L’approvazione della legge 20 novembre 2017, n. 168 intitolata:

"Norme in materia di domini collettivi"(http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/11/28/17G00181/sg) porta con sé importanti novità per quelli che un autorevole studioso del tema aveva già definito “assetti fondiari collettivi” (Grossi, 1977), ricomprendendo in tale espressione sia le terre gravate dagli usi della collettività (o terre gravate da usi civici), sia quelle di proprietà di una comunità, a loro volte distinte in terra della cittadinanza (o terre civiche) e in terre della comunità discendente dagli antichi originari (o terre collettive). Mentre le terre gravate da usi civici sono terre di proprietà altrui, sulle quali una determinata collettività ha il diritto di godere di alcune utilitates (uso civico di legnatico, macchiatico, pesca o caccia, ecc.), le proprietà collettive (terre civiche e terre collettive) appartengono alla comunità e vengono a costituire un tertium genus di proprietà in cui i beni sono di appartenenza privata pur essendo assoggettati ad un regime di proprietà pubblica (Corte Cass. 14 febbraio 2011 n. 3665). Questi antichi istituti giuridici molto differenti tra loro per natura, condividono, infatti, il regime caratterizzato dalla inalienabilità, inusucapibilità, indivisibilità e perpetua destinazione agro-silvo-pastorale (Tomasella, 2009).

Ebbene, la prima novità introdotta dalla legge riguarda proprio la questione della definizione di tali fattispecie: nel tentativo di superare un’annosa questione legata all’utilizzo promiscuo e confusorio, da parte della normativa, della giurisprudenza e della dottrina, di varie espressioni (usi civici, terre civiche, demani collettivi, proprietà collettive, ecc.), il legislatore del 2017 fa, infatti, lo sforzo di ricomprendere i diversi istituti giuridici sotto l’unico binomio “demani collettivi” per poi specificare, all’art. 3, che tale espressione ricomprende: le terre di originaria proprietà collettiva (lett. a), quelle derivanti dalla liquidazione dei diritti di uso civico (lett. b), quelle derivanti dallo scioglimento delle promiscuità (lett. c) e quelle appartenenti a famiglie discendenti dagli antichi originari del luogo (lett. e). A queste la norma aggiunge, poi, anche le terre di proprietà di soggetti terzi (lett. d) e i corpi idrici (lett. f) su cui i residenti del comune o della frazione esercitano usi civici (non ancora liquidati), sebbene entrambe le fattispecie non siano, in realtà, beni della collettività, ma terre e corpi idrici altrui (di proprietà di terzi, le terre; di proprietà dello Stato, i corpi idrici ex legge 5 gennaio 1994 n. 36), su cui determinate collettività di cittadini hanno diritto di trarre alcune utilità.

Altri elementi del nuovo quadro normativo da mettere in evidenza riguardano l’importante “riconoscimento” da parte della Repubblica di questi “ordinamenti giuridici primari delle comunità originarie” (art. 1, comma 1), perché equivale ad ammettere l’esistenza di un diritto alternativo al diritto statale e/o regionale, espressione del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, quarto comma Cost.); e l’ampia copertura costituzionale ad essi riconosciuta: la legge richiama, infatti, l’art. 2 della Costituzione che tutela le “formazioni sociali” in cui l’uomo realizza la propria personalità; l’art. 9 sulla tutela del paesaggio, il 42 sulla funzione sociale della proprietà privata e il 43 sulla dimensione comunitaria di determinate imprese con carattere di interesse generale. D’altronde nel suo art. 2 la legge spiega i motivi per cui i beni di collettivo godimento devono essere tutelati e valorizzati: essi sono “elementi fondamentali per la vita e lo sviluppo delle collettività locali”; “componenti stabili del sistema ambientale” e “strumenti primari per assicurare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale nazionale”; “basi territoriali di istituzioni storiche di salvaguardia del patrimonio culturale e naturale”; “strutture eco-paesistiche del paesaggio agro-silvo-pastorale nazionale”; “fonte di risorse rinnovabili da valorizzare ed utilizzare a beneficio delle collettività locali degli aventi diritto”. E l’art. 1, comma 1, lett. c) considerandola “comproprietà intergenaerazionale” sottolinea l’importante ruolo che tali proprietà hanno avuto ed hanno nella conservazione delle risorse naturali e ambientali in favore delle generazioni future.

Altre precisazioni importanti introdotte dal legislatore del 2017 riguardano la natura della proprietà dei domini collettivi e la loro titolarità: in merito alla prima questione, dopo aver stabilito in maniera netta che gli enti esponenziali delle comunità collettive hanno personalità giuridica di diritto privato (art. 1, 2° comma), la nuova legge conferma che “il regime giuridico dei beni collettivi resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale” (art. 3, 3° comma). Quanto alla titolarità dei domini collettivi, questione su cui la dottrina si è a lungo soffermata, la nuova legge chiarisce che l’amministrazione e la gestione dei beni di proprietà collettiva spetta all’ente esponenziale (art. 2, 4° comma) e solo se la comunità è inorganizzata, essa è rappresentata dal Comune.

Quanto al ruolo delle Regioni, ci sembra che esso esca ridimensionato dal nuovo quadro normativo, in linea d’altronde con la giurisprudenza costituzionale il cui orientamento consolidato è di ricondurre i domini collettivi alla competenza esclusiva statale della tutela dell’ambiente ex lettera s) del 2° comma dell’art. 117 Cost. La loro valorizzazione appartiene, tuttavia, anche alle Regioni. L’art. 3 della legge n. 168/2017 ha, infatti, attribuito ad esse il compito di provvedere, ma entro il 12 dicembre 2018, ad attuare quanto previsto dalle legge n. 97/94 (“Nuove disposizioni per le zone montane” http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1994/02/09/094G0108/sg), vale a dire la determinazione di alcuni contenuti degli Statuti. A differenza della legge del 1994, che faceva dipendere dalla legge regionale non solo la predisposizione del procedimento al termine del quale la Regione avrebbe conferito alle comunità collettive la personalità giuridica di diritto privato, ma anche la disciplina delle comunità collettive nei suoi profili statutari fondamentali, oggi, per la nuova legge, gli enti esponenziali dei domini collettivi sono già soggetti di diritto privato e, in difetto di legislazione regionale, potranno utilizzare il loro potere di autonormazione per determinare il contenuto dei propri statuti (Germanò, 2018).

 

Per approfondire:

- Germanò A. (2018), I domini collettivi, in Diritto Agroalimentare, n. 1;

- Grossi P. (1977), «Un altro modo di possedere». L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè;

- Tomasella E. (2009), La proprietà collettiva della terra in alcuni Paesi in via di sviluppo, in Germanò A. e Bugiani C. ( a cura di), La ricchezza della diversità, Giuffrè;

- Relazione alla legge dell’APRODUC (Associazione per la tutela delle proprietà collettive e dei diritti di uso civico):

http://www.demaniocivico.it/attachments/article/1794/relazione definitiva legge 168.pdf

- Cassazione Civile Sez. Unite, Sent., 14-02-2011, n. 3665:

http://www.demaniocivico.it/public/public/886.pdf

- Corte costituzionale 9 luglio 2014 n. 210 (https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=210)  

- Corte costituzionale 21 febbraio 2017 n. 103 (https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2017&numero=103)

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