AVVERTENZA: Il testo che segue, scaricabile anche in formato pdf, costituisce la Sintesi del "Rapporto sullo stato del Decentramento in Italia" realizzato dall'Osservatorio Istituzioni, Decentramento e Sussidiarietà dell'Unioncamere e pubblicato a Roma, da Retecamere, nel 2006. Mentre l'Introduzione, la Presentazione ed il Primo capitolo (Le motivazioni e gli obiettivi) sono riportati per intero, degli altri capitoli è riprodotto l'abstract.

 
INTRODUZIONE
Carlo Sangalli
 
Questo Rapporto, promosso e curato dall’Osservatorio Istituzioni Decentramento e Sussidiarietà dell’Unioncamere, partendo da un’analisi attenta dell’effettivo realizzarsi del decentramento nell’ambito di alcune materie cruciali per lo sviluppo economico produttivo del Paese (dall’internazionalizzazione d’impresa alla tutela del consumatore, dalle infrastrutture alla semplificazione amministrativa, dal commercio al turismo, alla collaborazione interistituzionale tra i diversi livelli di governo), rappresenta uno strumento per comprendere l’impatto del decentramento sul sistema produttivo e al tempo stesso vuole contribuire al dibattito sui processi di riforma istituzionale che nell’ultimo decennio hanno attraversato in profondità la vita del Paese e che, oggi più che in passato, richiedono un supplemento di responsabilità da parte di tutti per arrivare a compimento. L’analisi tratteggiata in questo lavoro restituisce un panorama piuttosto variegato sia sotto il profilo delle diversità tra le aree geografiche del Paese sia delle differenze tra le specifiche materie approfondite, che inevitabilmente producono impatti eterogenei sul sistema delle imprese.
 
D’altro canto, in questi ultimi anni il perimetro dei poteri regionali, comunali, delle province, delle comunità montane e delle città metropolitane, si è ampliato in modo significativo. Se al crescente affermarsi delle autonomie elettive si aggiunge lo sviluppo delle autonomie funzionali (Camere di Commercio, Fondazioni Bancarie, Enti Fiera, Enti Portuali ed Interportuali, ecc.) possiamo affermare che il sistema delle istituzioni è andato assumendo un carattere sempre più “policentrico”. Da tempo si è andata largamente affermando la consapevolezza che la statualità tradizionale non sia in grado di dare risposte adeguate a tutte le istanze che un sistema produttivo complesso come il nostro inevitabilmente esprime.
 
In questo scenario di progressivo decentramento istituzionale, di riorganizzazione pluralista dei poteri pubblici, di articolazione funzionale delle competenze, il sistema produttivo italiano ha atteso dal processo di europeizzazione politiche mirate alla soluzione dei problemi legati alla macro competitività. Parallelamente, dai processi di devoluzione delle competenze e di crescita dei livelli intermedi di governo le imprese aspettavano politiche di sviluppo dei servizi.
 
Ma se, oggi, l’Europa mostra segnali di affaticamento nel corrispondere alle esigenze dei sistemi imprenditoriali, le Regioni italiane, profondamente rafforzate dalla riforma del titolo V della Costituzione, e sulle quali attualmente si concentrano la maggior parte delle competenze legislative relative alle attività produttive, stanno sviluppando, seppure in modo eterogeneo e non senza difficoltà, risposte ai bisogni espressi dal tessuto produttivo.
 
Si pensi al tema dell’internazionalizzazione: dove in presenza di normative regionali molto disomogenee e spesso troppo generiche, rispetto ad una produzione legislativa regionale consistente, le imprese non trovano ancora centri di competenza e luoghi di presidio politico amministrativo sufficienti a dare risposte alle articolate problematiche dei sistema produttivi, nonostante le buone prassi rilevate in alcune Regioni.
 
O ancora al tema della “semplificazione amministrativa” in materia di attività d’impresa dove lo Stato non ha più le competenze legislative in molte materie ora passate alla competenza regionale residuale, spesso cruciali per la disciplina delle attività imprenditoriali, e ha anche perso la possibilità, per le materie della competenza concorrente, di emanare regolamenti, ora rimessi alla potestà regionale. Adesso che, alcune Regioni “virtuose” hanno avviato importanti processi di semplificazione, eliminando numerosi vincoli burocratici, si assiste al progressivo superamento della logica di sfiducia verso le istituzioni da parte dei cittadini e delle imprese.
 
In materia di turismo si rileva l’esigenza da parte dei sistemi produttivi dell’integrazione non solo della filiera turistica, ma dell’intero territorio turistico: la modernità e l’integrazione del terziario devono infatti tradursi in norme e politiche. Considerare il fenomeno turistico nella sua complessità, nell’insieme territoriale e nella valenza economica del distretto, significa vederlo integrato perciò con il commercio, con i servizi, con l’artigianato, con i pubblici esercizi di somministrazione al pubblico, con i trasporti, con i parchi (naturali o artificiali), con le strutture di diffusione della cultura, con i servizi sanitari.
 
Infine, relativamente al tema del commercio emerge con evidenza che alcune Regioni stanno operando molto bene, modernizzando, liberalizzando e semplificando veramente, altre stanno tentando di farlo, mentre altre stanno facendo oggettivamente dei passi indietro rispetto alla c.d. riforma Bersani, e lo stanno facendo riguardo a problematiche significative per la vita e la competitività delle imprese.
 
Un punto mi preme sottolineare particolarmente, lo sviluppo recente del ruolo delle Camere di Commercio - tuttora in corso di definizione attraverso continui arricchimenti in termini di competenze - ha certamente le sue radici nella legge 580/93. In essa si possono rinvenire alcuni principi di ampio respiro a partire dai quali risulta più facile comprendere i risultati successivamente ottenuti, frutto di un disegno portato avanti dal legislatore con continuità e coerenza. In particolare, la legge che ha riformato l’ordinamento del sistema camerale contiene un’innovazione determinante legata al concetto di autonomia che non si declina soltanto nelle forme dell’autonomia istituzionale, statutaria, organizzativa, finanziaria da essa attribuite agli enti camerali
 
Nella legge di riforma delle Camere di Commercio, infatti, viene a concretizzarsi un’idea di autonomie non necessariamente legate ad una rappresentanza generalizzata dei cittadini residenti su un dato territorio ma di autonomie rappresentative di interessi generali; capaci cioè di concorrere - congiuntamente al sistema degli enti territoriali - a dare voce alle molteplici articolazioni di cui è ricca la nostra società.
 
Si afferma così, anche nel nostro Paese, l’esistenza di comunità differenziate portatrici di specifiche esigenze e, quindi, anche l’esistenza di soggetti come le Camere di Commercio, espressione dell’autonomia sociale degli attori del mercato – imprese, associazioni, lavoratori, professionisti, consumatori – destinati ad arricchire il panorama istituzionale ed amministrativo del Paese.
 
L’esigenza di una riforma dello Stato che cominciasse a riallineare la società civile, il sistema economico e le istituzioni, ha quindi consentito anche agli enti dotati di autonomia funzionale - quali le Camere di Commercio – di concorrere assieme alle autonomie territoriali al processo di ridistribuzione delle competenze all’interno dell’ordinamento amministrativo pubblico. Partendo da compiti quali la regolazione e la trasparenza del mercato, la cura e la certificazione delle imprese, la promozione dello sviluppo locale, l’autonomia funzionale delle Camere di Commercio si è progressivamente “riempita” di contenuti facendone istituzioni che oggi più che mai costituiscono l’interfaccia tra il sistema delleimprese e la pubblica amministrazione in ambito locale, regionale, nazionale ed europeo.
 
Lo svolgersi di questo processo ha posto sempre più le Camere di Commercio di fronte all’esigenza di ridefinire il complesso dei rapporti con le altre istituzioni, soprattutto regionali e locali. Sia per raccordare lo sviluppo del territorio con un economia di dimensioni sempre più globali, sia per coniugare le esigenze specifiche del tessuto produttivo locale con la richiesta di prestazioni e servizi omogenei in tutto il Paese e sempre più prossimi agli standard europei.
 
 
 
 
PRESENTAZIONE
(Antonio D’Atena)
 
