Intervento alla tavola rotonda su “La riforma della riforma”, svoltasi nel quadro del Convegno-ISSiRFA dal titolo “Regionalismo in bilico, tra attuazione e riforma della riforma” (Camera dei Deputati, Sala del Cenacolo, 30.6.2004)

SOMMARIO
1. Qualità del progetto e spregiudicatezza delle forze riformatrici
2. La composizione del “Senato federale”
3. I poteri del “Senato federale”
4. Il “Senato federale” e l’elezione dei giudici costituzionali
5. La distribuzione delle competenze legislative
6. La “devolution”
7. L’ “interesse nazionale”

1. Qualità del progetto e spregiudicatezza delle forze riformatrici.
Se si considerano i numerosi commenti che hanno investito il testo del progetto di riforma costituzionale approvato dal Senato, colpisce particolarmente il fatto che, mentre sul tema della forma di governo permangono opinioni molteplici e contrapposte, sul tema della “riforma della riforma” del “federalismo” invece si sia formato , in modo crescente e sempre più deciso, un fronte di presso che unanime critica.
Naturalmente una simile convergenza di atteggiamenti sfavorevoli da parte di studiosi dei più diversi orientamenti colpisce ma non sorprende, dati i molteplici difetti di impostazione e la qualità delle singole proposte. Il progetto dunque, lungi dall’apportare le necessarie correzioni alla (a mio parere) cattiva riforma costituzionale del 2001, non farà altro che peggiorare lo stato del sistema fino a renderlo presso che impraticabile.
La generale impressione che emerge dalla lettura del progetto (e non solo per quanto concerne il “federalismo”) è che le singole proposte di revisione, lungi dall’essere espressione di un disegno, quale che sia, chiaro ed organico, siano piuttosto il frutto di spregiudicate contrattazioni e di puntuali, estemporanei e spesso funamboleschi compromessi tra le forze politiche della stessa maggioranza, volti a raggiungere il necessario accordo, senza alcuna considerazione della qualità e della rispondenza dei risultati ad una coerente logica istituzionale. Simile trend peraltro non sembra certo smentito dalle prospettive sul prosieguo dei lavori, che continuano a procedere tra improvvisazioni, acrobazie e patti scritti sull’acqua .

2. La composizione del “Senato federale”. Il nuovo “Senato federale” è l’istituto che ha attirato il maggior numero di critiche sia per le modalità di composizione, sia per le funzioni dell’organo. Quasi unanimemente si è stigmatizzato come questo collegio, pur presentando due caratteristiche tipiche delle “Seconde camere” federali, - quali l’estraneità al circuito fiduciario e la sottrazione allo scioglimento anticipato - appaia privo di una effettiva capacità rappresentativa territoriale. Non si possono considerare infatti idonei strumenti di collegamento della sua composizione con le articolazioni regionali e con la dimensione politica locale né la prevista elezione “su base regionale” ( da sempre già presente nel testo dell’art.57 Cost.), né i requisiti per l’elettorato passivo (meri “pannicelli caldi”, come efficacemente li definisce Leopoldo Elia), né i generici raccordi di tipo informativo o consultivo tra senatori e organi regionali. Neppure utile a tal fine appare infine lo stesso strumento della ”contestualità affievolita” delle elezioni senatoriali con quelle dei Consigli regionali, che, come è stato giustamente notato, avrebbe l’effetto inverso di quello proclamato, e cioè l’effetto di trascinare le scelte elettorali locali nella logica di quelle nazionali. In questo quadro nulla aggiunge – rivelandosi al contrario un mero espediente per eludere il problema - il rinvio alla futura legge dello Stato (at.57, comma 3) per la disciplina del sistema elettorale e per la garanzia della rappresentanza territoriale da parte dei senatori, data la mancanza di qualsivoglia indicazione di principi e modalità in proposito.
