[Seminario su "Cooperazione e competizione fra Enti territoriali: modelli comunitari e disegno federale italiano", Roma 18 giugno 2007]
 
                                                                                                                        
                                                                                        
1. A quasi sei anni dall’adozione delle leggi costituzionali n.2 e n.3 del 2001 che, insieme alla legge costituzionale n.1 del 1999, hanno profondamente innovato l’assetto costituzionale del nostro regionalismo, si impone un tentativo di spiegare i motivi della loro vasta inattuazione.
Si tratta di una riforma anzitutto molto rilevante sul piano quantitativo: nel loro complesso queste tre leggi costituzionali hanno cambiato in tutto o in parte ben diciannove dei venti articoli che componevano l’originario Titolo V della Costituzione ed anche parti significative degli Statuti speciali, per non parlare degli innumerevoli mutamenti prodotti dall’art. 10 della legge cost. n.3 del 2001, che – come ben noto –  prevede che fino alle future riforme degli Statuti speciali si applichino alle Regioni speciali e alle Province autonome le parti del Titolo V in cui si prevedono “forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
Ma le novità maggiori sono state sul piano qualitativo, dalla modificazione dei sistemi elettorali alle conseguenti trasformazioni delle forme di governo di tutte le Regioni, alla riconfigurazione della fonte statutaria ordinaria, alla considerazione unitaria dei limiti fondamentali sia delle leggi regionali che delle leggi statali, al rovesciamento della tecnica di elencazione delle materie legislative statali e regionali, al conseguente grande accrescimento delle materie legislative di competenza delle Regioni, alla riscrittura dell’art. 119 Cost., alla scomparsa dei controlli preventivi sugli atti di Regioni ed enti locali, ecc., ecc. 
Occorre quindi riconoscere che con questa serie di innovazioni costituzionali si è operato un assai coraggioso tentativo per uscire dall’insopportabile degrado a cui era ormai giunto il nostro regionalismo, riaffermando anche assai opportunamente il necessario primato delle disposizioni costituzionali rispetto a precedenti tendenze di cercare di rivitalizzare regioni ed enti locali solo tramite nuove leggi ordinarie, che quasi preannunciavano le future riforme costituzionali, ma che proprio per questo loro andare al limite od oltre la normativa costituzionale allora vigente erano sempre esposte a contestazioni o a ritorni indietro da parte del legislatore.


2. Peraltro una riforma costituzionale tanto impegnativa e di questa consistenza, che interviene su un complesso ordinamento di un grande Stato sociale (bene o male che funzioni) e su un corpo normativo formato da una miriade di fonti, avrebbe dovuto caratterizzarsi per la sua massima chiarezza,   per la previsione di apposite norme per la sua graduale entrata in funzione, per la disciplina di procedure partecipate fra gli organi statali, regionali e locali al fine di giungere alla sua rapida attuazione. Non dovrebbe, infatti, sfuggire ai costituzionalisti ed anche ai legislatori più consapevoli che le disposizioni costituzionali in tema di riparto delle funzioni e dei relativi mezzi fra le diverse articolazioni centrali e periferiche di un ordinamento statuale dovrebbero esigere un tipo di scrittura molto più analitica e puntuale di quella tipica di altre parti dell’assetto organizzativo dello Stato e che comunque siano previsti appositi organi e procedure adeguate per tutte le ineliminabili fasi di specificazione ed attuazione del nuovo disposto costituzionale.  
Se, invece, nelle nuove norme costituzionali manca una disciplina davvero completa e puntuale in tema di riparto delle competenze fra Stato e Regioni e di loro finanziamento, se restano indeterminati i tempi entro cui le varie innovazioni devono concretizzarsi e se non viene neppure mutato il sistema legislativo nazionale cui sono inevitabilmente affidate le molteplici specificazioni legislative necessarie, di fatto tutta la riforma viene pericolosamente affidata alla volontà del sistema politico dominante a livello nazionale. Al tempo stesso, la sommarietà o genericità di varie disposizioni costituzionali in tema di riparto di competenze fra Stato e Regioni non solo aumenta fortemente la conflittualità, ma riduce la stessa possibilità di interventi pienamente efficaci in materia della stessa Corte costituzionale, malgrado tutti i suoi sforzi per arricchire i propri strumenti processuali e le tipologie delle sentenze.
