione sarà eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, Camere di consiglio dell’11 e 17\2\2004.

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