Sommario:


 
 
Premessa
I percorsi di riordino dei poteri locali devono essere letti in un’ottica temporale di lungo periodo.
Le spinte contingenti e le soluzioni dettate dall’emergenza di un ciclo economico sfavorevole non sono sempre destinate a stabilizzare un nuovo equilibrio; occorre, perciò, piuttosto guardare alle dinamiche più profonde che esse producono per vedere se siano effettivamente in grado di lasciare una traccia duratura nella vita dei corpi politici e amministrativi.
Per questo è bene mantenere una certa cautela di fronte al furore con cui le autorità centrali, a dispetto di un processo che sembrava inesorabilmente orientato a dare elasticità al sistema secondo un approccio globalmente federale, si sono spinte nell’ultimo biennio a ridisegnare secondo criteri fondamentalmente quantitativi la carta geografica degli enti locali. Un approccio in evidente contraddizione con lo spirito, quando non anche con la lettera della Costituzione che sembrava aver fatto propri, con la riforma del titolo V nel 2001, i canoni di un moderno ordinamento federalista.
Al sogno, al tempo stesso tecnocratico e giacobino, di riformulare gli assetti del potere locale secondo criteri di assoluta razionalità e omogeneità, oppongono resistenza molti fattori: la forte identità tradizionale delle comunità, le aspettative sociali di cui l’ente locale è caricato, non solo come puro erogatore di servizi ma come espressione di un progetto politico integrato, gli interessi consolidati e le paure profonde di chi vede sconvolti assetti relazionali consolidati per effetto di un vero e proprio ‘salto nel vuoto’.
Dobbiamo perciò chiederci quale possa essere l’approccio migliore, tra i tanti che possono immaginarsi, e quali strategie rispondano più opportunamente alla condivisa necessità di modernizzare seriamente le istituzioni locali.
Un confronto su questo punto con le dinamiche di un paese vicino, a saldissima tradizione federale e abituato storicamente a procedere con gradualità nelle proprie trasformazioni costituzionali, si dimostra particolarmente interessante, e per certi versi addirittura sorprendente, abituati come siamo ad associare alla Svizzera una certa idea di immobilismo e conservatorismo.
 
Le particolarità del comune svizzero
Occorre ricordare che esistono in Svizzera più tipi di comune: accanto al comune propriamente politico, vi sono altri aggregati di tipo comunale a vocazione specifica, come il comune borghese, il comune ecclesiastico e il comune scolastico. È naturalmente solo della prima di queste forme, quella a vocazione politica e amministrativa, che tratteremo in questa sede.
La precisa definizione della natura e dei poteri del comune inteso come ente locale è sostanzialmente rimessa al diritto cantonale e riveste forme molto diversificate, a seconda delle tradizioni di ciascuno di essi.
La costituzione federale si limita, per parte sua, ad una generale enunciazione di principio, con la formula secondo cui “L’autonomia comunale è garantita nella misura prevista dal diritto cantonale”(1), il che demanda alle sole autorità cantonali, e senza intervento diretto da parte dell'autorità federale, la protezione dell'ambito di libertà politica e di autonoma determinazione del proprio assetto consentito all'ente locale.
Per parte sua, la Confederazione assicura esclusivamente, nell'ambito della propria azione, che si tengano in debito conto le possibili conseguenze per i comuni e che siano prese nella debita considerazione le disomogeneità esistenti fra città, agglomerati e regioni di montagna(2).
Appare pertanto chiaro che i reali detentori dei poteri necessari all'attuazione di politiche di riordino territoriale sono esclusivamente i cantoni; siamo di fronte non già ad un’unica politica federale di riorganizzazione del potere locale, bensì ad una serie articolata e differenziata di legislazioni e politiche che differiscono anche significativamente da cantone a cantone.
Nel complesso, rileviamo che è in atto da circa un decennio un silenzioso ma inesorabile processo di fusione che ha portato, a partire dagli anni ‘90, alla progressiva scomparsa di numerose istituzioni comunali che pure sono al centro della struttura federale di questo paese. È sufficiente a questo proposito ricordare che ogni cittadino svizzero è prima di tutto cittadino di un comune, poi di un cantone e solo in terza istanza della Confederazione(3) e che lo stesso iter di cambiamento della cittadinanza comunale è tassato dai comuni nell’ambito delle procedure di ‘naturalizzazione. comunale’.
Nondimeno, l’evoluzione dimensionale dell’ente locale sta procedendo in misura significativa e senza ricorrere a massicce politiche di riduzione del genere di quelle praticate nel Regno Unito e in Germania.
I piccoli comuni elvetici si sono resi conto autonomamente della necessità del cambiamento e delle grandi difficoltà che comporta la gestione di compiti via via più complessi con strutture di dimensioni ridotte.
