Popolo, territorio, sovranità. Su questi tre pilastri i costituzionalisti fondano il modello di Stato-Nazione che l’Italia, così come altri paesi europei, ha realizzato.
Ma lo sviluppo economico e sociale che dal 1948 ad oggi ha contraddistinto la storia del nostro Paese, la nascita e diffusione delle tecnologie, l’ampliamento dei mercati, l’integrazione europea e la globalizzazione sono fattori che hanno progressivamente eroso la concezione dello Stato-nazione. Quando i popoli (cioè i cittadini) si incontrano e si mescolano tra loro, quando i territori (intesi come confini) divengono barriere che l’economia ed il pensiero umano superano, anche la sovranità (cioè il governo e il concetto di Stato centrale e centralistico) deve corrispondere a questa evoluzione.
Emergono così nuovi attori e nuove esigenze che chiedono di essere soddisfatte. E il dibattito sulle trasformazioni della società investe l’articolazione dello Stato e delle istituzioni.


“Dagli anni Trenta a oggi, il numero delle imprese industriali e dei servizi è passato da un milione a circa quattro milioni, che diventano cinque con le imprese agricole. Questa vera e propria popolazione di imprese rappresenta il 20% del totale europeo, con un tasso di crescita veramente rilevante, soprattutto nel Sud: ogni giorno in Italia nascono oltre mille imprese. E’ il nuovo ceto medio, con un’identità sempre più riconoscibile, che esprime nuove richieste e nuove aspirazioni nei confronti delle istituzioni e della politica”. Così il presidente di Unioncamere, Carlo Sangalli (1), ha ricostruito l’evoluzione della società economica italiana, in occasione del Centenario di Unioncamere, svoltosi alla presenza del Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, nel dicembre del 2001.
La novità più significativa della storia del Paese consiste nella diffusione delle piccole e medie imprese come un fatto di massa. Proprio a questa crescita molti studiosi attribuiscono una delle cause della crisi del concetto di Stato-nazione in Italia. Il ruolo dell’impresa, la globalizzazione, il rapporto delle imprese con il territorio – diverso da quello che hanno i cittadini – sono fattori determinanti di questa nuova riflessione sull’architettura dello Stato. In un sistema politico e amministrativo unitario era considerato naturale che le funzioni pubbliche convergessero verso il centro e che le molteplici autonomie si collocassero, verticalmente, lungo i diversi livelli della piramide istituzionale. Lo sviluppo delle attività commerciali e produttive ben al di là dei confini nazionali rompe, invece, l’identificazione degli interessi delle imprese con quelli dello Stato centralista.


All’indomani della guerra, quando cioè la nostra Costituzione viene scritta, il prodotto interno lordo nazionale aveva una composizione da Paese sotto-sviluppato: il 30% si doveva all’agricoltura, il 35% all’industria, il 35% ai servizi. Lo scenario cambia radicalmente negli anni Settanta. In questo periodo, cominciano ad emergere con prepotenza le piccole e medie imprese, prime attrici di un secondo boom economico italiano. Organizzandosi in distretti produttivi, puntando sul design, sulla qualità e sulla capacità di entrare in mercati internazionali, avvantaggiandosi di una prepotente capacità innovativa, della snellezza operativa e di una forte propensione all’internazionalizzazione, raccolgono successi significativi in tanti settori: tessile-abbigliamento, pelli e calzature, legno-mobilio, marmi lavorati, meccanica tradizionale e macchine per l’industria, agroalimentare. Il modello di sviluppo italiano, basato sulle piccole e medie imprese e sui distretti, diviene sinonimo di successo ma, malgrado ciò, resta privo di un riconoscimento istituzionale e politico. Non a caso, nella Costituzione non esiste alcun riferimento all’impresa, salvo l’ovvio enunciato che l’iniziativa economica è libera. Si può dire, come afferma Alberto Quadrio Curzio, che le piccole e medie imprese sono cresciute senza poter contare sull’aiuto “dello Stato, della burocrazia, dei sindacati e spesso della pubblica opinione, alla quale le Pmi venivano presentate come i luoghi del sommerso, del lavoro nero, dell’evasione fiscale generalizzata”(2).


