Intervento al Seminario di studio organizzato dall'Istituto di Studi sulle Regioni "Massimo Severo Giannini" (ora ISSiRFA), su "Le fonti regionali sopo la legge costituzionale n. 3 del 2001" (Roma 19 marzo 2002).



1. Le revisioni costituzionali approvate nel corso del 2001 hanno introdotto un vincolo del tutto nuovo per le leggi regionali: la parità di accesso tra i sessi nelle cariche elettive. Esplicitamente "al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi", la legge costituzionale n. 2/2001 ha inserito nei cinque statuti speciali la previsione secondo cui la legge elettorale regionale "promuove condizioni di parità di accesso alle consultazioni elettorali"; analogamente, la legge costituzionale n. 3/2001 dispone per tutte le regioni a statuto ordinario che "le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini nelle cariche elettive".
E' ora previsto, quindi, un vincolo costituzionale per le leggi regionali, che invece non è stato ancora espressamente stabilito per le leggi nazionali. Certo, le ricostruzioni dottrinali che riconducono il perseguimento dell'equilibrio tra i sessi nella rappresentanza nelle cariche elettive al "compito" che il secondo comma dell'art. 3 Cost. attribuisce alla Repubblica (1) non possono non concludere che per la sussistenza di tale vincolo in primo luogo in capo alla legge dello stato. Dato, però, il dibattito sollevato dalla controversa giurisprudenza costituzionale sul tema (2), si sta procedendo anche alla riforma dell'art. 51 Cost. dove, accanto all'affermazione che "tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge", si intende aggiungere "a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini".
La probabile approvazione di tale legge costituzionale rappresenterà il logico compimento del processo politico, culturale e normativo che si era già avviato nella XIII legislatura. La clausola relativa alla presenza equilibrata di ambedue i sessi negli organi elettivi, considerata uno dei "travalicamenti" (3) della materia propria del Titolo V ad opera del legislatore costituzionale, finirebbe in tal modo per assolvere alla funzione di "disposizione-pilota" (4) nei diversi livelli di governo nel tentativo, forse, di superare la giurisprudenza costituzionale che ha sanzionato norme elettorali nazionali e locali tese a promuovere la parità dei sessi nella rappresentanza.
Questa novità merita alcune riflessioni sul rapporto tra fonti regionali e nazionali in materia elettorale, anche alla luce degli obblighi comunitari, e tra principio di eguaglianza e le forme della sua concretizzazione in relazione alla rappresentanza politica.

2. Si ritiene opportuno introdurre alcuni dati che danno il senso del problema che si intende risolvere con le previsioni richiamate, prima di affrontare il merito giuridico delle soluzioni prescelte dal legislatore costituzionale e di quelle possibili per il legislatore nazionale e regionale.
Non solo, infatti, in termini assoluti la presenza delle donne in parlamento raggiunge appena il dieci per cento e la percentuale si riduce ulteriormente a livello regionale, provinciale e comunale (circa il nove per cento), ma in relazione alle percentuali riscontrabili nei paesi dell’UE l’Italia guadagna il nono posto (5), e scende addirittura al 69° tra i paesi ONU (6), molti dei quali definiti sottosviluppati. Solo quando si esaminano i dati relativi all’elettorato attivo la proporzione tra i sessi cambia, e a favore delle donne: nel 1999 le donne elettrici erano più di 24 milioni, gli uomini più di 22.
Certo, questo fenomeno è riconducibile ad un più generale problema di natura culturale, come ammetteva anche Vezio Crisafulli nel 1957 (7), ma sollecita una riflessione sulla natura inclusiva della nostra democrazia e sulla legittimazione del potere in essa a fronte di una “matematica” esclusione o autoesclusione delle donne dalla sfera della politica istituzionale (8).