In altri termini, il nuovo Titolo V presenta non pochi difetti e non marginali carenze: basti qui solo accennare alla sommarietà degli elenchi delle materie legislative dello Stato o delle Regioni; alla carenza di disposizioni espresse sulla possibilità che comunque alcune funzioni regionali, ma di preminente rilevanza nazionale, possano essere gestite unitariamente; alla mancata riforma del Parlamento nazionale o delle procedure legislative statali, malgrado che le leggi statali siano chiamate a concretizzare il disegno costituzionale in una miriade di settori; alla inesistenza di istituti o procedure di raccordo o coordinamento fra i diversi soggetti istituzionali responsabili ai diversi livelli territoriali delle politiche pubbliche, pur tra loro largamente interdipendenti in un grande Stato sociale; alla assenza di adeguate norme transitorie; alla mancata riforma dell’ordinamento delle Regioni speciali o almeno alla mancata previsione di un processo istituzionale di loro progressiva parziale omogeneizzazione rispetto alle altre Regioni.
Ma poi, con specifico riferimento ai complessi problemi di attuazione dell’art. 119 Cost. (di cui non parlo in questa sede), si pensi alle difficoltà prodotte anche su questo piano dalla sostituzione del vecchio principio del parallelismo delle funzioni amministrative e legislative della Regione con il suggestivo (ma alquanto ipocrita) principio di cui al primo comma dell’art. 118, secondo il quale titolari di tutte le funzioni amministrative sono i Comuni, peraltro salvo diversa determinazione del legislatore competente: se il riparto delle funzioni amministrative fra Stato, Regioni ed enti locali dipende dalla mutevole legislazione di Stato e Regioni (nel tempo e nel territorio), ne risente in modo notevole lo stesso sistema di finanziamento, che non potrà non prevedere anche finanziamenti “a cascata” da un livello ad un altro in parallelo all’adozione delle legislazioni dello Stato e delle Regioni di allocazione delle funzioni agli enti locali.
 

3. Certo, molte carenze delle nuove disposizioni costituzionali avrebbero potuto (e dovuto) essere ridotte od eliminate da una organica politica legislativa di attuazione-integrazione di quanto previsto nel titolo V: ma qui ha pesato in modo decisivo la esplicita contrapposizione della maggioranza politica dominante nella XIV legislatura alla riforma costituzionale approvata dal referendum popolare dell’autunno 2001 e la sua manifesta volontà di adottare un diverso Titolo V (come è noto, infine approvato sul finire della legislatura, ma respinto dal referendum popolare del giugno 2006).
Tutto ciò ha condotto ad una situazione di evidente sostanziale disapplicazione del Titolo V per la durata dell’intera legislatura trascorsa, con una complessiva grave disfunzionalità istituzionale: basti qui accennare che la adozione della decisiva legge sull’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali è stata rimandata alle “calende greche” dall’apposita commissione di studio formata dal Governo, mentre la legislazione di questi anni di finanziamento dell’attività regionale ha sostanzialmente continuato nella pratica dei fondi settoriali; che le leggi di vera e propria attuazione del nuovo dettato costituzionale sembrano ridursi a tre (la cosiddetta legge La Loggia, la legge quadro in materia di elezioni regionali, la rinnovata “legge comunitaria”), mentre la rara approvazione di qualche “legge di cornice” o di riordino di un settore è stata significativamente sempre seguita dalla loro impugnativa per rilievi di costituzionalità da parte di molte Regioni, con esiti che lascio giudicare ad altri.
