1. L’inizio del regionalismo e gli ostacoli al federalismo fiscale

2. La transizione: il decreto legislativo n. 56 del 2000

3. Il Titolo V revisionato: le competenze in materia finanziaria

4. Incongruenze e difficoltà nella realizzazione del federalismo fiscale dopo la riforma costituzionale
5. La legge sul federalismo fiscale del 2009: dubbi e problemi d’attuazione
Note

 

 

1. L’inizio del regionalismo e gli ostacoli al federalismo fiscale. – La XVI legislatura realizza un momento significativo dell’attuazione del nuovo Titolo V: quello del federalismo fiscale, ad un punto tale che questo tema è diventato per la classe politica e per l’opinione pubblica, in Italia, la realizzazione del federalismo tout court.

In effetti, non si può disconoscere la centralità dell’autonomia finanziaria per il corretto funzionamento di un sistema di poteri pubblici articolato su più livelli di governo. Lo stesso riparto costituzionale delle competenze è in grado di svolgere appieno il suo ruolo ordinatore dei poteri e delle funzioni solo muovendo da un’autonomia effettiva delle risorse finanziarie collegate allo svolgimento dei compiti e delle politiche pubbliche.

Occorre, però, ricordare che a ostacolare la realizzazione di un autentico federalismo fiscale in Italia concorrono alcuni aspetti profondi legati alla nascita e all’evoluzione del nostro regionalismo. Infatti, l’ordinamento regionale ordinario si costituisce con le prime elezioni dei Consigli regionali del 1970 e, in quel momento, dopo gli anni del boom economico, si era affermato il “mito” dello Stato assistenziale, che si preoccupa del cittadino dalla culla alla tomba.

Ora, proprio la crescita smisurata dello Stato sociale, alimentava una maggiore centralizzazione dei compiti pubblici e, ovviamente, la necessità di un controllo diretto sulla percezione delle risorse finanziarie (1). Di conseguenza, l’affermazione incondizionata dello Stato sociale non favoriva certamente un decentramento delle funzioni e del potere impositivo. Tant’è che la stessa decisione di costituire le Regioni ordinarie è stata vista come una scelta compiuta per risolvere problemi diversi dal decentramento dello Stato (2).

Di questa visione del tempo offrono testimonianza: la riforma tributaria dell’inizio degli anni ’70 che, sia pure allo scopo di superare l’inefficienza ed iniquità del precedente sistema tributario, finì, oltre a negare una potestà regionale, ad annullare ogni forma di effettiva e sufficiente imposizione locale, dando vita a quel sistema di finanza derivata che da tempo si cerca di modificare(3); la limitatezza delle competenze trasferite alle Regioni con i decreti legislativi del gennaio del 1972, che richiesero da subito una ulteriore delega legislativa (prevista con la legge n. 382 del 1975) per il completamento del trasferimento dei poteri alle Regioni ordinarie (poi attuata con il DPR n. 616 del 1977) (4); e la riforma dell’assistenza sanitaria, con la legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), caratterizzato dal principio di universalità del servizio, erogato, a tutti i cittadini, con il finanziamento attraverso la fiscalità generale (5).

I risultati di questa impostazione sono stati disastrosi per l’autonomia regionale e per il principio di responsabilità che prevede la possibilità di controllo dei cittadini su chi percepisce e chi spende le risorse pubbliche frutto del prelievo tributario. Non solo, infatti, alle Regioni non veniva riconosciuto un potere impositivo, nonostante la previsione costituzionale dell’art. 119 Cost. del tempo, ma sono stati apposti vincoli crescenti anche sul versante della spesa, sino a nullificare una qualsivoglia autonomia di carattere finanziario.

Quali, poi, siano state le conseguenze sui poteri regionali è presto detto: la potestà legislativa regionale veniva ridotta nei contenuti e nelle forme e le competenze amministrative erano sottoposte a limiti inediti dal punto di vista costituzionale, come la funzione di indirizzo e coordinamento. Nella sostanza, a ridosso della crisi economica degli anni ’90 lo stesso istituto regionale godeva di così poca considerazione, che da più parti si avanzava l’ipotesi di una sua soppressione.

