Il Rapporto Issirfa sulle Regioni in questi anni ha monitorato lo sviluppo delle principali politiche loro affidate anche attraverso il confronto con lo Stato centrale. In questo arco di tempo l’Issirfa ha potuto fotografare ed analizzare la varietà e la diversità degli ordinamenti regionali che, nel disegno costituzionale, rappresentano la vera grande ricchezza della Repubblica.

 Infatti, risolto il momento dell’uniformità attraverso la legislazione statale, alle Regioni si apre la via della differenziazione che evidenzia bisogni particolari e soluzioni originali, con la possibilità di estensione delle migliori pratiche. Così, accanto a ritardi e a profonde sperequazioni territoriali, si sono registrate esperienze su politiche pubbliche che sono ampiamente competitive a livello europeo. Ovviamente, i divari tra i diversi territori rappresentano un gap del sistema nel suo insieme, ma la predisposizione di adeguati meccanismi che avrebbero consentito di superare le disparità esistenti non hanno trovato compiuta attuazione. Questi, diversamente, potrebbero costituire quell’elemento che, rilanciando la crescita in modo considerevole, farebbero la differenza tra la condizione italiana e quella degli altri paesi europei. Il divario tra i diversi territori, peraltro, non deve essere superato con l’uniformità o con il desiderio dell’intervento taumaturgico dello Stato, bensì mettendo in moto le risorse dei differenti territori, in modo che le diversità possano divenire un elemento di ricchezza, di maggiore coesione e non di separazione.

 

Il percorso istituzionale sin qui compiuto non è riuscito nell’intento e il divario territoriale resta il problema con il quale si devono oggi misurare le Regioni e lo Stato. Esso pesa tanto sulle Regioni del Sud che si sentono vittime di una condizione di abbandono, escluse dai processi nazionali ed europei di innovazione e crescita, quanto sulle Regioni del Nord, che – diversamente dagli altri stati europei – non possono avvantaggiarsi di un mercato nazionale efficiente. Il divario territoriale, peraltro, grava anche sull’immagine dello Stato a livello europeo, in quanto la politica di bilancio e il rispetto del patto di stabilità sono resi più complessi, nonostante la flessibilità concessa dalla Commissione europea all’Italia.

 

La riforma del Titolo V del 2001 presupponeva che fosse sufficiente un maggior numero di competenze legislative regionali e di attribuzioni amministrative per consentire alle Regioni di sviluppare le politiche territoriali che avrebbero colmato il divario.

Tuttavia, già prima che sopraggiungesse la crisi economica, il riparto delle competenze veniva considerato sproporzionato e, di fatto, congelato sul livello del primo regionalismo; poche, infatti, sono state le innovazioni apportate e il regionalismo della riforma costituzionale, che era stato salutato come una svolta verso il federalismo, doveva contenersi entro confini angusti e politicamente poco significativi. Il federalismo fiscale che avrebbe dovuto segnare una discontinuità rispetto al passato entra nell’agone politico molto tardi, con la legge n. 42 del 2009, e dopo anni passati a redigere i decreti legislativi di attuazione della legge di delega, può dirsi che sia ormai fallito, caduto nel rigore di una giurisprudenza costituzionale che, attraverso il coordinamento della finanza pubblica, ha messo per intero di nuovo e con un’intensità maggiore il controllo finanziario nelle mani del governo.

Con l’arrivo della crisi economica si assiste ad un numero crescente di atti normativi, per lo più decreti legge dei diversi Governi che si sono succeduti, volti a riaccentrare sempre più poteri e politiche nelle mani dello Stato centrale e finalizzati a limitare in modo crescente l’autonomia finanziaria degli enti territoriali attraverso il controllo della spesa e i tagli ai trasferimenti.

Quest’andamento si rifletteva inevitabilmente su quelle politiche che rientravano concretamente nella competenza delle Regioni. A titolo di esempio, basti ricordare, nel settore dei trasporti, l’istituzione del Fondo Nazionale dei trasporti, nel 2013, che reintroduce il concetto di finanza derivata, o i numerosi fondi vincolati nell’ambito delle politiche sociali, per esempio, quello sulla famiglia, sugli asili nido, per le politiche giovanili, solidarietà mutui prima casa, la social – card, che collidevano in pieno con i principi della delega della legge n. 42/2009 sul federalismo fiscale.