Diversamente dal nostro contesto, soprattutto per via della tradizione di politica come servizio, il comune elvetico riesce con difficoltà a trovare chi sia disposto a svolgere oggi funzioni di responsabilità all’interno delle amministrazione, essendo tali funzioni remunerate soltanto in una misura praticamente simbolica. Si produce così una sorta di ‘deficit democratico’ che porta al reperire con molta difficoltà – contrariamente a quanto avviene in genere in Italia – persone disposte all’assunzione delle funzioni elettive. Per questo, l’incentivo tutto sommato modesto che le autorità cantonali hanno offerto alla soluzione di scioglimento dei comuni all’interno di aggregati più ampi ha potuto produrre risultati molto consistenti.
A spiegare la ragione di una più facile, anche se sempre laboriosa, rinuncia dei cittadini al loro strumento amministrativo di maggior prossimità a beneficio di aggregati più ampi localizzati in sedi più distanti, vi è anche il fatto che la dimensione finanziaria di queste entità è comparativamente molto inferiore a quella dei nostri comuni, per cui essi dispongono di margini di manovra economica decisamente più ristretti rispetto al nostro ente locale.
Una parte cospicua dei servizi erogati dai nostri comuni fa inoltre capo, nel sistema elvetico, al livello intermedio cantonale, la cui autonomia non è stata sostanzialmente intaccata, né può esserlo in via autoritativa da parte della Confederazione per via delle robuste garanzie costituzionali di cui dispone. Si parla addirittura a questo proposito di una vera e propria ‘cantonalizzazione rampante’ a danno dei poteri locali.
Il comune svizzero resta nondimeno centrale nella cultura civica e politica di questo paese e il suo destino non è oggetto di attacco frontale, nei termini di una pressante valutazione dei costi sostenuti. È ancora prevalente, in Svizzera, forse anche in virtù di una situazione economica nettamente migliore della nostra, la considerazione complessiva dei costi e dei benefici del mantenimento di strutture comunali anche a scala ridotta, tenendo presenti soprattutto i fattori di democrazia e di partecipazione che la loro conservazione comporta.
C’è infine da considerare un fattore geopolitico di non secondaria importanza: i maggiori centri urbani hanno continuato la loro espansione e contribuiscono alla dinamica di aggregazione assorbendo i comuni più vicini. La costruzione degli aggregati metropolitani non avviene però ad opera del legislatore centrale, ma per mutamento graduale del paradigma partendo dal basso, soprattutto attraverso politiche e strumenti di pianificazione economica concertata dove tutti i soggetti vedono la loro parte concreta di interesse in termini di miglioramento dei servizi e di riduzione dei costi. Per dirla più semplicemente, la ridefinizione dei confini degli enti locali non è tema di scontro politico fra i partiti – considerata la prevalenza del modello consociativo – ma oggetto di ampia discussione sociale e di valutazione prioritaria degli interessi locali che cercano nel concreto delle politiche urbane la loro necessaria composizione.
Diversa natura presenta, invece, il problema nel contesto rurale, dove permane una forte parcellizzazione. Qui la questione si pone effettivamente in termini di oggettiva inadeguatezza e difficoltà a sostenere lo sforzo amministrativo e il ripensamento dimensionale si è imposto essenzialmente come necessaria condivisione di oneri e strutture per assicurare una miglior gestione dei servizi.
Si sono così prodotte fusioni ‘omogenee’, tra territori con caratteristiche simili, e fusioni con carattere di complementarietà, soprattutto tra centri urbani maggiori e comuni circostanti.
Le fusioni possono raggiungere anche un numero elevato di soggetti(4). Rivestono, invece, un carattere di eccezionalità gli interventi autoritativi o giurisdizionali(5).
In passato, la geografia degli enti locali elvetici aveva conosciuto scarse variazioni. Per questa ragione, la scomparsa nell'arco di appena vent'anni, tra il 1990 e il 2010, di oltre il 15% dei comuni costituisce oggi fattore di forte novità.
Mentre, però, alcuni cantoni hanno mantenuto un’assoluta stabilità numerica, altri hanno visto variare sensibilmente i loro assetti interni(6); solo in un caso, nel Cantone di Glaris, si sono verificati effetti macroscopi tali da stravolgere completamente l’assetto preesistente(7).
All'origine di questa evoluzione ci sono sicuramente i dati strutturali ricordati e la crescente complessità e specializzazione delle funzioni comunali, ma anche e soprattutto la crescita delle difficoltà finanziarie che si sono manifestati nell'ultimo decennio del novecento. Approfonditi studi hanno messo in evidenza, a questo proposito, i vantaggi concreti dell'approccio ‘fusionista’ inerenti al miglioramento qualitativo dei servizi e le considerevoli economie di scala che possono essere raggiunte(8).
 
 
Lo ‘stato di necessità’ come motore del ciclo riformatore italiano
Il riordino del sistema degli enti locali è stato affrontato in Italia, nel corso degli ultimi anni, seguendo linee particolarmente incoerenti e dettate soprattutto da logiche emergenziali di contenimento della spesa pubblica. Sono perciò passati in secondo ordine, nei processi di aggregazione che le trasformazioni demografiche ed economiche stanno naturalmente imponendo, tanto la salvaguardia dei principi di autonomia politica degli enti locali che il coinvolgimento responsabile delle comunità interessate.