Altra ragione della debolezza del collegamento con le entità locali sta nel fatto che i Senatori dovrebbero essere eletti con suffragio diretto, ma (a differenza di quanto avviene proprio nell’esperienza statunitense, sempre citata ad esempio) non sarebbero in numero pari per tutte le Regioni. Infine, ma non per ultimo, scomparsa nel testo finale la prescrizione del metodo elettorale proporzionale, i senatori ben potrebbero senza ostacoli costituzionali essere eletti con un sistema elettorale anche simile, analogo o dagli effetti simili a quello di tipo prevalentemente maggioritario adottato per la Camera dei Deputati, con l’effetto di riprodurre nel Senato la stessa composizione politica di quest’ultima. Dovendo per di più i Senatori rappresentare “la Nazione e la Repubblica” , nell’insieme questo Senato, detto “ federale” appare piuttosto come una seconda Camera politica nazionale destinata ad agire con la medesima logica che guida gli schieramenti politici della Camera dei Deputati: irragionevolmente, dunque resterebbe sottratto al rapporto fiduciario e allo scioglimento anticipato.
Del resto, che un Senato del genere sia privo di una effettiva e sufficiente rappresentatività territoriale è riconosciuto implicitamente dallo stesso testo della riforma, che accanto alla composizione ordinaria ne prevede una “integrata” per l’esercizio delle sole funzioni elettorali: in tali ultimi casi (elezioni di giudici costituzionali e membri del Consiglio Superiore della Magistratura) si aggiungono ai senatori anche i Presidenti delle Giunte delle Regioni e, per la partecipazione all’Assemblea che elegge il Presidente della Repubblica, anche alcuni delegati designati dalle Regioni medesime.
Quelle finora accennate sono critiche, come ho detto, assai diffuse ed ormai note. Da molti – compresa chi scrive - si invoca l’introduzione del modello Bundesrat germanico, ma nel contempo si conviene realisticamente sulla impossibilità di una effettiva riforma della composizione del Senato in senso federale per la diffusa e radicata ostilità di tutte le forze politiche.

3. I poteri del “Senato federale”.
Quanto poi ai poteri attribuiti a questo Senato, sono innanzi tutto criticate da molti punti di vista le modalità della sua partecipazione alla funzione legislativa e la tripartizione tra leggi “monocamerali” (a volontà prevalente) della Camera dei deputati, leggi monocamerali (a volontà prevalente) del Senato e leggi bicamerali (a partecipazione paritaria). Non c’è dubbio che la capacità di incisione del Senato nell’ordine legislativo è davvero massiccia. Anzi un folto gruppo di commentatori , favorevoli al “premierato forte”, argomentando dall’ampiezza e spessore politico dei poteri normativi che gli sono affidati, ravvisa nel Senato, e non nel Premier, il vero titolare di un potere “assoluto”, perché nell’esercizio di tali poteri questo collegio - non essendo coartabile né con la posizione della questione di fiducia, né con la minaccia dello scioglimento - sarebbe in grado di ostacolare o bloccare l’attività del Primo Ministro e di tenere in ostaggio la Camera maggioritaria.
Pur essendo incontestabile la eccessiva ampiezza dei poteri normativi del Senato, è da dire che questa accusa postula un naturale ruolo conflittuale e oppositivo da parte di quest’organo, partendo dalla premessa della necessaria diversità della sua composizione politica rispetto a quella della Camera dei Deputati che sostiene il Premier. A questa impostazione però si possono muovere due obiezioni.
Per un verso, infatti, si può affermare che la riforma non è tale da produrre immancabilmente questo effetto, proprio perché, per le ragioni già dette, non solo non impedisce, ma favorisce una omogeneità di composizione politica delle due Camere che pone in serio dubbio la forza del Senato come contropotere rispetto al Premier e alla maggioranza che lo sostiene; per di più, poiché le norme transitorie spostano in un futuro incerto il funzionamento “a regime” del Senato “federale”, non si saprebbe nemmeno quando esso potrebbe cominciare a funzionare da contropotere.
