Commento alla Sentenza della Corte costituzionale n. 58 del 2018

 

1. Le vicende giudiziarie che hanno interessato lo stabilimento ILVA di Taranto tornano nuovamente all’attenzione del giudice delle leggi con la sentenza n. 58 del 2018, che fa seguito a quella del 2013 (la decisione n. 85) ampiamente dibattuta in dottrina[1] e con la quale la Corte tracciò le coordinate del “ragionevole bilanciamento” fra diritti nel caso dell’esercizio dell’attività d’impresa.
In quel caso, l’operazione ermeneutica per risolvere la collisione tra diritti si compiva tra la libertà di iniziativa economica, da un lato, e la tutela dell’ambiente e della salute, dall’altro, con la prevalenza, sia pure a determinate condizioni, della prima sulla seconda. Nel caso della sentenza n. 58, cit., con la libertà d’impresa collide, invece, la sicurezza dei lavoratori.
Nel 2013, la Corte giudicava – tra l’altro – l’art. 1 del decreto legge n. 207 del 2012 (c.d. Decreto “Salva-ILVA”), convertito in legge n. 231 del 2012, il quale prevedeva che, presso gli stabilimenti dei quali fosse riconosciuto l’interesse strategico nazionale con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e che occupassero almeno duecento persone, l’esercizio dell’attività di impresa, quando indispensabile per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione, potesse continuare per un tempo non superiore a 36 mesi, anche nel caso fosse stato disposto il sequestro giudiziario degli impianti, nel rispetto delle prescrizioni impartite con una autorizzazione integrata ambientale rilasciata in sede di riesame, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili.
Nell’occasione, la Corte ha ritenuto che la disposizione superasse il vaglio di legittimità costituzionale, in ragione della previsione della revisione del provvedimento di A.I.A., che costituirebbe uno strumento idoneo a “rendere compatibili la tutela dell’ambiente e della salute con il mantenimento dei livelli di occupazione, anche in presenza di provvedimenti di sequestro giudiziario degli impianti” (C.i.D., par. 7.1), dal momento che l’A.I.A. è “un provvedimento per sua natura ‘dinamico’, in quanto contiene un programma di riduzione delle emissioni, che deve essere periodicamente riesaminato” (C.i.D., par. 7.2) e “traccia un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni indicati e quella dell’occupazione, cioè tra beni tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti” (C.i.D., par. 8.1).
La teoria costituzionale che fa da sfondo è quella del “ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali”, su cui la Corte si diffonde in un passaggio della sentenza n. 85 del 2013 (C.i.D., par. 9): secondo il giudice delle leggi, “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. (…) Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diventerebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette. (…) Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come valori primari (…) implica una ‘rigida’ gerarchia tra diritti fondamentali. (…) Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.
La Corte fa applicazione delle medesime argomentazioni anche nella sentenza n. 58 del 2018, pur giungendo a un esito opposto, in quanto finisce per dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme censurate, che prevedono che, anche nelle ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori, l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non sia impedito dal provvedimento di sequestro.
 