Inoltre, accanto al proliferare di questi fondi, sono stati operati tagli sui fondi nazionali destinati a sostenere i livelli essenziali delle prestazioni inerenti i diritti civili e sociali e l’organizzazione dei relativi servizi, come nel caso del fondo nazionale per le politiche sociali o del fondo per la non autosufficienza, generando incertezze nelle Regioni sui tempi e sulle quantità di risorse che saranno loro destinate, rendendo spesso estremamente difficoltosa sia la gestione che la programmazione delle politiche.

Il persistere di un meccanismo di finanza derivata, peraltro, ha impedito una vera responsabilizzazione dei soggetti gestori dei servizi di qualsiasi natura essi siano.

 

Nel 2012 il Fiscal compact porta alla prima importante revisione della Costituzione con l’introduzione del c.d. “pareggio di bilancio”. La modifica si ripercuote direttamente sulle Regioni e le altre autonomie territoriali, con la previsione che “I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea” (art. 119, comma 1, Cost.).

In questo contesto, deteriorato dalla crisi, in cui si punta al riordino della finanza pubblica e al rispetto dei vincoli europei, si inserisce, come attore sempre più protagonista, la Corte Costituzionale, chiamata a intervenire in modo esponenziale nel difficile e conflittuale rapporto tra Regioni e Stato centrale, a seguito dei tagli che riducono le risorse finanziarie disponibili per i territori. Il giudice delle leggi si trova così, molto spesso, a colmare le lacune o le “disarmonie” create dal legislatore statale; e se, nell’adempiere all’ingrato compito di supplenza, i giudici della Consulta hanno potuto avvalersi dell’argomento dell’emergenza creata dalla crisi, per non censurare molti degli atti invasivi delle competenze regionali, altrettanto chiaramente hanno avvertito che, cessata la crisi, determinate invasioni di competenza non sarebbero state tollerate, nemmeno con il ricorso al coordinamento della finanza pubblica (v. sentenza n. ).

 

Tutti i tentativi portati avanti, in questi anni, in vario modo per circoscrivere l’autonomia delle Regioni sembrano trovare ora una compiuta e naturale conclusione nell’imminente riforma costituzionale.

La revisione della Costituzione consolida il trasferimento delle competenze a livello centrale intervenuto con la legislazione della crisi e, quando la competenza su una determinata materia non è esclusivamente statale, affida comunque allo Stato il compito di definire “norme generali” e “disposizioni comuni” in materie attualmente riferite dall’art. 117 alla competenza concorrente o residuale delle Regioni.

La motivazione adottata, per giustificare questa scelta costituzionale non pienamente in sintonia con il principio del riconoscimento e della promozione delle autonomie territoriale (art. 5 Cost.), è legata, almeno apparentemente, alla necessità di ridurre il contenzioso costituzionale tra Stato e regioni, di rendere più omogenea la governance di alcuni settori e di colmare i forti divari territoriali esistenti. In realtà, traspare chiaramente la volontà di un controllo rigoroso delle risorse finanziarie, in una misura tale da ridurre l’azione regionale alla stretta esecuzione amministrativa di ambito territoriale limitato, senza considerazione alcuna per le “buone politiche” portate avanti dalle Regioni.

Inoltre, è da chiedersi se tutte le criticità attribuite alle Regioni, siano loro veramente imputabili; se gli inadempienti ascritti alle Regioni, nel portare avanti le politiche loro affidate, siano dipesi sempre ed esclusivamente dalla volontà degli amministratori regionali, o se, accanto agli sperperi denunciati dalla cronaca, non vi siano responsabilità dello Stato che avrebbe dovuto elaborare le strategie generali del Paese, come nel caso dei rifiuti, in quello dell’energia, la politica industriale, ecc.

In definitiva, poi, è da vedere se questa riforma sia la cura migliore tra le tante possibili per riordinare e rendere efficiente il governo territoriale.