Si manifesta, allora, una nuova “domanda di cittadinanza” espressa dalle piccole e medie imprese, così come da altri settori della società civile. Soggetti attivi della società, in quanto produttori di ricchezza e di innovazione, ma soggetti passivi rispetto al quadro politico-istituzionale, in quanto oggetto dell’attività amministrativa, le imprese invocano un riconoscimento istituzionale e democratico. La richiesta è quella di un ampliamento dei centri decisionali, la trasformazione dello Stato “dalla piramide all’arcipelago”, come scrive Antonio D’Atena (3), l’evoluzione del potere centrale, come sostiene il Censis (4), in maniera da “rispondere alla crescente complessità della società attraverso organi operativi e decisionali diversi rispetto alla tradizione, non più in una logica di decentramento delle competenze ma di attribuzione di funzioni”.
La richiesta che progressivamente emerge è quella di una statualità diversa, composta anche da entità che non siano rigidamente legate alla dimensione territoriale, non derivino la propria legittimazione dalla rappresentanza politica e partitica e siano espressione di comunità parziali della società civile. Ciò impone un accrescimento dei punti e delle modalità di rapporto con la società, al centro ma soprattutto nelle periferie locali.


Questo percorso, accompagnato da una nuova riflessione sul principio di sussidiarietà, ha già una sua storia.
Infatti, alla fine degli anni Ottanta è emerso un disegno netto e preciso di modernizzazione dell’amministrazione dello Stato e dei suoi apparati centrali, orientato a dare risposta concreta al bisogno di trasformazione dell’ordinamento italiano dal tradizionale modello centralizzato a un moderno sistema reticolare, rispettoso delle esigenze dei cittadini e attento a massimizzare l’efficienza e l’efficacia dell’amministrazione. A partire dalla X legislatura (1987-1992) diversi provvedimenti hanno introdotto riforme significative in materia di amministrazione e di rapporto tra questa e i cittadini, di riordino dei poteri locali, di ammodernamento dell’amministrazione e dell’apparato centrale. Tra questi, ad esempio, la legge 142/90 sulle autonomie locali, che ha attribuito ai Comuni funzioni nella cura degli interessi della comunità locale.



In questo clima e con questi presupposti viene approvata, nel 1993, dopo un lungo iter parlamentare (5) la riforma delle Camere di Commercio (legge 580/93, si veda il box di seguito), provvedimento che, per la prima volta nel nostro ordinamento, dà una prima risposta alla richiesta di presenza istituzionale espressa dalle imprese.
“Uno degli aspetti più innovativi della 580 – dice Danilo Longhi (6) – sta proprio nel proporre un modello di Stato che, al posto di una logica di organizzazione gerarchica del potere, inserisce una logica pluralista che sa valorizzare livelli di governo plurimi, settoriali, funzionali, fondati sull’autonomia degli organi di rappresentanza dei corpi sociali intermedi. Con la 580, infatti, viene a completarsi il quadro delle autonomie, attraverso il riconoscimento, accanto a quelle già previste per il territorio e i cittadini, di una specifica istituzione autonoma con funzione di cura e di sintesi degli interessi collettivi delle imprese”.
Con la riforma, le Camere saranno non solo la casa e il centro di servizi per tutte le imprese, ma potranno assumere anche il ruolo di “imprenditori collettivi”, cioè di soggetti di impulso alla crescita di qualità nell’azione delle varie imprese.
Secondo Lorenzo Ornaghi (7), la legge 580/93 deve essere considerata una riforma “politica” perché pone “in primo piano due aspetti che si riveleranno fondamentali (…) anche per le prossime ipotesi di riforma delle istituzioni statali: quello della pluralità delle ‘sfere di rappresentanza’, e quello di un’articolazione dei ‘livelli di governo’ più rispondente – già a partire dall’ambito delle economie locali – agli odierni rapporti fra territorio, economia, istituzioni politiche”.