2. La tecnica del bilanciamento dei diritti, nel caso in cui vi sia una collisione tra diritti costituzionali o tra diritti e doveri costituzionali[2], è molto discussa in dottrina, perché quella che si definisce tecnica di bilanciamento, che non sacrificherebbe nessuno dei diritti (o non farebbe prevalere nessun diritto costituzionale sull’altro) non è concettualmente possibile, dandosi comunque, anche applicando canoni di ragionevolezza e proporzionalità, una forma di prevalenza[3].
Si tratta, infatti, di un’antinomia normativa che si pone al massimo grado delle norme giuridiche, cioè a quello delle disposizioni costituzionali.
A tal riguardo, perciò, occorre in primo luogo verificare se non siano le stesse disposizioni costituzionali a tracciare dei limiti all’esercizio di un diritto per la salvaguardia di diritti e interessi diversi; mentre potrebbe parlarsi di bilanciamento, vero e proprio, qualora manchi nelle disposizioni costituzionali ogni elemento che consenta di ricondurre un determinato fatto alla disciplina di un solo diritto, secondo il canone della “specialità”, e cioè a dire in quelle ipotesi in cui il testo costituzionale ometta di “graduare” i diritti o, comunque, non contenga una decisione di preferenza[4].
In un caso del genere, peraltro, si è rilevato[5] come la dottrina abbia indicato due strade per affrontare le tensioni irrisolte: quella della legislazione[6], sulla base del principio che, mancando una decisione costituzionale, dovrebbe provvedere il legislatore ordinario, anche in forza della sua legittimazione democratica, e quella della giurisdizione e, in particolare, della giurisdizione costituzionale[7], sulla base del principio che il giudice ha il dovere comunque di decidere sul caso concreto.
Sono a tutti evidenti le differenze tra l’una e l’altra soluzione e le critiche cui ognuna delle due si sottopone: la prima, per la rigidità che la legislazione introdurrebbe in un campo costituzionale non definito dal Costituente; e la seconda, per la circostanza che sarebbe il giudice a porre la norma e, nel caso del giudice costituzionale, la norma costituzionale[8].
Quanto premesso, in definitiva, mette in evidenza il carattere ideologico della tesi del bilanciamento tra i diritti. Infatti, questo particolare metodo, “anziché essere considerato – come dovrebbe essere – uno degli strumenti forgiati per assumere decisioni concrete, limitato a determinati casi concreti che presentano caratteristiche particolari e da valutare, perciò, sempre in modo critico, è stato considerato la via principale per affermare una particolare concezione della Costituzione e un singolare metodo di interpretazione di questa, collegato alla c.d. ‘teoria dei valori’”[9].
Perciò, la tendenza a estendere oltremodo l’applicazione del bilanciamento (giudiziale), che in altri ordinamenti ha un preciso fondamento costituzionale[10], è del tutto estranea alla nostra tradizione giuridica, dal momento che “se si crede nell’importanza che la scrittura della Costituzione e degli altri testi normativi riveste in un sistema che, come quello italiano, è un sistema a ‘diritto scritto’ (…) non si potrà non convenire che i valori non hanno altra rilevanza per il giurista che quella che ad essi si può assegnare sulla base delle norme del diritto[11].
Infatti, è opportuno ricordare che “non si ha bilanciamento ogni qual volta le pretese in conflitto, riconducibili, ovviamente, a disposizioni costituzionali, possono trovare una graduazione, in quanto è la Costituzione medesima che prevede una configurazione particolare del diritto[12].
Da questo punto di vista, non può essere sottaciuto che la dottrina – già in tempi affatto “non sospetti” – ha rilevato che l’art. 41, comma 2, Cost. subordina l’iniziativa economica privata all’utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana[13].
Pertanto, non è condivisibile l’affermazione della Corte secondo cui, nell’ambito dei diritti fondamentali coinvolti, “non è possibile (…) individuare uno di essi che abbia la prevalenza[14].
In modo del tutto analogo, anche nel caso deciso con la sentenza n. 58 del 2018, nonostante la Costituzione stabilisca una gerarchia tra diritti fondamentali, il livellamento al ribasso operato dalla Corte finisce per mettere nelle mani della giustizia costituzionale una scelta di “preferenza” che già sarebbe contenuta nella Carta, se solo il giudice delle leggi avesse valorizzato il dato testuale[15].
La Corte avrebbe dovuto, perciò, quanto meno “confrontarsi” con la subordinazione dell’iniziativa economica ad altri diritti fondamentali, eventualmente valorizzando ulteriori argomenti testuali in grado di giustificare la propria decisione.
Per contro, il giudice delle leggi omette di considerare la decisione di preferenza del Costituente e, in tal modo, finisce per affermare che il punto di equilibrio tra diritti è sempre “dinamico e non prefissato in anticipo”.
Tuttavia, così facendo, la Corte introduce una (inesistente) lacuna nel sistema, posto che, riscontrata la tutela costituzionale di diversi diritti fondamentali confliggenti, senza considerare le regole di specialità già poste nella Carta, con tutte le conseguenze del caso. L’operazione ermeneutica della Corte, fondata sul c.d. bilanciamento dei diritti, finisce con il riscontrare la critica già formulata lucidamente dal Kelsen, per il quale si tratterebbe della sostituzione della soluzione accolta dall’ordinamento positivo con una di un “ordinamento più giusto, più esatto” secondo l’interprete[16].
 

