Avvertenza: Relazione tenuta, il 15.12.2005, nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Teramo, nell'ambito del seminario su "Le fonti primarie statali" organizzato dai docenti del locale dottorato di ricerca in "Diritto costituzionale e diritto costituzionale europeo".

 

 

SOMMARIO:

 

1. Gli attributi tradizionali della legge: formalità, ordinarietà, primarietà.

2. Il ruolo della legge nell’insieme delle fonti: primi rilievi di fatto e auspici.

3. La posizione della legge statale nell'ordinamento italiano, oggi: rispetto alle leggi regionali.

4. La “posizione” della legge statale nell’ordinamento italiano, oggi: rispetto alle fonti comunitarie.

5. Quale ruolo per la legge statale ordinaria?

 

 

 

1. Gli attributi tradizionali della legge: formalità, ordinarietà, primarietà

Nel titolo della mia conversazione ho voluto distinguere “posizione” e “ruolo” della legge statale nel nostro ordinamento, intendendo per “posizione” il posto o il grado o lo spazio che occupa nel c.d. sistema delle fonti e per “ruolo” la funzione che essa svolge nella dinamica dell’ordinamento normativo. Insomma una distinzione tra statica e dinamica della legge statale. Ma, come si vedrà, i due concetti sono legati e complementari. Anche le leggi formalmente costituzionali sono leggi statali; ma qui mi occupo soltanto della legge statale ordinaria, la c.d. fonte primaria dell’ordinamento. E primaria lo era davvero in un passato ormai lontano. Era anzi, se non l’unica, la fonte per antonomasia. La subordinazione ad essa di ogni altra fonte attizia e il ruolo addirittura marginale, se non eventuale, della consuetudine erano scolpiti nelle preleggi del 1942. Ma la legge non era solo al vertice dell’insieme delle fonti, era anche al centro, nel senso che tutto l’insieme ruotava intorno ad essa. Non solo l’efficacia tipica formale della legge la rendeva capace di abrogare, sostituire, modificare qualsiasi altro atto normativo (c.d. forza attiva) e di resistere all’abrogazione, deroga, sostituzione, etc. da parte di qualsiasi altro atto normativo (c.d. forza passiva), ma ogni altra fonte doveva misurarsi sulla legge, doveva avere la legge come parametro di riferimento nel preciso senso che su di essa trovava ragion d’essere e fondamento giuridico.

La legge, insomma, e solo essa, poteva contenere le norme sulla normazione.

Per la verità, alla legge formale, alla legge del Parlamento, sotto quest’ultimo profilo (ma non solo), dovrebbero essere assimilati quegli atti con forza di legge, riconosciuti e disciplinati fin dalla vecchia legge del 1926: e difatti è in un decreto legislativo (delegato) con cui è stato adottato il codice civile, che si trovano le disposizioni sulla legge in generale (o preleggi).

Ma trascuro qui i problemi di tale assimilazione: suppongo cioè che la legge e gli atti governativi aventi forza di legge possano essere senz’altro assimilati (si pensi alla giurisprudenza costituzionale secondo la quale la “riserva (assoluta) di legge” possa ugualmente essere assolta tanto dalle leggi formali  (parlamentare) quanto dagli atti aventi forza di legge. Il discorso li coinvolge entrambi e quindi non mi occupo della (pur problematica) distinzione.

Ma la legge, pur intesa in tale più comprensivo significato, non è più al di sopra e al centro del c.d. sistema delle fonti.

Come tutti sappiamo, la legge è aggredita dall’esterno e corrosa dall’interno.

Per un verso dalla normazione comunitaria, per l’altro dalla normazione che, in amplissimi termini, potremmo denominare di autonomia.

Si tratta di un’aggressione talmente virulenta che occorre domandarsi su quale sia, oggi, ancora, la posizione della legge formale (parlamentare), ordinaria, primaria.

