(Relazione presentata al XV Convegno annuale del Club Giuristi dell’Ambiente, “Le aree protette e la sfida della biodiversità”, Pescasseroli, 14 settembre 2013)
 
1. A partire dall’ultimo decennio dello scorso secolo alcune rilevanti innovazioni sono state introdotte dal diritto internazionale e comunitario dell’ambiente con particolare riguardo alla conservazione della natura e alla protezione del paesaggio. Possiamo chiederci però: il nostro Paese ha realmente preso in considerazione tali innovazioni? Soprattutto, ci si è resi conto di quali conseguenze dovrebbero discendere da tali innovazioni?
Molto sinteticamente, per la conservazione della natura, tra gli elementi nuovi - ai fini del tema che qui ci si propone di trattare – appaiono importanti i seguenti.
Il primo è lo stesso obiettivo della politica da perseguire, che è definito ora da un concetto – la biodiversità - molto più specifico e preciso del concetto, generico in sé, di natura.
Il secondo elemento – conseguente al tipo di obiettivo scelto – è che la nuova politica deve avere una base scientifica e, quindi, fare riferimento per il suo svolgimento a linee guida scientificamente fondate.
Il terzo elemento innovativo consiste nel fatto che ora la nuova politica per forza di cose investe l’intero territorio. Questo non vuol dire che non debbano esistere più specifiche e delimitate aree protette, il cui ruolo anzi – come si dirà più avanti – diviene ancora più importante, specialmente in Italia, ma che fondamentali divengono ora: la rete dei siti da conservare (come la rete Natura 2000 della direttiva Habitat), la ‘connettività ecologica’ tra i siti e la continuità biologica sul territorio, le ‘infrastrutture verdi’[1], l’integrazione della conservazione della biodiversità in tutti i settori e le politiche relative.
Il quarto importante elemento di novità è la connessione stretta che si stabilisce tra la conservazione della natura e la protezione del paesaggio. Ciò avviene in quanto la prima, investendo l’intero territorio, condivide tale impostazione con quella analoga, innovativa, proposta dalla Convenzione europea del paesaggio del 2000 (che non a caso richiama nel Preambolo anche la Convenzione sulla diversità biologica del 1992). La Convenzione, infatti, prospetta ai Paesi aderenti politiche capaci di andare oltre la protezione di aree e siti specifici di particolare valore scenico ed estetico, e di occuparsi di tutti i tipi di paesaggi, e dunque anche di quelli della ‘vita ordinaria’ fino a quelli degradati, da sanare e restaurare. Anche in questo caso diviene fondamentale – come sottolinea la Convenzione – la necessità di integrare tra loro politiche in passato concepite come se riguardassero settori diversi, innanzitutto quelle per i paesaggi e per la conservazione della natura con quelle territoriali-urbanistiche, ed inoltre con le altre politiche relative all’agricoltura, al turismo, alle infrastrutture, ecc..
Il quinto elemento, infine, che appare comune sia alla conservazione della biodiversità che alla protezione del paesaggio, riguarda le modalità di realizzazione delle nuove politiche. Qui, infatti, le indicazioni vanno tutte nel senso di andare oltre l’approccio tradizionalmente seguito finora del tipo command and control che, se poteva forse funzionare per proteggere aree limitate e delimitate, diventa – da solo – difficilmente praticabile quando vengono in considerazione politiche da realizzare in modo diffuso, ma puntuale, su tutto il territorio e che richiedono cambiamenti dei comportamenti individuali e collettivi. Inoltre, quell’approccio appare legato a una visione prevalentemente statica della tutela, poco adatto ad una visione dinamica, dove l’attenzione deve spostarsi sui processi e sulla loro gestione. Di qui la spinta all’introduzione di strumenti nuovi centrati sulla crescita della consapevolezza dei problemi da affrontare e sulla condivisione delle responsabilità verso la biodiversità e il paesaggio tra tutti i soggetti coinvolti – individuali e collettivi, privati e pubblici - anche attraverso il ricorso a forme convenzionali e a nuove forme di diritti e doveri.
 
2. Rispetto agli elementi di novità sopra indicati, come si presenta la situazione del nostro Paese e quali prospettive possono immaginarsi? Rispondere a tale domanda in modo utile implica una, sia pure brevissima, considerazione – per esempi - della situazione di altri Paesi europei.