 

Il sistema del riparto delle competenze legislative, tra Stato e Regioni, che sembrava aver posto come regola quella di una competenza legislativa generale attribuita alle Regioni, salvo le specifiche competenze, enumerate, attribuite in via esclusiva allo Stato, è ribaltato dalla logica della devoluzione a favore di queste ultime, a quella del riaccentramento nelle mani dello Stato centrale. Inoltre, la clausola di flessibilità/supremazia consentirebbe allo Stato di intervenire nelle materie espressamente di ambito regionale e riservate costituzionalmente alle Regioni. Si chiuderebbe, così, una stagione che, in realtà, non è mai decollata.

Nel nuovo sistema, alle Regioni sembra rimanere solo una parvenza della precedente funzione legislativa, anche in quelle materie dove avevano sviluppato una visione politica ed organizzativa di carattere generale, autonoma rispetto allo Stato centrale, supportata e costruita attraverso l’esperienza e l’esercizio della loro competenza legislativa, come, per esempio, nel caso delle politiche sociali, l’agricoltura, o il turismo; ma anche la sanità, il governo del territorio, l’ambiente, la cultura, ecc..

Le Regioni non vengono cancellate come le Provincie, ma la loro funzione legislativa, viene fortemente circoscritta, vincolata e soggetta a continue e pesanti incursioni da parte dello Stato anche in quelle materie che prima rientravano nella loro competenza esclusiva/residuale. Mentre l’attuale testo costituzionale limita gli interventi dello Stato, nelle materie di competenza regionale residuale, alla definizione dei livelli essenziali di assistenza e trasversalmente a quelle prescrizioni in materie, come l’ambiente, che possono interferire con le competenze regionali, il nuovo testo, introdurrebbe ulteriori elementi che limitano fortemente la competenza esclusiva delle Regioni, in via generale con l’ampliamento della competenza esclusiva dello Stato e, in via più specifica, con la previsione di norme generali e principi comuni in materie interferenti con quelle attribuite alle Regioni e sulle quali può ancora intervenire, in senso ulteriormente limitativo, la clausola di supremazia, che sposta al livello statale la competenza regionale nel caso lo richieda l’unità giuridica o economica della Repubblica o la tutela dell’interesse nazionale.

La competenza concorrente scompare, in quanto tale, ed alcune materie, prima di competenza regionale, transitano in toto  nella competenza esclusiva dello Stato, come per esempio, tutela e sicurezza del lavoro, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, commercio con l’estero, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione di interesse nazionale.

In particolare, per quanto riguarda porti ed aeroporti e le reti di trasporto la voce è stata spostata in modo letterale dalla competenza concorrente alla competenza esclusiva statale, con l’aggiunta della specificazione dell’interesse nazionale. Si dovrebbe pertanto ritenere che rimanga alle Regioni la medesima competenza, qualora questa attenga a degli interessi regionali; anche se è difficile comprendere quali possano essere le grandi reti di trasporto di interesse regionale. Così anche la competenza concorrente su “valorizzazione dei beni culturali ed ambientali e promozione delle attività culturali” ha subito una metamorfosi nel passaggio alla competenza esclusiva dello Stato divenendo “tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici”.  Mentre alla competenza delle regioni rimane solo la disciplina delle attività culturali, limitatamente all’interesse regionale, e “la promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici”.

Altre materie subiscono una sorte diversa come il turismo e le politiche sociali, che divengono materie a “nuova” competenza concorrente. Sono, infatti, materie che permangono nella competenze esclusiva  delle Regioni ma sulle quali insiste anche la competenza esclusiva dello Stato, per quanto attiene alla sola definizione di “disposizioni generali e comuni”. Queste saranno, pertanto, cosa diversa ed ulteriore, rispetto ai livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali.

 

Lo schiacciamento delle competenze legislative regionali, nel disegno di riforma costituzionale, sembra trovare un elemento di bilanciamento nel nuovo art. 116, comma 3, della Costituzione (c.d. clausola di asimmetria), che ammette la possibilità per le Regioni di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” in determinate materie di competenza dello Stato (lettere l, limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n, istruzione, o, limitatamente alle politiche attive del lavoro e all’istruzione e formazione professionale, s, ambiente, e u, limitatamente al governo del territorio). Tuttavia, la legge statale ordinaria, a procedimento bicamerale e previa intesa con la Regione interessata, con la quale possono essere attribuite le ulteriori competenze materiali, può essere deliberata, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119, purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio.