Per altro verso poi, si può osservare che, anche ad ammettere che questo Senato federale possa effettivamente funzionare da contropotere, non si tratterebbe di per sé di una anomalia o una incongruenza del “federalismo” disegnato dal progetto di riforma, ma eventualmente e soltanto del “premierato forte”. Infatti che nelle esperienze autenticamente federali una vera seconda Camera federale – e cioè autenticamente rappresentativa delle autonomie ed estranea al rapporto fiduciario - possa funzionare come contropotere rispetto alla maggioranza di governo nazionale, non costituisce alcunchè di patologico, ma, al contrario, sarebbe un evento fisiologico in un ordinamento federale che, come tale, dovrebbe garantire anche la divisione verticale del potere. Per esempio, al momento un ruolo simile è giocato dal Bundesrat tedesco, in cui una maggioranza opposta a quella del Cancelliere (e del Bundestag) si è prodotta non in seguito al meccanismo del suffragio diretto, ma proprio in relazione al suo collegamento con le realtà territoriali e cioè per il fenomeno del combinarsi del colore politico dei governi dei Länder, nel quadro di un sistema di partiti a carattere nazionale. Ciò, se pure non particolarmente frequente, è avvenuto più di una volta. Al momento poi la potenziale o reale capacità “oppositiva” del Bundesrat è particolarmente appariscente più che per la sua forza, per via della particolare debolezza della maggioranza politica che sostiene il Cancelliere.
Nel nostro sistema disegnato dalla riforma dunque una funzione di contropotere da parte del Senato non sarebbe dunque di per sé da criticare, tanto più poi data la mancanza di efficaci strumenti di garanzia contro lo strapotere del Premier.
Anche al di là di ciò, resta comunque vera la contraddizione tra debolezza rappresentativa dei territori da parte del nuovo Senato e massa delle competenze soprattutto legislative (ma anche elettorali e di controllo sull’interesse nazionale). I previsti poteri normativi del Senato sono davvero enormi, anzi abnormi. In effetti, questa delle leggi monocamerali della “seconda Camera” – di una camera, appunto, non soggetta né al rapporto fiduciario né allo scioglimento anticipato - è una particolarità sconosciuta alle altre principali esperienze di tipo federale (compresa quella tedesca, in cui il pur fortissimo Bundesrat non ha mai la volontà prevalente nell’approvazione delle leggi), ed è in particolare paradossale che a questa categoria di leggi sia affidata la fissazione dei principi fondamentali della legislazione concorrente. Non c’è dubbio dunque che l’assurda singolarità di queste leggi “a prevalenza Senato” - solo parzialmente e non efficacemente corretta dall’espediente, introdotto all’ultimo momento nel testo, del meccanismo azionato dalla reazione del Premier in caso di disaccordo tra le due Camere - debba essere abolita tout court , mantenendo al Senato un solo potere di partecipazione paritaria al procedimento legislativo oppure di veto sospensivo, delimitandone poi oculatamente il campo di azione.
Il fatto in particolare che il Senato, partecipando paritariamente all’approvazione delle leggi bicamerali, abbia una funzione determinante nell’approvazione di leggi anche di straordinario rilevo politico nazionale, non può di per sé essere motivo di critica, poichè è esattamente quanto avviene nei sistemi federali in cui le comunità minori partecipano all’esercizio della funzione legislativa federale, come per esempio in Germania, in cui il Bundesrat deve esprimere la sua Zustimmung a moltissime leggi anche di grande rilievo politico, comprese le leggi di revisione costituzionale. Nessuno accusa per questo lo stesso Bundesrat di esercitare un “potere assoluto”, neppure chi vorrebbe ridimensionarne l’influenza riducendo il campo dei suoi interventi legislativi. Anche la Commissione per la riforma del «federalismo», recentemente istituita, a quanto è dato sapere si occupa principalmente della riforma dell’assetto finanziario dei rapporti federali - avvertito attualmente come il problema primario che affligge il sistema tedesco, specie dopo la riunificazione - e non già di modificare il Bundesrat.

