La sanità è stata oggetto di un graduale processo di trasferimento di poteri e di responsabilità dallo Stato alle Regioni, che si è attuato attraverso provvedimenti-chiave: la legge 833 del 1978; il decreto legislativo 502 del 1992 e successive modifiche; il decreto legislativo 299 del 1999; la legge costituzionale 3 del 2001. Inoltre, innovazioni importanti in proposito sono state introdotte nelle "misure urgenti per il settore sanitario" di varie leggi finanziarie. Lo spostamento intergovernativo di potere è stato rafforzato da sentenze della Corte costituzionale in supporto dell'autonomia regionale concernente questioni amministrativo-gestionali. Infine, de facto i poteri regionali in campo sanitario si sono consolidati in modo incrementale tramite l'esercizio quotidiano, da parte delle Regioni, della loro discrezionalità gestionale.
Nel tempo, la sanità è diventata quindi una competenza fondamentale, se non la competenza tout court, delle Regioni. I cittadini considerano l'assistenza sanitaria come un bisogno indispensabile e gli sforzi mirati a soddisfare tale bisogno assorbono una parte significativa del bilancio regionale. Per questo ed altri motivi, l'assistenza sanitaria rappresenta con tutta probabilità l'area di responsabilità di maggiore importanza per le Regioni, e, se è vero che viene vista dalle Regioni come un onere finanziario gravoso, è anche diventata un simbolo di autonomia regionale. Inoltre, è in un certo senso l'accesso all'assistenza sanitaria che dà concretezza alla nozione di cittadinanza regionale ed è la lente attraverso la quale il cittadino giudica la performance della propria Regione.
Tuttavia, l'espansione della responsabilità regionale per l’organizzazione e l’amministrazione della sanità ha reso molto più complesso l'operato delle Regioni in questo settore. Non è più semplicemente una questione di attuare le politiche sanitarie statali. Spetta alle Regioni stesse il compito di stabilire priorità, elaborare strategie, formulare politiche e disegnare strumenti operativi per l'attuazione e il monitoraggio di tali politiche. E' questa la sfida che le Regioni hanno dovuto affrontare durante la legislatura appena conclusasi. Man mano che la legislatura è andata avanti, l’attività svolta dalle giunte e dai Consigli regionali ha sempre più messo in evidenza la loro ambizione di “governare” la sanità e non semplicemente di agire come delegati o agenti dello Stato. Ciò è stato particolarmente marcato a partire dal 2002 e, a giudicare dalle informazioni fornite dalle Regioni, specialmente con riguardo a due aree di interesse - la tutela della salute e il governo della spesa.
Per quanto concerne la tutela della salute, alcune Regioni hanno affrontato la questione predisponendo un piano pluriennale sanitario (o socio-sanitario) più o meno con riferimento al piano sanitario nazionale elaborato dal Ministero della salute. Questi piani regionali si differenziano in termini di grado di dettaglio, concretezza, operatività e fattibilità. Più significativamente, si è verificato un crescente ricorso, da parte delle Regioni, a piani settoriali, per esempio in merito a riabilitazione, assistenza materno-infantile, servizi di emergenza, raccolta e distribuzione del sangue, edilizia ospedaliera. Alcune Regioni sono state attive nel campo della sperimentazione di nuove modalità erogative, ad esempio allo scopo di promuovere l'integrazione del servizio sanitario con le attività dei servizi sociali. Le Regioni si sono impegnate nell'elaborazione di standard e linee guida allo scopo di migliorare la qualità dell'intervento, ad esempio per l'assistenza domiciliare integrata, per le attività di riabilitazione e per l'assistenza all'ictus cerebrale ed altre malattie specifiche. Sempre di più le Regioni hanno riconosciuto il ruolo cruciale dell'informazione nel processo decisionale e, durante la legislatura, molte si sono attrezzate con sistemi informativi territoriali per la gestione anche delle linee guida appena citate.
Forse la principale novità nel campo della tutela della salute durante la legislatura passata sono stati i “livelli essenziali di assistenza” (LEA). I LEA sono stati originariamente concepiti nel 1992, nel decreto legislativo 502, ma si sono concretizzati in termini operativi quale chiave di volta dell'Accordo fra il governo centrale e le Regioni in materia di contenimento della spesa sanitaria firmato l'8 agosto 2001. I LEA avevano un duplice scopo: garantire un paniere, definito a livello nazionale, di prestazioni sanitarie da assicurare a tutti i cittadini, a prescindere del luogo di residenza; contribuire al contenimento della spesa sanitaria. Tutte le Regioni hanno provveduto alla formale adozione dei LEA, ma molte hanno anche deciso, come del resto è previsto dall'Accordo, di erogare servizi aggiuntivi non contenuti nei LEA e finanziati con entrate proprie.