3. Bisogna considerare che la presenza delle donne in Parlamento ha conosciuto la sua massima espressione (13 per cento) all’indomani di quella "sorta di azione positiva" (9) contenuta nelle leggi elettorali che esplicarono i loro effetti una sola volta prima che la Corte costituzionale le dichiarasse illegittime. A fronte del tentativo sotteso alle norme sanzionate di promuovere un’uguaglianza sostanziale anche nel campo della partecipazione politica, la giurisprudenza costituzionale ha richiamato la regola dell'irrilevanza giuridica del sesso e i principi che reggono la rappresentanza politica, per affermare che misure legislative diseguali non possono incidere direttamente sul contenuto stesso dei diritti fondamentali (10). L'impostazione teorica di fondo, assolutamente condivisibile, poggia sul concetto di una rappresentanza politica "non frazionabile" e non divisibile tra generi e, quindi, al tempo stesso neutrale e generale (11).
Tuttavia, la questione posta in questi termini rischia di non cogliere i profili essenziali del principio rappresentativo in rapporto alla piena partecipazione di tutti i cittadini alla vita economica, sociale e politica del paese. Il problema è la scarsa presenza, e quindi la partecipazione delle donne nelle istituzioni politiche, non la loro rappresentanza: le donne, infatti, non sono e non potrebbero essere un gruppo omogeneo rappresentabile in quanto tale, e non sono nemmeno una minoranza da tutelare. Sono la maggioranza della popolazione che i numeri descrivono come non pienamente partecipe alla vita delle istituzioni rappresentative. La questione andrebbe, quindi, impostata nei termini del perseguimento di una pienezza della rappresentanza, piuttosto che in quelli dell’esplicarsi della rappresentanza di genere, che non esiste (12).
Infatti, se è assolutamente necessario salvaguardare e rafforzare istituti fondanti del costituzionalismo, quali il principio rappresentativo e l'uguaglianza dei diritti politici di elettorato attivo e passivo con il suo indissolubile collegamento con la pari dignità sociale (13), non è chiaro perché la modulazione delle forme di esercizio di questi diritti costituzionali al fine di garantire a tutti i cittadini la piena partecipazione alla vita della Repubblica sia di per sé censurabile. La piena partecipazione non comporta la frammentazione della rappresentanza, che giustamente viene ribadita generale, a fronte della quale potrebbe caso mai costituire un problema la rappresentanza delle minoranze in un mondo sempre più multiculturale (14). Piuttosto, la questione del frazionamento della rappresentanza si potrebbe correttamente presentare dinanzi a "quote di rappresentanza", non in relazione a meccanismi che non assicurano risultati, ma intendono solo rimuovere gli ostacoli che non consentono la piena partecipazione di tutti i cittadini, anzi nella specie delle cittadine (15). Non è legittimo, infatti, annullare le differenze tra le varie modulazioni delle misure ipotizzabili per promuovere la parità di accesso ad entrambi i sessi alle cariche elettive, perché non tutti i meccanismi si equivalgono: la critica più forte alla sentenza n. 422/1995 è stata, infatti, di aver equiparato misure tra loro diverse, soprattutto negli effetti, prescindendo dai meccanismi previsti dal sistema elettorale di riferimento, in particolare la possibilità o meno di esprimere il voto di preferenza oltre a quello di lista (16).
L'idea di "quota rigida" potrebbe semmai essere evocata a fronte del riferimento all'equilibrio della rappresentanza di cui agli statuti speciali che sembra muoversi nel solco dei punti di arrivo, dei risultati appunto, e non in quello delle pari opportunità nei punti di partenza (17), concorrendo in tal modo a impostare la questione in termini ambigui.

4. Ora, nella sentenza n.109/1993 (18) la Corte costituzionale indicava le azioni positive come “il più potente strumento” al fine di assicurare uno statuto di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico”; esse “esigono che la loro attuazione non possa subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree geografiche e politiche del Paese” e richiedono “applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale”. Proprio con riferimento a questo principio, nell'intervallo di tempo trascorso tra l'entrata in vigore della legge cost. n. 2/2001 e la riforma del Titolo V, parte della dottrina aveva rilevato un profilo di illegittimità costituzionale nel pericolo che tali azioni positive, obbligatorie solo in alcune regioni, potessero trasformarsi in quei "fattori (aggiuntivi) di disparità di trattamento all'interno dello stesso gruppo che si intendeva avvantaggiare nel suo insieme" (19), che la Corte aveva voluto escludere.