Cominciando dal nostro Paese, la realtà più solida che qui esiste appaiono le aree protette. La legge quadro del 1991, quale sia il giudizio che se ne voglia dare, ha dopo tanti anni dato nuovo impulso alla crescita di un sistema di parchi nazionale e ha rafforzato la legittimazione dei parchi regionali e delle altre aree protette. Certamente, sia l’attuazione  della legge che i parchi sono stati oggetto di trascuratezze e persino – in particolare nell’ultimo decennio - di veri e propri tentativi di sabotaggio. Tuttavia sono ancora lì, mostrando nella maggior parte dei casi un notevole radicamento. Al di là di tale realtà non sembra, invece, che in Italia ci sia molto di più. Nella Costituzione abbiamo una norma di principio (art.9) sicuramente importante che, restando inalterata la scrittura originaria, è stata tirata da tutte le parti in sede di interpretazione, ma che comunque parla di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. La tutela dell’ambiente e dell’ecosistema appaiono nell’art. 117 dopo la riforma costituzionale del 2001, ma solo come una delle materie elencate tra quelle di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Non esiste in Italia una legge generale sulla conservazione della natura. Incerto appare il destino dei siti di Natura 2000, a parte quelli ricompresi in aree protette preesistenti che almeno sembrano avere un soggetto dedicato adatto a prendersene cura. Quanto al paesaggio, qui alla retorica del ‘valore primario’ – che, si dice, il paesaggio dovrebbe avere sempre rispetto ad altri interessi - corrisponde una evidente inefficacia degli strumenti di protezione e gestione esistenti: basta guardarsi intorno, nei territori non classificati come aree protette[2]. Sul piano della normativa, in effetti, non si è riusciti ad andare oltre un sistema di regolazione basato su strumenti, il vincolo e l’autorizzazione, inventati e pensati tanti anni fa per aree molto limitate e per finalità fondamentalmente estetiche. Né passi avanti – malgrado qualche isolato tentativo – sono stati fatti sulla via della integrazione delle normative e delle politiche del territorio e del paesaggio, che hanno continuato ad operare come quando sono nate: separate e parallele. La prevalenza del settorialismo è evidente anche sul piano organizzativo ministeriale: da un lato abbiamo una amministrazione dell’ambiente che si occupa di conservazione della natura e dall’altro una amministrazione dei beni culturali che si occupa del paesaggio. Ovviamente il territorio e le infrastrutture sono fuori della portata di entrambe. Insomma, il grado di integrazione tra le politiche è inesistente o bassissimo, affidato a deboli e eventuali coordinamenti tra poteri pubblici, invece che a meccanismi automatici o quasi.
Ebbene uno sguardo, sia pure rapido e per esempi, ad altri Paesi può essere utile almeno per constatare che certe situazioni – come il settorialismo delle politiche e delle amministrazioni – non sono un destino inevitabile e necessario e  – volendo – possono cambiare.
In Germania esiste (dal 1994, e poi rivista nel 2002) una norma costituzionale che parla espressamente di protezione delle fondamenta naturali della vita e degli animali e richiama in proposito la responsabilità verso le generazioni future. Inoltre, dal 1976 opera una legge federale apposita che tratta di conservazione della natura insieme alla protezione del paesaggio, che è stata aggiornata nel 2002 e da ultimo – con una ampia revisione – nel 2010.
In Francia dal 2005 nuove norme costituzionali stabiliscono il diritto di ognuno di vivere in un ambiente equilibrato e precisi doveri verso l’ambiente a carico delle autorità pubbliche e degli individui. Dal 1976 esiste una legge generale sulla conservazione della natura. Di seguito, leggi apposite sono state adottate per le aree costiere (nel 1986), per i paesaggi (nel 1993). Leggi più recenti (del 2009) introducono misure per la conservazione della biodiversità, prevedendo tra l’altro la creazione di ‘infrastrutture verdi’ e ‘blu’ (trame vert e trame blue) per la ‘connettività ecologica’.
Certamente anche qui non mancano limiti e problemi. In ogni caso appare interessante che in Francia - e in maniera simile anche in Germania - le normative per il paesaggio e per la natura sono concepite per operare direttamente come parti integrative della normativa territoriale-urbanistica. Inoltre, in entrambi i Paesi alla progressiva integrazione della normativa, si è accompagnata quella delle strutture amministrative, unificando la conservazione della natura, la protezione del paesaggio e la gestione del territorio, comprese le infrastrutture, sotto una unica responsabilità ministeriale.