Al tempo stesso, troppi ricorsi governativi contro leggi regionali sembrano aver risentito delle più chiuse visioni “ministeriali”, qualche volta perfino più restrittive di quanto era stato già stato attribuito alle Regioni nell’ultima fase di attuazione del precedente Titolo V.
Ciò mentre non pochi Consigli regionali sembrano oscillare fra grandi dichiarazioni “federalistiche” e singolari prudenze a metter mano a riforme legislative, quando non si è assistito addirittura a singolari “fughe” dall’attività legislativa: pur senza generalizzazioni improprie e pur comprendendo le evidenti difficoltà dei legislatori regionali dinanzi a situazioni normative così incerte e ad atteggiamenti assai poco sensibili di Parlamenti e Governi (e magari anche a linee giurisprudenziali “prudenti” della Corte costituzionale), non può non notarsi che nell’ultimo quinquennio vi è stata nel complesso una produzione legislativa assai ridotta e poco “ambiziosa” di troppe Regioni.
Come dovrebbe esser noto, la Corte costituzionale ha affermato che il mutamento nella titolarità nelle competenze legislative che è intervenuto fra il Titolo V originario e quello attuale non ha prodotto l’abrogazione delle leggi esistenti, pur approvate da organi ormai divenuti incompetenti, ma invece permette solo che i nuovi titolari del potere legislativo possano modificare o abrogare la preesistente legislazione (principio della “continuità legislativa”). Naturalmente non è sempre agevole per il legislatore regionale sostituirsi alla legislazione statale preesistente, che non di rado incorpora anche elementi rimasti alla perdurante responsabilità legislativa dello Stato, ma certo la legislazione regionale approvata negli ultimi anni denota troppo spesso una straordinaria e ingiustificabile prudenza nell’opera di sostituzione alla preesistente legislazione statale.
D’altra parte si può anche richiamare la attenzione all’uso assai modesto (e spesso nel merito discutibile) che le Regioni ad autonomia ordinaria hanno fatto del loro potere statutario, pur tanto modificato dalla legge cost. n.1/1999. Addirittura, a distanza di oltre sette anni dalla profonda modificazione del sistema elettorale e dalla riscrittura dell’art. 123 Cost., cinque su quindici Regioni ad autonomia ordinaria non hanno deliberato le modifiche statutarie conseguenti, se non necessarie, al profondo mutamento della forma di governo regionale. Non a caso, una recentissima sentenza della Corte ha dovuto annullare una disposizione legislativa di una di queste Regioni, che disponeva in modo palesemente difforme dalle disposizioni statutarie del 1971, mai opportunamente revisionate, con conseguenti sicuri danni all’efficienza ed alla trasparenza dell’ attività regionale.
Tornando alle inattuazioni a livello statale, c’è anche da ricordare che non si è operato alcun nuovo tipo di trasferimento di funzioni amministrative ed apparati dallo Stato alle Regioni e che quindi neppure per questa via si è proceduto –come invece nel passato con i decreti delegati di trasferimento delle funzioni amministrative- a specificare gli elenchi di materie di cui all’art. 117 Cost. ed i loro reciproci rapporti.
Al tempo stesso, non si è data alcuna attuazione all’art. 11 della legge cost. n.3/2001, che potrebbe almeno permettere di sperimentare la parziale “regionalizzazione” della Commissione parlamentare bicamerale per gli affari regionali e quindi far valutare gli effetti che potrebbero prodursi sull’attività legislativa statale a causa dell’ inserimento nel procedimento legislativo nazionale di voci e di interessi regionali e locali.