Tale profilo di illegittimità potrebbe ipotizzarsi anche rispetto alla legge nazionale, qualora non dovesse essere approvata la riforma dell'articolo 51 Cost., se non altro per contrasto con il principio di ragionevolezza. Anzi, nella prospettiva di un superamento di una democrazia dimidiata, il problema della scarsa partecipazione delle donne è ben più rilevante per le elezioni politiche che per quelle amministrative.
Comunque, il principio richiamato impegna in primo luogo il legislatore nazionale che a norma dell’art. 122 Cost. deve porre i principi fondamentali del sistema d'elezione regionale. Infatti, ora che le leggi regionali sono tutte vincolate all'obiettivo delle parità di accesso tra uomini e donne in materia elettorale, la legge nazionale dovrebbe introdurre quei principi fondamentali che consentano una certa omogeneità sul territorio nazionale delle misure da adottare.

5. Ma la vera questione è capire se, in seguito alla riforma costituzionale, sono da ritenere legittimi interventi normativi prima considerati "irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica" (20). In proposito, sembra interessante un riferimento all'analoga questione sorta in Francia, ma anche in altri paesi, analogia che ha permesso di registrare "la tendenza (…) in Europa (…) di attivare una procedura istituzionale "bifasica": far precedere le azioni positive a favore del sesso sottorappresentato da una riforma costituzionale che le protegga dagli interventi caducatori degli organi di giustizia costituzionale" (21). In effetti, il Conseil constitutionnel ha cambiato la propria giurisprudenza in seguito alla riforma costituzionale che, nel 1999, ha introdotto una previsione del tutto simile a quelle italiane prese in considerazione: "La loi favorise l'égal accès des femmes et des hommes aux mandats électoraux et fonctions électives" (22).
Il Conseil aveva per ben due volte, nel 1982 e nel 1999, dichiarato illegittime previsioni normative sulla formazione delle liste elettorali tese a promuovere la parità di accesso dei sessi per violazione del principio di uguaglianza e del principio della sovranità popolare (23). Diversa è stata la valutazione che il giudice costituzionale francese ha fatto della legge approvata nel 2000 (24), che modula le misure a seconda del sistema elettorale, passando dall'alternanza obbligatoria dei sessi nelle liste dei candidati nei sistemi proporzionali a turno unico, alla parità numerica senza l'obbligo dell'alternanza tra candidati di sesso diverso in quelli a doppio turno, fino a prevedere nel sistema maggioritario a doppio turno una riduzione del contributo pubblico per i partiti che hanno uno scarto maggiore del due per cento tra i candidati dei due sessi.
Con la decisione del 2000 (25), il Conseil, in considerazione della mens del legislatore costituzionale deducibile dai lavori parlamentari, ha dichiarato che le disposizioni che rendono obbligatoria la presenza di candidati di entrambi i sessi nelle liste per l'elezione a scrutinio proporzionale rientrano ormai (désormais) nelle misure che il legislatore può adottare in attuazione della riforma costituzionale (26).
Bisogna tenere presente, però, che nell'ordinamento francese non esistono limiti alla revisione costituzionale, in nome della sovranità attribuita al pouvoir constituant dérivé che può modificare la Costituzione anche derogando a principi di rango costituzionale (27). In Francia poteva, quindi, considerarsi remota l'ipotesi in cui la giurisprudenza costituzionale neutralizzasse la portata della riforma costituzionale, piegandone l'interpretazione al principio dell'indivisibilità e unicità del popolo francese, come aveva già fatto nel 1982 e, solo pochi mesi prima, nel 1999. Nel sistema italiano tale ipotesi non è altrettanto remota, per la ben nota giurisprudenza costituzionale sull'immodificabilità dei principi supremi sui quali si fonda la nostra Costituzione (28), tra i quali, appunto, si annovera la rappresentanza politica generale (29).