Nel presente Rapporto l’attenzione è focalizzata, più che sui profili generali o strettamente istituzionali dei processi di decentramento sviluppatisi nel nostro Paese (ai quali, peraltro, sono dedicati i due capitoli iniziali), sul modo in cui tali processi hanno inciso (ed incidono) sulle attività economico-produttive.
Si tratta di una scelta che non ha bisogno di particolari spiegazioni. Basti considerare che negli ultimi 10 anni il baricentro della presenza pubblica in economia si è decisamente spostato a livello decentrato (soprattutto a livello regionale), a conclusione di un percorso i cui momenti salienti sono rappresentati, da un lato, dalla l. n. 59/1997 e dai decreti legislativi adottati sulla sua base, d’altro lato, dall’atto che ha riformato il titolo V Cost.: la l.cost. n. 3/2001.
Soffermando l’attenzione su quest’ultima, è sufficiente ricordare che attualmente gran parte delle competenze legislative in ordine alle attività produttive (o, comunque, suscettibili di incidere sul loro svolgimento) sono comprese tra le materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117, comma 3, o si collocano all’interno dell’estesissima area dei settori innominati, evocati residualmente dal comma 4 della medesima disposizione.
In conseguenza di ciò, oggi molte delle risposte alle esigenze della produzione debbono essere fornite dalle Regioni. Le quali – tra l’altro – per effetto del rovesciamento dell’enumerazione delle competenze legislative, sono state poste in condizione di superare la logica settoriale dei propri interventi e, conseguentemente, di procedere ad azioni integrate coinvolgenti ambiti materiali diversi e reciprocamente interferenti (Desideri). Si pensi – per fare un solo esempio – alla possibilità, su cui si intrattiene il cap. 5, che gli interventi sulla filiera turistica muovano da una visione integrata del territorio “turistico”, collegandosi con quelli relativi ad ambiti come il commercio, i servizi, l’artigianato, i trasporti, etc…
È, peraltro, noto che il quadro normativo presenta elementi di estrema complessità. I quali, in questi anni, hanno notevolmente condizionato il decollo del nuovo assetto.
Un primo ordine di problemi nasce dalla collocazione, tra le materie di legislazione concorrente, di ambiti a forte vocazione nazionale, come la produzione ed il trasporto “nazionale” dell’energia e le “grandi” reti di trasporto. Una collocazione, la quale, se portata alle estreme conseguenze, dovrebbe trovare espressione in un assetto regolativo di tipo binario: comprendente un corpus unitario di principi statali e venti diverse discipline regionali di dettaglio. Il che, in ambiti di così manifesto rilievo nazionale, darebbe vita ad evidenti problemi.
Non è, quindi, casuale che proprio su questo terreno si sia dispiegato, con la massima intensità, l’impegno interpretativo-costruttivo della Corte costituzionale. La quale – com’è noto (e come il cap. 4 pone in luce) –, facendo leva sulle potenzialità dell’art. 118, comma 1, ammette la “chiamata in sussidiarietà” a livello nazionale, oltre che delle funzioni cui la disposizione letteralmente si riferisce – le funzioni amministrative –, delle competenze legislative.
Ma la complessità del quadro generale di riferimento non dipende soltanto dalla non felicissima collocazione di alcune voci negli elenchi costituzionali. Deriva anche da un dato di ordine strutturale, che nell’esperienza degli ultimi anni si è rivelato centrale: l’intreccio degli ambiti materiali. 
È infatti frequente che uno stesso oggetto possa essere riferito a materie diverse. Com’è frequente che nella disciplina del medesimo fenomeno s’intersechino, intrecciandosi, distinti titoli competenziali: competenze esclusive dello Stato, competenze concorrenti, competenze spettanti alle Regioni per effetto della clausola residuale. Si pensi – ad esempio – al tema della tutela dei consumatori (cap. 6), in cui convivono profili diversi, di pertinenza di diversi legislatori: dal commercio, alla tutela della concorrenza, all’ordinamento civile, alla tutela del risparmio.
Non può, infine, non ricordarsi che la nuova disciplina costituzionale delle funzioni amministrative, a differenza dalla precedente (ed a differenza di quanto comunemente si registra nei sistemi federali e regionali), non alloca direttamente le competenze, ma si limita a dire come vadano allocate, affidandosi, per intero, ad una disciplina di principio notevolmente aperta.
Tutto ciò premesso, è da rilevare che, pur in presenza di un quadro normativo con così ampi margini di indeterminatezza, nei quattro anni e mezzo trascorsi dall’entrata in vigore della novella costituzionale si stanno profilando delle linee di tendenza sufficientemente definite.
La prima tendenza si svolge nel segno dell’articolazione pluralistica. È, infatti, evidente che, una volta spostato a livello sub-statale l’asse della produzione normativa, tanto le regole quanto le soluzioni organizzative tendano a differenziarsi.
Tale varietà di soluzioni si manifesta anzitutto sul piano dell’approccio. Ci si riferisce alla prospettiva, alternativamente, settoriale od intersettoriale degli interventi. Un ambito in cui questa variabile si coglie con particolare chiarezza è quello dei supporti all’internazionalizzazione (cap. 7): che alcune Regioni collocano nel quadro più generale degli interventi relativi alla promozione ed allo sviluppo delle attività produttive, mentre altre affrontano con l’occhio rivolto a settori specifici.
Un secondo livello di diversificazione è costituito dal merito (o dal contenuto) delle scelte. Si pensi – ad esempio – alle normative sul commercio (cap. 8), od alle differenti risposte che, a livello regionale, riceve la domanda di semplificazione in materia di attività d’impresa (cap. 3).
Ma le differenze non si riferiscono esclusivamente alle discipline materiali. Esse riguardano anche le strutture organizzative di cui le Regioni si dotano o delle quali, comunque, si avvalgono.
In materia di sportelli regionali per l’internazionalizzazione (SPRIN), ad esempio, emergono quattro distinti modelli: quello della gestione diretta da parte delle Regioni, quello del ricorso alle CCIAA, quello della creazione di apposite strutture (nella forma di consorzi od agenzie), quello, infine, dell’utilizzazione degli uffici regionali dell’ICE (cap. 7). E considerazioni non molto dissimili possono valere per il turismo (cap. 5). Si pensi alla diversificata collocazione del settore all’interno degli assessorati regionali ed alla variegata tipologia di strumenti messi a punto dalle singole Regioni: agenzie, enti di soggiorno, consulte, osservatori … Non meno articolato, infine, è il campionario di formule organizzative adottate in materia di tutela dei consumatori (v. cap. 6), comprendente: consulte regionali, osservatori sui prezzi, sportelli di assistenza, consigli o comitati regionali dei consumatori e degli utenti, centri di ricerca… e si potrebbe continuare.
Per completare il quadro, è da segnalare che la legislazione regionale esaminata non evidenzia solo divergenze, ma anche convergenze. Tra esse, particolarmente significative sono quelle dovute allo spontaneo adeguamento alle Regioni a standard nazionali che, da un punto di vista strettamente giuridico, non si imponevano (e non si impongono) al loro rispetto. L’ipotesi ricorre, ad esempio, per la nuova legge-quadro sul turismo. La quale, per effetto della ravvicinatissima entrata in vigore della riforma del titolo V, è stata immediatamente privata della sua originaria funzione istituzionale (quella di indirizzare, in modo giuridicamente impegnativo, la legislazione regionale). Ciò non ha però impedito ad alcune Regioni di ispirare ad essa la loro produzione normativa (v. cap. 5): e di dar vita, così, ad un diritto interregionale parzialmente uniforme. In parte analoga è la situazione per quanto riguarda la semplificazione in materia di attività d’impresa (cap. 3), a causa dell’adeguamento di talune legislazioni regionali alla disciplina dettata dall’art. 3 del dl 35/2005 (una disciplina, peraltro, che, a giudizio di parte della dottrina, disporrebbe di quei titoli competenziali che alla legge-quadro sul turismo fanno difetto).
L’altra tendenza fondamentale che le rilevazioni contenute nel Rapporto evidenziano è quella relativa allo sviluppo di relazioni improntate alla collaborazione. Il che è tanto più notevole, se si considera che la dimensione cooperativa dei rapporti tra i diversi livelli di governo è stata in larghissima misura ignorata dal legislatore costituzionale del 2001. 
È – ad esempio – estremamente significativo che alle risorse della cooperazione la Corte costituzionale ricorra ormai regolarmente per calibrare la distribuzione delle competenze: richiedendo – ad esempio – accordi tra lo Stato e le Regioni ai fini della determinazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA), o affidando a procedimenti collaborativi la soluzione dei delicati problemi posti dall’intreccio di materie e di competenze.
Per quanto specificamente attiene alle tematiche esaminate nel Rapporto, a tale linea interpretativa può essere ricondotta la trasformazione di talune ipotesi di co-legislazione previste dall’art. 117 novellato in ipotesi di co-governo (cap. 4). Il fenomeno si registra nel campo delle infrastrutture. Per la ragione che la Corte costituzionale, pur ammettendo – come si è visto – la chiamata in sussidiarietà delle competenze legislative, la subordina alla condizione che essa sia concordata con le Regioni. Le quali, in tal modo, non vengono totalmente estromesse dal settore, ma recuperano in esso un ruolo di governo, nel segno, appunto, della cooperazione interistituzionale.
D’altra parte, che la cooperazione si stia rivelando un elemento centrale dell’esperienza è confermato dal ruolo assunto dalle Conferenze (cap. 2): la Conferenza Stato-Regioni, la Conferenza Stato-città e la Conferenza unificata. Le quali si sono accreditate come i luoghi naturalmente deputati alla cooperazione ed al dialogo interistituzionali. Com’è – tra l’altro – confermato dai frequenti casi in cui al loro intervento fa appello lo stesso giudice della costituzionalità.
Con riferimento ai temi del decentramento e delle attività produttive, può ricordarsi che in sede di Conferenza Unificata sono stati stipulati l’accordo sui trasporti del 14.2.2002 e l’intesa interistituzionale del 30.5.2002; mentre in sede di Conferenza Stato-Regioni sono stati sottoscritti l’accordo sui principi per l'armonizzazione, la valorizzazione e lo sviluppo del sistema turistico (recepito con DPCM 13.9.2002) ed il recentissimo accordo generale di cooperazione per la partecipazione regionale alla formazione degli atti comunitari (16.3.2006).
È peraltro noto che la cooperazione interistituzionale non si sviluppa soltanto nelle Conferenze di cui si è appena detto. Procedure collaborative attraversano, infatti, l’intero tessuto istituzionale, percorrendolo verticalmente ed orizzontalmente. Esse si sviluppano anche a livello decentrato e coinvolgono, oltre agli enti territoriali, le autonomie funzionali. Si pensi – a titolo esemplificativo – all’intesa interistituzionale sul coordinamento finanziario sottoscritta il 25.9.2003 dalla Regione Lombardia, con l’UPL, l’ANCI-Lombardia e l’UNCEM-Lombardia. Si pensi ancora all’accordo-quadro del 26.1.2004 per lo sviluppo economico e la competitività delle imprese lombarde, stipulato dalla medesima Regione e da Unioncamere-Lombardia. Si pensi, infine, al recentissimo accordo-quadro per la competitività del territorio e del suo sistema economico sottoscritto, in Emilia-Romagna, dalla Regione e dalla locale Unione regionale delle CCIAA, il 26.4.2006.
Non c’è bisogno di proseguire nell’esemplificazione per misurare l’imponenza del fenomeno. Il quale, non solo sta connotando in maniera strutturale l’esperienza italiana dei processi di decentramento, ma, in presenza di un quadro normativo ad elevata complessità come quello attualmente vigente, si sta rivelando una strada praticamente obbligata.
 
 
 