4. E, invece, l’attuazione di una riforma come quella a cui ci stiamo riferendo esige un forte lavoro legislativo di integrazione-attuazione, possibilmente attraverso organi o procedure che coinvolgano l’intero ordinamento repubblicano. Basti qui ricordare solo due esempi, oltre alla urgente necessità di attuare l’art. 119 Cost., dei compiti ineludibili del legislatore nazionale: in complesso il Titolo V enumera circa cinquanta materie o gruppi di materie, moltissime delle quali reciprocamente interferenti, e solo la definizione dei loro diversi e rispettivi confini può ridurre in modo sostanziale le troppe attuali incertezze ed anche permettere di definire le materie residue, spettanti al legislatore regionale ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.; ma poi occorre anche farsi carico del fatto che fra le materie non enumerate vi sono anche tutte le materie tipicamente relative alle classiche attività economiche (per usare la tradizionale terminologia: industria, artigianato, agricoltura, pesca, commercio, turismo, ecc.) mentre finora non è evidente la competenza statale o la procedura che possa garantire in questi settori il primato delle scelte di politica economica nazionale.
Una riprova delle difficoltà sorte nell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione è costituito dall’aumento vistoso della conflittualità fra Stato e Regioni : solo per citare il dato più evidente, ormai da quasi cinque anni le sentenze della Corte costituzionale originate da ricorsi di costituzionalità dello Stato o delle Regioni in via diretta (sia riferiti a ricorsi sulle leggi appena approvate che a conflitti di attribuzione) sono state almeno pari a metà di tutte le sentenze della Corte. Ciò mentre nei vent’anni precedenti questi tipi di sentenze erano pari a circa il 22 per cento.
Non è certo questa la sede per una analisi, neppure sintetica, delle centinaia di sentenze della Corte adottate nel tentativo di far funzionare la riforma costituzionale (si è significativamente scritto che la Corte l’avrebbe “presa sul serio”), cercando di supplire , seppur con esiti differenziati da settore a settore, alla clamorosa inattuazione da parte del legislatore nazionale di quanto era (ed è tuttora) necessario per dare attuazione alle nuove disposizioni costituzionali.
Ciò che vorrei, seppur sommariamente, accennare sono però i limiti notevoli che la Corte incontra in questa sua funzione di supplenza, non potendo (né volendo) andare al di là del proprio ruolo istituzionale: la Corte è potuta intervenire in molti casi utilizzando i suoi strumenti ordinari, ma non di rado si è vista obbligata a disporre di notevole libertà interpretativa ed indotta ad utilizzare massicciamente le proprie tecniche decisionali di tipo additivo.
Nei casi più complessi, infatti, specialmente per cercare di rendere compatibili con il nuovo quadro costituzionale leggi statali troppo fortemente riduttive dei poteri regionali, la Corte ha utilizzato gli strumenti delle sentenze interpretative ed additive creati in precedenza dalla sua giurisprudenza, ma adesso necessariamente incidendo su una molteplicità di disposizioni; ciò è avvenuto, ad esempio, quando in non poche sentenze si è fatto largamente uso delle tecniche additive, specie a vantaggio di istituti di “leale collaborazione” fra Stato e Regioni (e ciò tanto più quando la Corte ha considerato legittimo che in alcuni casi, pur in materie di competenza regionale, lo Stato abbia ritenuto di dover esercitare determinate funzioni, essendo impossibile esercitarle a livello locale).
Già queste ultime sentenze, specie dove in pratica si è dovuto giungere –specie per evitare lacune dal difficile superamento- a vere e proprie “riscritture” delle leggi statali impugnate, hanno sollevato non pochi problemi (e non solo nella Corte). Ma le difficoltà maggiori per la Corte sorgono in un momento preliminare alla decisione sulle tecniche decisionali da usare, e cioè quando occorre individuare i confini delle diverse materie, molto spesso in assenza di ogni legislazione di specificazione e chiarimento, e tanto più là dove si verificano interferenze fra materie di competenza esclusiva statale e materie in varia misura di competenza delle regioni. Ma poi tutto è reso ancora più complesso dal fatto, spesso curiosamente ignorato dagli studiosi, che le leggi oggetto del giudizio di costituzionalità della Corte non corrispondono all’una o all’altra materia elencata, ma che le loro singole disposizioni spesso sono riconducibili a diverse materie o a “incroci di materie”, con quindi tutti i problemi della predominanza dell’una sull’altra o della necessaria considerazione di una compresenza di materie dalla differenziata titolarità.