6. Ma, nel caso di specie, l’attuazione della revisione costituzionale non violerebbe alcun principio supremo, anche nell'ipotesi in cui spingesse la Corte costituzionale a un leggero révirement, qualora, in futuro, decidesse di non censurare alcuni meccanismi che, nel rispetto dei principi della rappresentanza politica, mirino a promuovere effettivamente la partecipazione delle donne alla vita politica.
Bisogna tenere presente, infatti, il contesto stesso in cui la Corte si trovò nel pronunciare la sentenza n. 422/1995: "il fatto è, dati i meccanismi di attivazione del controllo sulle leggi, che non le era possibile dichiarare illegittime le disposizioni sulle quote rigide senza aver prima dichiarato l'illegittimità delle norme relative alle candidature di entrambi i sessi nelle liste elettorali amministrative: solo queste, infatti, sono state impugnate e su queste doveva pronunciarsi" (30). Questa circostanza probabilmente contribuì a irrigidire la posizione della Corte soprattutto per quanto concerne l'"apodittica" (31) equivalenza tra eleggibilità e candidabilità, a prescindere dai differenti effetti che gli interventi sulle liste di candidati producono sui risultati elettorali a seconda del sistema d'elezione adottato.
Peraltro, questo nuovo obbligo per le leggi regionali è strettamente connesso al vincolo degli obblighi comunitari. Innegabile è, infatti, la derivazione comunitaria delle politiche di pari opportunità nel nostro paese (32), grazie in particolare all'influenza delle esperienze delle democrazie del nord Europa. In proposito basti ricordare che l’art. 23 della Carta dei diritti dell’Unione europea stabilisce la parità tra uomini e donne in tutti i campi e l’ammissibilità di azioni positive a favore del sesso sottorappresentato. D'altra parte, a partire dal trattato di Amsterdam, la realizzazione delle pari opportunità fra i sessi rientra tra i compiti che l’Unione deve perseguire.
La stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 422/1995, nel sanzionare le misure previste dalle leggi elettorali, valutava positivamente la loro spontanea adozione da parte dei partiti e delle forze politiche, ritenendo "significativo" che la Risoluzione del Parlamento europeo in materia del 1988 si rivolgesse proprio alle formazioni intermedie e "non ai governi e ai parlamenti nazionali". Altrettanto significativa dovrebbe essere la nuova risoluzione del PE sulle donne nel processo decisionale (33) in cui si "constata che l'applicazione di quote in quanto misura transitoria contribuisce a riequilibrare la partecipazione degli uomini e delle donne alla vita politica" e "sollecita gli Stati ad adoperasi attivamente per conseguire una più equa presenza di donne e uomini di tutte le istituzioni dell'UE" (34).

7. Ora, le leggi costituzionali italiane citate parlano, una, di promozione delle condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali, l'altra, di promozione di parità di accesso alle cariche elettive: entrambe si limitano alla fase dell'accesso e quindi alla "candidabilità" e alla campagna elettorale, ma la formulazione della legge cost. n. 3 sembra più incisiva rispetto all'equivoco criterio dell'equilibrio della rappresentanza. Infatti, il riferimento alla "rappresentanza" sembrerebbe alludere ad una rappresentanza di genere, prestando il fianco a chi mette in guardia rispetto alle azioni positive in materia di diritti politici adducendo la pericolosità della frammentazione della rappresentanza: ma si ripete che la questione va affrontata nei termini di "presenza" nella rappresentanza, non di rappresentanza. Peraltro, la presenza equilibrata tra i sessi nelle sedi rappresentative sembrerebbe muoversi nel solco dell'uguaglianza dei risultati, incontrando i limiti di legittimità in rapporto ai principi della rappresentanza politica. Invece, il riferimento all'accesso alle consultazioni e alle cariche elettive, affermazione più chiara e più cogente sia nell'obiettivo che nei suoi limiti, sembra limitare l'intervento del legislatore ai punti di partenza (35). Innalzare la soglia di partenza delle opportunità del sesso sottorappresentato nelle cariche elettive è, peraltro, il chiaro intento della riforma dell'articolo 51 Cost., che introduce per la prima volta nel testo costituzionale il termine "pari opportunità" (36).