 
1.      LE MOTIVAZIONI E GLI OBIETTIVI
(Antonino Zaniboni)
 
Questa ricerca cade, si può dire, nel cuore del problema. Il momento non poteva essere più cruciale: il confronto tra le diverse posizioni è molto teso e si esprime spesso tra posizioni divaricate; il dibattito e il processo di riforme istituzionali e costituzionali sono al loro culmine.
Credo che questo nostro lavoro rappresenti una scelta tempestiva e per molti aspetti coraggiosa, nel cuore di questioni centrali che hanno coinvolto e coinvolgono le più alte sedi istituzionali e tutti i livelli della vita civile. Pur ancora in una fase di movimento, intendiamo offrire una mappa della situazione del decentramento, oggi, in questo snodo e crocevia rilevanti della storia del Paese; si vuole in particolare fare il punto di un processo di fatti e di parole alla luce della legislazione e degli impegni degli ultimi anni, quale che siano le parole di volta in volta preferite, Autonomia, Decentramento, Federalismo, Devolution.
E’ stata inoltre nostra intenzione cogliere una delle tracce più autentiche, se non la più autentica, che testimonia il rapporto autonomia-unità in un divenire profondo, radicato acutamente nella cultura e nella storia d’Italia. Proponiamo quindi qualcosa di più di una fotografia.
Convergono infatti in questo lavoro motivazioni e sollecitazioni che sperano di sottrarsi alla contingenza anche richiamando quell’impronta lontana e permanente, l’antico intrecciarsi dei legami unitivi nazionali e il forte emergere dei dati distintivi delle geografie e delle storie d’Italia.
Nella convivenza dialettica di questi due momenti l’economia e la socialità hanno rappresentato dimensioni cruciali ed espressioni emblematiche, che talvolta hanno subito, talaltra determinato, ma che sempre hanno rappresentato un termometro e un riferimento di primario rilievo.
La stessa storia delle origini dell’associazionismo economico e delle istituzioni economiche rappresentate negli ultimi anni dagli enti camerali rispecchiano chiaramente questa impronta tipica dell’insieme della nostra storia. L’intenzione unitaria e il radicamento territoriale e regionale.
Si tratta di una storia complessa: da un lato l’unità nazionale è recente, ma preparata da spinte secolari; dall’altro i particolarismi hanno contrapposto talvolta la trama dei vizi dispersivi, ma le risorse storiche culturali economiche civili delle singole “regioni” hanno offerto i loro caratteri distintivi come impronta e arricchimento, pur nella dimensione unitaria. E pluribus unum è nelle insegne del più grande stato federale, gli Stati Uniti, ma rispecchia in sostanza anche la linea culturale e istituzionale più espressiva emersa nei più che secolari confronti ed esiti giuridici e legislativi in Italia, che federalista non è mai stata, ma che sempre nei momenti più alti ed efficaci dell’impegno anticentralista ha sostenuto con determinazione il vocabolario e la norma giuridica e istituzionale dell’autonomia e del decentramento amministrativo
Questo riguarda da vicino non solo gli aspetti generali della cultura e della politica, ma assai vivamente le questioni economiche e sociali che hanno avuto nell’associazionismo e nelle Camere di Commercioavamposti particolarmente avvertiti e protagonisti.
Non è inopportuno quindi né eccentrico, credo, richiamare a questo proposito un segno emblematico di questo scorrere dialettico della nostra storia nazionale all’interno di un confronto che, seguendo a ben guardare il pendolo centralismo-autonomia, in realtà si incentra sulla storia di una storia: quand’è nata l’idea d’Italia, o per meglio dire quando comincia la sua storia.
E’ la tesi di Croce che rileva una fine e un inizio nel 1870, la breccia di porta Pia, la presa di Roma. Altri storici pongono la nascita della storia d’Italia in chiave chiaramente anticentralista: nella battaglia dei liberi comuni contro il centralismo imperiale; e più lontano ancora nel bellum sociale, le lotte degli alleati latini contro Roma egemone; e altri ancora richiamano ascendenze addirittura più antiche, preromane dalla storia etrusca e dai suoi radicamenti territoriali distintivi, al nord, al sud, nella parte centrale della penisola!
Sono convinto che sia apprezzabile l’intenzione di dare a questa ricerca anche un fondamento “storico”, una consapevolezza in grado di sottrarre tematiche tanto rilevanti al fragore della polemica e della improvvisazione. Ed è anche importante che questa riflessione venga dal sistema delle Camere di Commercio, enti che vivono acutamente il duplice confine dello stato e del privato; che nello stesso tempo rappresentano la memoria storica degli squilibri e dei traguardi economici e sociali del Paese; esprimono la testimonianza vivissima di un anello importante tra l’economia e le istituzioni, tra lo sviluppo individuale dei “territori”, la loro caratterizzazione e il tessuto unitario dell’Italia.
Il dualismo centralismo/decentramento rimase vivo nella storia unitaria fin dai suoi albori nella seconda metà dell’ottocento, nell’incertezza tra il modello inglese e quello francese, in un dibattito che peraltro divise profondamente al loro interno gli stessi schieramenti parlamentari contrapposti.
Serve a illustrare la complessità dei problemi indagati in questo Rapporto,richiamare il continuo oscillare centralismo/autonomia, anche nei richiami comparati alle esperienze di altri Paesi.
Tuttavia, il confronto acceso e spesso alto tra le diverse forme di stato e delle sue articolazioni sviluppatosi in fasi successive, in realtà si misurò più sulla lettura della storia nazionale che non sui modelli esterni. Si snodò infatti sulle caratteristiche del nostro divenire come stato unitario, sulle peculiarità della storia interna dei secoli precedenti, sulle situazioni e disparità economiche e sociali, sugli assetti della politica in Europa.
Impegnativa furono in certi momenti le scelte su questi temi e in particolare sulle forme che il giovane stato dovesse darsi per farvi fronte.
Il filone che si rivelò più ricco di futuro e di prospettiva fu quello legato fortemente alle esperienze municipali e regionali fino a indicare l’autonomismo e il regionalismo come elementi fondanti della struttura democratica.
Questa riflessione, che raggiunse le forme di pensiero più significative nei primi due decenni del ‘900, in particolare tra il 1918 e il 1921, fu ripresa concretamente dopo il periodo fascista nel dibattito alla Assemblea costituente e approdò nella Costituzione della Repubblica italiana come espressione sintetica e pregnante di una storia secolare e di un dibattito culturale di grande spessore.
“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”. Non le cala dall’alto, non le crea; sono preesistenti, le riconosce e le mette a fondamento della sua unità intangibile.
E’ suggestiva questa voce della nostra Costituzione, quasi attenta alla delicatezza richiesta nel toccare la storia, multiforme e diversa, di un popolo in particolare nel momento di immetterla nella interpretazione e rappresentazione giuridica più alta e impegnativa. Evoca impronte di grande intimità civile culturale sociale economica; per questo la Costituzione le assume, anzi le riassume, con rispetto impegnando in nessun altro senso la Repubblica se non nell’assecondare e nell’accrescere coralmente la naturale vitalità dei territori e delle comunità locali, in particolare nelle loro prospettive di sviluppo.
L’associazionismo e le Camere di Commercio sono stati storicamente un “osservatorio” particolarmente sensibile su questo versante. Hanno misurato la crescita del Paese dall’interno dei suoi momenti di crescita prodigiosa e nei momenti di caduta e di difficoltà. In particolare, per il loro radicamento territoriale e nello stesso tempo per la loro aderenza alla rete regionale e nazionale del sistema camerale, hanno vissuto le storie delle diversità dei territori. Le armonie e gli squilibri.
E’ opportuno ricordare anche quanto lungo e faticoso sia stato il cammino verso gli esiti legislativi concreti del reale processo di decentramento, della realizzazione dello Stato delle autonomie. Dalla Costituzione alla istituzione delle Regioni passò quasi un quarto di secolo! E non fu un cammino indolore. Anzi fu irto di opposizioni e ostacoli a dir poco acuminati, che pur sarebbe istruttivo e utile ripercorrere.
Abbiamo alle spalle la lunga stagione che dalla nascita delle Regioni ad autonomia ordinaria nel 1970 ci conduce all’approvazione della legge costituzionale, G.U. 18 Novembre 2005, nota come devolution.
Mentre presentiamo questo nostro primo Rapporto avvertiamo il fervore dei vivaci dibattiti e delle riflessioni attuali, e sentiamo di poter dare un contributo per il ruolo avuto in questo percorso come istituzioni economiche e per il peso che hanno i problemi economici e sociali nei rapporti con i poteri locali e quindi con la moderna statualità.
Soprattutto ora che economia-aree locali-mercati totali raffigurano un triangolo nuovo e ineludibile, va avvertita la sottolineatura che dall’interno del sistema camerale e da parte di centri di ricerca e di analisi della struttura economica e sociale viene evidenziata: la necessità di rimodulare metodi e strutture per pensare e organizzare adeguati strumenti e i poteri a livello di comunità locali.
Le imprese costituiscono un mondo che opera avendo come riferimento non tanto il territorio, quanto piuttosto il mercato. Quindi, per le imprese un’organizzazione istituzionale adeguata non può avere esclusivamente come riferimento e in un certo senso anche come vincolo il territorio”. Sono le parole del Presidente di Unioncamere che nell’audizione del 16-1-2002 presentava al Senato le posizione dell’Unione in merito agli effetti nell’ordinamento della revisione del Titolo V della Costituzione denunciando che si stava affermando “una visione tradizionale del decentramento, sbilanciata tutta sul territorio”.
Mi pare corretto in effetti richiamare che le imprese non hanno geografie, il loro campo d’azione è il mercato, una non geografia. D’altro canto le istituzioni economiche, le Camere di Commercio, hanno giurisdizione territoriale definita, la provincia. Ma rappresentano gli interessi generali delle imprese, pertanto sono all’interno pienamente e originalmente del triangolo economia-territorio-mercato totale.
La visione tradizionale di territorio si attesta eccessivamente sulle strutture istituzionali classiche, rischiando di tenere in ombra aspetti fondamentali del territorio stesso a partire dall’associazionismo e dal privato organizzato; e d’altro canto riducendo gli spazi delle molteplici forme di sussidiarietà, contigue alla dimensione funzionale, nonché alle interconnessioni tra enti diversi e con la società civile ed economica.
Ritengo opportuno aggiungere che l’adesione profonda del sistema camerale alla rilevanza dei territori e alla concezione più completa di decentramento si manifesta costantemente e sfocia emblematicamente nella linea che trova la sua massima espressione nella sentenza, poi superata dalla riforma del titolo V della Costituzione, della Corte Costituzionale, n. 477 del 2000: la Camera di Commercio è “ente pubblico locale dotato di autonomia funzionale”, ma ha anche aggiunto che tale ente “entra a pieno titolo, formandone parte costitutiva, nel sistema dei poteri locali, secondo lo schema dell’art. 118 della Costituzione”.
Nelle riflessioni promosse dal sistema camerale e in particolare da Unioncamere, il territorio non è quindi costituito solo da enti locali territoriali, ma anche da enti locali funzionali. E dal quadro complessivo delle articolazioni della società civile organizzata.
E’ l’idea di territorio aperto al mondo e che nello stesso tempo si fa comunità locale. La quale è territorio e qualcosa di più.
Aggiungo alcune considerazioni di un personaggio che si autodefinisce un “localistico infernale”, teorico capostipite di territori, localismi, micro e macro aree, coalizioni e reti territoriali…
Appunto proprio il Segretario Generale del Censis, Giuseppe De Rita, relatore alla Assemblea Unioncamere del 24 Novembre 2004, richiama dapprima la stagione in cui in modo salvifico, si immaginò per le Camere di commercio a cavallo degli anni ’70 e ’80 il ruolo di soggetti legati al territorio; ma sottolinea che vi è poi stato un profondo cambiamento, che sempre più porta le Camere di Commercio a “tener conto che il loro target fondamentale è il sistema d’impresa più del territorio”.(…) “Il territorio certe volte può disincentivare, può in qualche modo diminuire la vitalità di un sistema d’impresa se è governato con termini localistici”.
