Innanzitutto vorrei esprimere un apprezzamento per il lavoro dell’ISSiRFA. Non si tratta di un apprezzamento puramente formale, perché la SVIMEZ ha sempre seguito con grande attenzione l’attività di questo Istituto e per molti anni è stata utilizzatore privilegiato dei dati dell’Osservatorio.

Particolarmente interessante è la lettura che ne ha fatto il prof. Buglione. La costruzione di indicatori, sulla base della situazione attuale, costituisce un importante riferimento da cui partire per i confronti da fare mano a mano che si andrà avanti nell’attuazione della riforma. E, indubbiamente, questo richiederà un grosso sforzo da parte dell’Osservatorio, per adeguare gli indicatori alle nuove esigenze conoscitive. Occorreranno infatti specificazioni maggiori di quelle attuali per poter monitorare aspetti importanti della riforma quali la distinzione tra funzioni da finanziare integralmente e funzioni finanziate solo parzialmente e la differenza che ciò produce sotto il profilo della misura della perequazione.

Per quello che riguarda la misura dell’autonomia tributaria, il primo punto, già messo in evidenza dal prof. Buglione, è costituito dalla valutazione, rispetto alle aliquote base dei tributi, del maggior sforzo fiscale di ciascuna Regione. A questo riguardo vorrei aggiungere che alla valutazione quantitativa della maggiore aliquota applicata dovrebbe accompagnarsi anche la considerazione della destinazione di tali maggiori entrate per capire se il maggior sforzo fiscale sia o meno espressione di una effettiva autonomia di spesa. E’ il caso, citato nelle schede, delle maggiori aliquote che, in particolare le Regioni del Mezzogiorno, sono state costrette ad applicare per la copertura dei deficit sanitari. Ci può essere, poi, un’altra forma di sforzo fiscale determinata dalla necessità di applicare, nelle Regioni a più basso reddito e, quindi, minore base imponibile, aliquote più elevate per coprire spese che in altre Regioni del Paese trovano adeguato finanziamento nell’adozione delle aliquote base. Come SVIMEZ riteniamo importante che questa componente sia posta in evidenza, tenuto conto dei forti squilibri territoriali esistenti all’interno del nostro Paese, squilibri che sollevano la questione di come si possano conciliare, nella costruzione di un sistema di federalismo fiscale, il riconoscimento di una maggiore autonomia agli enti territoriali con il principio dell’uniformità di trattamento di tutti i cittadini.

Il principio dell’autonomia delle collettività ordinate in Ente territoriale è contenuto nell’art. 5 della nostra Costituzione e viene specificato, con riferimento alle problematiche di ordine finanziario, nell’art. 119, comma 1, di essa, dove si afferma: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa”.

Nella stessa Costituzione peraltro è stabilito, nell’art. 3, comma 1, il principio dell’uniformità di trattamento di tutti i cittadini.

I due valori così affermati possono entrare in conflitto tra loro quando la ricchezza delle collettività territoriali è diversa e diversa è la loro capacità di autofinanziarsi.

La percezione di questi limiti del federalismo fiscale in un Paese come l’Italia, che presenta profondi squilibri sociali ed economici al suo interno, fa emergere dubbi sulla volontà e aspirazione a proseguire nella via intrapresa.

Tuttavia, il rinvio nell’attuazione della riforma servirebbe solo ad eludere il problema di come conciliare autonomia e uguaglianza e, in concreto, di quanta autonomia è possibile riconoscere agli Enti territoriali in un sistema economico dualistico, senza ledere i diritti dei cittadini. E’ problema complesso, di difficile soluzione, ma determinante, come viene riconosciuto dai maggiori studiosi del federalismo fiscale, ai fini della sostenibilità del sistema che si va a costruire. Una riflessione al riguardo, che investa anche alcune scelte fatte dalla legge delega, sembra non solo opportuna ma necessaria.

