Il vivacissimo dibattito sull’ammissibilità dei referendum elettorali attualmente all’attenzione della Consulta è, in larga misura, ruotato attorno al presupposto che la legge Calderoli abbia prodotto l’abrogazione tacita della normativa legislativa anteriore, nelle parti con essa incompatibili. Di qui, la drammatizzazione del tema della reviviscenza. La quale, per alcuni, sarebbe giustificata dall’esigenza di bilanciare i valori costituzionali in gioco o dall’originaI intent dei proponenti, che non lascerebbe dubbi sul risultato perseguito, mentre per altri sarebbe esclusa dal dogma della definitività dell’effetto abrogativo (o, comunque, dall’impossibilità di distinguere legittimamente ipotesi di abrogazioni con effetto ripristinatorio da altre che ne sarebbero prive).
          Ebbene, a sommessissimo avviso dello scrivente, è proprio il presupposto richiamato all’inizio che va messo in discussione.
          La nuova legge, infatti, non detta una nuova disciplina destinata a prevalere sulla precedente per mera incompatibilità logica dei precetti in essa contenuti rispetto a quelli della legge anteriore (integrando, quindi, una tipica ipotesi di abrogazione tacita). Essa si articola in una pluraltà di clausole abrogative espresse. Le quali individuano con precisione le disposizioni precedenti a carico delle quali decretano l’effetto abrogativo. Un solo esempio: “L'articolo 1 del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, e successive modificazioni, di seguito denominato "decreto del Presidente della Repubblica n. 361 del 1957", è sostituito dal seguente: […]” (art. 1, comma 1, l. 270/2005).
          È vero che clausole di questo tipo non dispongono la mera abrogazione (non sono, cioè, solo abrogative), ma realizzano una forma di abrogazione mediante sostituzione.
       Ciò, tuttavia, non sposta i termini del problema. E non giustifica scostamenti dall’insegnamento classico (bastino i nomi di Crisafulli e Paladin) secondo cui il referendum abrogativo a carico di clausole abrogative espresse avrebbe l’effetto (l’ovvio effetto) di ripristinare le norme da queste espressamente abrogate. Non si capisce, infatti, per quale ragione tale effetto non dovrebbe prodursi, qualora la clausola abrogativa espressa non si sia limitata a cancellare una precedente disposizione, ma l’abbia sostituita con una disposizione diversa.
         Nella specie, infatti, come si è anticipato, la sostituzione di pezzi della disciplina vecchia con regole nuove non è dovuta al mero fatto dell’incompatiblità di queste rispetto a quelli, ma alla volontà (esplicitata) del legislatore successivo, il quale ha disposto interventi di manipolazione della normativa pregressa, mediante la sostituzione di sue parti, specificamente ed analiticamente indicate. In conseguenza di ciò, è da ritenere che la nuova prescrizione normativa non sia costituita dal contenuto precettivo destinato ad incorporarsi nella disciplina pregressa, variandola, ma dalla previsione che in questo o quel luogo del testo originario, le formule vigenti vengano sostituite da quelle indicate dal legislatore.
          È l’uso di questa tecnica a rendere il “porcellum” referendabile. La sua sua abrogazione, infatti, non aprirebbe incolmabili vuoti normativi (inammissibili – per costante giurisprudenza costituzionale – in materia di elezione di organi costituzionali), ma, più semplicemente, revocando le manifestazioni di volontà abrogativa di cui esso consta, ne porrebbe nel nulla l’effetto.
      Del resto, chi negherebbe che una nuova norma legislativa (dettata, cioè, dal legislatore rappresentativo), la quale disponesse: “è abrogato l’art. 1, comma 1, l. 270/2005”, avrebbe l’effetto di ripristinare la disciplina da questo (espressamente) modificata?
        E, se ciò è vero, con riferimento al legislatore ordinario, perché non dovrebbe esserlo per il legislatore referendario?
      Tra i due quesiti referendari messi in campo dai proponenti, quello – a giudizio dello scrivente – più idoneo allo scopo è il primo: il quesito, cioè, a carico dell’intera legge. Esso, infatti, mediante l’ellittico riferimento all’atto, richiama tutte le clausole abrogative espresse in cui esso si articola. Qualora, quindi, il referendum si celebrasse (e si concludesse con esito positivo), il “mattarellum” verrebbe spogliato delle modifiche apportate dalle clausole predette, per riassumere il suo tenore originario.
       È invece dubbio che tale risultato verrebbe conseguito da un’abrogazione realizzata sulla scorta del secondo quesito referendario. La quale, eliminando le sole parole che esplicitano la volontà abrogativa del legislatore del 2005, avrebbe il paradossale effetto di trasformare le abrogazioni espresse da questo realizzate in abrogazioni tacite. L’eliminazione di tali formule, infatti, non travolgendo i contenuti prescrittivi cui esse rinviano (dal quesito deliberatamente risparmiati), non dovrebbe privarli dell’idoneità ad abrogare norme anteriori con essi incompatibili.
        Prima di chiudere, può, per completezza, aggiungersi che – sempre nella prospettiva del primo quesito – problemi non si pongono con riferimento ai, non frequentissimi, casi in cui il legislatore non ha disposto la sostituzione, ma l’integrazione di formule pregresse con enunciati da esso indicati. Il che avviene, o mediante manipolazioni del testo, o attraverso l’inserzione nel corpus della disciplina di commi nuovi. In casi del genere, infatti, non c’è bisogno di scomodare l’effetto ripristinatorio dell’abrogazione di clausola abrogativa espressa: la referendabilità di aggiunte ad un testo normativo anteriore essendo assolutamente fuori discussione.
 
 

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