Negli stessi anni, si accende anche il dibattito sul tema delle autonomie funzionali. L’espressione fa riferimento a corpi sociali, rappresentativi di interessi di comunità parziali, che svolgono funzioni di rilievo pubblico.
Le prime ad essere incluse in questa categoria sono le Camere di Commercio, che rappresentano gli interessi generali delle imprese, e le Università, espressione del sistema scolastico.
Per Piero Bassetti (8), “le Camere di Commercio sono (…) autonomie funzionali, la cui posizione nell’ordinamento e nell’organizzazione dello Stato si colloca al di fuori delle tradizionali relazioni gerarchiche esistenti tra i diversi organi di rappresentanza politica. Esse sono enti che, al di là della circoscrizione provinciale di riferimento, per la natura delle loro attività di servizio non hanno un ambito di intervento strettamente correlato al territorio (…)”.
Con la riforma, le Camere diventano gli enti ai quali l’amministrazione statale dovrà rivolgersi per tutta la materia riguardante il sistema imprenditoriale a livello locale.
Alla domanda di innovazione proveniente dalla società, lo Stato risponde avviando un lento ma progressivo processo di riordino dei poteri amministrativi, che ha nella diffusione del modello delle autonomie funzionali una delle sue linee guida.
I principi dell’autonomia e dell’autogoverno, sebbene non in maniera uniforme, si estendono così ad ampi settori di interesse collettivo: le imprese, con la riforma delle Camere di Commercio; il sistema formativo, con la prima attribuzione di autonomia alle Università; il credito, con l’evoluzione delle fondazioni bancarie; le infrastrutture, con la riforma delle autorità portuali; il sistema della promozione, con la riforma degli enti fieristici.


E’ un percorso che trova molti sostenitori. Tra gli altri Roberto Formigoni (9), che, nel 1996, scrive “le autonomie funzionali sono uno dei possibili soggetti su cui incardinare una nuova forma di Stato originata dal basso, in quanto esse presidiano, sganciate da un legame costruttivo con il territorio, quelle funzioni che sono fondamentali per lo sviluppo di una società complessa”.


E’ però con il decentramento amministrativo che le autonomie funzionali (Camere di Commercio, Università e autonomie scolastiche) ricevono un chiaro riconoscimento sul piano normativo (si veda il box). La cosiddetta legge “Bassanini”, che avvia il grande progetto di federalismo amministrativo a Costituzione invariata, ed i suoi decreti legislativi di attuazione sono il capitolo più importante di questo ingresso delle autonomie funzionali nell’ordinamento italiano.
La legge 59/97, infatti, all’art. 1, comma 4 lettera d), per la prima volta introduce il principio delle autonomie funzionali, con una norma di salvaguardia dei compiti “esercitati localmente in regime di autonomia funzionale dalle Camere di Commercio, industria, artigianato, agricoltura e dalle Università degli studi”. Inoltre, all’art. 7, comma 2, prevede che sui decreti di trasferimento delle risorse debba essere sentita, tra gli altri, l’Unioncamere, quale organismo di rappresentanza degli enti locali funzionali.
Il provvedimento segna un chiaro superamento di una visione dell’ordinamento centrata esclusivamente sugli enti territoriali, omogenei in quanto legati al circuito della rappresentanza politica e partitica. La legge, infatti, precisa che il criterio di prossimità, in base al quale scegliere l’ente da preferire, è da intendere non soltanto in senso territoriale, ma anche in senso funzionale: questo significa, ad esempio, che per gli imprenditori l’istituzione più “vicina" è la Camera di Commercio.
La legge Bassanini sancisce anche che gli enti funzionali, insieme con quelli territoriali, sono soggetti pubblici che possono essere titolari di funzioni, oltre che proprie, anche decentrate dalle amministrazioni centrali e dalle Regioni. Il provvedimento, inoltre, introduce esplicitamente il principio di sussidiarietà quale criterio per i rapporti non solo tra le istituzioni a base territoriale, ma tra queste e le altre istituzioni (quali le Camere di Commercio) e tra le istituzioni e la società. Con la legge 59/97 e con i successivi decreti si rovescia, in sostanza, l’impostazione che aveva avuto fino a quel momento nel nostro ordinamento il sistema della pubblica amministrazione. Si passa, insomma, da un sistema amministrativo basato essenzialmente sull’amministrazione statale, a un sistema che, all’opposto, poggia essenzialmente sulle Regioni e sulle autonomie locali, comprese le autonomie funzionali.