Viene posto anche in questa forma il problema della complessità del rapporto tra la nuova statualità e una società che rispetto alle sue versioni territoriali, non le rinnega, le riconosce innovate, certamente le reinterpreta nei suoi mutamenti continui e profondi.
Richiamavo l’anno dell’avvio delle Regioni ad autonomia ordinaria, il 1970. Evoca un periodo di grande fervore teorico e realizzativo, un dibattito di rara levatura guidato da una classe dirigente che visse il regionalismo e il decentramento dei poteri con una intensità meritevole di repliche. Con punte di elaborazione e proposta che fecero scuola. Cito gli esempi della Lombardia e della Calabria a testimonianza di una significativa rete nazionale di cantieri del regionalismo e della autonomia.
Certo la lunga stagione che ci arriva da quegli anni segna anche i diversi sentimenti degli atti e dei pensieri di riforma autonomistica. Ritroviamo per esempio già nel decreto che mirava nel 1977 al completamento dell’ordinamento regionale, il DPR 616, la proposizione riduttiva delle strutture e dei sistemi territoriali interpretati essenzialmente nella versione politico-istituzionale a scapito dell’insieme delle articolazioni sociali e civili. Si scontrano anche in quella fase posizioni diverse sull’adeguamento costituzionale e sulla stessa interpretazione dell’approdo “regionale” del ’70: si ripropongono riserve che riecheggiano opinioni radicate di vecchio stampo centralistico e anche posizioni neorepubblicane anch’esse precedenti il ’70 che, pur sostenendo tesi di profondo cambiamento economico e sociale, temono il blocco delle istituzioni della Repubblica, sostanzialmente recenti, paventando una sorta di “microbizzazione” dello stato.
Emergono tuttavia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 istanze anticentralistiche di intonazione nuova, altre decisamente radicali, che pongono il problema del cambiamento dello stato in un insieme di motivazioni economiche, sociali, istituzionali, reinterpretando il senso della comunità locale e dei territori in chiave di rapporto distintivo o conflittuale con i livelli nazionali, ma anche europei e internazionali. Viene posta in questo quadro la “questione settentrionale”. E’ oggetto di interpretazioni diverse, di intuizioni e sensibilità disomogenee per cultura e prospettiva politica; pone in varia forma i problemi della tutela ma anche quelli delle condizioni di produttività e competitività, di modernizzazione. Si intrecciano e contrappongono parole e culture; in particolare le voci del decentramento, dell’autonomia, della devoluzione, del federalismo, talvolta addirittura della secessione.
In ogni caso si sviluppa una stagione di grande fervore, di elaborazione istituzionale e costituzionale che fissa sostanzialmente i suoi poli dialettici e di confronto nelle teorie dell’autonomia e nelle varie interpretazioni del federalismo.
Una espressione significativa di una nuova consapevolezza istituzionale e di nuova sensibilità nei rapporti istituzioni-articolazione sociale è data proprio dalla legge di riforma delle Camere di Commercio, L.580/1993. Rappresenta peraltro una chiara inversione di rotta rispetto alla logica “istituzionalista”, emblematica nel DPR del 1977: una lettura più completa della articolazione della società che sfocia in questo caso nel riconoscimento di una forte autonomia statutaria alle Camere di Commercio, che significa anche l’ordinamento, l’organizzazione, la composizione, le competenze degli organi, la disciplina delle forme di partecipazione.
Credo non sia stato casuale che una scintilla così impegnativa sia venuta da un processo legislativo e culturale che coinvolgeva il rapporto delle istituzioni pubbliche con le rappresentanze delle forze economiche, sociali, del credito, dei consumatori, della cooperazione, in una zona di confine e contatto tra il pubblico e il privato. Zona di confine interpretata con originalità particolare dalla istituzione economica Camera di Commercio, che peraltro dalla stessa legge viene investita di poteri di promozione economica e di rappresentanza degli interessi generali delle imprese.
Si è messo in moto il meccanismo del rapporto “complesso” della società civile organizzata con le istituzioni e in particolare con le istituzioni locali. Parallelamente con il cammino di ridesignazione dei poteri locali rispetto allo Stato centrale.
Un momento particolarmente significativo è dato dalla “legge Bassanini” n. 59 del 1997, rilevante complessivamente e, per quanto riguarda il livello economico e camerale, per l’introduzione delle “autonomie funzionali” e la sottolineatura della “sussidiarietà” in termini completi.
E il pendolo disegna i suoi ritmi tra sviluppi e involuzioni, dalla L. 59/97, al cammino di revisione del Titolo V della Costituzione, i lavori della “bicamerale”, la “Bozza-Amato”, il testo varato dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, la L. cost. 3/2001, la L. cost., G.U. 18 Novembre 2005.
Si tratta di un cammino di profonde e spesso controverse riforme, analizzate compiutamente in altra parte della nostra ricerca e della nostra analisi, le quali disegnano all’interno delle complessive innovazioni una nuova “situazione” anche per il mondo economico e sociale.
E’ questa situazione che noi qui stiamo affrontando cercando di leggerla e interpretarla.
Le motivazioni di fondo e le tracce culturali delineate nella prima parte di questo scritto, hanno come conseguente obiettivo concreto l’analisi della traduzione pratica, a cominciare dagli atti legislativi e dalle realizzazione d’eccellenza, degli enunciati e delle norme sul decentramento relativamente ai rapporti interistituzionali. Innanzitutto i processi che mirano a utilizzare e a esaltare le specificità dei singoli soggetti e delle loro interconnessioni nella prospettiva delle forme di governance reale dei fenomeni regionali e territoriali.
Anche a questo proposito si pone in rilievo una questione a lungo sottolineata e verbalmente enfatizzata, ma dai risultati deludenti: la semplificazione delle norme, attenzione centrale a tutto campo e decisiva per l’economia. Così richiamando i dati del World Economic Forum sottolineiamo che “oggi per avviare un’impresa, grazie alla burocrazia, in Danimarca occorrono tre giorni, nel Regno Unito cinque, in Italia sessantaquattro giorni! I costi: in Italia aprire un’impresa costa, per spesa in burocrazia, 3.800 dollari, contro i 210 in USA e 210 della Danimarca”.
Le Regioni peraltro hanno poteri molto ampi in campo economico e sociale; si auspicano norme che diano forza ai sistemi economici regionali e territoriali nell’ottica della promozione delle loro qualità produttive anche nella prospettiva della complessiva promozione del sistema Italia.
Importante è a questo fine avere un quadro certo per le prospettive efficaci dei rapporti interistituzionali e di tipo pubblico-privato. Sarebbero altrimenti parole inespressive e luoghi disabitati: i poteri locali; le sussidiarietà; le coalizioni e le reti territoriali; i patti per il “made in”, …
E’ questo un punto centrale. Riguarda la questione spesso elusa della definizione degli intenti e dei rapporti reali tra Regione, Enti locali territoriali, Enti ad autonomia funzionale, Camere di Commercio, corpi intermedi.
Il perno di questa che, talvolta con un eccesso di retorica, talvolta con matura consapevolezza, chiamiamo nuova statualità sta nella stagione dei nuovi statuti regionali, per molti aspetti una vera stagione costituente, nella quale le singole Regioni hanno ampio spazio di caratterizzazione e di iniziativa.
Un secondo, articolato obiettivo del nostro lavoro sta nell’analisi delle ripercussioni del decentramento nei settori economici e sociali: le iniziative messe in cantiere, realizzate o in itinere sulle tematiche propriamente connesse con l’economia e lo sviluppo sociale.
Il tempo che stiamo attraversando è certamente ancora in una fase di ricerca e di assestamento, e anche per questo è idoneo ai confronti e agli approfondimenti, ma anche alle iniziative concrete e significative in termini di progetti e di realizzazioni.
A questo insieme e a queste singole questioni dedichiamo nel Rapporto specifiche analisi.
Il settore della promozione turistico- territoriale è primariamente significativo in una autentica politica legata all’attuazione del decentramento. Più che mai i brand territoriali caratterizzano i mercati e coinvolgono i soggetti pubblici e privati in forme moderne di governance e di promozione integrata.
I “made in” regionali, di geocommunity, di area vasta, di territorio, da un lato attendono di essere assecondati da politiche di moderna consapevolezza da parte delle Regioni, degli Enti Locali e dei soggetti privati, dall’altro sono consapevoli della necessità di equilibrata armonizzazione con le politiche nazionali.
Fortemente connesse con queste tematiche sono le politiche per il turismo, tema complesso e articolato poiché punto di incontro e di sintesi di fattori diversi e complementari: arte, cultura, economia, produzioni caratterizzate, natura, storia, tradizioni, cucina, spettacolo, denominatori comuni forti e brand territoriali, …
E parimenti è campo di azione di soggetti diversi e complementari, chiamati a moderne forme di governance e di promozione integrata: istituzioni locali, imprese, soggetti economici, culturali, consorzi specifici, consorzi pubblico-privati…
Anche in questo campo è importante che vi sia una forte azione normativa e istituzionale che incoraggi e predisponga le condizioni per assecondare e accompagnare i processi di elaborazione, progettazione, promozione, commercializzazione, consolidamento delle iniziative e delle strutture caratterizzate.
Una forte azione legata al rafforzamento dei poteri locali è mirata alla innovazione nel campo economico e sociale, nella pubblica amministrazione, nei servizi, nelle politiche di welfare, attraverso le politiche regionali e locali in connessione con le appropriate articolazioni della società. Trae da qui, per la sua potenzialità di modernità economica e per i presupposti di solida coesione socialee civile, motivazione forte la prospettiva di reale competitività dei sistemi territoriali e specularmene del sistema Regione e del sistema Paese.
E’ anche per queste argomentazioni rilevante una adeguata politica delle infrastruttureall’altezza del nostro tempo.
Rileviamo che anche e soprattutto a questo livello è indispensabile una attenta concertazione interregionale e nazionale, ma ampi spazi vi sono per iniziative nell’ambito della singola Regione.
In connessione con questo tema sottolineo che il Sistema delle Camere di Commercio ha realizzato al suo interno una strumentazione e una rete informatica che lo fa un punto di riferimento e di avanguardia nella Pubblica Amministrazione.
Credo che anche questo elemento proponga, in una grande azione di decentramento, le Camere di Commercio come soggetto importante della governance regionale e territoriale, e nello stesso tempo un elemento significativo nella dimensione nazionale.
Una acuta attenzione dedichiamo al settore della tutela del consumatore nella analisi comparata della attività legislativa regionale, nella lettura critica delle best law, nella sottolineatura delle best practices del sistema camerale, nella riflessione su alcune linee ragionate e commentate di sviluppo normativo.
Un campo di particolare interesse è rappresentato dalle forme concertate a livello regionale per la più efficace internazionalizzazione. E’ questo un banco di prova centrale: dato che le novità imposte dalla Europa larga e dai mercati totali chiedono capacità interpretativa e innovativa; dato che le qualità dei made in regionali e territoriali hanno sempre maggior peso sui mercati; d’altro canto è necessaria una chiara razionalizzazione che riguarda sia le semplificazioni a livello regionale, sia l’armonizzazione con le esigenze fondamentali del Sistema Italia e dei livelli nazionali; è inoltre rilevante attuare forme chiare ed efficaci di rapporto coi sistemi d’impresa e con le strutture camerali efficacemente predisposte per l’internazionalizzazione; è infine fondamentale immaginare forme e strutture per evitare il vizio diffuso e costosissimo delle mille iniziative, scoordinate e inefficaci, che spesso insistono sugli stessi filoni promozionali.
 