4. Il “Senato federale” e l’elezione dei giudici costituzionali.
Un discorso a parte merita il potere demandato ora al solo Senato di eleggere sette giudici costituzionali, da aggiungere ai quattro eletti dalle supreme magistrature e ai quattro nominati dal presidente della Repubblica, per un totale di quindici. In questo caso il Senato, come collegio elettorale è integrato dai Presidenti delle Giunte delle Regioni e delle Province di Trento e Bolzano. Nella stessa composizione il Senato elegge pure, da solo, un terzo dei membri del Consiglio Superiore della magistratura (il che appare fuori da ogni logica, trattandosi della scelta dei membri di un organo che non ha alcuna attinenza con l’articolazione regionale dello Stato).
Per quanto in particolare riguarda l’elezione dei giudici costituzionali, ribadisco in premessa la mia contrarietà in linea di principio a qualsiasi “regionalizzazione” (o “federalizzazione”) della composizione della Corte costituzionale, perché la considero incoerente con la natura di organo necessariamente imparziale di garanzia giurisdizionale, e ciò anche nello svolgimento del ruolo “arbitrale” e cioè nella risoluzione dei conflitti di competenza tra Stato e Regioni. Tale “regionalizzazione” appare ancora meno giustificata se si pensa che l’area di intervento della Corte non si esaurisce certo nella competenza sul contenzioso Stato-Regioni .
Ma, anche lasciando da parte questo generale pregiudizio negativo, non si può non muovere al progetto qualche critica puntuale. Noto con soddisfazione, per cominciare, che è stata abbandonata l’idea iniziale di aumentare il numero dei giudici, e lo si è lasciato immutato rispetto a quello attuale. Nell’ambito del collegio, però, l’equilibrio tra le componenti è cambiato: la maggioranza dei membri, sia pure assai risicata, resta, è vero quella della componente designata da istanze di garanzia (8 giudici rispetto ai 7 di estrazione senatoriale), ma il rapporto tra le due componenti è ben diversamente calibrato rispetto a quello vigente (nel quale i membri “neutrali” sono 10 e quelli di estrazione parlamentare 5). Già questa circostanza dimostra che non è stato del tutto abbandonato quel tentativo di “politicizzazione” della Corte che tante critiche aveva scatenato contro la formulazione iniziale del progetto. Ciò che appare poi decisamente da respingere è la scelta di riservare l’elezione dei giudici costituzionali al solo Senato “federale” integrato, escludendo la Camera dei Deputati, ciò che non avviene in nessuno dei sistemi federali europei (in Germania, per esempio, l’elezione dei giudici costituzionali è equamente ripartita tra Bundestag e Bundesrat). Una simile scelta, come è stato giustamente notato, non farebbe che accentuare il carattere contestativo e antagonista della “delegazione regionale” presso la Corte, accrescendo il pericolo di rottura dell’equilibrio interno al collegio e di menomazione della sua necessaria imparzialità.

5. La distribuzione delle competenze legislative.
Passo infine al tema - cruciale per il “federalismo” - della distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni e dell’ ”interesse nazionale”.
Ricordando le aspre critiche al testo attuale del Titolo V mosse in passato dallo stesso schieramento politico ora autore del progetto di riforma, sorprende che non sia stata coerentemente colta l’occasione per effettuare profondi interventi riformatori (quale almeno, ad esempio, quello del fantomatico d.d.l. di riforma costituzionale proposto dall’on. La Loggia e approvato dal Consiglio dei Ministri nell’aprile 2003). Invece le novità introdotte sono davvero scarse e puntuali mentre l’assetto generale del riparto di competenze è rimasto sostanzialmente immutato. Queste novità consistono infatti, oltre che nella famosa (o famigerata) devolution, nella soppressione, nel comma 1 dell’art.117 Cost., del limite dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, nell’abrogazione del regionalismo differenziato di cui all’attuale art.116, comma 3, nell’estensione del coordinamento statale ex art.118, comma 3 a materie ulteriori di legislazione concorrente.