3. Invero, occorre riconoscere che almeno in un’altra occasione, la Corte ha avuto modo di pronunciarsi nel senso della subordinazione della libertà di iniziativa economica ai diritti su richiamati.
Infatti, nella sentenza n. 127 del 1990, il giudice delle leggi ha specificato che “il limite massimo di emissione inquinante, tenuto conto dei criteri sopra accennati, non potrà mai superare quello ultimo assoluto e indefettibile rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute umana e dell'ambiente in cui l'uomo vive: tutela affidata al principio fondamentale di cui all'art. 32 della Costituzione, cui lo stesso art. 41, secondo comma, si richiama”.
La prevalenza di un diritto su un altro, in forza del canone di specialità, appare in questo caso in modo assolutamente nitido e non subisce temperamento alcuno in ragione di operazioni di bilanciamento, quanto meno, non necessarie in un’ipotesi di tensione tra diritti in cui la Carta consente una risoluzione.
Nondimeno, se è vero che la Costituzione già di per sé risolve la potenziale tensione fra diritti in conflitto e, pertanto, la tecnica del bilanciamento non avrebbe dovuto ricevere applicazione nel caso di specie, è però altrettanto vero che le vicende che hanno condotto all’emanazione del decreto-legge n. 207 del 2012 avevano un carattere del tutto eccezionale e, pertanto, la Corte avrebbe anche potuto utilizzare la categoria, formulata nella sua giurisprudenza, della “legittimità costituzionale provvisoria”, con tutta una serie di conseguenze che questa prassi si porta dietro[17].
In merito, non si registrano consensi unanimi. Tuttavia, il rischio occupazionale connesso alla chiusura dell’ILVA e la particolare congiuntura di profonda crisi economica di quel momento avrebbero potuto pragmaticamente condurre la Corte a un’applicazione “provvisoria” di una fattispecie legislativa di dubbia costituzionalità e a un temperamento “momentaneo” dei limiti entro cui è riconosciuta la libertà di iniziativa economica codificati nell’art. 41 Cost.
 

4. La Corte, con la sentenza n. 58 del 2018, invece, pare approdare, a un consolidamento definitivo del bilanciamento operato nella decisione del 2013, tanto da arrivare a dire che è “alla luce dei principi ivi stabiliti che la odierna questione di legittimità costituzionale deve essere esaminata”.
La disposizione impugnata (art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015) – peraltro frutto di un “anomalo intreccio di interventi normativi[18] – prevedeva, al comma 1, che, al “fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia, l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro, come già previsto dall’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori”.
Inoltre, la medesima disposizione, al comma 2, disponeva comunque che “l’attività d’impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12 mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro” e che, a tal fine,  “l’impresa deve predisporre, nel termine perentorio di 30 giorni dall’adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attività aggiuntive”.
Nonostante la normativa richiamata adoperi il linguaggio della tecnica del bilanciamento e tenti di ricondursi agli argomenti contenuti nella sentenza n. 85 del 2013, la Corte ravvede delle differenze sostanziali nella disciplina oggetto del giudizio. Infatti, mentre nella normativa del 2012 “la prosecuzione dell’attività d’impresa era condizionata all’osservanza di specifici limiti, disposti in provvedimenti amministrativi relativi all’autorizzazione integrata ambientale, e assistita dalla garanzia di una specifica disciplina di controllo e sanzionatoria”, “nella normativa in giudizio, la prosecuzione dell’attività d’impresa è subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un ‘piano’ ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici e privati[19].
In sostanza, in questo caso, la Corte ritiene che “il legislatore (abbia) finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva”.
Nel merito, non può non condividersi la soluzione adottata dalla Corte, nel senso dell’illegittimità costituzionale della normativa censurata, per il contrasto con il principio di sicurezza del lavoro; tuttavia, il giudice delle leggi, adoperando il linguaggio della tecnica del bilanciamento tra i diritti, sembra essersi attribuito un ruolo di decisione costituzionale grazie al quale, ribadendo le argomentazioni della sentenza n. 85 del 2013, sostituisce le proprie preferenze a quelle disposte dalla norma costituzionale che contiene delle indicazioni atte a risolvere eventuali antinomie tra diritti costituzionali.
Circostanza, quest’ultima, cui la Corte fa riferimento solo successivamente e quasi come mero argomento ad abundantiam, quando ritiene che “la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
 