Questa specificazione sembra quasi una sorta di riconoscimento per quelle regioni che hanno condotto le politiche pubbliche nelle materie richiamate in modo efficiente.  Pur tuttavia, se, per un verso, la soluzione accolta sembra essere plausibile, per altri versi suscita delle perplessità, non tanto per le asimmetrie che potrebbe generare, le quali sono in re ipsa una conseguenza della previsione costituzionale, quanto e soprattutto, in primo luogo, per la mancata attuazione dell’art. 119 Cost., cui pure la disposizione richiamata rinvia, e, in secondo luogo, in quanto questo modello di asimmetria acuirebbe il divario territoriale, essendo venuto meno nel testo costituzionale ogni riferimento ad esso e ad un ipotetico intervento statale. A tal riguardo, sarà sufficiente ricordare che nel testo originario dell’art. 119 Cost., un apposito comma attribuiva allo Stato la possibilità di assegnare, con legge,  a singole Regioni contributi speciali “per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole”.

L’obiettivo, anche in questo caso, perciò, non appare essere, tanto il conseguimento di buoni risultati e il miglioramento degli standard regionali in determinati campi – come, per esempio, la riduzione della povertà o l’attività di prevenzione di determinate malattie, che possono generare aumenti di spesa nell’immediato e una riduzione per il futuro – bensì la costante paura di perdere il controllo della spesa, anche a fronte di una politica realizzata meglio.

 

Questa compressione delle funzioni regionali non sembra trovare una adeguata compensazione neppure nella creazione di un Senato che rappresenti le istituzioni territoriali. La partecipazione al procedimento legislativo, le altre funzioni attribuite al Senato e la sua stessa composizione, infatti, non paiono garantire un’adeguata tutela agli interessi delle autonomie territoriali, né assicurare la funzione di raccordo tra Stato e Enti territoriali.

Basti considerare che, quanto alla composizione del Senato, una parte dei senatori dovrebbe essere di nomina presidenziale tra i “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” e, perciò, tra cittadini che, per quanto illustri, appaiono essere totalmente estranei ai temi delle politiche pubbliche e alle problematiche dei territori.

 

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Il Rapporto cade in un momento di transizione in cui da una trasformazione così radicale della Costituzione potrebbero derivare effetti dirompenti sulla autonomia regionale e degli altri  enti territoriali.

Proprio in questo momento, lo studio sulle politiche regionali svolto dall’ISSIRFA rappresenta, non solo una lettura delle politiche ad oggi, ma anche un contributo alla comprensione dei risultati di domani. Una volta modificati gli assetti, i ruoli e le competenze dei soggetti istituzionali come la Camera, il Senato e le Regioni diventerà necessario proseguire l’analisi e la valutazione degli effetti che il cambiamento istituzionale ha operato nelle diverse politiche.

 

Ad oggi, l’analisi delle politiche regionali, svolta con periodicità regolare dall’Issirfa, conferma alcuni elementi di fondo, ampiamente positivi, anche nell’ultimo biennio. Sono tante le “buone politiche” delle Regioni, portate avanti anche come sperimentazioni, nonostante le difficoltà legate alla crisi economica.