Nei primi mesi della XIII legislatura (1996-2001) viene a maturazione una importante novità: tra le principali forze politiche si diffonde la consapevolezza della necessità di adeguare ai tempi nuovi la Costituzione.
A gennaio del 1997, così, viene istituita la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, cui spetta il compito di elaborare progetti di revisione della parte seconda della Costituzione, in particolare in materia di forma di Stato, forma di governo, bicameralismo e sistema delle garanzie. Il suo presidente è Massimo D’Alema.
La Commissione decide di dedicare la fase iniziale dei propri lavori ad una serie di audizioni di rappresentanti delle istituzioni, dell’economia e del lavoro. Durante queste audizioni diversi soggetti portano all’attenzione della Commissione il tema delle autonomie funzionali. In particolare, Unioncamere sottolinea come per le Camere di Commercio sia necessaria una salvaguardia costituzionale di autonomia, in quanto istituzioni in cui si esprime l’autogoverno da parte delle imprese.
A giugno dello stesso anno, la Commissione presenta alle Camere un progetto di legge di riforma dell’intera seconda parte della Carta costituzionale.
L’articolo 56 del progetto di legge reca questa dizione:
• “Le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati sono ripartite tra le comunità locali, organizzate in Comuni e Province, le Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali, riconosciute dalla legge. La titolarità delle funzioni spetta agli enti più vicini agli interessi dei cittadini, secondo il criterio di omogeneità e di adeguatezza delle strutture organizzative rispetto alle funzioni medesime”.
Dopo la trasmissione alle Camere, il testo diviene oggetto di una serie di emendamenti. L’articolo 56 mostra di essere uno dei nodi politici di maggior rilievo dell’interno progetto di riforma, a causa delle differenti posizioni presenti nelle forze parlamentari sul tema della sussidiarietà. Il riferimento alle autonomie funzionali vive così tutte le alterne vicende delle varie riscritture della norma.
A novembre del 1997, la Commissione rinvia alle Camere un nuovo testo, che, salvo lievi modifiche, viene approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati nel marzo 1998.
Questa la sua dizione:
• “Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall’autonoma iniziativa dei cittadini, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni pubbliche sono attribuite a Comuni, Province o Città metropolitane, Regioni e Stato sulla base dei principi di sussidiarietà e differenziazione. La titolarità delle funzioni compete rispettivamente a Comuni, Province o Città metropolitane, Regioni e Stato, secondo i criteri di omogeneità e adeguatezza. La legge garantisce le autonomie funzionali.”
Commentando il testo, Vincenzo Cerulli Irelli così diceva all’assemblea di Montecitorio: “mentre le comunità territoriali – regionali, provinciali e comunali – hanno certamente diritto all’autogoverno, vi sono anche comunità non territorialmente qualificate ma qualificate come categorie per la loro presenza sociale: mi riferisco ai professionisti, agli imprenditori e agli studiosi, ovvero a tre categorie tipiche dell’autonomia funzionale e, quindi, agli Ordini professionali, alle Camere di Commercio e alle Università degli studi. Si tratta di comunità che possono darsi – e si danno – forme particolari di autogoverno, e che il Parlamento riconosce come categorie che possono partecipare – insieme ai governi territoriali – all’esercizio della funzione di governo del paese”.
I lavori della Bicamerale si concludono qui: nel maggio del 1998 si rompe l’accordo tra le principali forze politiche che avevano permesso l’istituzione della Commissione. L’esame del progetto di legge in aula viene quindi “congelato”, in attesa di ulteriori sviluppi che consentano la ripresa del processo di riforma.