5. Se il rapporto fra diritti potenzialmente in tensione viene trattato a tale stregua, e cioè nel senso che i canoni di prevalenza costituzionalmente previsti finiscano per assumere una valenza residuale e che, invece, la titolarità del giudizio sul c.d. bilanciamento è da ricondurre al giudice delle leggi, si determinano quanto meno due conseguenze: la prima è che la rigidità costituzionale viene svilita, dal momento che l’eventuale decisione costituzionale finisce per essere recessiva, e inoltre si rischia di cadere in un circolo vizioso. Infatti, è evidente che, quando vi è l’esigenza di ricercare – per usare le parole della Corte – un punto di equilibrio fra diritti in potenziale tensione, tale operazione deve essere condotta a monte: nel caso dei rischi connessi all’esercizio d’impresa, il punto di equilibrio consiste nella previsione dei valori-soglia oltre i quali l’attività diventa troppo pericolosa per poter essere proseguita.
Invece, spostare in un momento successivo – l’efficacia delle misure cautelari – la ricerca del punto di equilibrio equivale a continuare a rendere incerto il confine del contemperamento dei diritti in tensione, persino quando si è già in una fase patologica.
Per giunta, nel caso di specie, la ricerca del punto di equilibrio finirebbe per scivolare addirittura fino al provvedimento amministrativo in cui sarebbe incorporato il bilanciamento tra diritti, posto che “la natura di tale atto è amministrativa, con la conseguenza che contro lo stesso sono azionabili tutti i rimedi previsti dall’ordinamento per la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi davanti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa[20].
In sostanza, la ricerca del punto di equilibrio e del ragionevole bilanciamento fra diritti in tensione troverebbe la propria sede ultima dinanzi al giudice amministrativo in sede di impugnazione del provvedimento.
Tuttavia, l’approccio della Corte non sembra condivisibile sino in fondo, dal momento che la tecnica del bilanciamento non dovrebbe assumere una valenza ideologica[21] dotata di una capacità espansiva praticamente illimitata, persino quando una gradazione di valori o di diritti sia già stata scolpita nel testo costituzionale[22].
 

Elena Affannato
Funzionaria del Ministero dell’Economia e delle Finanze

 


[1] In commento alla decisione, si possono richiamare le osservazioni pubblicate in Giur. Cost., 2013: V. Onida, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente, p. 1494 ss. (nonché in Rivista telematica dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 3/2013); D. Pulitano, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima legge ILVA, p. 1498 ss.; R. Bin, Giurisdizione e amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali?, p. 1505 ss.; S. Giuliano, Alcune discutibili affermazioni della Corte sulle leggi in luogo di provvedimento, p. 1511 ss. Per altri commenti alla decisione v. L. Geninatti Satè, “Caso Ilva”: la tutela dell’ambiente attraverso la rivalutazione del carattere formale del diritto, in Forum di Quaderni Costituzionali, 16 maggio 2013; M. Massa, Il commissariamento dell’ILVA e il diritto delle crisi industriali, in Forum di Quaderni Costituzionali, 17 giugno 2013; M. Boni, La politiche pubbliche dell’emergenza tra bilanciamento e «ragionevole» compressione dei diritti: brevi riflessioni a margine della sentenza della Corte costituzionale sul caso Ilva, in Federalismi.it, 5 febbraio 2014.

[2] Cfr. S. Mangiameli, La “libertà di coscienza” di fronte all’indeclinabilità delle funzioni pubbliche (a proposito dell’autorizzazione del giudice tutelare all’interruzione della gravidanza della minore), in Giur. Cost., 1988, p. 523 ss.

[3] Sul punto, si rinvia a S. Mangiameli, voce Nuovi Diritti, in S. Mangiameli (a cura di), Dizionario sistematico di Diritto costituzionale, Il sole 24 Ore, Milano 2008.

[4] In questo senso, A. D’Atena, I principi ed i valori costituzionali, in Id., Lezioni di Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino 2012, p. 15 ss., 34, osserva che vi sono “casi in cui le Costituzioni non stabiliscono chiare priorità; non prevedono, cioè, un ordinamento gerarchico dei valori (Wertordnung). In queste ipotesi, il politeismo dei valori di cui parlava Max Weber popola un olimpo senza gerarchie”.

[5] A. D’Atena, I principi, cit., 35.

[6] In questo senso, è, ad esempio, C. Starck, La légitimite de la justice constitutionnelle et le principe démocratique de majorité, in AA. VV., Legitimidade e legitimaçâo da justiça constitutional, Coimbra 1995, 70.

[7] Sostiene questa tesi G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992.

[8] In proposito, lucide considerazioni in C. Schmitt, Il custode della Costituzione (1931), trd.it., Giuffrè, Milano, 1981.

[9] S. Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana alla dommatica europea della tutela dei diritti fondamentali, in Consulta Online (www.giurcost.org), 2006. Sulla “teoria dei valori”, in senso critico v. anche A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali  - Parte generale, Cedam, Padova 2003, 37 ss., che rileva come, in applicazione della stessa, “l’approccio interpretativo da ‘normativo-formale’ dovrebbe mutare in ‘normativo-sostanziale’” (come sostenuto da A. Baldassarre, Costituzione e teoria dei valori, in Pol. Dir., 1991, 654), ma proprio per questo è agevole comprendere come “questa dottrina – talvolta addirittura contro la stessa volontà dei suoi sostenitori – finisca per svalutare l’importanza degli enunciati normativi”.