  

2. La transizione: il decreto legislativo n. 56 del 2000. – La risposta alla crisi economica, dopo il 1992, e la necessità, per l’Italia, di rientrare nel Sistema Monetario Europeo (SME), in modo da potere accedere sin dal primo momento al novero dei paesi europei con la moneta unica europea, pose la questione di realizzare una politica economica pubblica che conformasse il bilancio dello Stato in aderenza, per quanto possibile, con i criteri di convergenza disciplinati dal Trattato di Maastricht.

Le Regioni diventavano così lo strumento per realizzare la strategia politica italiana di adeguamento al processo di integrazione europea. Attraverso il c.d. “federalismo amministrativo” o a “Costituzione invariata” delle leggi nn. 59 e 127 del 1997, si dismettevano compiti statali che con gli atti legislativi del Governo (D. Lgs. n. 112 del 1998) venivano “conferiti” alle Regioni e agli enti locali.

Era possibile in questo modo alleggerire, se non il debito pubblico, quantomeno il debito di bilancio e consistenti oneri finanziari venivano di fatto rimessi dal bilancio dello Stato a quello delle Regioni. Occorreva, perciò, rimediare in modo alquanto immediato anche alla filosofia della finanza derivata che aveva comportato la negazione dell’autonomia impositiva delle Regioni e i vincoli per queste anche sul versante della spesa.

Prende le mosse così la vicenda del “federalismo fiscale” nel nostro ordinamento. Infatti, con la legge n. 133 del 1999 si conferisce una delega al Governo che ha “per oggetto il finanziamento delle regioni a statuto ordinario e l’adozione di meccanismi perequativi interregionali” (art. 10 – Disposizioni in materia di federalismo fiscale), la quale prevede l’abolizione dei trasferimenti erariali (non tutti) e la sostituzione degli stessi con un aumento dell’aliquota di compartecipazione dell’addizionale regionale IRPEF e dell’aliquota della compartecipazione all’accisa sulla benzina, cui si aggiunge una compartecipazione all’IVA non superiore al venti per cento.

Tra i principi della legge di delega spicca la previsione “di meccanismi perequativi in funzione della capacità fiscale relativa ai principali tributi e compartecipazioni a tributi erariali, nonché della capacità di recupero dell'evasione fiscale e dei fabbisogni sanitari, e, inoltre, la previsione di un eventuale periodo transitorio, non superiore ad un triennio, nel quale la perequazione possa essere effettuata anche in funzione della spesa storica, “al fine di consentire a tutte le regioni a statuto ordinario di svolgere le proprie funzioni e di erogare i servizi di loro competenza a livelli essenziali ed uniformi su tutto il territorio nazionale, tenendo conto delle capacità fiscali insufficienti a far conseguire tali condizioni e della esigenza di superare gli squilibri socioeconomici territoriali” (lett. d).

La compartecipazione all’IVA ha una sua precisa finalizzazione nel disegno della delega, essendo rivolta ad alimentare il fondo perequativo nazionale, che potrebbe essere anche integrato da una quota dell’aliquota della compartecipazione all’accisa sulla benzina.

Già in quella sede, peraltro, la spesa sanitaria destava preoccupazioni consistenti, per la sua crescita annuale fuori da ogni controllo.

Di qui, oltre al recupero dei fabbisogni sanitari, la necessità di stabilire che “ciascuna regione è vincolata ad impegnare, per l'erogazione delle prestazioni del Servizio sanitario nazionale, una spesa definita in funzione della quota capitaria stabilita dal piano sanitario nazionale” (c.d. metodo top down) e la sottoposizione della stessa spesa ad una serie di controlli particolari, come il monitoraggio e la verifica dell'assistenza sanitaria erogata, in base ad appropriati parametri qualitativi e quantitativi, condizionando al loro rispetto la misura dei trasferimenti perequativi e delle compartecipazioni. I principi della delega prevedevano, infine, la “razionalizzazione della normativa e delle procedure vigenti in ordine ai fattori generatori della spesa sanitaria, con particolare riguardo alla spesa del personale, al fine di rendere trasparenti le responsabilità delle decisioni di spesa per ciascun livello di governo” (lett. i).

Il decreto delegato del 2000 sul federalismo fiscale ha fatto cessare i trasferimenti erariali in favore delle Regioni, compresi quelli relativi al finanziamento della spesa sanitaria (corrente e in conto capitale) e li ha compensati con la compartecipazione regionale all'imposta sul valore aggiunto (IVA), con l'aumento dell'aliquota dell'addizionale regionale all'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), e con l'aumento della compartecipazione regionale all’accisa sulla benzina, nelle misure necessarie a realizzare detta compensazione.