 
 
2.    LA LEALE COLLABORAZIONE INTERISTITUZIONALE IN CONFERENZA STATO - REGIONI: EVOLUZIONI E PROSPETTIVE
(Guido Carpani)
 
Con il D.P.C.M. del 1983 si realizzava una delle possibili forme di raccordo tra istituzioni decentrate e Governo: la Conferenza costituiva infatti una tappa significativa di un percorso nel quale le neo-nate regioni cercavano di farsi riconoscere un ruolo almeno non troppo lontano da quello prefigurato dal Costituente, in un contesto in cui erano ancora forti le resistenze politiche e burocratiche.
Le caratteristiche più evidenti della Conferenza stavano anzitutto nella potenziale pariteticità degli interlocutori che venivano posti intorno allo stesso tavolo, pur nella diversità della responsabilità in ordine agli oggetti su cui la Conferenza era chiamata ad esprimersi (i pareri delle regioni espressi in Conferenza si inserivano pur sempre in procedimenti che non ne coinvolgevano la responsabilità), nonché nella tendenziale generalità degli oggetti che potevano essere portati al suo vaglio. La responsabilità (e la competenza) degli atti che erano sottoposti all’attenzione della Conferenza rimaneva comunque di sola pertinenza dell’Amministrazione dello Stato.
Qualche anno dopo, la legge 400/88 “legificò” e rese stabile la Conferenza e ne riordinò le funzioni. Il passaggio dal decreto del 1983 all’art. 12 della legge sulla Presidenza del Consiglio dei ministri è importante: vi sono delle “conferme” dell’impianto originario che talora rimangono ancora valide, vi sono novità interessanti (in primo luogo la stabilità) che aprono alla “stagione” più dinamica della vita di questo organismo che segnerà tutti gli anni ’90. La Conferenza si caratterizza per il suo ruolo di consulenza e di garanzia della partecipazione regionale a processi decisionali statali ricadenti/coinvolgenti in aree di competenza/interesse delle regioni.
Da un punto di vista organizzativo, la concentrazione nel collegio dell’esercizio di tutte le competenze attribuite a fronte anche di un aumento di queste ultime ha reso necessario realizzare, sul versante delle regioni, un auto-coordinamento strutturato (grazie alla Conferenza dei Presidenti delle regioni poi Conferenza delle regioni) e dall’altro a fare giocare un ruolo di rilievo all’ufficio “servente” il collegio (vale a dire alla Segreteria della Conferenza Stato-Regioni).
Queste concrete modalità di lavoro, la richiesta regionale di vedere riconosciuto anche sostanzialmente un ruolo per quanto possibile equiordinato col Governo (almeno nelle decisioni ricadenti nelle materie di legislazione concorrente) spinsero ben presto il Legislatore ad investire la Conferenza di competenze non solo consultive. Negli anni ’90 il legislatore cominciò ad assegnare alla Conferenza il compito di sancire intese tra Governo e Presidenti di regioni.
La seconda metà degli anni ’90 segna per la Conferenza Stato-Regioni un momento di assestamento delle competenze via via acquisite con l’introduzione anche di importanti novità: con la legge delega n. 59/97, al Governo fu chiesto di “definire ed ampliare” le attribuzioni della Conferenza Stato-Regioni e di prevedere la sua unificazione con la Conferenza Stato-Città e autonomie locali, che nel frattempo (1996) era nata.
Oltre ai pareri, agli accordi ed alle intese, dunque, il d.lgs. n. 281 del 1997 prevede il coordinamento della programmazione statale e regionale, lo scambio di dati ed informazioni, il potere di adottare deliberazioni, la possibilità di formulare inviti e proposte, di stipulare convenzioni per l’avvalimento di uffici e di istituire gruppi di lavoro. Il decreto conferma anche la “sessione comunitaria” già prevista dalla legge La Pergola. Infine, nel d.lgs. 218/97 viene prevista la Conferenza Unificata, senza tuttavia risolvere il problema della sua natura, ovvero se si tratta di un organo (nuovo e) autonomo, cioè “la terza Conferenza”, o di un modus operandi delle Conferenze Stato-Regioni e Stato-Città.
Per quanto riguarda il funzionamento, la Conferenza Stato-Regioni, anche prima dell’approvazione del decreto n. 281, si basava su un sistema di confronto “duale”, nel senso che, nonostante essa assicurasse la presenza e la partecipazione di tutti i Presidenti delle Giunte regionali e delle due province di Trento e Bolzano, questi tendevano a “muoversi” all’unisono, a dare vita a posizioni talora bilanciate e mediate ma pur sempre tendenzialmente unitarie.
Ovviamente questa dinamica dei rapporti Governo-Regioni presuppone un efficace strumentario di raccordo, mediazione e coordinamento tra i Presidenti delle Regioni, rappresentato da quel luogo di mediazione e di raccordo costituito dalla Conferenza delle Regioni che man mano è andata organizzando e definendo con più chiarezza gli obiettivi del suo operato e le modalità di formazione delle decisioni rilevanti nel rapporto col Governo nelle sedi delle Conferenze Stato-Regioni ed unificata, ma anche autonomamente in esito a precise e puntali competenze individuate dal legislatore.
Il raccordo assicurato dal sistema delle Conferenze è parso acquisire un nuovo ruolo quasi essenziale per il funzionamento del sistema con l’entrata in vigore della riforma del titolo V della Costituzione: il coordinamento, infatti, è – probabilmente – la regola di base che connota l’esercizio delle competenze variamente collocate tra centro e periferia e gli strumenti che assicurano questa leale collaborazione divengono centrali per il funzionamento del sistema.
La stessa riforma della Costituzione ha introdotto uno spunto importante e nuovo nel panorama degli strumenti di raccordo, ovvero quello costituito dall’art. 11 della legge costituzionale 3/01 sulla integrazione della Commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali con i rappresentanti delle Regioni e degli enti locali.
L’occasione di dare vita alla Commissione per le questioni regionali integrata, fino ad ora non colta, consentirebbe di gettare un ponte tra la apparente separatezza fra area legislativa statale ed quella regionale nettamente accresciuta e, per quanto riguarda le Conferenze, non potrà non avere conseguenze anche sulla dinamica degli “altri” raccordi, soprattutto quando si ponga mente al fatto che la Conferenza Stato-Regioni e la Conferenza unificata partecipano ad una attiva ed importante opera di consulenza all’Esecutivo sull’iniziativa legislativa di interesse regionale e locale, su quella delegata o regolamentare di pari oggetto.
Dei riflessi del mutato titolo V della Costituzione sul sistema dei raccordi Governo-Regioni ed autonomie territoriali si occupa invece la cd. legge La Loggia, che prevede una nuova figura di intesa ed assegna alla Conferenza Stato-Regioni il compito di dettare le modalità del concorso diretto delle Regioni alla formazione degli atti comunitari per le materie di loro competenza legislativa (cd. fase ascendente), sia partecipando alle attività del Consiglio che dei gruppi di lavoro e dei comitati del Consiglio e della Commissione europea.
Altre novità recenti sono costituite dalla legge 11/05 che ribadisce e precisa i contenuti della sessione comunitaria della Conferenza Stato-Regioni e dalla legge 15/05 procedimento amministrativo che ha introdotto una nuova competenza delle Conferenze Stato-Regioni ed Unificata, nel caso in cui la conferenza di servizi non riesca a comporre i conflitti tra amministrazioni.
A questo punto della evoluzione della Conferenza Stato-regioni, si riscontra una difficoltà di mantenere un sistema duale. Di tale fenomeno negli ultimi anni si è avuta prova in diverse occasioni.
 
 
 
 
3. DECENTRAMENTO E SEMPLIFICAZIONE IN MATERIA DI ATTIVITA’ D’IMPRESA
(Luca Antonini)
 
I processi e i metodi di semplificazione - concretizzati essenzialmente nella legge annuale di semplificazione, introdotta in via generale nell’ordinamento italiano con la legge n. 59/1997 – adottati nel nostro Paese si sono rivelati scarsamente efficaci.
La scarsa efficacia dei processi di semplificazione si è poi “aggravata” con la riforma del titolo V: lo Stato, infatti, ha perso la possibilità di disciplinare le molte nuove materie della competenza regionale residuale, spesso cruciali per la disciplina delle attività imprenditoriali, e ha perso anche la possibilità, per le materie della competenza concorrente, di emanare regolamenti, ora rimessi alla potestà regionale.
Il ripensamento delle tecniche di semplificazione non sembra tuttavia ancora avvenuto a fondo, e la recente legge di semplificazione per il 2005, seppure compie qualche interessante tentativo di sforzo per sintonizzarsi con il nuovo assetto, appare strutturata, nella sue linee di fondo, ancora secondo il metodo tradizionale. La nuova legge segue quella del 2003, che aveva introdotto il nuovo strumento di semplificazione e “riassetto normativo” dei “codici di settore”.
Un aspetto interessante della nuova legge di semplificazione è la disciplina dell’Analisi di impatto della regolamentazione (AIR) e la previsione della Verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR). Un altro profilo della legge di semplificazione per il 2005 che merita, infine, di essere analizzato è la norma “taglia-leggi”, o norma “ghigliottina” che abroga, fatte salve alcune eccezioni e alla fine di un procedimento, tutte le norme primarie anteriori al 1970.
Per uscire dalla situazione di empasse, all’inizio del 2004 è sembrata prendere corpo la prospettiva di introdurre nell’ordinamento una norma shock che potesse permettere notevoli risultati in tempi rapidi, in quanto diretta, in fondo, ad applicare il criterio che “tutto quello che non è vietato è consentito”. L’idea fu quella di potenziare al massimo le potenzialità di due istituti previsti dalla legge statale sul procedimento amministrativo quali l’autocertificazione e la denuncia di inizio attività.
Questa ipotesi è stata riproposta nel cd. “decreto sulla competitività” n. 35 del 2005. Rispetto alla versione originaria, tuttavia, alla norma sono state apportati numerosi appesantimenti, che ne hanno attenuato la potenzialità di semplificazione anche se la norma porta comunque all’eliminazione di tutte quelle autorizzazioni o atti di consenso comunque denominati il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti di legge o di piano, e per i quali non sia previsto un contingente complessivo per il rilascio di tali atti. In questi casi, le autorizzazioni sono sostituite con denunce di inizio attività, a seguito delle quali il cittadino può intraprendere l’attività decorso un termine di 30 giorni.
Accanto al quadro nazionale, la ricerca si propone di analizzare la complessa legislazione regionale nelle materie attinenti all’attività d’impresa. In una prima parte si considera la produzione legislativa regionale al fine di individuare e mettere a confronto le best laws di semplificazione normativa.
Nella seconda parte, le stesse disposizioni, unitamente alle altre che vertono nel medesimo ambito materiale, sono considerate sotto la diversa prospettiva della semplificazione amministrativa. Su queste, si considera poi l’impatto del dl competitività del 2005, al fine di comprendere se il legislatore regionale abbia positivizzato l’importante novella legislativa statale.
I processi di decentramento istituzionale, moltiplicando i centri di competenza hanno determinato una forte esigenza di semplificazione, senza la quale si corre il rischio concreto di innescare processi inversi di “complicazione” e di appesantimento burocratico dell’attività amministrativa.
Va tuttavia sottolineato che alcune regioni particolarmente virtuose hanno avviato importanti processi di semplificazione e delegificazione, anche attraverso l’adozione di T.U., in molti casi si sono spinte molto avanti, ottenendo l’avallo della Corte costituzionale, eliminando numerosi vincoli burocratici.
A concludere, le best practices delle Camere di Commercio, il cui funzionamento merita notevole riguardo nell’approntare politiche di semplificazione e snellimento dei procedimenti.
 