[10] Come nel caso del IX emendamento della Costituzione americana, secondo cui “Il fatto che la Costituzione enumeri determinati diritti non potrà intendersi nel senso di negare o di deprezzare altri diritti che il popolo si sia riservato”.

[11] A. Pace, La variegata struttura dei diritti costituzionali, in Scritti in onore di Giuseppe Abbamonte, Napoli 1999, vol. II, 1078.

[12] S. Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana, cit.

[13] C. Esposito, I tre commi dell’art. 41 della Costituzione, in Giur. Cost., 1962, p. 37 ss., nonché A. D’Atena, I principi, cit., 34.

[14] Sent. n. 85 del 2013, cit., C.i.D. par. 9.

[15] Da questo punto di vista, non si può omettere di richiamare il contributo sull’interpretazione costituzionale di F. Schauer, An Essay on Constitutional Language, in UCLA Law Review, 1982, Vol. 29, p. 796 ss., il quale richiama l’attenzione sull’importanza di valorizzare l’interpretazione letterale prima di spingersi verso altre tipologie di operazioni ermeneutiche: “Many contemporary constitutional scholars have explored the extent to wihich, if it all, judges should go ‘outside’ or ‘beyond’ the constituzional text for decisional principles in constitutional cases. Although the resulting discussions have been highly illuminating, I do not wish to deal directly with this controversy here. Rather, I propose to discuss what is logically a prior question. For before we can argue intelligently about wheter to go outside of the text, we ought to explore the meaning of the words inside the text”.

[16] H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino 2000, 126.

[17] Sul punto, sia rinvia nuovamente all’acuta analisi di S. Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana, cit.: “la Corte accetta normative nelle quali essa stessa intravede dei limiti di legittimità costituzionale, giustificandoli sulla base della circostanza che, essendo dovute a situazioni straordinarie e di carattere temporaneo, la compressione dei diritti non sarebbe tale da pregiudicare in modo definitivo le situazioni soggettive. La dottrina italiana ha coniato per questa giurisprudenza l’espressione ‘legittimità costituzionale provvisoria’. In molte di queste sentenze sono contenuti comunque degli ‘avvertimenti’ al legislatore, non solo ad adoperare con estrema cautela discipline che comprimono i diritti costituzionali, ma anche a rimuoverli non appena cessate le ragioni straordinarie che ne determinano l’adozione, pena la possibilità di una diversa pronuncia da parte del giudice costituzionale”.

[18] V. sent. n. 58 del 2018, cit., C.i.D. par. 2.1.

[19] Sent. cit., C.i.D., par. 3.1 e 3.2.

[20] Sent. n. 85 del 2013, cit., C.i.D. par. 10.1.

[21] S. Mangiameli, Il contributo dell’esperienza costituzionale italiana, cit.

[22] Piuttosto, la tecnica del bilanciamento potrebbe fungere da strumento interpretativo tutte le volte in cui il costituente non abbia dato chiari segnali nel senso della gradazione dei diritti contemplati dalla Carta, in quei casi, cioè, che Carl Schmitt definirebbe come compromessi dilatori (C. Schmitt, La dottrina della Costituzione, Giuffré, Milano 1984).
Secondo Schmitt, il compromesso consiste nel trovare una formula che soddisfi a tutte le richieste contraddittorie e lasci indecisi in una locuzione ambigua i veri punti della disputa.
Questi compromessi fittizi sono in un certo senso compromessi effettivi, giacché essi non sarebbero possibili, se fra le parti non vi fosse nessuna intesa. Ma l’intesa non riguarda l’oggetto; si è d’accordo soltanto nell’aggiornare la decisione e nel lasciarsi aperte le interpretazioni e le possibilità più disparate.
Il compromesso non riguarda quindi la soluzione oggettiva di una questione per via di reciproche concessioni obiettive, ma l’accordo mira invece ad accontentarsi di una formula dilatoria che tenga conto di tutte le pretese.
In tali casi, la ricerca del punto di equilibrio sarebbe nelle mani del legislatore, le cui scelte potrebbero essere allora sindacate dalla Corte costituzionale, secondo tutte le tecniche dell’interpretazione costituzionale, fra cui quella del bilanciamento fra diritti, nella quale si tenga seriamente in considerazione la questione del “contenuto essenziale” (Wesensgehalt) dei medesimi diritti che vengono in rilievo.

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