La riforma infatti acquisirà consenso se nella sua costruzione ed attuazione prevarrà la considerazione dei diritti dei cittadini e della loro richiesta di servizi pubblici efficienti e di qualità, ovunque essi risiedano, piuttosto che la realizzazione delle legittime aspirazioni all’autonomia degli Enti territoriali.

Il problema del diverso trattamento finanziario dei cittadini residenti nelle regioni povere si pone in quanto, pur pagando le stesse aliquote rispetto al reddito degli abitanti delle altre regioni, non sono in grado di finanziare con tali entrate servizi pubblici comparabili a quelli del resto del Paese. Questa contraddizione viene superata attraverso meccanismi perequativi. Se la perequazione integra le risorse proprie delle regioni povere fino a concorrenza del fabbisogno, l’uguaglianza sul piano delle risorse è assicurata.

Nell’impianto di federalismo fiscale delineato dalla legge delega 42/2009, con una interpretazione forzata del comma 4 dell’art. 119 (1), non tutte le competenze delle Regioni sono ritenute meritevoli di perequazione. Per la rimanente parte la copertura dovrà essere assicurata attraverso la potestà tributaria autonoma degli Enti con evidente disparità tra zone ricche e zone povere.

Per stabilire se vi è violazione del principio di uguaglianza dei cittadini ha rilievo la misura di questa disparità nonché la qualità delle prestazioni che risultano sacrificate.

Sul primo punto si osserva che mancano precise indicazioni in merito al meccanismo con il quale opererà la perequazione prevista per le funzioni extra LEP, il cui fabbisogno non è coperto integralmente, ma appare del tutto evidente che se il livello di perequazione sarà basso si porranno seri problemi sul piano dell’uguaglianza sostanziale dei cittadini e dell’accettazione di tale disuguaglianza.

Quanto alle prestazioni che risulterebbero sacrificate (o finanziate attraversa un maggior sforzo fiscale delle comunità più povere) è stato osservato che il problema in realtà riguarda “solo” il 10% circa delle spese regionali, trascurando tuttavia di considerare che tali spese riguardano settori di intervento importanti ai fini dello sviluppo dei territori (agricoltura, artigianato, commercio, turismo, ect.). Su di essi si esercita la concorrenza tra regioni, con l’effetto che le regioni povere, che più avrebbero bisogno di tali interventi, avrebbero invece meno risorse da dedicare ad essi (e quelle più ricche maggiori risorse rispetto al fabbisogno). L’ampliamento del ventaglio di funzioni protette alle attività particolarmente importanti per l’attrattività del territorio (pensiamo ad esempio al turismo) sarebbe opportuno anche alla luce del contrasto che si verrebbe a determinare rispetto alle azioni che pure sono previste dalla Costituzione, al comma 5 dell’art. 119, ai fini della riduzione dei divari di sviluppo.

Sotto il profilo dell’autonomia di entrata ha rilievo la scelta della base imponibile da utilizzare ai fini del prelievo fiscale. Pochi dati esemplificano il problema. Le regioni del Mezzogiorno, consideriamo in questa sede le sole Regioni a statuto ordinario, rappresentano in percentuale del totale nazionale il 27,6% della popolazione, il 18,2% del prodotto e il 20,8% dei consumi delle famiglie. La minore quota rappresentata dal prodotto e dai consumi rispetto alla popolazione, alla quale è da riferire l’offerta di sevizi pubblici, indica che le entrate tributarie riferite a tali basi imponibili, saranno inferiori alla media nazionale, in misura maggiore per quel che riguarda il prodotto e minore per i consumi: a seconda dei tributi che si sceglie di utilizzare si avrà quindi la necessità di maggiori (o minori) trasferimenti perequativi, per la copertura del fabbisogno e di maggiori (minori) imposte o di più (meno) elevate aliquote di imposte per coprire le spese che rimangono a carico delle Regioni.