Un ultimo esempio utile viene poi dalla Gran Bretagna. Qui per anni – in particolare in Inghilterra – hanno operato due distinte agenzie: una, la Countryside Commission, che si occupava del paesaggio; l’altra, English Nature, che si occupava, con un approccio scientifico, della conservazione della natura. Ebbene, con una legge del 2006, i compiti delle due agenzie sono stati concentrati in un’unica agenzia denominata Natural England. Per altro, anche in Germania, dal 1993, opera una agenzia federale per la conservazione della natura e la protezione del paesaggio.
 
3. Non sembrano necessari molti commenti a questi esempi che mettono in luce in alcuni Paesi europei tendenze abbastanza evidenti verso visioni e approcci integrati. Piuttosto si può tentare anche per il nostro Paese di delineare un possibile quadro di sviluppo politico e giuridico - un nuovo paradigma di azione - in sintonia con gli elementi innovativi provenienti dal diritto internazionale e comunitario prima sia pur brevemente ricordati.
In proposito vanno considerati fondamentalmente due aspetti tra loro apparentemente contraddittori ma in realtà complementari.
Il primo aspetto è la necessità che le nuove politiche abbiano delle sedi organizzative e dei principi di riferimento forti e precisi  a livello nazionale.
Per il profilo organizzativo, va considerato che la conservazione della biodiversità è una politica che per essere efficace deve investire, come si è detto, l’intero territorio e deve seguire linee guida scientificamente fondate. E’dunque impensabile che non ci sia una assunzione di responsabilità – oltre che a livello internazionale e europeo – a livello nazionale e che questa non si traduca in un preciso livello di gestione, che sia in grado di operare su basi scientifiche nel lungo periodo e in maniera indipendente rispetto alle considerazioni politiche di breve termine. E qui il pensiero va alle tendenze, comuni a vari Paesi, a costituire apposite agenzie nazionali per la conservazione della biodiversità e la protezione del paesaggi in grado di assicurare la coerenza delle azioni da svolgere, il monitoraggio di tali azioni e dei loro risultati.
Per i principi, la loro necessità a livello nazionale è dovuta a più esigenze, tra le quali non ultima vi è quella – urgente – di introdurre strumenti, efficaci per tutto il territorio, in grado di contrastare il consumo del suolo e la frammentazione del paesaggio, problemi presenti in tanti Paesi ma nel nostro – come è noto – in maniera intensa e massiccia[3].  E’ ovvio, in effetti, che non avrebbe senso cercare di conservare la biodiversità e di proteggere il paesaggio se, nel frattempo, entrambi sono destinati letteralmente a scomparire. Ebbene, anche in tal caso, nel momento in cui si adotta un paradigma di azione per la conservazione della biodiversità e la protezione del paesaggio che necessariamente investe l’intero territorio,  è a livello nazionale che devono essere fissati principi e standard precisi, come suggerisce  l’esperienza di altri Paesi. Basti pensare, ad esempio, a principi come quello dello sviluppo urbano ‘in continuità’ con lo sviluppo già esistente in Francia[4] e come quello della priorità del riutilizzo di aree già sviluppate in Germania[5], fino agli standard severi che in Germania, dal 1998, stabiliscono in maniera quantitativa il consumo di territorio ammesso[6].
Dunque, il primo aspetto da sviluppare di un nuovo paradigma di azione è la necessità che a livello nazionale esista una guida certa e principi e standard adeguati. Il secondo aspetto, invece, come si diceva apparentemente contraddittorio ma in realtà complementare, è la necessità di una condivisione di responsabilità la più ampia e diffusa possibile. In proposito vanno certamente considerati i poteri e i compiti delle regioni e degli enti territoriali. Come è ormai noto, la storia degli stati regionali e federali mostra che si verifica sempre una oscillazione fra fasi di devoluzione dei poteri e fasi di centralizzazione. Per esempio, la centralizzazione appare attualmente prevalere in Italia, come in Germania, proprio con riguardo alle materie ambientali. Questo non vuol dire, però, dover mettere in discussione il ruolo e persino, come accade a volte, l’esistenza delle regioni, che restano comunque importanti anche per sviluppare il nuovo paradigma di azione, con vari compiti rilevanti per la natura e il paesaggio, tra i quali quelli in materia di governo del territorio e in settori come l’agricoltura, il turismo, alcuni tipi di infrastrutture.