I lavori riprendono successivamente, ma con una chiara inversione di rotta. Nella cosiddetta “bozza Amato” - il disegno di legge costituzionale che ha riavviato il processo di riforma del Titolo V - presentata nel marzo del 1999, sono caduti sia il riferimento alle autonomie funzionali, sia il richiamo al principio di sussidiarietà orizzontale. Le omissioni della “bozza Amato” vengono parzialmente compensate dal nuovo testo unificato, licenziato dalla Commissione affari costituzionali della Camera, presentato nel novembre 1999. In questo ambito, l’articolo 114 recupera tutti e due gli elementi persi nel testo precedente.
Il testo dell’articolo 114, infatti, così recita:
• “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province o Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. La legge garantisce le autonomie funzionali” (comma 1);
• “L’esercizio delle funzioni pubbliche è ripartito sulla base dei principi di sussidiarietà e differenziazione” (comma 2).
Nel novembre del 2000, in attesa del varo della nuova Costituzione, un chiaro riconoscimento alle autonomie funzionali e alle Camere di Commercio arriva dalla Corte Costituzionale: dirimendo un ricorso riguardante la legittimità costituzionale di una serie di disposizioni della legislazione della Regione Trentino Alto Adige in materia di Camere di Commercio, la massima Corte ribadisce in maniera inequivocabile che, in base alla legge di riforma del 1993, le Camere di Commercio sono:
• “un ente pubblico locale dotato di autonomia funzionale che entra a pieno titolo, formandone parte costituente, nel sistema degli enti locali secondo lo schema dell’articolo 118 della Costituzione” (10).
Il confronto politico sulla riforma costituzionale proseguirà nei mesi seguenti.


L’epilogo della articolata vicenda è storia dei nostri giorni.
L’8 marzo del 2001, con una ridottissima maggioranza parlamentare, viene approvata dal Senato in lettura definitiva la legge di riforma del Titolo V della Costituzione, divenuto poi legge costituzionale (la n. 3/2001) a seguito del referendum popolare dell’ottobre dello stesso anno.
In essa il riferimento alle autonomie funzionali è scomparso, insieme con quello riguardante gli “altri enti locali”, all’interno del quale, come la Corte Costituzionale aveva affermato e come, fin dal 1986, aveva sostenuto Leopoldo Elia (11), le Camere di Commercio potevano essere ricomprese.
In compenso, nel testo rimane il principio di sussidiarietà sia orizzontale che verticale. I riferimenti a questo principio sono contenuti nella revisione dell’articolo 118 della Costituzione.
Questi i passaggi:
• “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” (comma 1);
• “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (comma 4).
Commentando la della nuova versione dell’articolo 118, Antonio D’Atena (12) scrive: “(…) la coerente attuazione del principio di sussidiarietà” non può “non investire la stessa statualità. La quale, per assolvere adeguatamente al proprio ruolo ‘sussidiario’, non può presentarsi come un’entità monolitica (…), ma deve articolarsi pluralisticamente per esibire ai settori della società civile (…) il volto meno ‘estraneo’ e ‘intrusivo’”. Al testo manca però il riferimento alle Camere di Commercio, che, “essendo espressione del pezzo di ‘società civile’ cui si rivolge la loro azione, sono in grado di procedere a bilanciamenti dei diversi interessi da contemperare, non ‘dall’esterno’ ma (…) ‘dall’interno’”.