Sotto il primo aspetto (legge formale, ossia parlamentare), c’è poco da dire: bene o male, con minori o maggiori garanzie, teoricamente, è sempre il Parlamento a dire la prima o l’ultima parola.

È un discorso certamente interessante – con riferimento alla forma di governo parlamentare, alla sua crisi, al sistema proporzionale o maggioritario di elezione, al sistema multipolare o bipolare – ma è un discorso già ripetutamente svolto e affrontato, ma che esce dai limiti della mia conversazione.

Sotto il secondo aspetto (legge ordinaria), c’è qualcosa da dire.

In qual senso è ancora ordinaria la legge parlamentare? E il termine “ordinaria” è già ambiguo: può riferirsi sia, in negativo, alla distinzione dalle leggi costituzionali, sia, in positivo, alla normalità, semplicità e uniformità tipica (ordinarietà) delle leggi in genere rispetto a qualsiasi altro atto normativo. In questo, il termine (e la nozione) sembra coniugarsi con quello (e con quella) di legge formale = sarebbe ordinaria la legge formale (o parlamentare).

Ma questa equazione è, comunque sia, incrinata dalla sovrabbondanza degli atti governativi aventi forza di legge.

Sotto il terzo aspetto (legge o fonte primaria), il discorso si complica ineludibilmente: la legge formale o parlamentare (e i suoi omologhi: gli atti con forza di legge) non è più – lo sappiamo tutti – né legge primaria, né fonte primaria.

Ma, prima di affrontare questo tema centrale che investe la precisazione della “posizione” della legge statale nel nostro ordinamento, occorre ancora tornare sull’ “ordinarietà” della legge. Oltre che nei due ricordati significati (distinzione dalla legge costituzionale; normalità, semplicità e uniformità tipica rispetto agli altri atti normativi) ve n’è un terzo, più pregnante e più profondo che non può trascurarsi. La legge formale parlamentare è “ordinaria”, in quanto l’ordinarietà è l’essenza stessa della legislazione, è necessaria per il mantenimento e lo sviluppo della Costituzione (del programma costituzionale). Le manifestazioni della funzione legislativa non sono eccezionali, ma appunto normali, ordinarie, perché, come ebbi a scrivere altra volta, “la necessità …. di rendere ordinario lo straordinario, duraturo l’istantaneo, normale l’eccezionale è alla base del concetto di legislazione”.

Mi piace al proposito ricordare Rousseau: “Col patto sociale noi abbiamo dato l’esistenza e la vita al corpo politico: si tratta ora di dargli il movimento e la volontà con la legislazione”. Insomma la funzione legislativa consiste propriamente nel mantenimento e nello sviluppo (svolgimento) della Costituzione, ossia dei valori fondamentali di cui è sostanziato l’ordinamento, tal che limiti positivi o negativi alla funzione legislativa possono derivare soltanto dalla Costituzione.

Si spiega in tal modo perché, di là dalla ricerca della “posizione” della legge nel c.d. sistema delle fonti – sempre che un tale sistema effettivamente sia configurabile – il “ruolo” della legge nell’ordinamento è quello di essere la necessaria prosecuzione – attuazione del programma costituzionale. Si spiega, altresì, come, pur in presenza, come si vedrà, di una crisi profonda della legge, ad essa non si esita a riconoscere ancor oggi una qualche centralità come modello di riferimento all’interno dell’insieme delle fonti.

 

2. Il ruolo della legge nell’insieme delle fonti: primi rilievi di fatto e auspici

Va detto subito che l’insieme delle fonti, per assorgere a “sistema”, dovrebbe essere configurato secondo schemi o criteri che assegnino a ciascun tipo di fonte un posto, una posizione determinata e dai quali si possa desumere altresì l’esatto rapporto che intercede (deve intercedere) tra i diversi tipi.

Tradizionalmente assolveva questo compito lo schema o criterio gerarchico.

