REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, II sezione di Lecce, composto dai Signori
Antonio Cavallari Presidente
Giuseppina Adamo giudice
Luigi Viola giudice
ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A
sul ricorso n. 1712 del 2004, proposto da Panarelli Anna Maria, titolare della ditta GOLDENOVO, rappresentata e difesa dall’avv. Fabrizio Cecinato, dall’avv. Luigi Cecinato e dall’avv. Filiberto Morelli, con domicilio in Lecce, presso la Segreteria del TAR,

C O N T R O
il Comune di Leporano, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Francesco De Feis ed elettivamente domiciliato in Lecce, via Arco di Prato n. 9, presso l'avv. Italo Porcari,
per l'annullamento
a) della delibera 23 agosto 2004 n. 32 del Consiglio comunale di Leporano, con cui veniva approvato il "Regolamento comunale per lo spargimento dei fertilizzanti organici naturali e misure contro la proliferazione di insetti infestanti";
b) del "Regolamento comunale per lo spargimento dei fertilizzanti organici naturali e misure contro la proliferazione di insetti infestanti", redatto dal Responsabile del Servizio tecnico ambientale del Comune di Leporano;
c) e, ove occorra, della conseguente ordinanza sindacale 25 agosto 2004 n. 55, con cui veniva ordinato a tutti gli operatori del settore l'osservanza e il rispetto di quanto stabilito dal suddetto Regolamento comunale.
Visto il ricorso con i relativi allegati e la successiva memoria;
visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Leporano;
visti gli atti tutti della causa;
udita alla pubblica udienza la relazione del consigliere, dott. Giuseppina Adamo, e udito altresì, l'avv. Spina, in sostituzione dell’avv. Luigi Cecinato.
Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
La GOLDENOVO, con sede a circa un chilometro di distanza dal centro abitato di Leporano, opera nel campo dell'allevamento di galline ovaiole, con circa 107.000 capi (e con la produzione quindi di una notevole quantità di escrementi organici denominati "pollina").
La ricorrente ha sempre smaltito i detti escrementi utilizzandoli come fertilizzanti, secondo le prescrizioni del decreto ministeriale 19 aprile 1999 (codice di buona pratica agricola), emanato in attuazione della direttiva comunitaria n. 91/676.
Con delibera 23 agosto 2004 n. 32, il Consiglio comunale di Leporano ha approvato il "Regolamento comunale per lo spargimento dei fertilizzanti organici naturali e misure contro la proliferazione di insetti infestanti", che prevede una serie di divieti per lo svolgimento dell'attività, tra cui il divieto di spargimento della pollina sul suolo nel periodo dal primo maggio al primo ottobre (articolo 9 del Regolamento).
L'impresa, in persona della titolare, quindi impugna detta deliberazione (insieme con l'ordinanza sindacale 25 agosto 2004 n. 55, con cui veniva disposta l'osservanza dell'atto regolamentare), alla stregua dei seguenti motivi:
1) violazione del sesto comma dell'articolo 117 della Costituzione e del secondo e terzo comma dell'articolo 38 del decreto legislativo 11 maggio 1999 n. 152; carenza assoluta di potere, manifesta ingiustizia;
2) violazione dell'articolo 97 della Costituzione; eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà, travisamento dei fatti, manifesta ingiustizia.
Si é costituito il Comune di Leporano, che ha contestato le tesi attoree.
All'udienza del 2 dicembre 2004 la causa è stata riservata per la decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Occorre preliminarmente ricostruire l’assetto normativo che definisce la competenza del comune in materia di effluenti di allevamento.
Innanzi tutto è da ricordare che, a norma dell’art. 3 del decreto legislativo 11 maggio 1999 n. 152, le competenze nella materia della tutela delle acque sono disciplinate dal Decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
In particolare, per gli artt. 81 e 88 del Decreto legislativo n. 112/1998, sono conferite alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni amministrative in tema di tutela non espressamente affidate allo Stato.
La legge regionale 30 novembre 2000 n. 17 ha poi ripartito, in attuazione della legge 1997 n. 57 e del Decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, le competenze relative alla tutela ambientale (compresa quella attinente alle acque- artt. 27-29).
Nello specifico, tale legge (art. 28, lett. d)) affida alle province “il rilevamento, la disciplina e il controllo delle operazioni di utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento o di acque reflue idonee al suddetto utilizzo, ivi comprese quelle provenienti da allevamenti ittici e aziende agricole e agroalimentari”.
Tale normativa, com’è ovvio, non ha potuto tener conto della riforma del titolo V della Costituzione e, in specie, dell’art. 118, come sostituito dall'art. 4 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, per il quale “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