Lo stesso decreto istituiva il fondo perequativo nazionale “al fine di consentire che una parte del gettito della compartecipazione all'IVA (venisse) destinata alla realizzazione degli obiettivi di solidarietà interregionale”. Il fondo perequativo avrebbe avuto la funzione di consentire a tutte le regioni a statuto ordinario di svolgere le proprie funzioni, di erogare i servizi di loro competenza a livelli essenziali ed uniformi su tutto il territorio nazionale; esso avrebbe dovuto tenere conto, altresì, delle capacità fiscali insufficienti a conseguire le condizioni di adempimento delle funzioni e di erogazione dei servizi e dell'esigenza di superare gli squilibri socio-economici territoriali; infine, la determinazione delle quote stanziate dal Tesoro sarebbe stata effettuata in funzione di parametri riferiti alla popolazione residente, alla capacità fiscale, ai fabbisogni sanitari e alla dimensione geografica di ciascuna regione.

Tuttavia, il decreto n. 56, per quanto riguarda le spese sanitarie, determinava un vincolo di destinazione sul versante della spesa corrente, pari al fabbisogno finanziario per il Servizio sanitario regionale, definito in funzione della quota capitaria di finanziamento, e con riferimento all’erogazione delle tipologie di assistenza, delle prestazioni e dei servizi individuati dal Piano sanitario nazionale, di modo che fosse possibile assicurare in ogni regione i livelli essenziali ed uniformi di assistenza di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni.

Si determina già a questo punto nell’ordinamento una traccia che non potrà non influenzare le successive scelte legislative, con riferimento ai capisaldi di finanziamento delle Regioni. Il decreto n. 56, infatti, ha rappresentato la prima forma di razionalizzazione del sistema verso l’autonomia finanziaria; inoltre, questo atto normativo prevedeva di misurare le risorse regionali, attraverso l’attribuzione di determinate basi imponibili; infine, istituiva una perequazione tra le regioni, rimuovendo i vincoli di destinazione sull’utilizzo delle risorse assegnate dallo Stato alle Regioni.

Per la spesa sanitaria, l’atto in questione determinava un regime più responsabile, legato al rispetto dei LEA, quale elemento caratterizzante l’uniformità dell’intero Paese e la cui garanzia avveniva di fatto attraverso il finanziamento del fondo, sì da realizzare per questa via una forma di solidarietà territoriale.

Occorre, tuttavia, ricordare che queste previsioni del decreto sul federalismo fiscale del 2000 rimasero molto spesso inattuate, soprattutto con riferimento alla spesa sanitaria, cresciuta a dismisura proprio in quegli anni (6), e in relazione all’utilizzo dell’autonomia finanziaria da parte delle Regioni, in quanto, prima, forse eccessivamente, sono state introdotte scale di progressività sull’Irpef regionale, da parte delle stesse Regioni, e, successivamente, è stata bloccato ogni eventuale aumento dell’addizionale Irpef (e di quella Irap), da parte del Governo.

Il primo DPCM di attuazione del decreto legislativo n. 56 del 2000 apparve sulla Gazzetta Ufficiale solo il 2 agosto del 2002, quando già era entrata in vigore la legge costituzionale n. 3 del 2001. Tra l’altro, questo decreto fissava al 5% della compartecipazione all’IVA la quota relativa alla ripartizione in base a criteri di efficienza e nel tempo la quota del fondo con questa destinazione non è variata secondo le previsione dello stesso Decreto n. 56 (per il quale avrebbe dovuto raggiungere il 100% della stessa compartecipazione in 13 anni), per l’opposizione delle Regioni medesime.

 

3. Il Titolo V revisionato e le competenze in materia finanziaria. – Con la revisione del Titolo V il legislatore costituzionale ha voluto rafforzare l’autonomia finanziaria regionale e locale. L’art. 119 Cost., infatti, è stato scritto dichiarando, con una certa vis polemica, la propria avversione, non tanto rispetto ai precetti della precedente formulazione della norma costituzionale, quanto alle prassi che avevano caratterizzato le relazioni finanziarie tra Stato e Regioni nell’esperienza del primo regionalismo (7).