La partita del riconoscimento costituzionale delle autonomie funzionali, apparentemente persa con l’approvazione della legge 3/2001, si è invece riaperta con la nuova legislatura. Tanto i problemi interpretativi sul testo licenziato nel 2001, quanto l'insorgere di contrasti istituzionali tra centro e Regioni, quanto una diversa sensibilità intorno al tema della sussidiarietà, hanno condotto a riaprire la riflessione sulla Carta costituzionale.
Al dibattito prendono parte anche i presidenti delle Regioni.
Una riforma che punti sulla valorizzazione delle autonomie è quella auspicata da Enzo Ghigo (13), il quale, agganciando il nodo della riforma federale italiana a quello della governance europea, afferma: “immaginare un federalismo che non guardi all’Europa significherebbe una pericolosissima miopia che danneggerebbe l’intero sistema paese. Il federalismo di cui si parla, sulla valorizzazione delle autonomie, significa infatti sì attenzione alle peculiarità delle singole regioni, ma anche non dimenticare il senso di appartenenza al proprio paese. I sistemi camerali, proprio perché è comunque indispensabile immaginare un futuro sempre più europeo, sono da considerarsi anelli fondamentali in questo processo di trasformazione”.
Secondo Roberto Formigoni (14), la strada del dialogo e della concertazione tra i diversi soggetti istituzionali e d’impresa è quella giusta. Questa, del resto, è anche la grande sfida offerta dal federalismo al sistema delle istituzioni: “essere più efficienti e capaci di costruire un sistema di regole in grado di garantire lo sviluppo, di creare le condizioni per la rapidità e l’economicità delle pubbliche procedure”.
Le prospettive della riforma, secondo Vasco Errani (15), partono da una nuova messa a punto della “questione del federalismo attraverso il completamento del Titolo V, il federalismo fiscale da subito, il Senato federale, la ridefinizione della base elettiva della Corte Costituzionale senza pensare o immaginare una sorta di spartizione regionale della Corte stessa, ed avendo un’idea di cooperazione (la parola chiave del federalismo), come in Germania”.
Un’opinione, questa, ribadita recentemente anche da Giuseppe De Rita (16). Partecipando al dibattito sulle riforme costituzionali, il presidente del Censis afferma: “L’alternativa a questa irrevocabile destrutturazione dello Stato non può essere quella di riprodurne lo stampo, miniaturizzandolo in venti piccole piramidi per ognuna delle Regioni italiane.” Invece, “diventerà sempre più importante il rapporto con i poteri più legati alla vita delle comunità locali, dai Comuni alle Province, dalle Comunità montane alle Università, dalle Camere di Commercio agli enti fiera”.
In questa riflessione trova spazio nuovamente il tema del riconoscimento e della valorizzazione delle autonomie funzionali, a favore del quale si schierano sia rappresentanti di entrambi gli schieramenti politici presenti in Parlamento, sia le associazioni di categoria (17).
La riapertura della riflessione viene confermata dallo stesso presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che, in occasione dell’Assemblea del novembre 2002 di Unioncamere, così scrive al presidente Sangalli: “(…) per essere pronti a cogliere tutte le opportunità dello sviluppo, abbiamo bisogno più che mai di realtà in grado di fornire servizi avanzati alle nostre imprese, per accrescere la loro capacità di competere e di innovare, per rafforzare la presenza dei sistemi imprenditoriali locali nel quadro del mercato globale. Il Paese sta affrontando (…) il passaggio delicatissimo delle riforme istituzionali, in cui si sta componendo progressivamente il futuro assetto federalista. Le Camere di Commercio hanno avuto ed hanno un ruolo di rilievo anche nella costruzione di un decentramento moderno, capaci di riorganizzare il sistema delle istituzioni in modo da riportare più vicino alle imprese i centri delle decisioni politiche ed amministrative. (…) Il disegno di legge sulla devolution, ndr. sarà l’occasione importante per riformare la nostra Carta costituzionale in modo davvero moderno e al passo con l’Europa. Mi auguro altresì che, alla fine, il testo possa tenere conto anche delle autonomie funzionali a cui le Camere di Commercio appartengono”.
Sangalli (18), all’audizione tenuta al Senato il 16 gennaio 2002, evidenzia i rischi di una visione tradizionale del federalismo, incentrata tutta sul dato territoriale. “Da un lato – dice Sangalli – (la riforma del 2001, ndr.) ha portato a trascurare il ruolo dell’associazionismo e del privato organizzato; dall’altro, ha ridotto la sussidiarietà ad una idea fondata solo sulla prossimità territoriale, dimenticando la sua dimensione funzionale, nonché l’indispensabile complementarità che deve esistere tra enti diversi e nei riguardi della società civile ed economica”.