Un esempio degli "appositi provvedimenti” cui il riformando articolo 51 Cost. rinvia per perseguire l'obiettivo della parità di accesso è rappresentato dall’articolo 3 della legge n. 157 del 1999 in materia di rimborso delle spese elettorali (37), che obbliga i partiti a destinare almeno il cinque per cento delle somme ricevute ad iniziative destinate a favorire la partecipazione attiva delle donne alla vita politica. Ma questo tipo di misure promozionali potevano essere assunte legittimamente anche prima della riforma costituzionale. Certo, ora il legislatore è obbligato ad assumere azioni di vario tipo in questa direzione, quali, ad esempio, misure di incentivazione per la presenza televisiva e radiofonica delle candidate.
Il vero nodo è valutare se, in conseguenza del processo di revisione, si possano legittimamente introdurre, al di là delle valutazioni di opportunità, alcune misure incidenti sui sistemi di elezione. Il riferimento degli Statuti speciali alle leggi elettorali, a fronte del generico rinvio alle leggi regionali contenuto nel titolo V, sembrerebbe significativo e prevalente. Se si ammette, poi, che l’assenza delle donne dalla vita istituzionale è un fattore che mette in crisi la natura inclusiva della nostra democrazia e con essa la reale portata generale della rappresentanza politica, principio supremo dell’ordinamento, non può non ritenersi legittimo qualsiasi intervento che, non trasformandosi in un limite alla libera espressione del voto dei cittadini, consenta di estendere alle donne il diritto di elettorato passivo, anche prevedendo per legge l’obbligo delle loro candidature.
E' ipotizzabile, quindi, imporre una equilibrata presenza di entrambi i sessi nelle liste elettorali solo in presenza di meccanismi che assicurino la libertà di scelta tra i candidati da parte degli elettori. Questo è il principio fondamentale che il legislatore nazionale dovrebbe indicare nella disciplina della materia elettorale (38). Solo in presenza di tali meccanismi, infatti, sono salvaguardati i fondamentali principi che reggono la rappresentanza politica del nostro ordinamento. Si potrebbe, infatti, legittimamente ammettere l’alternanza delle candidature in un sistema proporzionale con voto di preferenza o introdurre una sorta di elezioni "primarie" garantendo un particolare sostegno alle donne ovvero rendere i collegi maggioritari "binominali" con la candidatura di persone di entrambi i sessi. Insomma sono ammissibili tutti i meccanismi in cui il voto degli elettori può rendere ininfluente la posizione di lista, cosicché la collocazione alternata della candidature dei due sessi nelle liste resta misura promozionale e in nessun modo decisiva per l’elezione.
Alle regioni poi spetterà operare una scelta tra i vari meccanismi. Potrebbero optare per un coraggioso ritorno al sistema proporzionale, che penalizza meno la partecipazione delle donne, tant’è che proprio il passaggio da un sistema elettorale proporzionale a uno maggioritario ha determinato in Francia una crisi profonda della presenza femminile in parlamento (39). Il sistema proporzionale, soprattutto in assenza del blocco di lista, potrebbe permettere misure che vincolino la formazione delle liste, senza tradursi in quei risultati diretti che la Corte ha ritenuto illegittimi. Peraltro, è già stato rilevato che la forma di governo regionale, almeno così per come è delineata dalla Costituzione, rafforza a tal punto la stabilità del Presidente e della giunta regionale, subordinando le sorti del Consiglio alla loro permanenza in carica, che si potrebbe optare per un ritorno allo scrutinio proporzionale senza destabilizzare la vita politica delle istituzioni regionali (40).