Con tutta probabilità, tuttavia, gli sviluppi più importanti per quanto riguarda l'attività normativa delle Regioni nella legislatura passata si sono verificati, sempre secondo dati regionali, nel campo del governo della spesa. Anche in questo caso, il punto di partenza è stato l'Accordo Stato-Regioni dell'8 agosto 2001. Tale Accordo rappresentava l'avvio di una strategia per il contenimento della spesa sanitaria significativamente diversa da quelle attuate nel passato. Essa comprendeva l'impegno del governo di aiutare le Regioni a coprire i deficit certificati nonché una serie di requisiti che dovevano essere soddisfatti dallo Stato e, in particolare, dalle Regioni, relativi ad un controllo dettagliato dell'erogazione di servizi e della spesa. Inoltre, veniva richiesta alle Regioni la preparazione di un programma preciso per coprire la quota del deficit non finanziata dallo Stato, così come ogni altro deficit futuro. Una particolare enfasi è stata attribuita alle procedure per identificare i fattori che contribuiscono ad aumentare la spesa, oltre agli strumenti di controllo della spesa stessa.
Le Regioni si sono differenziate nel modo in cui hanno risposto agli incentivi e alle sanzioni contenuti nell'Accordo. Alla fine del primo anno, circa la metà erano riuscite a rispettare in pieno il patto, mentre le altre - alcune più, altre meno - erano inadempienti. Molte di questa seconda categoria sono diventate più attive negli anni seguenti. Le risposte comprendevano: compartecipazioni dei cittadini alla spesa sanitaria (ad esempio: farmaci, uso inappropriato del pronto soccorso, trasporto, prestazioni residenziali ed altre prestazioni del SSN); distribuzione diretta di farmaci; delisting di farmaci (ormai non più consentito); riduzione dei posti letto ospedalieri e potenziamento di day hospital e day surgery; monitoraggio delle prescrizioni mediche, farmaceutiche, specialistiche ed ospedaliere; centralizzazione degli acquisti di beni e servizi; osservatori dei prezzi; linee guida relativa alla prescrizione appropriata di determinati tipi di prestazioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative; progetti per ridurre la migrazione sanitaria passiva. Sono state, inoltre, intraprese iniziative riguardanti la gestione dei servizi sanitari regionali, ad esempio la modifica dei criteri per la contrattazione con le strutture private ospedaliere e della specialistica ambulatoriale. Alcune Regioni hanno perfino provveduto a riorganizzare i propri servizi sanitari regionali, riducendo il numero di aziende sanitarie ed aziende ospedaliere allo scopo di ottenere i benefici delle economie di scala. Sono stati anche attuati diversi progetti di sperimentazione organizzativo-gestionale.
Sul piano più prettamente finanziario, alcune Regioni sono state piuttosto innovative. Sono state, ad esempio, stabilite e regolamentate le procedure per l'individuazione ed il trasferimento a favore delle aziende sanitarie di beni immobili e l'alienazione degli stessi. Alcune Regioni hanno provveduto alla cartolarizzazione del patrimonio delle aziende sanitarie, mentre altre hanno contratto mutui, i cui oneri sono stati in parte a carico delle aziende sanitarie in proporzione alla singola quota di disavanzo. Ci sono Regioni che hanno affrontato la problematica del disavanzo più direttamente, aumentando l'addizionale IRPEF e/o altri tributi. Interessante è la strategia di una Regione di affiancare degli esperti ai direttori generali delle aziende sanitarie caratterizzate da difficoltà finanziarie particolarmente gravi.
Tutto ciò suggerisce che le Regioni nel loro insieme stanno maturando per quanto concerne la loro capacità e volontà di disegnare ed attuare politiche innovative.
Dati forniti dalle Regioni sulle attività delle loro assemblee negli ultimi 15 mesi della legislatura (2004 e gennaio-marzo 2005) sembrano confermare questo fenomeno di maturazione del processo di policy making regionale. In termini di leggi approvate, le Regioni sono specialmente attive in un numero limitato di campi: igiene pubblica; prestazioni specifiche per tutti i residenti o per determinate categorie di pazienti; prestazioni socio-sanitarie; bilancio e finanza; accordi fra la Regione o le aziende sanitarie locali ed erogatori pubblici e privati; ambiente. Questa enfasi sulle prestazioni, probabilmente, riflette la cresciuta responsabilità delle Regioni per l'organizzazione e l’amministrazione del Servizio sanitario regionale. Le Regioni, cioè, sono maggiormente impegnate nel processo decisionale riguardante quale assistenza è offerta ai propri residenti e in quale maniera essa è erogata.