L'urgenza, declinata nei termini di una sorta di ‘stato di necessità’ imposto dal risanamento dei conti pubblici, ha determinato il prevalere di logiche di decisione verticale, soprattutto ad opera del governo centrale, che si collocano agli antipodi dei principi costituzionali in materia di autonomia e decentramento.
La logica che ha presieduto a questi interventi è stata di natura prevalentemente ingegneristica e finanziaria. Si è giunti perciò all'adozione misure di associazionismo coatto oggettivamente poco adatte a coprire una gamma molto diversificata di situazioni quale quella che presentano le diverse regioni del paese. È soprattutto mancata, però, un’adeguata preparazione dei soggetti interessati e della cittadinanza alle conseguenze delle trasformazioni in atto.
Se la sensibilità dell'opinione pubblica, oggi pure tendenzialmente favorevole all'eliminazione degli sprechi e alla semplificazione della macchina amministrativa, sembra accogliere positivamente in termini generali questo processo, le reazioni che esso inizia a produrre, non soltanto all'interno del ceto politico amministrativo ma nei confronti della stessa cittadinanza, potrebbero mettere in forse in un prossimo futuro l’efficacia delle scelte effettuate.
Da qui l’interesse al confronto con altre possibili strategie d’integrazione del livello amministrativo locale, che non comportino il brusco inquadramento dell'azione degli enti locali in dinamiche associative complicate e talora anche controproducenti, ma che puntino più direttamente ad una semplificazione del quadro amministrativo attraverso la promozione di scelte volontarie di definitiva aggregazione tra entità oggettivamente non più in grado di fornire servizi di qualità a costi contenuti.
La brusca interruzione del processo di attuazione del federalismo fiscale avviato dalla legge n. 42 del 2009 e la rapida accelerazione dell'iter di riduzione del numero delle province riportano in primo piano la necessità di sperimentare modalità efficaci di aggregazione dei comuni, superando anche le stesse  logiche di puro esercizio aggregato delle funzioni apparentemente considerate finora come un ‘male minore’ rispetto alla frammentazione dei poteri.
Non ripercorriamo in questa sede le affannose vicende legislative che negli ultimi anni hanno visto dapprima il Governo e il Parlamento procedere nella direzione della soppressione dei consorzi tra enti locali, per poi imboccare la strada dell'esercizio obbligatorio attraverso l'unione dei comuni di un certo numero di funzioni e dello svolgimento dei principali servizi locali. La loro recente, puntuale e completa ricostruzione ad opera di attenti studiosi(9) ci esime dal ricostruire i diversi passaggi di questa sequenza legislativa.
A risentire in modo drammatico degli effetti della politica attuata secondo il modello top-down messa in atto in Italia negli ultimi anni erano state in un primo momento le realtà montane periferiche che hanno subito un attacco frontale attraverso lo svuotamento che si è operato nelle comunità montane. Proprio guardando a queste particolari situazioni, assume pregnanza il confronto con la realtà elvetica che vede insediata proprio nella zona montuosa del suo territorio una parte molto significativa della sua popolazione e che è riuscita a coinvolgerla nel processo di riordino senza passare attraverso le maglie di ferree imposizioni impartite da livelli superiori di governo.
L’osservatore elvetico, su questo terreno, rimane sicuramente sbalordito dalle scelte compiute dal nostro Consiglio dei Ministri che ha imposto un cammino a tappe forzate, disponendo in tempi e modi draconiani il passaggio all’esercizio associato di funzioni e servizi sulla base di criteri puramente demografici e identificando soglie astratte di aggregazione su basi puramente numeriche.
Non è oggettivamente visibile un disegno organizzativo, mentre avanzano soluzioni dettate da logiche esclusivamente finanziarie. È, a nostro giudizio, la nozione stessa di “dimensione territoriale ottimale e omogenea” a dover essere sottoposta a critica come criterio fondatore pressoché esclusivo del nuovo disegno istituzionale.
L'obbligo di devoluzione per tutti i comuni fino a 1.000 abitanti, come ha previsto il recente D.L. 6 luglio 2012, n. 95, di tutte le funzioni e di tutti i servizi pubblici che competono loro in base alla legislazione vigente all'unione dei comuni è l'espressione più evidente di questa forzatura eccessiva e dell’utilizzo anomalo della competenza trasversale del governo in materia di coordinamento della finanza pubblica come leva di attivazione del meccanismo di riforma.
Gli interventi legislativi degli anni ‘90, a partire dalla L. 142 del 1990, si erano limitati a proporre una panoplia di strumenti di gestione associata delle funzioni comunali, una sorta di offerta à la carte, con l'evidente intento di creare i presupposti per successive fusioni. L’offerta si è rivelata scarsamente appetibile. Diversamente da altri paesi, poi, il peso organizzativo degli enti locali e le loro resistenze al cambiamento hanno prodotto un oggettivo ritardo nella trasformazione che in altri Stati è proceduta con maggiore speditezza. I fattori di conservazione, legati anche alla valenza dell’ente locale come detentore di reali possibilità d’impiego e luogo di esercizio del potere, si sono rivelati prevalenti.