 
 
 
4. LA POLITICA DELLE INFRASTRUTURE TRA STATO E REGIONI ED OPERATORI ECONOMICI
(Beniamino Caravita di Toritto)
 
Fino alla entrata in vigore, nel 2001, della Riforma del Titolo V della Costituzione, la competenza legislativa su tutte le opere e infrastrutture pubbliche spettava allo Stato. Alle Regioni spettava la competenza concorrente nelle sole materie della “viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale”.
Come è noto, nel 2001, la l. cost. n. 3 ha modificato la ripartizione della competenze legislative tra Stato e Regioni. Nell’ambito di tale nuovo quadro, le competenze legislative in materia di “infrastrutture” risultano così distribuite: mentre i “lavori pubblici” non trovano una collocazione specifica negli elenchi di materie di competenza esclusiva statale o concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost., tra le materie concorrenti vengono, invece, elencate le “grandi reti di trasporto e di navigazione”; i “porti ed aeroporti civili”; la “produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia”; l’“ordinamento della comunicazione”.
Quanto ai “lavori pubblici”, nel 2003, con la sent. n. 303, la Corte costituzionale ha risolto i dubbi posti dalla mancata menzione degli stessi nel nuovo art.117, stabilendo che “i lavori pubblici” non costituiscono una materia a sé stante ma sono ascrivibili “di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato, ovvero a potestà legislative concorrenti” .
Da quanto evidenziato, la Riforma del 2001 sembrava, pertanto, orientata ad attribuire al legislatore regionale maggiori spazi nella disciplina delle infrastrutture.
Tuttavia, da un lato, le stesse formule utilizzate dal nuovo art. 117 Cost. per qualificare le materie menzionate – si pensi all’uso dell’aggettivo “grandi” riferito alle reti di trasporto e di navigazione o dell’aggettivo “nazionale” riferito all’“energia” –, dall’altro, gli stessi oggetti di tali materie - porti e agli aeroporti, grandi reti di trasporto, infrastrutture di comunicazione - evidenziavano la dimensione ultra-regionale delle stesse per la presenza di interessi non solo nazionali ma spesso anche sovranazionali e, segnatamente, comunitari.
Tale circostanza mostrava fin da subito i limiti di una tale scelta, non potendo la legge regionale per sua natura far fronte alle spiccate esigenze di unitarietà presenti in numerosi degli ambiti indicati o, comunque, derogare ai vincoli comunitari laddove fossero presenti, in violazione di quanto disposto dal primo comma dell’art. 117.
Così disegnato, il nuovo art. 117 Cost. già presentava i presupposti per l’insorgere di contrasti tra Stato e Regioni in ordine agli effettivi spazi di competenza dell’uno e delle altre in settori così importanti per l’economia del paese.
Ed, infatti, già all’indomani della entrata in vigore della Riforma, il legislatore statale, nel disciplinare tali materie, non si è limitato a fissare i principi fondamentali secondo lo schema di funzionamento della potestà legislativa concorrente, ma ha dettato per lo più norme di dettaglio auto-applicative, definite di principio in ragione della capacità di esprimere interessi degni di tutela unitaria.
Di fronte alla reazione delle Regioni, che si sono trovate costrette a rivendicare dinanzi alla Consulta le competenze alle stesse riconosciute dalla Riforma, la Corte costituzionale ha dovuto prendere atto che in tali settori risultavano presenti forti esigenze di unificazione e “salvare”, introducendo l’istituto della “sussidiarietà legislativa”, la legislazione statale seppur contenente disposizioni di dettaglio autoapplicative.
L’intervento della Consulta ha prodotto l’effetto di trasformare le aree delle infrastrutture da aree di “co-legislazione” in aree di “co-governo” tra Stato e Regioni: pur ammettendo una disciplina statale dettagliata di tali aree, la Corte ha, infatti, stabilito quale condizione per il superamento del vaglio del giudizio di costituzionalità di tale disciplina statale che la stessa fosse il frutto di specifici accordi tra lo Stato e le Regioni (cfr., ad es., sentt. 303/03; 6/04).
La descritta evoluzione delle aree delle infrastrutture in aree di “co-governo” apre al sistema camerale nuovi spazi di intervento in tali settori: le Camere di Commercio, infatti, per vocazione naturale, da un lato, esprimono l’interesse verticale degli operatori nella definizione delle scelte a livello nazionale, dall’altro, essendo territorializzate, sono in grado altresì di rappresentare le esigenze locali.
Proprio in questa contingenza emerge, dunque, l’importanza del tradizionale ruolo assunto dal network camerale nell’attività di messa in relazione e coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati nel processo decisionale finalizzato alla realizzazione del sistema infrastrutturale, un ruolo che risulta affermato a far data dalla legge di riforma n. 580 del 1993 e che oramai può dirsi consolidato con la l. 59/97.
Tale ruolo si è concretizzato in una serie di iniziative specifiche, che hanno visto coinvolte la maggioranza delle Camere nello sviluppo delle infrastrutture, con oltre 500 quote di partecipazioni detenute dall’intero sistema e concentrate nelle infrastrutture, per un totale di capitale sottoscritto a fine 2004 pari a circa 350 milioni di euro, investiti per la realizzazione di strade, autostrade, aeroporti, centri intermodali, porti, fiere e centri congressi e con investimenti preventivati per il prossimo futuro, che porteranno alla realizzazione di infrastrutture immateriali, per circa ulteriori 500 milioni di euro.
 
 
5.       5. LE POLITICHE DI PROMOZIONE E SVILUPPO DEL TURISMO
(Isnart)
 
Le principali leggi dello Stato che regolano funzioni e ruoli in tema di turismo, successivamente all’abrogazione del Ministero del Turismo, sono le seguenti:
a)                 Legge 135/2001: stabilisce il passaggio di funzioni e compiti che dallo Stato alle Regioni (decentramento);
b)                 Legge Costituzionale 3/2001 "Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione" : sancisce che le Regioni esercitano le funzioni in materia di turismo e di industria alberghiera, con competenza esclusiva.
c)                 DPCM del 13/09/2002, in attuazione della L.135/2001: definisce e delega alle Regioni il compito di disciplinare gli standard minimi dei servizi di informazione e di accoglienza ai turisti, le strutture e le modalità di collegamento e concorso da parte degli enti territoriali e funzionali.
d)                 Legge 80/2005: crea il Comitato Nazionale per il Turismo per assicurare il coordinamento stabile delle politiche di indirizzo del settore turistico in sede nazionale e la sua promozione all'estero ed ha compiti di orientamento e coordinamento delle politiche nazionali e di indirizzo per l'attività dell'Agenzia e stabilisce la riforma dell’ENIT.
A livello regionale va rilevato in primis che le Regioni, a seguito della Legge Costituzionale 3/2001, hanno promulgato proprie leggi, indipendentemente dai tempi di emanazione previsti dal DPCM.
Già in precedenza però le Regioni avevano prodotto un significativo corpus legislativo in materia di organizzazione turistica, di promozione, di ricettività alberghiera ed extra alberghiera a seguito della Legge-Quadro sul turismo 217/1983 che definiva i principi fondamentali e dava poi alle regioni la regolamentazione specifica.
Vi sono quindi Regioni che:
1.                 hanno normato la materia turistica successivamente all'entrata in vigore della Legge quadro 135/2001 e ne hanno accolto e recepito le specifiche indicazioni;
2.                 pur disponendo di testi legislativi successivi al 2001, creano un modello a se stante;
3.                 hanno leggi in materia di turismo antecedenti la Legge quadro 135/2001.
Molto spesso le normative regionali si sono succedute e sovrapposte con il manifestarsi di fenomeni nuovi e quindi con la necessità di dettare regole e certezze per i turisti e per gli operatori senza punti organizzativi di riferimento (ad esempio gli agriturismi prima ed i bed and breakfast poi). Ciò ha determinato un corpus giuridico molto disomogeneo.
Va riconosciuto che un primo aspetto positivo nel dare ordine alla materia turistica è rappresentato dai Testi Unici che si distinguono, ipso facto, per l’organicità e completezza e per il risultato di delegificazione che comportano.
A livello di responsabilità organizzativa, mancando una visione economica del turismo è invalsa la tendenza ad accorpare il turismo alla cultura (Lombardia, Liguria, Campania), allo sport (Piemonte), ai trasporti (Provincia di Bolzano, Sicilia), all’agricoltura (Veneto, Provincia di Trento), ai rapporti esterni e promozione (Umbria). In alcuni casi, quali la Toscana, le Marche e l’Emilia-Romagna, il turismo è accorpato con il commercio; in Puglia vi è un assessorato solo per il turismo. Solo in Friuli Venezia Giulia e Lazio un unico assessorato all’economia o sviluppo economico comprende tutti i settori produttivi.
Ancora a livello organizzativo, un ulteriore spartiacque è costituito dagli strumenti adottati per l’organizzazione turistica: le agenzie, le aziende di soggiorno, i comitati, le consulte, gli osservatori, ecc. Ogni Regione è riuscito a creare una propria singola tipologia di strumenti organizzativi e proprie modalità di relazione con i soggetti privati, singoli od associati, oppure ha mantenuto schemi tradizionali e continuato ad operare con le vecchie tipologie organizzative.
Tema determinante è la diversa presenza del rapporto tra il sistema pubblico e quello privato sancito dalla 135/2001; si nota in alcuni casi un forte sbilanciamento verso un sistema improntato alla presenza del pubblico, in qualche caso viene accentuato il ruolo dei privati e delle loro forme associative, in altri casi ancora si ricerca un equilibrio che metta insieme un rapporto organico di collaborazione tra il pubblico e il privato.
A questo riguardo appare evidente menzionare il sistema delle CCIAA in quanto “casa” delle aziende e delle loro associazioni. Anche per il sistema camerale la situazione è molto variegata: dieci regioni hanno norme che prevedono, con varie modalità, forme di coordinamento o di partecipazione delle Camere di Commercio, sei Regioni prevedono il coinvolgimento delle Camere di Commercio negli osservatori turistici, quattro Regioni vedono un ruolo attivo del sistema camerale nella promozione turistica e tre nelle politiche della qualità; due Regioni hanno inserito il ruolo della Camera di Commercio nella conciliazione dei conflitti, due nelle autorizzazioni amministrative ed una nella formazione degli imprenditori.
A ciò si aggiunga che grazie ai protocolli di intesa sottoscritti tra singole Camere di Commercio e Amministrazioni Regionali ed Enti locali, in questi ultimi anni il processo di decentramento ed il coinvolgimento pubblico-privato è stato sicuramente rafforzato in quanto le Camere di Commercio a pieno titolo svolgono le proprie competenze e si trovano inserite quali attori di primo piano nel raccordo con il territorio e con le categorie imprenditoriali coinvolte.
Solo con la 1° Assise nazionale degli amministratori del turismo, nell’ottobre 2005, le Camere di Commercio hanno iniziato a mettere in rete un potenziale fino a quel momento espresso solo a livello territoriale. In questa occasione hanno portato alla luce la loro competenza sviluppata “dal basso” in merito ad alla gestione di albi edarchivi in tema di turismo, al supporto di informazioni ed osservatori, alle politiche di qualità, alla conciliazione, alla formazione ed alle attività di promozione.
Infine, anche a livello di meccanismi e luoghi della concertazione tra enti pubblici e sistema del privato, le diverse legislazioni fanno trasparire l’innovazione e la modernità dove non si limitano, come spesso avviene, ad una elementare logica di consultazione e di espressione di pareri, ma richiedono partecipazione alle decisioni e cofinanziamento delle azioni in grado di far marciare di pari passo la promozione del sistema pubblico e le azioni commerciali del sistema delle imprese.   
Prescindendo da una valutazione sull’efficacia delle legislazioni delle singole amministrazioni regionali e sulla volontà delle stesse di disciplinare in maniera organica il comparto del turismo, si è tentato di posizionare le legislazioni regionali in tema di turismo in due macro raggruppamenti, contigui tra loro:
-         il primo, più tradizionale, comprensivo di: Calabria, Campania, Lazio, Molise e Valle D’Aosta;
-         il secondo, più innovativo, comprensivo di: Abruzzo, Basilicata, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Provincia di Trento e Provincia di Bolzano Umbria e Veneto.
 