L’elemento di maggiore difficoltà, nell’attuazione del nuovo sistema, è derivato  dall’assetto delle competenze legislative delineato nella materia. Anche in questo caso, infatti, sono state proposte letture alquanto diverse sul ruolo della legge statale, di quella regionale e dei regolamenti locali.

Solo per tentarne una breve (e non esaustiva) ricostruzione, può dirsi come il nuovo sistema costituzionale sia risultato incentrato, da una parte, sulla legge statale, che disciplina il sistema tributario e contabile dello Stato, il quale dovrebbe essere preordinato, in via di principio, a creare una provvista statale per tutti i compiti che possono derivare dalle materie del comma 2 dell’art. 117 Cost. e per quelli del comma 5 dell’art. 119 Cost.; dall’altra parte, sulla legislazione di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, distribuita tra lo Stato e le Regioni. Infine, si deve sottolineare che le risorse statali avrebbero dovuto prevedere in modo trasparente la finanziabilità adeguata del fondo di cui all’art. 119, comma 3, Cost., anche in ottemperanza della specifica competenza esclusiva statale, prevista dall’art. 117, comma 2, lett. e, Cost., in materia di “perequazione delle risorse finanziarie”.

In questo contesto, perciò, la legge statale avrebbe il compito di dare vita a un sistema che consenta di realizzare il principio del comma 2 dell’art. 119 Cost., in base al quale “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono ed applicano tributi ed entrate proprie”.

La legge regionale, in base al combinato disposto degli artt. 117, comma 3, e 119, comma 2, Cost., dovrebbe disciplinare innanzitutto il dettaglio del coordinamento tra la finanza regionale e locale, ma non potrebbe toccare il fondamento e la normativa dei tributi locali; in secondo luogo, avrebbe il compito di disciplinare la finanza regionale, anche in tal caso solo nel “dettaglio”, in virtù dell’espresso richiamo ai principi di coordinamento del comma 2 dell’art. 119 Cost. (8); infine, dovrebbe regolamentare le modalità di coordinamento che servono a determinare il finanziamento delle funzioni amministrative conferite dalla legge regionale agli enti locali (art. 118, comma 2, Cost.).

In conclusione, la potestà legislativa regionale in materia di finanza, anche propria, comporterebbe pur sempre una disciplina di “dettaglio”, in quanto limitata dai principi di coordinamento stabiliti dalla legge dello Stato, ai sensi dell’art 117, comma 3, Cost. e dell’art. 119, comma 2 Cost., mentre spetterebbe alla legge statale mettere in moto l’intero processo di riassetto del sistema finanziario tra tutti i livelli di governo (9). In tal senso, il limite maggiore della revisione costituzionale del Titolo V è dato dall’avere rimesso nuovamente, come già nel 1947, in modo programmatico, allo Stato tutte le decisioni sull’autonomia finanziaria regionale e locale, senza reali garanzie costituzionali.

La Corte costituzionale, di fronte all’inerzia del legislatore statale, non ha mancato di esprimere la sua preoccupazione per la mancanza della disciplina legislativa, avvertendo come “la attuazione dell’art. 119 Cost. sia urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni; inoltre, la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli enti locali contraddittorie con l’art. 119 della Costituzione (il riferimento e ai fondi vincolati) espone a rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali” (10).

Il convincimento generale è che, senza l’attuazione dell’art. 119 Cost., nel nostro regionalismo permanga un certo grado di scollamento tra imposizione e spesa, tra esercizio delle competenze e responsabilità. Anche per questa ragione sarebbe stato preferibile una disciplina costituzionale sulla distribuzione del potere impositivo, piuttosto che una complicata e poco chiara distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni.

 

4. Incongruenze e difficoltà nella realizzazione del federalismo fiscale dopo la riforma costituzionale. – Sono peraltro note le argomentazioni addotte da parte statale per non attuare l’art. 119, come il problema degli squilibri territoriali esistenti nel Paese, che rendono le basi imponibili delle diverse Regioni non immediatamente confrontabili, la gestione del debito pubblico, la necessità di controllare la pressione fiscale dell’intero sistema e il rispetto del patto di stabilità interno.

Anche da parte regionale non vi è stato un immediato grado di interesse reale per l’esercizio di vere e proprie funzioni fiscali e tributarie, che comporterebbero una diretta assunzione di responsabilità davanti ai cittadini.