Sono, però, anche mancati seri incentivi alla trasformazione e non si è messo in conto che una sana politica di riordino può svilupparsi solo a condizione di essere sostanzialmente condivisa dalla cittadinanza, che vede soprattutto nel comune la propria prima e più diretta espressione istituzionale.
Ci sembra perciò interessante approfondire i riflessi di un processo riuscito di razionalizzazione realizzato in tempi relativamente brevi e, ciò che più conta, sulla base di scelte volontarie e condivise. Si parla di un altro modo, rispetto a quello generalmente conosciuto in Italia, di intendere l'autonomia locale e di gestire le naturali conflittualità che derivano anche da profonde incompatibilità tra enti magari vicini fra loro, ma non per questo necessariamente affini per vocazione economica, assetti sociali e tratti identitari.
 
 
Aspetti concreti del processo di fusione nell’ordinamento svizzero
Se il complesso ordinamento costituzionale elvetico rappresenta un capitolo spesso trascurato del diritto pubblico europeo, l'organizzazione dei poteri locali di questo paese federale è una pagina ancora meno nota ed esplorata.
Per questa ragione, nel momento in cui cresce il dibattito circa la riorganizzazione del potere locale in Italia sotto la spinta dell'urgenza di contenere la spesa pubblica, risulta utile capire le ragioni profonde per cui in questo paese il processo di accorpamento degli enti locali ha potuto prendere piede con insolita rapidità. Insolita perché, com'è noto, la Svizzera procede in genere con molta cautela, quasi con esasperante lentezza nelle trasformazioni istituzionali, essendo imbrigliata da procedure che richiedono la faticosa e complessa ricerca del consenso e lasciano comunque sempre nelle mani del popolo, attraverso lo strumento referendario, l'ultima parola.
Consapevoli però della necessità di ammodernare e riorganizzare il livello di governo più vicino alla cittadinanza, gli svizzeri hanno avviato un articolato sistema che ha consentito alla maggioranza dei cantoni, ben 16 su 23, in quanto detentori della potestà legislativa in materia, di predisporre un sistema di efficaci incentivi finanziari alla fusione tra comuni.
La principale differenza che si riscontra nell'approccio scelto dai diversi cantoni si manifesta nella preferenza, da parte di alcuni di essi, per modalità rigide di calcolo finanziario degli incentivi, mentre altri hanno predisposto sistemi di negoziato ad hoc.
Sorprende, peraltro, la rapidità con la quale si è riusciti a raggiungere senza particolari traumi un risultato che la politica italiana ha perseguito negli ultimi anni attraverso misure autoritative, accolte in genere negativamente dalle comunità locali interessate.
Guardando al problema dall’angolo visuale locale, ossia in relazione alla protezione giudiziaria di cui gode l'autonomia comunale, notiamo che i comuni hanno il diritto di ricorrere al Tribunale federale in difesa della loro autonomia. Tale garanzia giurisdizionale si estende anche ai comuni borghesi e agli comuni speciali.
Il grado di autonomia dei comuni è protetto, come si è visto, piuttosto debolmente dalla Costituzione federale e può essere ridotto dal legislatore cantonale, benché quest’ultimo sia tenuto a prestare la propria garanzia costituzionale al territorio e alla popolazione comunale. Risulta però difficile individuare concretamente il punto oltre il quale si può considerare violata la garanzia generale offerto dalla Costituzione federale e dalle costituzioni cantonali.
La minaccia di erosione che si manifesta attraverso il generale rafforzamento delle strutture burocratiche e amministrative statuali è reale. Ad essa i comuni possono contrapporre solo, in via di ricorso, la rivendicazione di intangibilità del loro pubblico potere come espressione ad un tempo di esercizio di autonomia e di esistenza dell'ente in quanto tale. Così pure essi possono far valere in quella sede i loro diritti specifici in quanto titolari di un patrimonio amministrativo proprio(10).
 
 
La fusione di comuni
Per fusione di comuni si intende la modifica territoriale che comporta la sparizione di almeno una delle entità oggetto di fusione. Il processo può avere luogo per assorbimento di una entità minore rispetto ad una più  grande che assume la titolarità delle posizioni giuridiche attive e passive di quella che scompare, ovvero per unione di diverse entità che scompaiono per dare vita ad un nuovo soggetto di diritto comunale.
Al diritto elvetico non sono estranei anche processi di creazione di comuni unitari che comportano l'accorpamento in un’unica unità di comuni borghesi con i corrispondenti comuni politici, ma non ne facciamo oggetto di trattazione in queste pagine.
Stando ad un rapporto del 2010, già 16 cantoni avrebbero adottato misure di incentivazione finanziaria della politica di fusione comunale; si tratta precisamente dei cantoni di Zurigo, Berna, Lucerna, Glaris, Friburgo, Solera, Schaffusa, San Gallo, Grigioni, Argovia, Turgovia, Ticino, Vaud, Vallese, Neuchâtel e Giura.
Là dove sono stati adottati parametri e metodi oggettivi di calcolo per la concessione dell'aiuto finanziario alla fusione(11), gli enti locali sono stati messi nella condizione di poter conoscere in anticipo e con esattezza l'ammontare delle sovvenzioni loro accordate in caso di conclusione positiva dell'iter di accorpamento.