In termini di prevedibile e/o auspicabile evoluzione legislativa occorre lavorare su alcuni filoni per rendere ancora più efficace l’azione che a livello locale compiono gli attori coinvolti nel comparto:
a)                 La semplificazione è una sicura traccia di lavoro per tutte le regioni che appaiono soffrire di eccessiva, e in qualche caso ridondante, legiferazione (in materia di autorizzazioni, di professioni, di pareri, di statistiche, ecc.). La strada oggi da seguire è quella dei Testi Unici.
b)                 Molte leggi ante 2001, in gran parte degli anni ’90 ma qualcuna anche degli anni ’80, richiedono almeno una manutenzione se non una vera e propria rielaborazione; ancora una volta l’approccio che pare più idoneo sembra quello del Testo Unico;
c)                 Sarebbe auspicabile che le Regioni definiscano le proprie leggi in modo coerente con lo spirito e le finalità della legge quadro 135/2001, così da avere una legislazione regionale che, sia pur variegata e diversificata, possa ispirarsi e tener conto dei riferimenti comuni e di linee guida omogenee.
d)                 Nella legislazione occorre considerare il tema dell’integrazione non solo della filiera turistica, ma dell’intero territorio turistico: il fenomeno turistico va considerato nella sua complessità e ciò significa vederlo integrato con il commercio, con i servizi, con l’artigianato, con i pubblici esercizi di somministrazione al pubblico, con i trasporti, con i parchi (naturali o artificiali), con le strutture di diffusione della cultura, con i servizi sanitari.
e)                 Un nuovo confine per la legislazione, da sperimentare e poi da introdurre in modo organico nelle Regioni, è riferito alla strumentazione urbanistica: intere aree per riuscire ad esprimere il proprio potenziale turistico richiedono capacità progettuale e programmatoria degli enti locali (comuni, province e regioni) unitamente alla capacità imprenditoriale, gestionale e finanziaria dei privati (imprenditori turistici, associazioni, banche, Camere di Commercio).
Un’ultima considerazione va rivolta invece alla promozione all’estero del sistema turistico italiano: se il giusto processo federalista ha portato a livello regionale le competenze, è però rimasto irrisolto il problema di un efficace livello di coordinamento delle azioni per evitare dispersioni ed inutili duplicazioni, soprattutto nel momento in cui la competizione mondiale richiede masse critiche crescenti di risorse e di capacità di iniziativa.
Con l’istituzione Comitato Nazionale per il Turismo e la riforma dell’ENIT (L.80/2005), si è fatto solo un primo passo che non risolve definitivamente il problema: affinché questo Comitato svolga efficacemente il ruolo attribuitogli dalla Legge occorre creare meccanismi operativi che gli consentano di acquisire potere di coordinamento, nel rispetto del dettato costituzionale.
Il turismo non può essere tutto al centro né tutto in periferia e non può essere fatto solo con interventi pubblici né solo con investimenti privati. A ciò sono chiamati il Governo centrale, le Regioni, gli Enti locali, le categorie economiche e le Camere di Commercio.
 
 
 
 
6.       LA TUTELA DEL CONSUMATORE
(Liliana Rossi Carleo)
 
L’articolata rivisitazione del sistema delle fonti operata dalla riforma del titolo V, parte II Cost., incide anche sulla disciplina dei consumatori, per l’influenza concreta che operano in materia norme statali, regionali, regolamenti delle autorità amministrative indipendenti, codici di autoregolamentazione, siano essi codici etici, di comportamento, di autodisciplina.
Nell’analisi non si è ripercorso il lungo e tormentato iter formativo della disciplina a tutela dei consumatori, ma non si è potuto non fare riferimento all’Europa, sia perché essa ne ha costituito la vera forza motrice, sia perché proprio l’Europa mostra di trovare in questo «settore» un nuovo punto di partenza per una disciplina sovranazionale armonizzata e di carattere più «generale». E proprio la spinta proveniente dall’Europa ha consentito, anche nel nostro Paese, la nascita di una nuova sensibilità nei confronti dei consumatori, sviluppatasi sino a portare l’Italia di oggi in una posizione di avanguardia, grazie alla realizzazione del coordinamento di una pluralità di leggi frammentate, operata con il cd. Codice del consumo.
L’osservazione non ha approfondito la disciplina statale, quadro di riferimento comunque imprescindibile, ma si è concentrata sulle leggi regionali in materia di tutela del consumatore.
Anche il Codice del consumo richiama la necessità del raccordo fra la legislazione nazionale e quella regionale stabilendo: «sono fatte salve le disposizioni adottate dalle regioni e dalle province autonome di Trento e di Bolzano nell’esercizio delle proprie competenze legislative in materia di educazione e informazione del consumatore» (art. 145).
Dal Parere del Consiglio di Stato e dalla Relazione al codice, la potestà delle Regioni appare circoscritta alle sole iniziative a favore delle associazioni, ai programmi di intervento per l’educazione e l’informazione al consumatore, alla risoluzione stragiudiziale delle controversie, con esclusione delle misure normative volte ad incidere sulla disciplina dei rapporti precontrattuali, contrattuali o extracontrattuali con le imprese.
 
L’esame dei provvedimenti ha evidenziato come ciascuna Regione abbia tratto ispirazione dalla legge statale vigente e, in conseguenza di ciò la comparazione è stata effettuata non sui contenuti delle leggi, che appaiono per lo più omogenei, ma sull’effettivo utilizzo e sull’efficacia degli strumenti di tutela preventiva (informazione ed educazione) contemplati. Tale metodo di confronto ha consentito di indicare le iniziative promosse in alcune Regioni che potessero fungere da modello anche per le altre e, in particolare, di enucleare le migliori procedure che potessero essere esportate per colmare deficit procedurali.
Occorre sottolineare che, pur nell’ottica del decentramento effetto della riforma costituzionale, anche nella realtà dei consumatori non va mai tralasciato, ma anzi enfatizzato, il rapporto Stato/Regioni quale momento di condivisione di obiettivi e di valori tra realtà territoriali e forme di coordinamento centrale. Solo, infatti, attraverso il costante confronto e la cooperazione tra associazioni dei consumatori regionali e nazionali, tra Camere di Commercio e Unioncamere è possibile sfruttare quelle sinergie, nonché le migliori procedure che facciano sì che certe iniziative non rimangano isolate, o patrimonio di una realtà esclusivamente locale, ma possano essere di supporto in altri territori.
L’analisi ha consentito di sottolineare, in negativo, come le leggi regionali siano manchevoli, nella parte dedicata allo «Sportello del consumatore», di strumenti di comunicazione, indispensabili per far sentire il consumatore non come soggetto passivo dell’operato dell’amministrazione, ma come attore partecipante sia in una dimensione critico-costruttiva, sia in una dimensione collaborativa.
Diversamente, in posititvo, è stato possibile evidenziare che tra le best practices già attuate, certamente un ruolo di primo piano è attualmente occupato dalle modalità prescelte per informare il consumatore. L’informazione on line appare certamente il canale più moderno e facilmente accessibile a chi voglia ottenere certe notizie, senza con ciò voler significare che le Regioni debbano tralasciare la migliore fruibilità possibile anche dei canali informativi tradizionali. Significativa la recente premiazione dei quattro portali più attivi a livello nazionale: il portale della Regione Emilia-Romagna “ConsumER” e i siti “Tuttoconsumatori” del CNCU, “Informaconsumatori” della Regione Piemonte e “Prontoconsumatore” della Regione Toscana.
In particolare, il portale della Regione Emilia-Romagna, presente in rete da dieci anni, si segnala per la qualità delle informazioni fornite, la funzionalità dei servizi on line, la facilità di accesso e l’usabilità, tanto da aggiudicarsi l’Oscar del web 2005 nella sezione “Amministrazione pubblica – Regioni”.
Sempre in Emilia-Romagna va segnalata, ancora in positivo, la recente istituzione dell’Osservatorio regionale dei prezzi e delle tariffe, attuata mediante la sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra Regione, Unioncamere Emilia-Romagna, Anci e Upi, in collaborazione con Ministero delle Attività produttive e Istat e in ulteriore sinergia con tutte le associazioni di categoria e i sindacati, che ha l’obiettivo di realizzare una politica di informazione per la trasparenza dei prezzi e di supporto ad eventuali accordi di autoregolamentazione avviati da vari comuni dell’Emilia-Romagna. Questa iniziativa si pone in linea con quella necessaria collaborazione e interazione che dovrebbe costituire un punto base nell’ottica della efficienza del mercato.
L’osservatorio ha consentito di trovare conferma di come, al di là del profilo normativo, assuma rilevanza concreta il profilo organizzativo che dalla legge discende ed alla legge deve collegarsi. In questa prospettiva assume risalto l’organizzazione per quanto riguarda la tutela successiva.
A questo proposito si indica, quale esempio positivo, per quanto concerne la composizione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo, il sito della Regione Toscana prontoconsumatore.it, anch’esso premiato per la chiarezza e la completezza delle informazioni offerte, contiene un link al servizio telematico conciliaonline che utilizza un sistema web conference audio-video promosso e coordinato da Unioncamere Toscana per favorire la soluzione amichevole delle controversie riguardanti i consumatori, in linea con l’art. 141 del Codice del consumo che prevede che le procedure di composizione extragiudiziale siano avviate anche in via telematica.
 
 
 
 
7.  PROCESSI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE E I SERVIZI ALLE IMPRESE
(PERegions)
 
Il lavoro si propone di mettere in luce e vagliare criticamente l’interazione oggi esistente tra tre dimensioni chiave del processo di internazionalizzazione economica del sistema Paese:
 
1.                 le dinamiche endogene dei processi di internazionalizzazione economica lette dal punto di vista dell’agire di impresa. Il riferimento è qui alle criticità che costituiscono opportunità e/o problema nel processo concreto di internazionalizzazione (prevalentemente commerciale) che le singole imprese affrontano ad un certo punto del proprio ciclo competitivo;
2.                 le dinamiche esogene dei processi di decentramento amministrativo, con particolare riferimento alla dimensione regionale. Si tratta di isolare nella produzione legislativa nazionale e locale e nei processi di implementazione della norma il rilievo che il tema internazionalizzazione assume in positivo ed in negativo nell’elaborazione normativa di una politica decentrata di sostegno al tessuto economico e all’agire di impresa. Il centro di questa analisi verte sulle norme regionali;
3.                 il valore apportato dai sistemi di autonomia funzionale, segnatamente le Camere di Commercio nel fornire spazi operativi di servizio e supporto all’affermazione di una strategia gestionale decentrata dell’azione camerale coerente con le attribuzioni regionali in materia di internazionalizzazione economica dei sistemi locali.
 
La disamina di cui ai punti precedenti consta essenzialmente di due approfondimenti analitici:
 
1.                 il primo approfondisce la struttura di riferimento del tema dell’internazionalizzazione economica all’interno dei processi a discendere di revisione organica delle attribuzioni dallo Stato agli Enti locali, principalmente alle regioni, isolando nell’ambito della produzione normativa punti privilegiati di analisi di ciò che le norme prevedono;
2.                 la seconda traccia la sequenza delle criticità del processo di internazionalizzazione visto dall’interno dell’agire di impresa con riferimento ai fattori di vantaggio e di svantaggio che il decisore aziendale affronta, soprattutto rispetto ai sistemi di supporto pubblico previsti o “leggibili” nelle normative.
 