Non sono mancati, poi, ostacoli per una compiuta realizzazione del federalismo fiscale, derivanti da una certa indeterminatezza delle norme costituzionali sulla finanza pubblica, soprattutto in tema di perequazione. Infatti, se per un verso l’art. 119, comma 3, Cost. (11), ha attribuito alla legge dello Stato l’istituzione del fondo perequativo e l’art. 117, comma 2, lett. e), la materia (di competenza esclusiva) perequazione delle risorse finanziarie, per l’altro, queste disposizioni non indicherebbero un modo di finanziamento del fondo medesimo o del tipo di perequazione prescelto, per cui l’attuazione dell’art. 119 Cost. è parsa a tutti i soggetti istituzionali una strada densa di incertezze e pericoli (12).

Infine, a fronte dello spostamento delle competenze attinenti alla politica economica e ai servizi pubblici verso le Regioni e le autonomie locali, lo Stato ha conservato solo essenziali poteri, come la tutela della concorrenza, la determinazione delle norme generali sull’istruzione e la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2, lett. m).

Ora, quanto a questi ultimi appare evidente la ripresa della nozione adoperata dal legislatore costituzionale dall’esperienza dei LEA, la cui previsione è stata codificata con il Decreto legislativo n. 502 del 1992. Tuttavia, il contesto della disposizione appare decisamente più esteso, sia in quanto fa riferimento non solo alle prestazioni sanitarie, sia perché il parametro considerato, nel disegno costituzionale, appare collegato, per un verso, all’utilizzo di risorse finanziarie aggiuntive da parte dello Stato o a rendere possibili interventi speciali dello stesso verso Regioni, Province e Comuni (art. 119, comma 5, Cost.), e, per l’altro, a giustificare l’esercizio dei poteri sostitutivi del Governo “quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali” (art. 120, comma 2, Cost.).

Nell’insieme anche la prospettiva che ha caratterizzato la questione della sanità risulta amplia da queste disposizioni, con una logica che però ha ignorato tutte le difficoltà che hanno caratterizzato proprio le vicende del sistema sanitario nazionale. In relazione alla realizzazione del federalismo fiscale questa circostanza ha come conseguenza un contrasto permanente tra l’indirizzo dello Stato, che finanzia la spesa sanitaria, e la gestione delle Regioni, chiamate ad implementare i servizi e ad assicurare il raggiungimento dei livelli essenziali nel territorio, e ciò in un contesto economico nel quale è prevalente il contenimento della spesa pubblica (13).

  

5. La legge sul federalismo fiscale del 2009: dubbi e problemi d’attuazione. – La legge statale di attuazione dell’art. 119 è stata approvata solo nel 2009 (legge 5 maggio 2009, n. 42, “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”) (14).

Nella legge si ritrovano non solo le disposizioni di attuazione dell’art. 119 Cost., ma anche alcune specificazioni non sempre corrispondenti alle prescrizioni costituzionali. In primo luogo, viene confermato un assunto delineato dalla giurisprudenza costituzionale, per il quale la legge regionale, con riguardo ai presupposti non assoggettati ad imposizione da parte dello Stato, può “istituire tributi regionali e locali” e “determinare le variazioni delle aliquote o le agevolazioni che comuni, province e città metropolitane possono applicare nell’esercizio della propria autonomia con riferimento ai tributi locali”.

Di fatto questa impostazione riduce di molto la possibilità effettiva di affidare alla legge regionale la regolazione dell’imposizione decentrata, dal momento che la competenza regionale si radica non in forza della previsione costituzionale, ma solo se e quando lo Stato concretamente rende disponibile una determinata base imponibile dalla quale ritrae la propria potestà. Inoltre, la stessa legge n. 42 indica nel concreto il tipo del “paniere” fiscale che viene assegnato a ciascun ente e la corrispondente copertura di determinate funzioni.

Così, per quanto attiene alla Regione, si parla di “tributi propri derivati” (15), nozione questa che non corrisponde esattamente a quella adoperata dall’art. 119 Cost., si prevedono quali funzioni a copertura integrale, secondo i costi standard, le prestazioni riconducibili all’art. 117, comma 2, lett. m, Cost., c.d “funzioni LEP”, definite nella sanità, nell’assistenza  e nell’istruzione, cui può aggiungersi quella del trasporto pubblico locale.