Ma tale schema può “funzionare” in ordinamenti relativamente semplici, nei quali la legge sia un tipo di fonte (anzi: il prototipo) nettamente differenziato sotto l’aspetto formale e costituisca altresì il centro del sistema, il perno attorno al quale ruoti l’intiero insieme delle fonti normative.

Ma già l’instaurazione della “forma legale costituzionale” rappresenta, come è notissimo, un primo e incisivo elemento di perturbazione dello schema gerarchico: vi è una molteplicità di fonti a livello superiore alla legge; vi è altresì una pluralizzazione delle fonti al livello primario: vi è pure una scissione, nell’ambito della figura della legge, tra più tipi (o sottotipi) caratterizzati ora da varianti formali (es. leggi c.d. rinforzate: artt. 132, 79, 7, 8 Cost.), ora da condizionamenti contenutistici (es. art. 10, 2° comma, Cost., leggi atipiche); e vi è poi il decentramento della funzione legislativa (leggi regionali).

Tutto questo ha indotto e induce a integrare, se non a sostituire, il principio e criterio gerarchico con quello della competenza.

Di qui la tendenza a superare un sistema delle fonti configurabile a priori e in generale e di riconoscere, invece, se mai, più sistemi, tanti diversi sistemi in relazione alle singole materie che vengono in osservazione e in ordine alle quali l’ordinamento offre, a volta a volta, un diverso panorama quantitativo e qualitativo di fonti normative. Tutto questo è avvalorato ancor di più dalla distinzione di leggi statali e di leggi regionali o comunque espressione di autonomie secondo “materie” assegnate alle prime e alle seconde. E si noti subito al proposito altresì il criterio della diversione dell’ordine delle competenze risultante dalla riforma del titolo V (art. 117 Cost.).

E tuttavia la legge, pur avendo perduto la centralità in un sistema che è andato disgregandosi, rimane un punto fermo di riferimento e di orientamento, per cui può dirsi che le fonti – i tipi di fonte – si dispongono su tre distinti (ma, come si dirà, separati) livelli: a) il livello superlegislativo, meglio che costituzionale; b) il livello legislativo primario; c) il livello sublegislativo, meglio che secondario.

Si tratta di un descrittivo residuo dello schema o criterio gerarchico.

Nulla più.

Al primo livello appartengono, oltre ai fatti (e atti) normativi instaurativi o istituzionali, gli atti normativi costituzionali (Costituzione compresa); al secondo le leggi ordinarie e gli altri atti legislativi o normativi primari; al terzo gli atti normativi secondari o derivati, sia di provenienza statale, governativa e non, sia di provenienza lato sensu, autonoma (di autonomia territoriale o sociale).

Qui ci si occuperà del secondo livello e in particolare delle leggi.

Ma occorre subito avvertire non soltanto che i livelli o modelli non sono, ciascuno per sé, unitari poiché si articolano in pluralità di sotto-livelli o sotto-tipi, ma anche che essi non sono rispettivamente impenetrabili.

Vi sono per es. tipi di atti che, pur appartenendo, per taluni aspetti, soprattutto formali, ad un determinato livello, esplicano un’efficacia su altri tipi di atti appartenenti ad un diverso (superiore?) livello (es. regolamenti in delegificazione).

È per questo che non si può totalmente prescindere, nel trattare della posizione e del ruolo della legge statale nell’ordinamento italiano, da considerazioni relative ad altre fonti “tipiche” del diritto.

E, prima di tutto, dal rapporto della “legge” con la Costituzione.

Secondo me – ma so bene che questa è opinione contrastata – la definizione della funzione legislativa come ordinario mantenimento e sviluppo (svolgimento) della Costituzione consente di cogliere il peculiare rapporto tra Costituzione e legge, che diviene elemento integrante della nozione di legislazione e di funzione legislativa (ordinaria), mentre tale rapporto non viene colto quando l’attribuzione alle Camere della funzione legislativa viene concepita o come attribuzione della funzione eminentemente normativa (e ciò è contraddetto, se non altro, dalla esperienza delle leggi provvedimento) o come attribuzione della mera funzione di porre in essere atti rivestiti della forma e della forza di legge (il che è vero, ma non vale a spiegare né la pretesa centralità della legge rispetto agli altri atti normativi, né le deroghe che alla primarietà della legge sono consentite dall’ordinamento e neppure la dissoluzione della unitaria figura “legge” nella pluralità di leggi c.d. atipiche o rinforzate).