Va sottolineato, tuttavia, che il tema della condivisione delle responsabilità non riguarda solo le regioni e gli enti territoriali, ma riguarda in realtà più ampiamente interessi collettivi e diffusi, comportamenti e azioni di gruppi, di comunità e degli individui. Qui il tema da affrontare è, dunque, nuovo ed indubbiamente difficile, perché comportamenti non in sintonia con le esigenze della natura e del paesaggio sono ancora profondamente radicati, essendosi consolidati nel tempo, in molti casi nel corso di secoli, in un mondo molto diverso da quello attuale, nel quale le risorse naturali erano considerate illimitatamente disponibili. Eppure questioni come la conservazione della biodiversità e la protezione del paesaggio non sembrano risolvibili senza che cambino i comportamenti, il modo anche ordinario, quotidiano, delle persone di rapportarsi all’ambiente.
In proposito non mancano segnali importanti di una evoluzione giuridica in tal senso. In certi ambiti, come la politica comunitaria agricola, sono già previste misure – basate su forme di tipo convenzionale – che non consistono nella apposizione di limiti e vincoli a scopo di tutela, ma sono volte a stimolare, in positivo, comportamenti di cura della natura e del paesaggio. E si tratta di un discorso che va estendendosi anche ad altri settori, ad esempio agli operatori turistici e agli utilizzatori degli spazi di valore naturale e culturale. Forme convenzionali di accordi ambientali previste anche dalla direttiva Habitat sono ormai ampiamente diffuse in vari Paesi europei (ma non in Italia)[7]. Un ulteriore esempio è l’indicazione, da parte della legge federale tedesca sulla conservazione della natura e la protezione del paesaggio (nell’ultima versione del 2010, all’art.3, comma 3), dell’accordo ambientale come modalità prioritaria di attuazione. Inoltre, forme convenzionali e forme di condivisione delle responsabilità sono comuni a varie esperienze, come quelle dei parchi francesi dopo la legge di riordino del 2006, del National Trust in Gran Bretagna, del Conservatoire  du littoral e dei Conservatoires de la nature in Francia[8].
Su un altro piano, uno spostamento di attenzione sui comportamenti collettivi e individuali è individuabile anche nel sistema di diritti e doveri in ordine all’ambiente introdotto dalla novella costituzionale francese del 2005. In merito è in corso un dibattito e su alcuni aspetti vi sono interpretazioni e valutazioni diverse[9], ma tra queste non manca quella che vede in tali innovazioni le basi di un sistema giuridico nel quale ogni individuo è chiamato ad essere parte attiva, ad operare insomma come un vero e proprio ‘agente’ della conservazione della natura e della protezione del paesaggio. Si tratta di prospettive importanti in quanto, come è ben noto, mentre molte attività e politiche hanno alle spalle interessi forti e soprattutto ben organizzati, manca una vera e propria “rappresentanza” della natura e delle sue risorse preziose. Allora, la nuova sfida è quella di non puntare – per affrontare la questione ambientale – solo sui poteri e le competenze dei soggetti pubblici, ma di favorire e stimolare la crescita di nuovi portatori, attivi, di interessi ambientali, a livello diffuso: individui, gruppi, comunità, produttori, utilizzatori. Si tratta, insomma, di far diventare la conservazione della natura e la protezione del paesaggio una diffusa “pretesa che viene dal basso”, per usare qui una espressione di Paolo Grossi riferita all’essenza stessa del fenomeno giuridico[10].
 
4. Quanto ai parchi e alle altre aree protette, è evidente che i nuovi obiettivi – della conservazione della biodiversità insieme alla protezione del paesaggio – investendo l’intero territorio richiedono di guardare oltre i confini di queste forme di tutela ambientale, come finora conosciute.