In questa sede, a titolo di esempio, basti ricordare gli interventi per la salvaguardia e la tutela del territorio rurale, il recupero produttivo dei terreni abbandonati, incolti o sottoutilizzati, anche attraverso la costituzione di banche regionali della terra, tutti strumenti che in questi ultimi anni hanno favorito, peraltro, l’attività imprenditoriale dei giovani; lo sviluppo e la disciplina dell’agricoltura sociale, che associa alla produzione agricola il soddisfacimento di bisogni sociali, come la riabilitazione e il recupero di soggetti svantaggiati, l’inserimento lavorativo o le attività didattiche. Inoltre, nell’ambito delle politiche abitative, il cohousing (coabitazione), una speciale forma di “vicinato” che prevede condivisione di spazi, servizi e responsabilità, per far fronte ai nuovi bisogni sociali e alla coresidenzialità per favorire l’integrazione nella comunità con un approccio innovativo; nel settore dei trasporti, l’avvio in molte Regioni di progetti sperimentali che vedono modalità congiunte tra diversi mezzi di trasporto, taxi e servizi a chiamata, sistemi di bike e car sharing, sistemi tariffari dinamici, intermodalità, strumenti tecnologici per la pianificazione urbana; in ambito sanitario alcune prestazioni, che si prevede entrino nei futuri LEA, sono state già fornite, nonostante i tagli finanziari dovuti alla crisi, da alcune Regioni come livelli aggiuntivi di assistenza.

 

A fronte di questi importanti risultati c’è sicuramente una realizzazione non sempre omogenea sul territorio nazionale, situazioni di eccellenza e situazioni di forte ritardo. Spesso alcune Regioni presentano modelli di organizzazione e gestione dei servizi e degli interventi più avanzati, anche a fronte di una spesa più elevata, politiche innovative, capacità di sperimentazione, basti pensare alle società per la salute della Toscana, alle più varie forme di sostegno alle famiglie o di lotta alla povertà, o ai vari modelli di turismo legato al territorio che si stanno diffondendo e che le Regioni stanno valorizzando.  

Tutto evidenzia, accanto alle difficoltà, anche uno sforzo di rinnovamento, una vitalità e un “istinto di sopravvivenza” che si è talvolta tradotto in capacità di “reiventare modelli o soluzioni nuove”. Queste risorse e capacità che molte Regioni hanno dimostrato di possedere sembrano spesso nascere dalla prossimità che questi enti hanno con i cittadini e il territorio. La prossimità, infatti, rende  necessario e imprescindibile la ricerca di soluzioni che consentano la garanzia di quei livelli essenziali di servizi che uno Stato lontano sembra voler dimenticare e che la Regione deve comunque garantire. 

 

Le criticità del modello costituzionale delineato nel 2001, a ben vedere, emergono più sul versante statale, con l’incapacità e la resistenza ad avviare un vero sistema di autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali. Ciò non ha giustificazioni dal punto di vista costituzionale; poteva, però, comprendersi che la persistente tenacia, con cui i Governi che si sono succeduti hanno cercato di controllare le finanze regionali, facesse parte del tentativo di frenare la spesa, nel momento della crisi. Quello che sembra incomprensibile è, invece, il volere istituzionalizzare, dopo la crisi, la compressione dell’autonomia finanziaria regionale, che frena la capacità di programmazione e di gestione delle politiche pubbliche regionali.

A questo tentativo di controllo centralizzato delle risorse, peraltro, si è accompagnato un inadempimento del legislatore statale che non ha definito i livelli essenziali nei vari settori. Un’attività, questa, che rappresenta la vera competenza dello Stato e alla quale avrebbe dovuto essere ancorato il finanziamento delle funzioni.

L’esempio arriva, ancora una volta, dal settore dei trasporti pubblici regionali, per il quale era previsto un criterio «misto» di finanziamento, ove l'ammontare delle risorse per il trasporto pubblico era determinato tenendo conto, oltre che dei costi standard, anche della fornitura di un livello adeguato del servizio su tutto il territorio nazionale.

Una situazione non dissimile si riscontra nelle politiche sociali dove i livelli essenziali non sono stati mai definiti e, conseguentemente, mai finanziati.

Nel turismo, infine, è totalmente mancata una vera policy nazionale. Le risorse dedicate a questa politica sono state pressoché irrisorie ed è mancata una visione strategica che collegasse le competenze dei diversi livelli di governo che interagiscono nel settore. Nel frattempo la competenza ministeriale a livello nazionale è trasmigrata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero dei beni culturali (e del turismo), ma sorge il dubbio che anche questa scelta sia più il frutto di una politica di risparmio che non di una vera strategia di rinnovamento del settore.

 

Stelio Mangiameli                                                                Giulia Maria Napolitano

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