La Corte costituzionale (occupandosi, nella sentenza I ottobre 2003, n. 303, del complesso problema dell’esercizio di competenze legislative statali nell’ambito di materie riservate, ex art. 117, alla regione) ha evidenziato che nell'art. 118, primo comma, della Costituzione è indubbiamente contenuto un elemento di flessibilità, riferito esplicitamente alle funzioni amministrative, un meccanismo dinamico che finisce col rendere meno rigida la distribuzione delle competenze, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Infatti, coerentemente con la matrice teorica e con il significato pratico della sussidiarietà, è logico che essa agisca come subsidium quando un livello di governo sia inadeguato alle finalità che si intenda raggiungere (che, nella costruzione della Corte, diversamente da quanto è in questione nella fattispecie concreta, ne fonda addirittura un'attitudine ascensionale) (punto 2.1).
Partendo da tali premesse, la Corte ha chiarito che i principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni di enti di livello territoriale diverso da quello normativamente previsto sia proporzionata e non risulti affetta da irragionevolezza, concludendo che la sussidiarietà, come incorporata dall’art. 118, si discosta in parte da quella già conosciuta nel nostro diritto di fonte legale. Enunciato nella legge 15 marzo 1997, n. 59 come criterio ispiratore della distribuzione legale delle funzioni amministrative fra lo Stato e gli altri enti territoriali e quindi già operante nella sua dimensione meramente statica, come fondamento di un ordine prestabilito di competenze, quel principio, con la sua incorporazione nel testo della Costituzione, ha visto mutare il proprio significato. Accanto alla primitiva dimensione statica, che si fa evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, è resa, infatti, attiva una vocazione dinamica della sussidiarietà, che consente ad essa di operare non più come ratio ispiratrice e fondamento di un ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate, ma come fattore di flessibilità di quell'ordine in vista del soddisfacimento puntuale e pronto di esigenze di pubblico interesse. In altri termini, la sussidiarietà non opera come aprioristica modificazione delle competenze in astratto, ma come metodo per l'allocazione di funzioni al livello che, nel concreto, risulti più adeguato, sicché l’esercizio di competenze (nel caso esaminato dalla Corte, legislative; nella presente ipotesi, invece, amministrative) da parte di un livello diverso da quello di astratta pertinenza si può reputare ingiustificato solo se venga dimostrata l’adeguatezza e la capacità di svolgere in tutto o in parte la funzione dell’ente (formalmente) competente (punto 2.2).
Di tali argomentazioni si può e si deve tener conto nell’esame degli atti gravati, evidenziando che essi costituiscono il risultato non di una deroga, bensì, al contrario, di una puntuale applicazione del disegno distribuitivo delle competenze delineato dall’art. 118, che appunto privilegia il livello comunale.
In definitiva, il Comune ha inteso affrontare il problema degli effluenti da allevamento (non solo di quelli avicoli), globalmente, seguendo in ciò l’impostazione data alla questione dalla stessa ARPA, nella nota 24 aprile 2004 n. 1179/04.
Nel territorio la gestione di tali rifiuti ha comportato rilevanti conseguenze e inconvenienti di tipo ambientale, incidenti sulla stessa situazione igienico-sanitaria, materia tradizionalmente rientrante nella sfera municipale.
L’attività svolta dal Comune, quindi, in effetti rappresenta un’adeguata estrinsecazione del ruolo dell’Ente territoriale, come normativamente definito dall’art. 3, II comma, del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267, per il quale “Il comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo”. Ciò in una situazione in cui né la Provincia né la Regione si sono dimostrate in grado di soddisfare l’interesse di quella collettività a convivere con un’attività che fosse regolamentata, tenendo conto delle specifiche caratteristiche geografiche, climatiche ed economiche (anche in relazione alla tipologia e alla densità degli allevamenti) della zona, come ha invece espressamente (si legga al proposito la parte motiva della delibera consiliare 23 ottobre 2004 n. 32, approvativa del censurato regolamento) ha inteso fare il Comune.
Il primo motivo è perciò infondato.
Non ha pregio neppure la seconda (subordinata) censura.
Dal complesso della documentazione processuale (in particolare da quella prodotta dal Comune) si evince la perdurante gravità oggettiva della situazione ambientale che giustifica (in termini di logicità e proporzionalità), nel loro coordinato insieme, sia la predisposizione di cautele per evitare la proliferazione di insetti sia il divieto di spargimento della pollina nei mesi più caldi, in favore di altre forme di smaltimento, che rappresentano sicuramente un aggravio di costo per le aziende (di certo giustificato nella situazione) ma non un obbligo d’impossibile adempimento, d’altronde suscettibile di deroga, in base al regolamento, in casi particolari.
Il ricorso è dunque da rigettare.
Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio.

P. Q. M.

il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione II di Lecce, respinge il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Lecce, nella Camera di Consiglio del 2 dicembre 2004.
Antonio Cavallari- Presidente
Giuseppina Adamo - relatore ed estensore
Pubblicato l’8 febbraio 2005

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