Non potendo dare conto nei minimi particolari di ogni singola realtà, si è scelto di esaminare più dettagliatamente l'opzione di un cantone alpino confinante con l'Italia, il Canton Vallese. La scelta è dettata dalla considerazione delle notevoli similitudini territoriali e di una buona comparabilità dal punto di vista dimensionale con la confinante Regione della Valle d'Aosta. Questa piccola regione a statuto speciale è d’altra parte legata allo stesso Cantone, oltre che da affinità culturali, da concreti meccanismi collaborativi(12) e dal perseguimento di una politica di cooperazione transfrontaliera che si è tradotta anche nella comune partecipazione a progetti finanziati dall'Unione europea.
La base legale specifica del processo di fusione dei comuni nel Canton Vallese è costituita dall'Ordinanza sulle fusioni di comuni dell'8 giugno 2005.
Il cantone concorre innanzitutto al sostegno delle spese per la realizzazione dello studio preliminare alle operazioni di fusione (fino ad un massimo di 30.000 Frs.). Si è quindi fissata una soglia di aiuto finanziario calcolata per ogni comune in relazione al numero di abitanti residenti e calcolata su una scala decrescente (tra 1200 e 600 Frs.) a seconda delle dimensioni del Comune. Ulteriori meccanismi contribuiscono poi a definire la somma complessiva attribuita alla nuova entità comunale, somma che non può comunque essere inferiore a 300.000 Frs. né superare 1.000.000 di franchi svizzeri.
L'aiuto complessivamente attribuito all'insieme dei comuni interessati all'operazione non può essere inferiore all'ammontare che gli stessi comuni hanno percepito nell'ultimo quadriennio a titolo di perequazione finanziaria intercomunale.
Ulteriori sovvenzioni sono poi previste a titolo di compensazione per il deficit di infrastrutture che si può produrre in uno o nell'altro dei comuni coinvolti nell'operazione; è prevista anche la possibilità che il Parlamento cantonale (Grand Conseil) conceda un contributo straordinario sino ad un milione di franchi svizzeri a fronte di casi particolari.
Sono, infine, state introdotte clausole di particolare favore attraverso coefficienti che moltiplicano all’occorrenza la sovvenzione cantonale, nel caso la fusione coinvolga più di tre comuni.
In termini generali, è interessante osservare come non si sia registrata, contrariamente a quanto sarebbe stato naturale aspettarsi, una dominanza di fusioni tra comuni di ridotta estensione e debole popolazione.
Non c'è stato, infatti, un rapporto diretto tra la dimensione media dei comuni e la riuscita delle operazioni di fusione. In altri termini, il numero di abitanti, la popolazione dell'ente e il livello qualitativo delle sue prestazioni non sono, almeno in termini statistici, decisivi rispetto al numero di fusioni riuscite.
Dopo cinque anni di applicazione della politica di fusione sulla base della citata ordinanza cantonale, i comuni si sono ridotti da 163 che erano nel 2000 a 141, con una popolazione media di 2.180 abitanti, che resta ancora sensibilmente al di sotto della media elvetica che si aggira intorno ai 3.000 abitanti.
Tra i fattori di resistenza al mutamento va ricordato anche che il Canton Vallese è attraversato al suo interno da una frontiera linguistica che divide l'Alto Vallese (di lingua tedesca) dal Basso Vallese (di lingua francese); si registra altresì una discrepanza di tipo dimensionale tra le due aree, essendo la parte germanofona caratterizzata da un più alto numero di entità locali che presentano una popolazione media di poco superiore a 1.100 abitanti ciascuna. È proprio in questa parte della regione che si è registrato il maggior numero di accorpamenti, in genere fra entità particolarmente ridotte.
Si osservi innanzitutto con attenzione il ruolo svolto dal cantone nel processo di fusione.
Esso si è manifestato in termini non solo finanziari ma anche di sostegno politico, giuridico o logistico. Si tratta in un certo senso di un ruolo di ‘accompagnamento’, particolarmente apprezzato dagli amministratori locali. Questo appoggio non si manifesta, peraltro, in modo particolarmente visibile; ciò in quanto il cantone ha uno scarso margine di manovra, quanto a poteri formalmente riconosciuti, nel sostegno della fusione, ma soprattutto perché si considera prevalente l'assunzione di responsabilità e di decisione da parte della comunità locale e dei suoi eletti.
Un recente studio(13) ha messo in evidenza come l'aiuto finanziario cantonale non abbia avuto in realtà un ruolo decisivo nella decisione di intraprendere il processo di fusione. Sono con ogni probabilità altri fattori, anche di natura psicologica oltre che funzionale, a rivelarsi decisivi.
Poiché la decisione finale, come si è detto, è comunque subordinata all'esito positivo di un voto popolare, entrano fortemente in gioco elementi di diversa natura, tra cui il timore di una perdita di identità. Elementi apparentemente secondari come il nome del comune o il colore del suo stemma assumono nel dibattito popolare talvolta un peso proporzionalmente molto maggiore. Nell’approfondirsi del dibattito e nell’approssimarsi dei momenti di decisione vengono però focalizzati progressivamente tutti i principali problemi: la localizzazione dei centri amministrativi di servizio, la solidità finanziaria e la perennità degli enti in costruzione.