In sostanza, considerando un ammontare di entrate tributarie di 100 milioni di euro il gettito derivante dalle Regioni a statuto ordinario del Mezzogiorno sarebbe pari a 18,2 milioni di euro (81,2 milioni dal Centro-Nord), con base imponibile riferita al prodotto, e a 20,8 milioni di euro (79,2 dal Centro-Nord), con base imponibile riferita ai consumi: in quest’ultimo caso le Regioni del Mezzogiorno disporrebbero di risorse superiori del 14% rispetto alla prima ipotesi. In termini pro capite, il livello di entrate delle Regioni del Sud sarebbe pari al 58,3% delle entrate pro capite delle Regioni del Nord nel caso del prodotto e al 68,5% nel caso dei consumi. Le differenze rilevate tra un’imposizione sul prodotto e un’imposizione sui consumi sono maggiori nel caso che si adotti l’Irpef a causa della progressività dell’imposta sul reddito.

Questi aspetti erano stati oggetto di particolare attenzione da parte dell’Alta Commissione di studio sul federalismo fiscale presieduta dal Prof. Vitaletti che, dopo essere partita dall’ipotesi di proporre una sovrimposta Irpef, al termine dei suoi lavori, alla luce dei risultati delle elaborazioni effettuate sui dati dei redditi Irpef, non solo escluse la possibilità di introdurre la sovrimposta ma si espresse altresì per un uso contenuto di tale imposta.

Di ciò si era tenuto conto nella legge 42/2009. L’art. 2, comma 2, lett. cc), della legge delega aveva stabilito infatti che il sistema di finanziamento dovesse basarsi “Sulla previsione di una adeguata flessibilità fiscale articolata su più tributi con una base imponibile stabile e distribuita in modo tendenzialmente uniforme sul territorio nazionale, tale da consentire a tutte le regioni ed enti locali, comprese quelle a più basso potenziale fiscale, di finanziare, attivando le proprie potenzialità, il livello di spesa non riconducibile ai livelli essenziali delle prestazioni e alle funzioni fondamentali degli enti locali”.

Questa indicazione non sembra sia seguita nei decreti attuativi che si vanno approntando, nei quali vi è una predominanza della compartecipazione/addizionale Irpef come strumento di finanziamento del fabbisogno e di espressione dell’autonomia finanziaria degli Enti.

Le ultime elaborazioni, riferite all’anno di imposta 2008, mostrano nelle Regioni a statuto ordinario un prelievo netto Irpef per contribuente (che ha presentato la dichiarazione dei redditi) pari nel Centro-Nord a 4.013 euro e nel Mezzogiorno a 2.381 euro, con un divario del 41% circa. Nel Centro-Nord il reddito complessivo per contribuente ammonta a 20.510 euro (pressione fiscale riferita all’Irpef=19,6%); nel Mezzogiorno il reddito corrispondente è pari a 14.890 euro (pressione fiscale=16,0%).

Ciò che nella prospettiva del federalismo occorre valutare è la capacità dell’imposta come strumento di finanziamento degli Enti. Vale perciò il rapporto tra prelievo e numero di abitanti, che è pari a 2.950 euro nel Centro–Nord ed a 1.440 euro nel Sud d’Italia (livello inferiore del 51%).

Questi dati di gettito risentono di fenomeni di evasione fiscale, che però non modificano il divario rilevato. Infatti se si confronta il reddito complessivo, dichiarato ai fini Irpef, con il prodotto interno lordo di ciascun aggregato territoriale al 2008 si osserva che la percentuale calcolata per le Regioni a statuto ordinario del Mezzogiorno è pari al 51,2% e quella delle corrispondenti Regioni del Centro-Nord al 49,5%: non avrebbe quindi consistenza l’opinione prevalente che l’evasione fiscale si concentri al Sud. Anzi i dati regionali mostrano che sono il Lazio e il Veneto le regioni in cui più bassa è la quota di reddito dichiarata ai fini fiscali (46,7% per la prima e 47,6% per la seconda) mentre le regioni meridionali si attestano tutte su valori superiori al 49,3% (49,4% per la Calabria).

 

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Note

 

(1) La norma in questione non fa distinzione tra funzioni ma stabilisce che: “Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.

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