E' da sottolineare, però, che l'attività legislativa delle Regioni nei 15 mesi in esame non è stata intensa. Secondo i dati regionali, nel periodo sono state approvate appena 74 leggi in materia sanitaria. L'attività legislativa, tuttavia, è un imperfetto indicatore degli sforzi compiuti dalle Regioni nel policy making. Una legge può non necessariamente essere uno strumento operativo, soprattutto quando prevede ulteriori provvedimenti per poter essere attuata. Inoltre, progettare ed approvare una legge è complesso e piuttosto dispendioso in termini di tempo, necessitando un lungo dibattito e la ricerca di consensi. Il policy making in campo sanitario spesso invece richiede una flessibilità e tempestività che lo strumento legislativo può non possedere. Le leggi possono essere quindi integrate oppure sostituite da regolamenti e deliberazioni adottate dalla Giunta o dal Consiglio regionale. Le Regioni sembrano essere molto attive in proposito. Ad esempio, la Giunta di una Regione di media dimensione in termini di popolazione residente, ha adottato in sanità, durante il periodo qui preso in considerazione, 315 delibere, a fronte di soltanto 7 leggi.
Anche i dati forniti dalle Regioni sui regolamenti regionali e, in particolare, sulle deliberazioni, tendono a confortare l'ipotesi che molte Regioni stiano effettivamente esercitando i loro più ampi poteri nel settore sanitario. Le questioni affrontate con più frequenza riguardano, oltre alla programmazione, prestazioni specifiche per tutta la popolazione e servizi per determinate categorie di pazienti, servizi socio-sanitari, accordi fra la Regione o aziende sanitarie locali e gli erogatori.
I dati disponibili sull'attività legislativa, sui regolamenti e sulle deliberazioni regionali indicano tre linee di tendenza che caratterizzano il policy making regionale in sanità. In primo luogo, a giudicare dal loro comportamento, le Regioni sembrano sentirsi in grado di attuare ed amministrare politiche assai sofisticate in termini tecnici. Ad esempio, alcune Regioni hanno introdotto procedure complesse per regolamentare l'accesso a determinati servizi e la relativa compartecipazione alla spesa da parte del paziente. Altre hanno adottato nuovi strumenti per facilitare la fissazione delle priorità circa le prestazioni da offrire ai loro residenti, ivi comprese prestazioni non previste nei LEA. Numerose Regioni hanno introdotto delle linee guida per prestazioni complesse riguardanti per esempio la salute mentale, le cure palliative e la medicina integrata. In alcune Regioni, la promozione dell'efficacia ed appropriatezza clinica viene ricercata tramite la cosiddetta “pianificazione negoziata” fra Regione e aziende sanitarie.
In secondo luogo, le Regioni dimostrano una sana cautela nelle loro scelte di politiche e strumenti gestionali nuovi. Prima di introdurre tali innovazioni in modo generalizzato, le Regioni spesso li sperimentano in via limitata. Ciò si è verificato, per esempio, per le nuove procedure per l'accesso alle residenze semi-assistenziali (RSA) e per le relative compartecipazioni, per nuovi modelli gestionali e per modalità erogative innovative. Una Regione ha istituito dei corsi di formazione per il suo personale mirati a facilitare l'attuazione di determinate leggi regionali.
In terzo luogo, infine, le Regioni sembrano più aggressive e centralizzatrici nel gestire le risorse. Alcune hanno imposto budget o tetti di spesa sugli erogatori pubblici e privati e sulle aziende sanitarie locali. Numerose Regioni cercano le economie di scala tramite diversi meccanismi per l'acquisto centralizzato di beni e servizi per conto delle singole aziende sanitarie. Vengono promosse anche nuove procedure per assicurare la collaborazione fra le singole aziende sanitarie in materia di erogazioni di specifici servizi quali la prevenzione e le alte specialità. E' in corso in alcune Regioni un processo di fusione forzata delle aziende sanitarie locali e, in almeno una Regione, la creazione di una azienda sanitaria regionale unica.
La maggiore autonomia delle Regioni, combinata con la loro volontà di esercitarla, porterà inevitabilmente ad una sempre maggiore diversità organizzativa. Ciò non dovrebbe destare preoccupazione. Più problematica invece è l'eterogeneità inter-regionale che potrebbe emergere nel carattere dell'assistenza a cui il cittadino potrà accedere. Tale diversità riguarderà non soltanto la gamma di prestazioni disponibili, ma anche la modalità di accesso ed il costo per il paziente. Ciò sarà il risultato cumulativo delle molte decisioni riguardanti le prestazioni prese separatamente dalle singole Regioni, probabilmente in modo non coordinato. Il problema è che questo processo incrementale potrebbe portare ad un grado di diversità inter-regionale incompatibile con i principi di equità territoriale sottostanti i LEA, a meno che non sia sottoposto ad un continuo e sistematico monitoraggio, che risulti da una effettiva collaborazione fra il governo centrale e le Regioni, mirata a garantire che il Servizio sanitario pubblico rimanga nazionale.

TRATTO DA

Rapporto sulla legislazione regionale 2004-2005

6. TENDENZE RECENTI NELLA SANITA' REGIONALE  (George France)



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