I parchi, in tutti i Paesi, sono nati a seguito di spinte di vario tipo: di tutela scientificamente fondata della natura, ma anche di tipo culturale, estetico, ricreativo e persino, in certi casi, ideologico. Di qui la varietà delle forme, dei modelli organizzativi, delle tipologie e delle dimensioni che hanno assunto. Oggi si può ritenere che i parchi siano componenti importanti delle tradizioni nazionali, figure consolidate, parte delle identità dei Paesi che li hanno istituiti, di regioni e aree determinate, anche in Italia. Ora è indubbio che tali tradizioni debbano fare i conti – guardando alle politiche e alle azioni condotte ma anche, in certi casi, ai confini dei parchi e alle varie zone in cui essi sono articolati - con il nuovo paradigma di azione, che appunto mette l’accento sul fondamento scientifico della conservazione e sullo sviluppo della “connettività ecologica”. Questo, tuttavia, non esclude di per sé le motivazioni di tipo anche culturale che possono essere a fondamento dei parchi, né vuol dire assolutamente che i parchi debbano essere abbandonati. Al contrario, essi restano un punto fermo, e ciò è tanto più vero ed essenziale in particolare per il nostro Paese.
Negli ultimi anni, come è ben noto, i parchi italiani si sono ritrovati in una posizione marginale e sulla difensiva, quasi costretti a giustificare la loro esistenza. Invece, nel momento in cui ci si pone nella prospettiva di perseguire la conservazione della biodiversità insieme alla protezione del paesaggio, va preso atto che i parchi sono importanti proprio perché esistono, nel senso che, in Italia, sono l’unica realtà consolidata di conservazione e protezione concretamente esistente, essendo sufficiente per rendersene conto guardare alla differenza evidente tra il territorio dei parchi e il restante territorio. Dunque i parchi sono anche il punto di partenza fondamentale per le nuove politiche rivolte all’intero territorio.
Per altro, e più in generale, una conferma in tal senso viene anche dal recente Rapporto della Agenzia Europea dell’ambiente[11], nel quale non solo si afferma che proprio la diversità delle varie forme di aree protette è un elemento di forza dell’approccio europeo, ma si aggiunge che le aree protette sono le piattaforme fondamentali per la costruzione e diffusione di pratiche sostenibili, sia nei loro confini che oltre di essi.
 

[1] Commissione Europea, Infrastrutture verdi. Rafforzare il capitale naturale in Europa, 6.5.2013 Com (2013) 249 finale. Le ‘infrastrutture verdi’ sono concepite come aree naturali o quasi naturali dirette ad assicurare ‘servizi ecosistemici’, tra i quali la conservazione della biodiversità.
[2] Su tale questione, anche con riferimento al Codice dei beni culturali e del paesaggio, C. Desideri, Paesaggio e paesaggi, Giuffrè Editore, Milano, 2010.
[3] Sul tema, anche con dati quantitativi: V. De Lucia, Nuovi rapporti città campagna e la tutela del territorio agricolo, in Agricoltura Istituzioni Mercati, 2012, n.2-3, p.47 e ss;  Intervista a M.Munafò (ISPRA), a cura di A. Di Zenzo, in Techne, 2013, n.5.
[4] C. Desideri, Paesaggio e paesaggi, cit., p.104.
[5] Ora anche nell’art. 1, comma 5 della legge federale per la conservazione della natura e la protezione del paesaggio del 2010.
[6] V. De Lucia, I nuovi rapporti, cit., p.47.
[7] EEA (Agenzia Europea per l’Ambiente), Protected areas in Europe, An overview, Report 2012 n.5, p.96-99.
[8] C.Desideri e E.A.Imparato, Beni ambientali e proprietà, I casi del National Trust e del Conservatoire de l’espace littoral, Giuffrè Editore, Milano, 2005.
[9] In sintesi, il dibattito vede confrontarsi, da un lato, posizioni che ritengono le nuove norme costituzionali rivolte solo al legislatore chiamato ad attuarle e, dall’altro, posizioni che vedono in esse un sistema di diritti e doveri immediatamente attivabile da chiunque e che spetta ai giudici sviluppare. Oltre agli articoli contenuti in AJDA, 2005, n.21 e nel numero speciale del 2005 della Revue Juridique de l’environnement, si può vedere di recente: B.Crottet, Le Conseil constitutionnel et l’obligation de vigilance environnementale, in Revue francaise de Droit constitutionnel, 2012, 90, p. 239 ess.
[10] P.Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari, 2012, p.17.
[11] EEA, Protected areas in Europe, cit., p.68.

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