L’inopinata abolizione del limite degli obblighi internazionali è ad un tempo incomprensibile e pericolosa. Coinvolge anche la legge dello Stato e non risponde a nessuna logica “federalista”: in nessuna esperienza di questo tipo, a quanto risulta, le comunità autonome sono sottratte radicalmente al rispetto di tali obblighi. Certo la formulazione attuale del limite comporta notevoli difficoltà applicative, specie nei rapporti con la legge statale. Ma ciò avrebbe consigliato una correzione di questa formulazione, e non certo la radicale abolizione del vincolo.
Quanto poi al sistema delle competenze legislative, ferma è rimasta la legislazione concorrente secondo il modulo principi/dettaglio e intatti sono restati gli elenchi di materie dei commi 2 e 3 del primo articolo, unanimemente criticati per l’incongruità di molte delle loro “voci”; intatto è rimasto l’impianto generale, improntato alla separatezza e alla rigidità del criterio di riparto delle competenze legislative. Il testo si limita all’introduzione della devolution e a un semplice e parziale ritocco alla legislazione concorrente (che il precedente e abortito “progetto La Loggia” voleva abolire, come fonte di tutti i mali del regionalismo italiano).
Quanto al ritocco alla legislazione concorrente, si tratta (a modifica del comma 3 dell’art.118) dell’attribuzione alla legge dello Stato del potere di disciplinare forme di intesa e di coordinamento per l’esercizio delle funzioni amministrative anche per materie di legislazione concorrente, quali le grandi reti di trasporto e navigazione, produzione, trasporto, distribuzione nazionale dell’energia, ordinamento delle professioni. E’ evidente qui l’intenzione di dare una risposta alle convergenti e diffuse critiche che proprio e in particolare di questi settori stigmatizzano l’illogicità dell’inserimento nella competenza concorrente. Dubito però che la risposta sia adeguata. Infatti il mantenimento degli stessi settori nell’ambito di questa competenza e l’attribuzione allo Stato del potere di dettare forme di coordinamento, in aggiunta ai principi fondamentali, pur se utile, può non essere sufficiente a soddisfare le esigenze unitarie di cui queste materie sono intrise. Ciò anche a non considerare le prospettive ben più corpose aperte dalle sentenze costituzionali nn.303 del 2003 e 6 del 2004 con l’introduzione del meccanismo di flessibilità delle potestà legislative.

6. La “devolution”.
La devolution è realizzata, sostituendo l’attuale comma 4 dell’art.117, nella forma della espressa attribuzione in via generale di alcuni settori particolari esplicitamente menzionati ad una competenza regionale definita “esclusiva”, per la quale rimane poi ferma la clausola di residualità a vantaggio delle Regioni. Così alla “legislazione esclusiva” affidata allo Stato dal comma 2 fa da contrappunto “la potestà legislativa esclusiva” delle Regioni del nuovo quarto comma.