Ma vi sono anche aree nelle quali la Corte non ha potuto che dichiarare la sua sostanziale impotenza, a cominciare da buona parte delle disposizioni costituzionali relative al finanziamento (che dovrebbe essere autonomo) di Regioni ed enti locali, dal momento che gli strumenti di cui dispone la Corte non le permettono di supplire a carenze legislative, specie ove siano in gioco le previsioni di bilancio. Ciò spiega, ad esempio,    l’apparentemente curiosa prudenza della Corte a far venir meno almeno alcuni nuovi fondi settoriali, certamente incostituzionali ma che nessuna sentenza della Corte può trasformare in un aumento dei finanziamenti regionali.
Nel medesimo settore il netto rifiuto della Corte di considerare come tributi regionali i tributi erariali il cui provento sia stato in precedenza in parte destinato alle Regioni senza peraltro configurare un vero tributo regionale deriva, invece, dalla inopportunità di aprire un’inutile area di “guerriglia istituzionale” di retroguardia e dalla necessità che,invece, si dia infine attuazione a quanto previsto dall’art. 119 Cost., là dove correttamente si distinguono dalle “compartecipazioni al gettito di tributi erariali” i “tributi propri”, che sono “stabiliti ed applicati” dalle Regioni seppur nel rispetto dei principi del sistema tributario.
Ma di questo altri parleranno.


5. Quanto in precedenza esposto permette di sperare, dopo il referendum del giugno 2006, che un diverso indirizzo politico davvero “prenda sul serio” il vigente Titolo V della costituzione e possa sostanzialmente rivitalizzarne il disegno complessivo, utilizzandone gli spazi di elasticità e senza necessità di ulteriori modifiche costituzionali almeno a breve termine.
Logicamente prioritaria appare la ricerca di moduli di confronto e di codecisione fra le istituzioni statali e quelle regionali e locali: non è, infatti, seriamente ipotizzabile che un processo istituzionale di sostanziale trasformazione delle nostre istituzioni in senso seriamente regionalista passi solo attraverso un egemone sistema politico nazionale. E certo occorre sperimentare anche a livello parlamentare la ricerca di una serie di intese legislative di fondo fra esponenti politici delle istituzioni nazionali, regionali e locali. In particolare, la ricerca di un sincero confronto fra le istituzioni nazionali, regionali e locali su questa preliminare azione di condivisa individuazione dei reciproci confini e raccordi potrà utilizzare l’esistente sistema delle Conferenze fra Stato, Regioni ed autonomie locali (scelta che –come vedremo- sembra essere stata fatta dall’attuale Governo), ma dovrebbe necessariamente anche passare tramite la sperimentazione dell’ integrazione –prima accennata- della Commissione parlamentare per le questioni regionali: infatti, il ruolo del legislatore nazionale è assolutamente decisivo per le innumerevoli specificazioni necessarie per mettere in moto il nuovo Titolo V, ma anche per la “ordinaria” produzione legislativa, che deve infine assumere stabilmente l’articolazione pluralistica della nostra Repubblica (quante sono le disposizioni incidenti sull’autonomia di Regioni ed Enti locali contenute negli allegati alle leggi finanziarie o nei vari provvedimenti legislativi “omnibus” !).
Gli essenziali ed urgenti punti di confronto sono anzitutto la definizione delle regole di garanzia della responsabile autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali all’interno della complessiva finanza pubblica, nonché la precisa definizione delle aree di responsabilità legislativa ed amministrativa dei diversi livelli istituzionali.