Non va dimenticato d'altra parte che la Svizzera ha conosciuto anche situazioni drammatiche a livello dei propri poteri locali, con il manifestarsi di acuti dissesti finanziari che hanno condotto al fallimento di alcuni comuni(14).
Per questa ragione, la sensibilità collettiva sul tema finanziario appare particolarmente alta.
Tra i motivi di particolare preoccupazione emerge, per quanto riguarda i meccanismi di perequazione, la richiesta di certezze. Ai fini di una buona riuscita dell'operazione, più che la corresponsione di benefici immediati, appare decisivo il peso che potrà avere un solido meccanismo di compensazione delle perdite anche nel medio e lungo periodo.
È interessante notare come l'intero processo si sia sviluppato in assenza di obblighi giuridici a procedere in tale direzione. Il Parlamento cantonale ha puntualmente ribadito di non avere intenzione di imporre alcuna fusione. Proprio per questa assenza di vincoli imperativi, i poteri pubblici hanno sviluppato un apparato di sostegno tecnico all'operazione, esemplificato in un dossier molto articolato e completo di informazione circa i diversi aspetti che devono essere affrontati.
Le stesse autorità cantonali, e in particolare i rappresentanti del governo, non hanno mai fatto mancare la loro presenza in occasione delle sedute informative nei confronti della popolazione locale. Questo tipo di sostegno è particolarmente apprezzato soprattutto dagli eletti locali, più direttamente coinvolti dal punto di vista delle responsabilità nell'attuazione della politica di aggregazione.
Benché la politica finora attuata abbia già dato apprezzabili risultati, gli osservatori più attenti concordano sulla necessità di prospettare in futuro un quadro più chiaro della politica di fusione che si intende attuare, ai fini di una positiva e armoniosa riorganizzazione territoriale.
Qualche considerazione meritano ancora alcuni fattori che hanno contribuito all’accelerazione dell’intero processo: innanzitutto l’esistenza di un ceto politico locale assolutamente non professionale, a cui è riconosciuta una rimunerazione minima, se non addirittura del tutto simbolica, a fronte della carica pubblica rivestita.
Si noti anche che molti enti hanno un bassissimo numero di dipendenti pubblici, mentre alcuni servizi locali sono tuttora assicurati da robuste strutture comunitarie che non rivestono carattere amministrativo pubblico.
 
 
Un allineamento di scala e un tentativo di comparazione a livello regionale con una regione italiana confinante
Il confronto diretto di questo processo e dei suoi meccanismi con la realtà italiana nel suo complesso non è possibile. È necessario dunque riportarsi a una scala inferiore, alla ricerca di una termine di confronto che presenti utili analogie e che abbiamo individuato nella limitrofa Regione della Valle d’Aosta.
La Valle d'Aosta, regione di montagna al pari del Vallese con il quale confina direttamente lungo la dorsale alpina, presenta anch’essa un numero elevato di comuni rispetto alla popolazione, di cui una parte molto significativa è costituita oggi da realtà demograficamente deboli. La Regione autonoma valdostana è inoltre detentrice di poteri legislativi comparabili a quelli di cui dispone il vicino cantone.
Lo Statuto speciale conferisce, infatti, alla Regione, all’art. 2, lettera b), la competenza legislativa primaria in materia di “ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni”(15).
La problematica di unificazione territoriale dei piccoli enti locali è stata finora sostanzialmente elusa, in questa Regione, per una serie articolata di motivi.
Innanzitutto ha pesato negativamente, in termini storici, l’esperienza dell’accorpamento forzato effettuato durante il periodo fascista. Fu proprio il Decreto legislativo luogotenenziale n. 545 del 7 settembre 1945, con cui si istituì la Circoscrizione autonoma della Valle d’Aosta, a ripristinare nella loro dimensione storica i comuni originari. È ricorrente, in tutte le circostanze in cui sono finora state evocate possibili politiche di accorpamento, il richiamo a questa vicenda ‘liberatoria’ concomitante proprio con il momento iniziale dell’esperienza autonomista moderna.
Si deve poi sottolineare come, rispetto agli enti locali delle altre parti della catena alpina (ad eccezione delle province autonome di Trento e Bolzano), gli enti locali valdostani abbiamo finora goduto di condizioni di finanziamento particolarmente favorevoli, a cui si sono aggiunte politiche di incremento del patrimonio dei loro beni immobili(16). Dal punto di vista finanziario è infatti stato riconosciuta loro, nell’ambito del rafforzamento del Sistema delle autonomie locali(17), una fortissima compartecipazione finanziaria derivata(18).
La particolare configurazione del territorio, con la ripartizione di una parte considerevole di esso in lunghe vallate laterali e ad elevate altitudini, porta a considerare necessaria un’articolazione particolare anche del governo locale, malgrado gli effetti negativi dello spopolamento montano.