Queste due dimensioni sono poi fatte interagire con il metodo dell’analisi comparativa per mezzo di “griglie di valutazione” che leggono trasversalmente i disposti normativi alla luce delle priorità del soggetto industriale. Questo tipo di esame è affiancato da valutazioni qualitative circa le diverse accentuazioni che le leggi regionali conferiscono al tema in esame.
Infine, vengono presi in rassegna i principali strumenti di sostegno messi in campo dall’azione autonoma delle Camere di Commercio, cercando di approfondire gli aspetti di maggiore congruità dell’azione camerale nel disegnare strumenti di facilitazione nel rapporto tra spirito e lettera della norma e esigenze concrete delle aziende.
Le analisi svolte sono ristrette ad una decina di regioni italiane rappresentative dell’intero territorio nazionale.
Il lavoro svolto mostra come il processo di decentramento amministrativo abbia ancora un profilo incerto, almeno limitatamente ai temi di internazionalizzazione economica. A fronte di norme regionali ancora diseguali e spesso troppo generiche rispetto ad un profilo attivo di presidio legislativo del tema, le imprese non trovano ancora centri di competenza e di elaborazione tecnico-legislativa sufficiente nella dimensione locale.
Esistono tuttavia buone pratiche locali promettenti (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Molise per citarne le principali), soprattutto laddove il sistema camerale ha saputo assicurare una cerniera efficace nel tradurre problemi di attuazione urgente del sistema industriale nel presidio politico amministrativo dell’ente locale. E’ però ancora presto per veder i frutti di queste esperienze promettenti.
 
 
 
 
 
8.       GLI INDIRIZZI PER IL COMMERCIO
(Gaetano Armao)
 
Il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (“decreto Bersani”), recante la “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”si caratterizza per aver attribuito alle Regioni una serie di funzioni che hanno anticipato per il settore del commercio, la c.d. “devoluzione” delle competenze, poi formalmente realizzatasi con l’emanazione della Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 che ha riformato il Titolo V Parte II della Costituzione.
Il decreto Bersani, emanato in attuazione dell’ampia delega legislativa in materia di commercio, conferita dal Parlamento al Governo, con la legge 15 marzo 1997 n. 59 (“legge Bassanini”) ha avuto un effetto innovativo rispetto alla previgente disciplina di settore.
I principali obiettivi del decreto possono così sinteticamente elencarsi: una maggiore competitività del settore nel suo complesso; uno sviluppo equilibrato delle diverse tipologie di rete al dettaglio; una maggiore tutela dei consumatori; il perseguimento di un pluralismo distributivo; la promozione della concorrenza; il ridimensionamento delle barriere all’accesso, in particolare attraverso la semplificazione amministrativa.
Ad oggi, è dato riscontrare che sono stati conseguiti importanti risultati, ma che non tutti gli obiettivi sono stati pienamente raggiunti, essendo necessari ulteriori interventi e una più puntuale disciplina attuativa.
 
In termini generali, la riforma ha ricondotto la programmazione commerciale entro il generale contesto della pianificazione urbanistica favorendo un graduale processo di liberalizzazione degli esercizi di minori dimensioni e ridefinendo il procedimento autorizzatorio per le aperture delle medie e grandi strutture di vendita. Inoltre, sono state soppresse le tabelle merceologiche, è stato eliminato il REC ed ampliate le fasce orarie di apertura degli esercizi commerciali. 
Ciò nonostante, non in tutte le Regioni è stato recepito l’orientamento volto alla liberalizzazione del mercato e alla semplificazione delle procedure contenute nel decreto.
Infatti, alcune Regioni hanno emanato una normativa attuativa che ha sostanzialmente reintrodotto i meccanismi restrittivi, che la riforma si proponeva di eliminare (o quanto meno di ridurre), a tutela di strutture residuali ormai non più competitive sul mercato. Appare pertanto evidente che alcuni degli strumenti adottati sono riconducibili ad un approccio volto a tutelare le imprese esistenti, e per alcuni aspetti a contingentare il mercato.
Tra le diverse preclusioni all’accesso al mercato, vanno in particolare annoverate: il contingentamento numerico (o di superfici disponibili) per l’insediamento di grandi strutture di vendita; la riduzione dei limiti dimensionali minimi per le medie strutture di vendita (reintrodotta nonostante il divieto imposto dal decreto); l’assenza di un termine massimo entro il quale le domande, relative alle medie e grandi superfici di vendita, debbano essere accolte in base al principio del silenzio assenso; la definizione di dimensioni massime da autorizzarsi per le medie strutture derivanti da fenomeni di concentrazione (nelle zone più favorevoli all’insediamento).
Il livello di modernizzazione del commercio regionale ha influenzato, in buona misura, il comportamento di numerose Regioni, le quali hanno preferito emanare una disciplina attuativa che non alterasse in modo radicale la struttura commerciale preesistente.
In questo quadro va comunque sottolineato il fatto che in alcune Regioni sono stati conseguiti risultati importanti, nonostante preesistenti situazioni di arretratezza dal punto di vista commerciale.
 
Da una analisi complessiva emerge pertanto che molti propositi di liberalizzazione del mercato e semplificazione delle procedure che hanno ispirato l’emanazione del d.lgs. n. 114/1998 non siano stati ancora pienamente recepiti dagli ordinamenti regionali.
Attualmente, le Regioni mantengono infatti le principali funzioni amministrative e hanno privilegiato le province rispetto ai comuni nel riparto delle competenze. Da ciò si evince che la sperimentazione del decentramento è stata più di tipo verticale (e condizionata dagli indirizzi statali), piuttosto che un processo di trasferimento, coordinato e concordato con gli enti interessati, delle competenze sul piano orizzontale, ove se ne siano ravvisate le esigenze e i presupposti.
In tal senso, è opportuno sottolineare il fatto che il commercio è tipica materia nella quale il decentramento e la riallocazione di competenze (sussidiarietà verticale) - accentuando la pressione degli interessi sul Regolatore - incide negativamente sulla liberalizzazione e la sussidiarietà orizzontale.
 
A prescindere dal modello di federalismo in concreto adottato, va riscontrato che le riforme degli ultimi anni, ed in particolare quella operata dalla Legge Cost. n. 3/2001, hanno accentuato vari profili di criticità, tra cui il maggiore distacco fra amministrazioni le quali, in precedenza, godevano di un’integrazione verticale molto più marcata, con conseguenti benefici in termini di coordinamento tra i vari apparati burocratici.
Peraltro, il nuovo assetto istituzionale e funzionale delineato dalle riforme intervenute negli ultimi anni ha determinato effetti che lo stesso Legislatore non aveva preventivato.
Infatti, la mancata piena attivazione delle nuove competenze ri-allocate in capo alle Regioni, ha determinato una fase intermedia nella quale si assiste ad un conflitto tra competenze di Stato e Regioni, con inevitabili ripercussioni sul piano della disciplina normativa e regolamentare, anche nel settore del commercio, nelle Regioni che non hanno ancora provveduto ad emanare una propria disciplina di settore.
 
 
 
 
 
9.       LA STAGIONE DI RIFORMA DEGLI STATUTI REGIONALI
(Tiziana Pompei e Daniele De Rita)
 
Nella prima stagione statutaria regionale, 1970, in soli quattordici mesi (luglio1971) tutti gli statuti regionali furono deliberati dai Consigli Regionali e approvati dal Parlamento. Sono, invece, occorsi alcuni anni dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n°1, che ha aperto la seconda stagione statutaria, ancora in corso, per avere il primo statuto promulgato.  
Ad oggi solo nove delle quindici regioni a statuto ordinario hanno approvato e promulgato il proprio statuto: Puglia (maggio 2004); Calabria (ottobre 2004); Lazio (novembre 2004); Toscana (febbraio 2005); Emilia-Romagna, Marche, Piemonte (marzo 2005); Umbria (aprile 2005); Liguria (maggio 2005). Mancano all’appello, ancora sei regioni: Abruzzo, Basilicata, Campania, Lombardia, Molise e Veneto.
Non è questa la sede per approfondire le ragioni dei ritardi nell’approvazione dei nuovi Statuti delle Regioni a regime ordinario, che sono poi le fonti che vincolano le leggi regionali, e che definiscono le linee portanti dell’organizzazione e del funzionamento della Regione, ma che possono anche temperare lo squilibrio tra Presidente di Giunta e Consiglio Regionale conseguente al modello simul stabunt simul cadent .
 
Tuttavia, provando a fare una sintesi delle riflessioni che la dottrina ha portato avanti in questi anni, ne possiamo segnalare alcune:
-                             il diffuso abbinamento tra approvazione del nuovo Statuto e nuova legge elettorale, ha condizionato il consenso sul nuovo Statuto ai contenuti della nuova legge elettorale;
-                             l’opposizione dei Consigli Regionali al meccanismo del “simul stabunt simul cadent”, che hanno cercato in tutti i modi di contrastare, eludere e sopprimere sino alle pronunce della Corte costituzionale;
-                              in assenza di un nuovo Statuto i Presidenti delle Giunte sono riusciti a governare senza i bilanciamenti previsti dagli statuti riformati (controlli consiliari sulle nomine, all’approvazione consiliare del programma di governo, ecc.).
Non vi è dubbio alcuno che una significativa attenzione nei confronti dei temi del pluralismo, della sussidiarietà, della partecipazione, della valorizzazione delle formazioni sociali, è riconosciuta da tutti i nuovi Statuti regionali.
In particolare, nei nuovi Statuti regionali le autonomie funzionali hanno ottenuto una esplicita legittimazione in tutti gli statuti promulgati, legittimazione non sempre riconosciuta agli altri soggetti locali protagonisti del territorio. Muta, invece, in modo significativo nelle singole carte statutarie il livello di coinvolgimento delle autonomie funzionali nella programmazione regionale, nello svolgimento di funzioni consultive, legislative, istituzionali ovvero nella partecipazione ad organi consultivi.
Il coinvolgimento delle autonomie funzionali alle attività di programmazione regionale viene riconosciuto in modo esplicito in alcuni statuti (Puglia, Piemonte) attraverso la partecipazione delle autonomie funzionali alla Conferenza Regionale Permanente per la Programmazione Economica, Territoriale e Sociale, oppure attraverso il concorso diretto delle autonomie funzionali agli atti di programmazione deliberati dalla Giunta Regionale.
Il riconoscimento di funzioni consultive alle autonomie funzionali, previsto da diversi Statuti (Puglia, Umbria, Liguria, Piemonte), si sostanzia nella partecipazione di delegati delle autonomie ad organi consultivi delle Regioni; le autonomie funzionali partecipano ai rispettivi Consigli Regionali dell’Economia, oppure prevedendo un’apposita consultazione nelle scelte legislative e di governo delle autonomie funzionali.
Infine, la partecipazione delle autonomie funzionali all’attività istituzionale e/o legislativa regionale è riconosciuta in alcuni Statuti (Puglia, Marche, Piemonte) attraverso l’adozione di formule eterogenee: lo Statuto della Puglia dispone che la Regione favorisca la partecipazione delle autonomie funzionali all’esercizio dell’attività legislativa; lo Statuto delle Marche prevede che la Regione predisponga gli strumenti necessari per consentire l’informazione e la partecipazione delle autonomie funzionali ai processi decisionali; lo Statuto del Piemonte dispone che la Regione ponga a fondamento della propria attività legislativa, amministrativa e di programmazione la collaborazione con le autonomie funzionali.
 
 
 

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