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Note

(1) P. BARILE, Sul diritto delle donne ad accedere in magistratura, in Giur. it., 1952, II, 226 fu il primo Autore a considerare l'art. 51 Cost, primo comma, corollario del generale principio di eguaglianza contenuto nel precedente art. 3, nonostante la contraria giurisprudenza amministrativa e costituzionale riportata in ID, Leggi e regolamenti discriminatori per motivi di sesso, in Giur. cost. 1958, 1243 a commento della sentenza della Corte costituzinale 3 ottobre 1958, n. 56, ivi, 861 con osservazioni di V. CRISAFULLI e C. ESPOSITO. Cfr. i più recenti contributi di L.CARLASSARE, La rappresentanza femminile: principi formali e effettività, in F. BIMBI-A. DEL RE (a cura di), Genere e democrazia, Torino, 1997, p. 81 ss. L. FERRAJOLI, Differenze di genere e garanzie di uguaglianza, ivi, p. 93; L. GIANFORMAGGIO, Eguaglianza formale e sostanziale: il grande equivoco, in Foro it. 1996, I 1964; M. BARBERA, L'eccezione e la regola, ovvero l'eguaglianza come apologia dello status quo, in B. BECCALLI (a cura di), Donne in quota, 1999, p. 91.
(2) Corte cost., sentenza 12 settembre 1995, n. 422, in Giur. cost. 1995, p. 3255, con osservazioni di U. DE SIERVO, La mano pesante della Corte sulle "quote" nelle liste elettorali; G. BRUNELLI, Elettorato attivo e passivo (e applicazione estesa dell'illegittimità consequenziale) in due recenti pronunce costituzionali; G. CINANNI, Leggi elettorali e azioni positive in favore delle donne.
(3) N. LUPO, Nel nuovo Titolo V il fondamento costituzionale della potestà regolamentare del governo?, in www.unife.it/forumcostituzionale.
(4) G. CHIARA, La "pari opportunità" elettorale dei sessi nella riforma degli statuti regionali speciali, in Giur. cost., 2001, pp. 839 ss, p. 840.
(5) Dati del 2000 ricavati da http://www.db-decision.de/index.html.
(6) I dati sono riportati nel dibattito parlamentare sulla riforma dell’art. 51 del 1 marzo 2002. Nel mondo la presenza delle donne nei parlamenti vede la Svezia al 42, 7 per cento seguita in ordine decrescente da Danimarca, Finlandia, Olanda, Norvegia, Islanda, Germania, Nuova Zelanda, Mozambico, Sud Africa, Spagna, Cuba, Austria, Grenada, Argentina, Bulgaria, Turkmenistan, Vietnam, Ruanda, Namibia, Australia, Seychelles, Belgio, Svizzera, Tanzania, Monaco, Cina, Laos, Canada, Croazia, Corea del Nord, Costa Rica, Dominica, Portogallo, Guyana, Perù, Regno Unito, Estonia, Suriname, Botswana, Latvia, Lussemburgo, San Marino, Senegal, Repubblica Domenicana, Messico, Angola, Bahamas, Repubblica Ceca, Eritrea, Ecuador, Burundi, Andorra, Slovacchia, Stati uniti d’America, Israele, Giamaica, Saint Kitts and Navi, Repubblica di Moldova, Tagikistan, Mali, Slovenia, Uruguay, Congo, Irlanda, Colombia, Bolivia, Tunisia, Capo Verde, Santa Lucia, Trinidad e Tobago, Francia, Cile, Barbados, Cipro, Romania, Lituania, Azerbaijan, Mongolia, Kazakhistan, Malaysia, Siria, Belarus, Zambia, Kirghizistan, Zimbabwe, Panama e solo dopo l'Italia.
(7) V. CRISAFULLI, Una «manifesta infondatezza» che non sussiste, in Foro it. 1957, III, 44, in nota alla sentenza del Consiglio di Stato del 18 gennaio 1957, n. 21, ivi 41, con cui si ribadiva l’esclusione delle donne dalla magistratura ordinaria, scriveva: “Anche in molti che non sono affatto, o non si considerano, retrivi e codini, l’idea di essere giudicati da donne provoca un senso di fastidio nel quale confluiscono moventi irrazionali sedimentati da generazioni nel fondo dei nostri animi e persino veri e propri complessi ancestrali, né ho ritegno a confessare che una tale reazione istintiva ed emozionale la conosco bene io stesso per esperienza diretta, ragione di più per sentirci in dovere di fare appello a tutte le nostre facoltà critiche e raziocinanti visitando le tenebre dell’irrazionale e con esse disperdendo gli idola tribus”, passo citato nel corso del dibattito parlamentare sulla riforma dell’art. 51 Cost. Dello stesso avviso si è dichiarato A. PACE, Eguaglianza e libertà, in Politica del diritto, 2/2001, p. 155, in particolare p. 171.