La denatalità, l’invecchiamento della popolazione e i sovraccosti eccessivi danno comunque attualità al dibattito, spinto anche dalla necessità di dare applicazione a norme di statali che impongono decisioni in tempi rapidi.
Le iniziative assunte dal legislatore regionale hanno puntato essenzialmente ad incentivare l’esercizio in forma associata di funzioni e servizi, escludendo finora misure coercitive di fusione.
Il meccanismo originariamente individuato dalla Regione prevede che mediante deliberazione della Giunta regionale(19) siano individuate le funzioni di competenza comunale da esercitare obbligatoriamente in forma associata attraverso le Comunità montane(20). Questo livello intermedio di governo locale ha perciò assunto i caratteri di strumento privilegiato di erogazione di servizi su scala intermedia. Alcune significative attività sono inoltre oggetto di gestione obbligatoriamente associata in altri ambiti territoriali omogenei(21).
Recependo parzialmente le indicazioni del legislatore nazionale, il Consiglio regionale ha successivamente stabilito che, per rispondere alle esigenze di adeguatezza nell'esercizio delle funzioni comunali, la Giunta regionale definisca  le  “dimensioni  demografiche  minime  o  eventuali altri standard minimi di riferimento, per lo svolgimento di tali funzioni a livello di singolo Comune”(22). A seguito di questa determinazione, il Consiglio comunale dei Comuni interessati delibera l'esercizio in forma associata, attraverso le Comunità montane o le altre forme di collaborazione previste dalla L.R. n. 54 del 1998, delle funzioni che non raggiungono gli standard minimi.
La Regione si è riservata l’esercizio, finora mai avvenuto, di un potere sostitutivo nel caso di inutile decorso del termine ad adempiere e di mancata osservanza della successiva diffida, da parte del Presidente della Regione attraverso un commissario ad acta.
Questi vincoli si sono ulteriormente precisati, per i Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, nella forma dell’obbligo di esercitare in forma associata, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni comunali individuate dalla Regione. L’eventuale inottemperanza è sanzionata dall’applicazione di una riduzione del 30% dei trasferimenti regionali senza vincolo settoriale di destinazione  e il rispetto dei termini costituisce indice di virtuosità che permette un incremento di risorse destinate a investimenti(23).
Come si vede, la linea perseguita ha finora ‘esorcizzato’ l’idea di fusione degli enti, per privilegiare l’opzione associativa nelle forme delle Comunità montane, di ambiti territoriali omogenei (ATO) o di appositi convenzionamenti. Non hanno preso corpo, invece, opzioni di unione dei comuni.
Le misure recentemente adottate dal Governo, e in particolare quelle contenute nel D. L n. 95 del 2012 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, più noto come Spending Review), ripropongono ora con urgenza il problema.
Per questo, l’analisi dell’esperienza vallesana, di cui abbiamo cercato di individuare, con questa ricognizione complessiva, le ragioni del successo soprattutto in termini di consenso raggiunto, potrà rivelarsi molto utile. La trasposizione meccanica del modello è oggettivamente improponibile, stanti le notevoli differenze storiche e strutturali fra i due ambiti. Ciò nonostante, alcune delle misure e delle procedure esaminate potrebbero essere eventualmente utilizzate come termine di comparazione dando spunto ad utili sperimentazioni.
La via perseguita sul versante elvetico appare nettamente più risolutiva e meno complessa, accompagnandosi ad un effettivo coinvolgimento partecipativo nella decisione da assumere, procedura questa che non risulta spesso seguita nel contesto italiano. Anche da questo punto di vista, la specialità del contesto valdostano, l’unico in cui si sia data concreta attuazione e con successo – proprio sulla base del modello elvetico – all’esperienza del referendum propositivo a carattere legislativo(24) dovrebbe indurre ad una possibile osmosi nell’approccio alla tematica del riordino del livello locale.
Attraverso percorsi diversi si sta peraltro giungendo, almeno in parte, a risultati comparabili a quelli conseguiti dai vicini svizzeri, innalzando notevolmente la soglia di attuazione di determinate funzioni essenziali. Sarebbe a questo punto utile comparare anche, sotto il profilo dell’efficienza amministrativa e della riduzione dei costi, i risultati raggiunti da una parte e dall’altra.
In una valutazione d’insieme si deve osservare come incida significativamente, soprattutto nelle esperienze italiane, l’incertezza rispetto all’assetto finale. È di fondamentale importanza che amministratori e cittadini conoscano bene l’approdo e abbiano strumenti utili a valutare in termini finanziari e gestionali i pro e i contro dell’esperienza. Difetta ancora, al momento, una seria e sperimentata metodologia in tal senso.

 
 
(1) Formula riportata dall'articolo 50, c. 1.
(2) Art. 50, c. 2 e 3, Cost.
(3) Secondo l’art 38 della Costituzione federale infatti “Ha la cittadinanza svizzera chi possiede una cittadinanza comunale e la cittadinanza di un Cantone”.
(4) Come nel caso della Valle di Anniviers, nel Canton Vallese, dove si sono uniti ben sei diversi comuni fra loro.