Che la potestà residuale delle Regioni già nel testo vigente, pur nel silenzio di questo, sia da considerare “esclusiva”, è già ora generalmente riconosciuto come conseguenza logica del carattere generale della loro competenza legislativa (rispetto a quello derogatorio della competenza statale). Parimenti riconosciuto, anche dalla Corte Costituzionale, è però che tale esclusività non può essere intesa nello stesso senso di quella propria della legislazione statale. Infatti questa potestà regionale non risulta subordinata alla sola Costituzione e sottratta a qualsiasi condizionamento proveniente da leggi dello Stato, ma è esente soltanto dal limite dei “principi fondamentali” della legislazione concorrente; per il resto rimane invece assoggettata, oltre che ai vincoli enunziati dal comma 1 dello stesso articolo 117, anche ai limiti derivanti dall’esercizio delle competenze statali di cui al comma 2 e in ispecie di quelle di tipo trasversale. Ciò resterebbe fermo anche con la devolution, che, limitandosi a sostituire il solo comma 4 dell’art.117, non comporterebbe certamente la soppressione del limite costituzionale e dunque delle restrizioni derivanti dal menzionato comma 2. Lo scopo dell’innovazione resterebbe allora (non quello di sottrarre il legislatore regionale alle competenze statali anche trasversali, ma) quello di escludere che i particolari settori espressamente elencati, pur non essendo come tali espressamente menzionati dall’art.117, comma 3, si possano ricondurre in via di interpretazione a materie di competenza concorrente e assoggettare così ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato. Tanto vale soprattutto per l’ ”assistenza e organizzazione sanitaria”, riconducibile e finora ricondotta alla tutela della salute; l’organizzazione scolastica (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche) e la definizione dei programmi “di interesse specifico della Regione”, riconducibili all’ ”istruzione”, soggetta peraltro anche alle norme generali dettate dallo Stato (art.117, comma 2, lett.n). Quanto poi alla polizia locale, essendo già affidata alla competenza residuale delle Regioni (argomentando dall’art.117, comma 2, lett.h) la “polizia amministrativa locale”, resta del tutto oscuro, dalla lettura sia del testo sia dei lavori parlamentari, a che cosa esattamente si riferisca l’ambigua dizione, a meno che non sottintenda la polizia di sicurezza per la c.d.microcriminalità: ma ciò resterebbe comunque inaccettabile , anche ammessa e non concessa la possibilità in via di principio di creare polizie di sicurezza regionali, poiché una simile attribuzione in un testo costituzionale dovrebbe avvenire in termini espliciti e in riferimento ad un’area ben delimitata e individuabile: ciò che certo non avviene nel caso di specie, che resta (intenzionalmente ?) nel vago.
Se i promotori di questa riforma però si fossero dati pensiero di leggere le più recenti sentenze della Corte costituzionale, si sarebbero resi conto che lo scopo della loro proposta può essere in gran parte neutralizzato dal meccanismo della sussidiarietà/flessibilità delle competenze legislative elaborato dalla Corte (sent.n.303 del 2003) che consentirebbe allo Stato, anche nell’area delle competenze regionali residuali/esclusive (sent.n.6 del 2004), di assorbire - purchè, s’intende, “ragionevolmente” e in via consensuale - la competenza legislativa per la disciplina organizzativa dei servizi propri delle materie “devolute”. Con questo mezzo lo Stato può attribuire una connotazione uniforme a tale disciplina anche più stringente della mera normazione di principio.
Tuttavia, la tesi del carattere diversamente “esclusivo” della competenza residuale ex c.4, art.117 e il richiamo al trend giurisprudenziale sulla estensione in sussidiarietà della potestà legislativa statale non sono sufficienti a fugare del tutto ogni aspetto di pericolosità della devolution. Infatti, anche a non considerare la possibilità di pretestuosi richiami a diverse, anche se abnormi, opzioni interpretative - utili se non altro ad alimentare i conflitti e il contenzioso dinanzi alla Corte Costituzionale - resta il fatto che l’intervento in sussidiarietà dello Stato sarebbe pur sempre discrezionale e limitato agli aspetti organizzativi dell’attività amministrativa e potrebbe non sempre rivelarsi sufficiente a impedire o contrastare iniziative regionali tali da produrre differenziazioni inammissibili, come per esempio quelle che potrebbero discendere dalla corsa alla privatizzazione dei servizi sociali da parte delle Regioni più ricche.
In sintesi, un legislatore costituzionale ragionevole e razionale dovrebbe abbandonare del tutto l’incongrua introduzione del comma sulla devolution e provvedere, piuttosto, ad una più radicale riforma dell’assetto delle competenze, nel senso che si dirà più avanti. Al momento però, e verosimilmente anche in futuro, una simile aspettativa appare del tutto irrealistica.