Un chiaro segnale d’attenzione al tema delle autonomie funzionali viene dal ministro per gli Affari regionali, Enrico La Loggia, cui si deve il disegno di legge attuativo del nuovo Titolo V della Carta costituzionale. In esso è inserita una importante norma di salvaguardia per le autonomie funzionali, che implicitamente riconosce come, all’interno del nuovo quadro costituzionale, accanto a Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, esistano altre soggettività – come le autonomie funzionali – dotate di uno specifico ruolo istituzionale. Il testo prevede, tra l’altro, che le Camere di Commercio possano essere destinatarie di ulteriori funzioni.
Così, infatti, recita l’articolo 7, comma 1, del disegno di legge (AC 3590), approvato nel gennaio scorso dal Senato e prossimo alla lettura definitiva da parte della Camera dei deputati:
• “Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono a conferire le funzioni amministrative da loro esercitate alla data di entrata in vigore della presente legge, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, attribuendo a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato soltanto quelle di cui occorra assicurare l’unitarietà di esercizio, per motivi di buon andamento, efficienza o efficacia dell’azione amministrativa ovvero per motivi funzionali o economici o per esigenze di programmazione o di omogeneità territoriale, nel rispetto, anche ai fini dell’assegnazione di ulteriori funzioni, delle attribuzioni degli enti di autonomia funzionale, anche nei settori della promozione dello sviluppo economico e della gestione dei servizi. Stato, Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni e Comunità montane favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà (…)”.
Nei giorni scorsi, inoltre, il Consiglio dei ministri ha varato la cosiddetta “riforma della riforma”, ovvero la nuova versione di alcuni degli articoli della seconda parte della Costituzione, predisposta dal ministro La Loggia . Si tratta di un testo destinato a chiarire molti punti controversi della riforma dell’Ulivo del 2001.
Determinante, nell’ottica di un riconoscimento istituzionale delle autonomie funzionali, è la nuova versione dell’articolo 117 della Costituzione. In esso vengono definite chiaramente le materie oggetto della potestà legislativa esclusiva dello Stato e quelle di competenza esclusiva delle Regioni. Alla competenza esclusiva dello Stato spetta, tra l’altro, “l’ordinamento generale degli enti di autonomia funzionale”.
“La ragione fondamentale che deve essere alla base di qualsiasi processo riformatore – afferma il ministro La Loggia (19) - è quella di fornire ai cittadini dei servizi più efficaci, più efficienti ed a minor costo, dando nel contempo l’opportunità al sistema Paese nel suo complesso di essere più competitivo nei confronti dei partner europei ed internazionali. Negli ultimi anni abbiamo dovuto constatare che l’assetto costituzionale del nostro Paese non è stato in grado di accompagnare adeguatamente le potenzialità insite nel sistema economico e produttivo italiano. Di qui l’impegno assunto dal Governo Berlusconi ad imprimere un forte cambiamento, attraverso un piano organico di riforme che saranno presentate proprio in questo 2003 in maniera tale da giungere ad loro compimento entro la fine della legislatura”. In quest’ambito “il sistema camerale ha un ruolo di fondamentale importanza ai fini della promozione dello sviluppo economico e della gestione dei servizi sul territorio”.
Il testo licenziato, quindi, da Palazzo Chigi contiene quel riconoscimento costituzionale atteso dalle autonomie funzionali e dalle Camere di Commercio. L’iniziativa passa adesso all’esame del Parlamento, cui spetta l’approvazione definitiva della “riforma della riforma”.