(8) In termini di democrazia è affrontata la questione dalla Costituzione portoghese del 1997 all'art. 109.
(9) Così la sentenza n. 422/1995, punto 5 del considerato in diritto.
(10) Cfr. sentenza 422/1995, punti 6 e 7 del considerato in diritto.
(11) Cfr. in questo senso M. AINIS, L'eccezione e la sua regola, in Giur. cost., 1993, p. 981; G. BRUNELLI, L'alterazione del concetto di rappresentanza politica: leggi elettorali e "quote" riservate alle donne, Dir. e società, 1994, 587; M. LUCIANI, Riforme elettorali e disegno costituzionale, in Pol. dir., 1995, 96 ss..
(12) Analogamente L. CARLASSARE, op. cit., p. 87.
(13) Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 96 del 1968. In dottrina vedi G. FERRARA, La pari dignità sociale (appunti per una ricostruzione), in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, II, Milano1974, p. 1091 e ID., Dell'eguaglianza, in M. LUCIANI (a cura di), La democrazia alla fine del secolo, 1994, p. 56.
(14) Si ricorda che la Corte costituzionale, sentenza n. 438/1993, ha dichiarato che giova che "la minoranza possa esprimere la propria rappresentanza politica". S. BARTOLE, Un caso di insoddisfacente overrruling in tema di tutela delle minoranze in materia elettorale, in Giur. cost. 1994, p. 4095.
(15) Nei termini di un necessario bilanciamento tra principio di uguaglianza formale e quello sostanziale.
(16) In tal senso in particolare, U. DE SIERVO, op. cit., e L. CARLASSARE, op. cit. che sottolineano la profonda differenza tra la previsione che nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato nelle liste comunali e provinciali in misura superiore ai due terzi (l. n. 81/1993) e quella che imponeva l'alternanza dei sessi nelle liste per le elezioni politiche (277/1993) nei differenti contesti elettorali, determinati dalla possibilità o meno di esprimere il voto di preferenza oltre quello di lista.
(17) Si ricorda che analoga disposizione è prevista nella legge elettorale del Senato, unica sopravvissuta alla illegittimità consequenziale della sentenza n. 422/1995, essenzialmente per il suo carattere programmatico.
(18) Corte cost, sentenza 26 marzo 1993, n. 109, in Giur. cost. 1993, p. 873 ss.
(19) In questo senso G. BRUNELLI, Le "quote" riprendono quota? (A proposito di azioni positive in materia elettorale regionale), in Le regioni, 3/2001, p. 531 ss.; G. CHIARA, op. cit.
(20) Sentenza n. 422/1995.
(21) A. DEFFENU, La parità tra i sessi nella legislazione elettorale di alcuni paesi europei, in Diritto Pubblico, 2001, p. 609, in particolare pp. 610-611. Tale tendenza è riscontrata dall'Autore anche in Portogallo, in Belgio e in Spagna.
(22) Così è il nuovo comma dell'art. 3 della Costituzione francese dopo l'approvazione della legge costituzionale n. 99-569.
(23) Con la decisione 18.11.1982, n. 82-146 il Conseil constitutionnel ha dichiarato la previsione per cui le liste elettorali comunali non avrebbero potuto contenere più del 75% di candidati dello stesso sesso non conforme ai principi costituzionali che "s'opposent à toute division par catégories des électeurs ou des éligibles". Nella decisione 14-1-1999, n. 98-407 ha dichiarato non conforme a Costituzione la previsione per cui ogni lista elettorale regionale doveva assicurare la parità di candidati di entrambi i sessi. In proposito cfr. L. FAVOREU, Principe d’égalité et représentation politique des femmes: la France et les exemples étrangers, in Conseil d’Etat, Rapport publique 1996 sur le principe d’égalité, Ètudes et documentes, Paris 1996, p 395 ss.