(5) Come nel caso della decisione del Parlamento del Vallese a seguito del rifiuto del Comune di Ausserbinn di aderire alla fusione con il vicino comune di Ernen.
(6) Con riduzioni nell’arco di un decennio, per esempio, del 23% nel Giura, del 30% nel Canton Ticino e del 25% nel Cantone di Friburgo.
(7) Questo Cantone contava nel 2000 29 comuni, che si sono ridotti a 3 per effetto di una votazione popolare in sede di Landsgemeinde.
(8) R. Steiner, Interkommunale Zusammenarbeit und Gemeindezusammenschlüsse in der Schweiz. Erklärungsansätze, Umsetzungsmöglichkeiten und Erfolgsaussichten, Haupt, Berna, Stoccarda, e Vienna, 2002.
(9) Per tutti: P. Bilancia, L’associazionismo obbligatorio dei comuni nelle più recenti evoluzioni legislative, nella nota del 1° Agosto 2012 su www.federalismi.it.
(10) A. Auer, G. Malinverni, M. Hottelier, Droit constitutionnel suisse, Vol. 1, L’Etat, Berna, 2006, p. 101.
(11) Berna, Friburgo, Solera, Vaud, Vallese, Neuchâtel e Giura.
(12) Il Conseil Valais-Vallée d'Aoste du Grand-Saint-Bernard è lo strumento di concertazione intergovernativo istituito per l’armonizzazione delle politiche delle due regioni in materia di urbamistica e ambiente, cultura, sanità istruzione e ricerca scientifica, trasporti, comunicazione infrastrutture ed energia, economia, agricoltura, turismo e popolazioni frontaliere.
(13) M. Guetl, Incitations cantonales aux fusions de communes en Suisse et en Valais, Chaire de Finances publiques, Working paper dell'IDHEAP (Institut de hautes études en administration publique), 2011.
(14) La legge federale sull’esecuzione per debiti contro i Comuni e altri enti di diritto pubblico cantonale del 4 dicembre 1947 consente infatti l’applicazione ai Comuni, ma non ai Cantoni, dell’esecuzione per debiti in base alla legge federale sull’esecuzione e sul fallimento. I Cantoni intervengono in questo caso come autorità di vigilanza. Ai Cantoni stessi la presente legge non è applicabile.
(15)Per effetto della modificazione apportata dall’art. 1 della legge costituzionale 23 settembre 1993, n. 2. Il testo previgente recitava soltanto "circoscrizioni comunali".
(16)La legge regionale n. 27 del 27 giugno 1986 aveva previsto, infatti, robusti interventi finanziari proprio allo scopo di consentire la creazione e l’incremento di un patrimonio comunale immobiliare.
(17) Legge regionale n. 54 del 1998.
(18) La legge regionale 20 novembre 1995, n. 48 (Interventi regionali in materia di finanza locale) prevede, infatti, all’art. 6 che la Regione destini il novantacinque per cento dei nove decimi del gettito dell'imposta sul reddito delle persone fisiche che le competono in base al riparto fiscale con lo Stato, rilevato in base al penultimo esercizio finanziario della Regione antecedente a quello della ripartizione dei fondi.
(19) Da adottarsi d’intesa con il Consiglio permanente degli enti locali.
(20) L.R. n. 54 del 1998, art. 84. Le funzioni già esercitate obbligatoriamente in forma associata attraverso le Comunità montane concernono: organizzazione e gestione di centri estivi per minori; organizzazione e gestione di soggiorni climatoterapici per anziani; organizzazione e gestione del servizio di teleassistenza e telesoccorso per anziani e inabili;  gestione del servizio contabile relativo al personale dei Comuni compresi nel territorio comunitario; gestione  dei  servizi  connessi  all’analisi  qualitativa  delle  acque destinate  ai  consumi  umani; servizi socio-assistenziali per anziani; funzioni  attribuite ai Comuni   in  materia  di  insediamenti  produttivi  e   in forza dell’istituzione  dello sportello unico  per  le  attività  produttive; funzioni  relative all’installazione  e  l’esercizio  di impianti di  radio  telecomunicazioni.
(21) Si tratta in particolare del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani (in esecuzione della l.r. 3 dicembre 2007, n. 31), del servizio idrico integrato (in attuazione della l.r. 8 settembre 1999, n. 27, della l.r. 18 aprile 2008, n. 13 e del piano regionale di tutela delle acque)  e delle competenze degli enti locali in materia di soppressione, istituzione, trasferimento di sedi, plessi, unità delle istituzioni scolastiche autonome, di scuola materna, elementare e media (in  esecuzione  dell’art.  7  della l.r. 26 luglio 2000, n. 19).
(22) L.R. n. 40 del 2010, art. 10.
(23) L.R. n. 30 del 2011, art. 11. L’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni (ai sensi del comma 2, art. 11, della l.r. 30/2011) riguarda i seguenti ambiti: procedure di affidamento sopra soglia di lavori, servizi e forniture; servizi di asilo nido e prima infanzia; commissione di vigilanza; ufficio di segreteria comunale.
(24) Il 18 novembre scorso si è tenuto per la prima volta con esito positivo in Italia un referendum propositivo regionale.

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