NOTE

1 Carlo Sangalli, Intervento tenuto in occasione del Centenario di Unioncamere, Roma, 13-14 dicembre 2001

2 Alberto Quadrio Curzio, “Imprese, autonomie funzionali e nuova Costituzione”, in Impresa e Stato, n. 35.1996.

3 Antonio D’Atena, in “Istituzioni”, supplemento del periodico quindicinale Per l’Impresa, n. 1 del 15-27 gennaio 1997, pag. 4

4 Fondazione Censis, “Le autonomie funzionali nell’economia e nel territorio”, 1996

5 Come descrive Gianfranco Aliverti in “L’iter parlamentare della legge di riforma delle Camere di Commercio”, in Impresa e Stato, n. 25, 1994

6 Danilo Longhi, Intervento tenuto all’Assemblea degli amministratori camerali, Padova, 12-13 dicembre 1994

7 Lorenzo Ornaghi, “Politica degli interessi e democrazia. La riforma camerale”, in Impresa e Stato, n. 25, 1994

8 Piero Bassetti, “Le Autonomie funzionali”, Cnel, 20 marzo 1996

9 Vannino Chiti e Roberto Formigoni, “Rifare lo Stato. Il ruolo delle Regioni”, in Impresa e Stato, n. 33, 1996

10 Sentenza n. 477/2000 della Corte Costituzionale

11 Leopoldo Elia, Parere espresso a Unioncamere

12 Antonio D’Atena, “La riforma federale e il sistema camerale”, in “Istituzioni”, supplemento del periodico quindicinale Per l’Impresa, n. 5, 14-26 marzo 2001

13 Intervista pubblicata su “Istituzioni” supplemento del periodico quindicinale Per l’Impresa, n. 7 dell’11-24 aprile 2001, pag. 2

14 Trascrizione dell’intervento tenuto all’Assemblea degli amministratori camerali, Stresa, 11-13 luglio 2002

15 Trascrizione dell’intervento al convegno “Statuti regionali: le proposte delle Camere di Commercio”, Bologna 24 ottobre 2002

16 Giuseppe De Rita, “Il federalismo sbagliato”, articolo comparso sul Corriere della Sera, 2 dicembre 2002

17 Le Confederazioni, insieme con Unioncamere, nel dicembre 2001 sottoscrivono un documento nel quale si richiede che venga salvaguardata e valorizzata l’autonomia delle Camere di Commercio e dei loro organi; che sia assicurata una adeguata presenza delle Camere nei principali organi di raccordo e coordinamento tra Stato, Regioni e altre autonomie; che nella riforma della Costituzione il Parlamento inserisca anche efficaci garanzie per le autonomie funzionali. Il documento viene sottoscritto da: Abi, Ania, Confagricoltura, Confartigianato, Confcommercio, Confcooperative, Confederazione italiana agricoltori, Confesercenti, Confindustria, Cna, Coldiretti, Lega nazionale cooperative e mutue

18 Audizione al Senato del presidente di Unioncamere, Carlo Sangalli, 16 gennaio 2002

19 Intervista pubblicata su “Politiche e reti per lo Sviluppo”, rivista dell’Unione italiana delle Camere di Commercio, n. 0, marzo-aprile 2003, pagg. 8-9


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