E proprio in virtù di tale peculiare rapporto la legge non solo, in negativo, può essere limitata soltanto dalle norme costituzionali, è sottoposta, cioè, in linea di massima, soltanto alla Costituzione, ma nei confronti di questa svolge, in positivo, un ruolo di ordinaria e primaria integratrice.

In altri termini, il rapporto Costituzione/legge non sta soltanto nel senso che la legge è subordinata alla sola Costituzione (e alle leggi costituzionali) non potendo legittimamente contrastare con essa, ma anche nel senso che la legislazione, svolgendo o sviluppando la Costituzione, ne rappresenta in via ordinaria l’integrazione.

Diversamente, il significato comunemente attribuito al conferimento alle Camere della funzione legislativa consisterebbe nel riconoscimento alle Camere del potere di rivestire della forma (e quindi della forza) di legge qualsiasi contenuto, normativo o precettivo, purchè conforme a Costituzione e non riservato ad altre fonti a ad altri poteri. In conseguenza, la funzione legislativa ordinaria dovrebbe essere la funzione residuale esercitabile tendenzialmente in ogni campo e in ogni modo: la legge ordinaria statale sarebbe fonte a competenza generale anche se non illimitata e comunque residuale.

Ma oggi, con la riforma del titolo V, come tutti sappiamo, le cose sono cambiate.

Di questo e delle sue prospettive parlerò in seguito.

Qui va osservato che la legge, proprio perché autorizzata, capace di intervenire virtualmente in ogni campo e di assumere qualsiasi contenuto, ha finito per essere impiegata, troppo spesso, ben oltre i suoi “naturali”confini normativi di fonte di regole. La varietà e l’eccessiva quantità pregiudicano la qualità delle leggi. Così è fenomeno del nostro tempo il decadere della legislazione, indicato con la formula “crisi della legge”; formula che abbraccia tanto l’inflazione legislativa (troppe leggi), quanto lo scadimento della qualità della legislazione (leggi mal scritte), quanto l’impoverimento del ruolo della legge (la quale, perdendosi in casi particolari, non riveste in effetti quel ruolo di guida del sistema, cui la sua natura di fonte primaria e ordinaria per eccellenza la ascriverebbe).

Sotto il profilo dell'inflazione normativa ed anche della disordinata fungibilità tra leggi formali e atti normativi primari, "si rileva l'ampiezza e la gravità della "crisi" della legge parlamentare, emergente in maniera nitida dall'analisi della produzione normativa di questi ultimi anni" (cfr. F. Modugno, A. Celotto, M. Ruotolo, Considerazioni sulla "crisi" della legge, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto. La teoria del diritto oggettivo, Torino 2000, 351 e ss.).

Al fine di fornire un riscontro oggettivo in merito all'impoverimento del ruolo della legge, si analizzerà qui di seguito la produzione normativa primaria relativa all'anno 1995 (in cui predominava ancora l'abuso del decreto legge, prima della nota sentenza della Corte costituzionale n. 360/96 che ne ha dichiarato l'illegittimità) e ai successivi anni 1998-2004.

Se nel 1995 si sono avuti 473 atti aventi forza di legge, costituiti da 27 decreti legislativi, 295 decreti legge e 151 leggi, è stato rilevato, in relazione a queste ultime, che solo 5 di esse recavano una normativa di riforma sistematica, 55 erano leggi di conversione, 57 leggi di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione di trattati internazionali, 2 leggi di recepimento di intese con confessioni religiose e 5 leggi di bilancio; le restanti avevano invece carattere sostanzialmente provvedimentale.