Temi tra loro profondamente annodati, quanto meno per il fondamentale motivo che, per il quarto comma dell’art. 119, il sistema di finanziamento autonomo di enti locali e regioni deve consentire a questi enti “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. Ma allora ciò significa che occorre avere un quadro almeno relativamente sicuro di quali siano le funzioni di questi enti e ciò presuppone che si abbia un quadro preciso dei reciproci confini fra Stato, Regioni ed enti locali (quanto meno al momento iniziale, prima cioè che intervengano le differenziate politiche regionali di allocazione di loro ulteriori funzioni agli enti locali o nuovi atti statali di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”).
Mentre siamo tutti assai curiosi rispetto alle linee per l’attuazione dell’autonomia finanziaria di regioni ed enti locali che sono in via di elaborazione, sull’altro versante vi sono indubbie novità, seppure per alcuni aspetti discutibili.
Sul tema, infatti, si sta cercando di intervenire quasi incidentalmente, tramite la disciplina di un particolare settore, per quanto importante, e cioè del conferimento delle funzioni amministrative agli enti locali in conformità al nuovo Titolo V : il recente disegno di legge del Governo (n.1464 del Senato),relativo a Delega al Governo per l’attuazione dell’art. 117, secondo comma, lettera p, della Costituzione e per l’adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla legge costituzionale n.3 del 2001, prevede –come è noto- di dare attuazione all’art. 117, 2 p, Cost. e all’art. 118, 1 e 2, Cost. In quest’ambito, peraltro, all’art. 4 si prevede anche una disposizione di delega per conferire alle Regioni le funzioni amministrative “nelle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione”, seppure in apparenza solo al fine di permettere il loro eventuale successivo conferimento agli enti locali.
Ma tutto ciò presuppone che si abbia una precisa configurazione delle aree legislative dello Stato e delle Regioni.
Ora, tutti noi sappiamo bene che nell’esperienza del nostro regionalismo la specificazione delle aree di competenza legislativa delle Regioni è largamente passata negli anni trascorsi attraverso le definizioni delle materie e sub-materie contenute negli atti di trasferimento delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, ma adesso la operazione istituzionale appare ben più complessa a causa delle grandi innovazioni introdotte sul piano del disegno costituzionale e per almeno due motivi di fondo: in primo luogo, il numero, l’importanza ed anche la relativa indeterminatezza delle funzioni esclusive dello Stato, molte delle quali di tipo trasversale rispetto alle tante materie di competenza delle Regioni, a loro volta non poco indeterminate, moltiplica i problemi dei confini fra le diverse materie, mentre nella disposizione di delega sul punto non emerge alcuno specifico criterio direttivo;   in secondo luogo, la mancanza ormai di un parallelismo fra funzioni amministrative e legislative della Regione può rendere largamente insufficiente la deduzione di un’area legislativa delle Regioni da un mero trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato.
In altri termini: si ipotizza di realizzare la massima operazione di specificazione del dettato costituzionale quasi incidentalmente e soprattutto senza alcuna previa determinazione di specifici criteri sul punto. Certo, poi tutta questa imponente delega legislativa viene affidata ad un procedimento di approvazione particolarmente partecipato (già a livello di proposta, si ha una vasta partecipazione endogovernativa, ma poi sugli schemi di decreto si prevede la necessità del parere del Consiglio di Stato, delle Commissioni parlamentari e soprattutto la necessità dell’intesa conseguita in sede di Conferenza unificata).
Solo due sintetiche osservazioni finali su questa proposta.
Da studioso di diritto costituzionale non posso non notare che appare vistoso lo svuotamento di potere del Parlamento nella procedura di specificazione del dettato costituzionale in un vastissimo settore, mentre questo potere si sposta a livello governativo e ministeriale, salva la necessità di conseguire sul punto una serie di accordi con la rappresentanza degli enti regionali e locali.
Dal punto di vista delle mie attuali occupazioni, mi permetterei di suggerire, quanto meno, la formulazione di una serie di principi e criteri direttivi adeguati al fondamentale oggetto che è implicito in questa delega legislativa.

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