Provvidenziale e altamente apprezzabile appare invece l’abrogazione del comma 3 dell’art.116 attuale, sul c.d.regionalismo differenziato di tipo dispositivo, collegata all’introduzione della devolution a vantaggio di tutte le Regioni: la soppressione di questa disposizione, palesemente assurda, contorta e impraticabile, va approvata incondizionatamente, e rimane valida indipendentemente dal suo contingente legame con la devolution.

7. L’ “interesse nazionale”.
Poche righe infine in merito alla reintroduzione dell’interesse nazionale come limite alla potestà legislativa delle Regioni. A fronte dell’enfasi con cui è stata accompagnato l’inserimento di questa c.d.clausola “salvapatria” in un testo in cui ogni allusione a tale interesse era stata malauguratamente bandita dalla riforma del 2001, occorre chiarire che tale clausola, per il modo in cui è formulata, è in realtà inutile a garantire le ragioni dell’unità, come ha dimostrato inequivocabilmente l’esperienza passata, in cui la clausola presso che identica del testo costituzionale del 1948 non è mai stata azionata; inoltre, come questa esperienza ha dimostrato, l’interesse nazionale come mero limite negativo di merito non è idoneo in ogni occasione a “salvare la Patria”, poiché produce soltanto la paralisi in settori vitali per la Repubblica, senza consentire la creazione degli strumenti necessari a perseguire in positivo le esigenze non frazionabili. In secondo luogo, è un vero nonsenso attribuire al solo Senato, per di più non integrato (così la formulazione finale dell’art.38 del testo approvato) il controllo politico sul rispetto di un interesse “nazionale” da parte delle Regioni, ed escludere la Camera dei Deputati, e cioè la camera politica nazionale, e ciò sia se si consideri il Senato non integrato equivalente nella realtà ad una camera “parlamentare”, sia se invece lo si voglia benevolmente considerare una camera di rappresentanza territoriale. Infine, abnorme è l’attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di annullare la legge riconosciuta dal Senato come pregiudizievole per l’interesse nazionale, trattandosi di un compito che esula platealmente dalle funzioni di una simile figura.
In conclusione tutto persuade ad abolire questa clausola “salva patria”, ad un tempo inutile e assurda.
Per salvaguardare le ragioni dell’unità, l’unica strada razionalmente percorribile è un’altra, che personalmente da tempo sostengo e che oggi trova un seguito crescente, corroborata com’è anche dalla giurisprudenza costituzionale (a partire dalla sentenza n.303 del 2003). Per mantenere al sistema la necessaria articolazione autonomistica e nel contempo conferirgli la necessaria capacità di perseguimento attivo e preventivo delle esigenze unitarie, occorre procedere ad un globale ripensamento dell’attuale assetto, tendenzialmente rigido, delle competenze legislative mediante la previsione di un sistema di distribuzione flessibile e cooperativo, ispirato al principio di sussidiarietà; di un sistema, in definitiva, dominato, al di là di un nucleo ristretto di materie da mantenere alla competenza statale esclusiva, da una konkurrierende Gesetztgebung alla tedesca, in cui l’unità politica ed economica (o comunque si voglia specificare l’interesse nazionale) costituiscano un generale presupposto positivo per l’attivazione del legislatore statale in relazione ad esigenze che non possono avere soddisfazione nella dimensione locale.
Che una soluzione del genere sia particolarmente idonea a consentire un equilibrato funzionamento delle formazioni politiche ispirate al policentrismo legislativo è confermato da ultimo dal fatto che è quella prescelta nell’ordinamento dell’Unione Europea, recentemente oggetto del nuovo “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”, nel quale la competenza “concorrente” – assistita da particolari garanzie anche giurisdizionali a tutela della posizione delle comunità minori, e cioè degli Stati-membri - gioca, accanto alla competenza esclusiva dell’Unione, un ruolo centrale.
Questa sembra l’unica strada da seguire anche per correggere i gravi errori di impostazione del sistema introdotto con la riforma del 2001. Ma, considerando il pirotecnico metodo riformatore seguito dall’attuale legislatore, non c’è da illudersi che un simile auspicio possa avere una qualche chance di successo.

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