Per gli enti locali, invece, si distingue tra il finanziamento delle funzioni fondamentali e quello delle altre funzioni. La legge statale individua i tributi propri dei Comuni e delle Province, che per la copertura delle funzioni fondamentali comunali, correlata al fabbisogno standard, sono dati dal gettito di una compartecipazione all’IVA, di una compartecipazione all’Irpef e dall’imposizione immobiliare; mentre per la copertura delle funzioni fondamentali delle Province, sempre correlata al fabbisogno standard, sono costituiti dal gettito derivante da tributi, il cui presupposto è connesso al trasporto su gomma e dalla compartecipazione ad un tributo erariale. Gli enti locali possono altresì istituire tributi di scopo.

Quanto alla perequazione, la legge prevede che quella tra le regioni sia alimentata da un fondo finanziato attraverso una compartecipazione all’IVA per le funzioni LEP e dall’addizionale Irpef per le altre funzioni. Il principio di perequazione delle differenze delle capacità fiscali opera, nella previsione della legge di attuazione dell’art. 119 Cost., in modo tale da ridurre adeguatamente le differenze tra i territori con diverse capacità fiscali per abitante senza alterarne l’ordine e senza impedirne la modifica nel tempo conseguente all’evoluzione del quadro economico-territoriale.

Per i comuni e le province la perequazione fa riferimento alla distinzione tra funzioni fondamentali e non, con una copertura delle prime a livello del fabbisogno standard, mentre per le seconde in modo da ridurre le differenze tra le capacità fiscali, tenendo conto, per gli enti con popolazione al di sotto di una soglia da individuare con i successivi decreti legislativi, del fattore della dimensione demografica in relazione inversa alla dimensione demografica stessa e della loro partecipazione a forme associative.

Ne esce un sistema di finanziamento del livello regionale e di quello locale conservatore dello status quo. Questa impostazione appare peraltro una conseguenza necessitata dalla circostanza che questa legislazione di attuazione dell’art. 119 Cost. ha visto la luce nel momento di massima sofferenza della finanza pubblica per via di una congiuntura economica internazionale fortemente sfavorevole.

I vantaggi del federalismo fiscale sono perciò ancora tutti da scoprire e dipenderanno dalla concreta prova dei decreti legislativi di attuazione della legge n. 42, dalla congiuntura economica e dal modo in cui le Regioni e gli enti locali sapranno riordinare l’esercizio delle loro funzioni e dei loro poteri.

Può aggiungersi che l’aspetto più innovativo della legge sul federalismo fiscale sia rappresentato dal complesso processo di standardizzazione dei costi e dei fabbisogni finanziari delle funzioni, che essa prevede come parametro per l’attribuzione delle risorse finanziarie, mentre quello meno riuscito appare la realizzazione del principio di responsabilità per via dell’intreccio tra le diverse fonti finanziarie per ogni livello di governo che determina un’accentuata frantumazione delle basi imponibili considerate, attenuandosi così il principio della “tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da favorire la corrispondenza tra responsabilità finanziaria e amministrativa”, e questa circostanza appare destinata ad incidere anche sull’efficacia di quelle misure di premialità dei comportamenti virtuosi  ed efficienti e dei meccanismi sanzionatori per gli enti che non rispettano l’equilibrio economico-finanziario o che non assicurano le funzioni LEP, nel caso delle Regioni, o le funzioni fondamentali, nel caso dei Comuni e delle Province.

Può aggiungersi a questo punto che sussistono delle perplessità anche con riferimento all’aspetto innovativo della riforma del federalismo fiscale, attinente alla determinazione dei costi e dei fabbisogni standard. Infatti, come si evince da alcuni decreti attuativi della legge n. 42 (funzioni fondamentali di Comuni e Province [D.Lgs. n. 216 del 2010] e sanità [D.Lgs. n. 68 del 2011]), la trasparenza e la leggibilità dei dati, in base a cui calcolare i costi e i fabbisogni, è di fatto rinviata nel tempo a procedure complesse ed è tutt’altro che scontato che, nel prosieguo, si raggiungano le aspettative della legge sul federalismo fiscale.

 

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Note

 

(1) V. S. Mangiameli, Appunti sullo “Stato sociale sussidiario”, in TDS 2002, 235 ss

(2) V. A. D’Atena, Regione (in generale), ora in Costituzione e Regioni, Milano 1991, 3 ss.

(3) V. G. Brosio, Economia pubblica moderna, Torino, 2010, 311 ss.