(24) Legge n. 2000-493 del 6 giungo 2000.
(25) Conseil constitutionnel, decisione 2000-429 del 30 maggio 2000, JO 7 giugno 2000.
(26) Cfr. A. DEFENU, cit., in particolare 619 ss e M. CAIELLI, Le azioni positive in materia elettorale nell'ordinamento francese, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 1999, IV, 1448 ss.
(27) Cfr. A. DEFENU, cit., pp. 620-622.
(28) Il riferimento è qui chiaramente alla celebre sentenza n. 1146 del 1988.
(29) In questo senso M. ROSITANI, La Francia e le “quote per le donne”, in Quad. cost., 2/2002, p. 355.
(30) L. CARLASSARE, op. cit., p. 84.
(31) U. DE SIERVO, op. cit., p. 3270.
(32) Mi si permetta di rinviare in proposito a quanto già scritto in Uguaglianza sostanziale, azioni positive e Trattato di Amsterdam, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Comunitario, 1999, p. 985 ss. Cfr. inoltre G. CHITI, Il principio di non discriminazione e il trattato di Amsterdam, ivi, 2000, p. 852 ss. Sotto il profilo dell'influenza del diritto comunitario sul principio di uguaglianza nell'ordinamento interno cfr. F. SORRENTINO, L'influenza del diritto comunitario sulla Costituzione italiana, in Studi in onore di Leopoldo Elia, 1999, II, p. 1636 ss e ID., L'eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia delle Comunità europee, in Pol dir. 2/2001, p. 179; F. GHERA, Il principio di eguaglianza nel diritto comunitario e nel diritto interno, in Giur. cost. 1999, p. 3267; G. U. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana, in Annuario 1998, AIC, 79 ss.
(33) Risoluzione 2 marzo 2000, B5-0180/2000, in GUCE C 346/82.
(34) Sui caratteri indefettibili delle azioni positive, tra cui in particolare la loro transitorietà cfr. M. AINIS, Cinque regole per le azioni positive, in Quad. cost., 2/1999, p. 359.
Da ultimo G. CHIARA, cit., p.839, in particolare p. 841, che richiama in proposito le audizioni di L. Arcidiacono, F. Lanchester, A. Pizzorusso svoltesi il 25 maggio 2000 e di A. Baldassarre del 1 giugno 2000 presso la Camera dei deputati.
(36) Cfr. La relazione dell'On. E. Montecchi al ddl cost. A.C. presentata il 1 marzo 2002 laddove espressamente afferma che "la modifica che si propone all'Assemblea ha il fine di promuovere anche un'uguaglianza delle opportunità, che, naturalmente, non predetermini alcuna garanzia di risultato, ma permetta però un innalzamento reale della soglia di partenza". Si vuole un termine che la legislazione ordinaria conosce da più di un decennio in un momento in cui quello stesso concetto è sicuramente riformulato nelle sue valenze dalla IV Conferenza di Pechino. Cfr. da ultimo E. OLIVITO, Azioni positive e rappresentanza femminile: problematiche generali e prospettive di rilancio, in corso di pubblicazione su Pol. del diritto, 2/2002.
(37) Legge 3 giugno 1999, n. 157 recante "Nuove norme in materia di rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici", GU n. 129 del 4 giugno 1999.
(38) Sembra di tale avviso anche L. CALIFANO, Donne e rappresentanza politica: una riforma che riapre nuovi spazi, in Quad. cost., 1/2001, p. 140 ss.
(39) Cfr. quanto riportato da A. PIZZORUSSO-E.ROSSI, Le azioni positive in materia elettorale, in Donne in quota, a cura di B. BECCALLI, Milano 1999, p. 171.
(40) A. DEFFENU, op. cit., p. 632.

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