(4) V. A. Barbera - F. Bassanini (a cura di), I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali, Milano, 1978, 311 ss.; E. Capaccioli - F. Satta (a cura di), Commento al d.P.R. n. 616/1977, Milano, 1980, vol. II, 842 ss.; A. D’Atena, Il completamento dell'ordinamento regionale. Profili di costituzionalità del decreto 616 del 1977, in Dir.soc., 1978 (anche in Scritti in onore di Egidio Tosato, II, Milano 1982).

(5) V. M. Persiani, V. Bellini, F.P. Rossi, Il servizio sanitario nazionale, Bologna,1979; L. Vandelli, Amministrazione centrale e servizio sanitario, Rimini, 1984; A. Quaranta, Il sistema di assistenza sanitaria, Milano 1985.

(6) V. G. France – F. Taroni, The Evolution of Health-Policy Making in Italy, in Journal of Health Politics, Policy and Law, 2005, 169 ss.

(7) Sull’art. 119 Cost., dopo la revisione del Titolo V, v. P. Giarda, Le regole del federalismo fiscale nell’articolo 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione, in Le Regioni, 2001, 1425 ss.; G. Vitaletti – L. Antonini, Il grande assente: il federalismo fiscale, in Rass. parl., 2001, 185 ss.; F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 Cost., in Rass.trib., 2002, 585; L. Antonimi, La vicenda e le prospettive dell’autonomia finanziaria regionale: dal vecchio al nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni, 2003, 11 ss.; A. Brancasi, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., in Le Regioni 2003, 41 ss.; F. Bassanini – G. Macciotta, (a cura di) L’attuazione del federalismo: una proposta, Bologna, 2003; M. Bertolissi, L’autonomia finanziaria delle regioni ordinarie, in Le Regioni 2/3, 2004; G. Della Cananea, Autonomie e perequazione nell'articolo 119 della Costituzione, in Le Istituzioni del federalismo, 2005, n. 1, 127 ss.; P. De Ioanna, L’autonomia finanziaria, in Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, a cura di G. Corso e V. Lopilato, Milano 2006, 351 ss.;

(8) La Corte costituzionale, con la sentenza n. 102 del 2008 ha affermato che, “lo Stato – nell’esercizio della propria competenza legislativa nella determinazione dei “princípi fondamentali di coordinamento del sistema tributario” – ha il potere di fissare, con propria legge, “non solo […] i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee del sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, regioni ed enti locali”.

(9) Appare evidente, dunque, come – diversamente da quanto ritengono altri (F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 Cost., cit., 585) – non vi sia spazio per far ricadere la materia della finanza regionale e, a maggior ragione, ovviamente quella della finanza locale nell’ambito di applicazione dell’art. 117, comma 4 Cost..

(10) Corte costituzionale, sentenza n. 370 del 2003; v. anche A. G. Arabia - C. Desideri, Le materie dello “sviluppo economico” alla prova del federalismo fiscale, in Riv. Giur. Mezzogiorno, 2010, 949 ss.

(11) V. art. 119, comma 3, Cost. (“La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”).

(12) Per una valutazione del federalismo fiscale dei problemi aperti con la legge n. 42 del 2009 v. E. Buglione, Il federalismo fiscale in Italia: stato attuale e prospettive, in Riv. Giur. Mezzogiorno, 2010, 123 ss.

(13) V. G. France, Diritto alla salute, Devolution e contenimento della spesa: scelte difficili, scelte obbligate, in Rass. Parlamentare, 2006, 531 ss.

(14) Per un commento alla legge si v. A. Ferrara – G.M. Salerno (a cura di), Il Federalismo fiscale, Commento alla legge n. 42 del 2009, Jovene, Napoli 2010; V. Nicotra – F. Pizzetti – S. Scozzese (a cura di), Il Federalismo fiscale, Donzelli, Roma, 2009; per i profili comparati G. F. Ferrari (a cura di), Federalismo, sistema fiscale, autonomie. Modelli giuridici comparati, Donzelli, Roma, 2010; J. Woelk (a cura di), Federalismo fiscale tra differenziazione e solidarietà. Profili giuridici e comparati, Eurac Book, Bolzano 2010; A. De Petris (a cura di), Federalismo fiscale “learning by doing”: modelli comparati di raccolta e distribuzione del gettito tra centro e periferia, Cedam, Padova 2010.

(15) “… istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle regioni” (art. 7, comma 1).



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