Nel 1998, a seguito della notevole diminuzione dei decreti legge, la produzione normativa primaria appare fortemente modificata, allorché di 297 atti aventi forza di legge solamente 31 sono decreti legge, 79 decreti legislativi e 187 leggi: è interessante notare nella produzione normativa primaria dell'anno 1998 l'aumento dei decreti legislativi e delle leggi non meramente formali, che tuttavia, solo in rari casi, assumono la veste di normazione di riforma sistematica, recante principi (i casi registrati sono 7) (per i dati relativi agli anni 1995 e 1998 più ampiamente v. F. Modugno, A. Celotto, M. Ruotolo, Considerazioni sulla "crisi" della legge, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto cit., 352 e ss.).

Gli anni successivi registrano un andamento oscillante, non privo di qualche interessante mutamento, a partire dal 1999, nel corso del quale sono state approvati ben 346 atti primari, di cui 198 leggi ordinarie, 42 decreti legge e 106 decreti legislativi: al di là del cospicuo aumento della produzione normativa rispetto all'anno precedente, che ha interessato particolarmente i decreti legislativi (strumento che già dall'anno precedente è stato maggiormente utilizzato, in sostituzione del decreto legge, nel sostegno alla produzione primaria), nel corso del '99 il Parlamento ha approvato, tra le altre, due leggi costituzionali di riforma (elezione diretta del Presidente della Giunta e giusto processo) e una legge di semplificazione, oltre a 2 leggi comunitarie, 4 leggi di bilancio, 79 leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e 15 leggi delega. Residuando circa 67 leggi, occorre tuttavia rilevare un considerevole aumento delle leggi provvedimento e “secondarie” (così definite in ragione della marginalità degli interventi da esse recate).

L'anno 2000 registra un calo nella produzione, risultando approvati un totale di 255 atti, di cui 36 decreti legge, 70 decreti legislativi (numero, in percentuale, sempre piuttosto consistente) e 149 leggi.

In specifico, è stata adottata una legge cost. di riforma (art. 48 Cost., voto dei cittadini italiani residenti all'estero), la legge di semplificazione per il 1999, la legge comunitaria, 28 leggi di conversione, 4 leggi di bilancio, 40 leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e 10 leggi delega.

Residuano ben 67 "altre" leggi che - fatta eccezione per due leggi quadro (una in materia di incendi boschivi ed una relativa al riordino dei cicli di istruzione) e per altre tre leggi recanti per così dire "principi" ovvero una normativa di riforma sistematica - sono prevalentemente leggi provvedimento o “secondarie”.

L'anno 2001 non ha fornito grosse novità dal punto di vista quantitativo della produzione normativa, che in effetti si è assestata sui numeri dell'anno precedente (253 atti approvati di cui 50 decreti legge, 55 decreti legislativi e 148 leggi); giova tuttavia evidenziare l'adozione di tre leggi costituzionali di riforma (concernenti una la modifica degli artt. 56 e 57 Cost., una l'elezione diretta dei Presidenti delle Regioni a statuto speciale e una la riforma del titolo V della Costituzione), oltre a 49 leggi di conversione, 4 leggi di bilancio, 18 leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, 11 leggi delega, residuando 66 "altre" leggi. Tra queste ultime spiccano 1 legge di interpretazione autentica, 3 leggi quadro (una in materia di alcool, una sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici e magnetici, una sul settore fieristico) e altre 5 leggi recanti "principi" o di riforma sistematica. Quelle che residuano, come negli altri anni, sono tutte leggi provvedimento o “secondarie”, riguardanti i più svariati ambiti.

Gli anni successivi non sembrano recare spunti particolari in relazione alla nostra analisi, tranne per quanto concerne una lieve flessione nella produzione normativa, che ha avuto un picco nel 2003, per poi riassestarsi su numeri più bassi nel 2004, e precisamente:

nel 2002 sono stati approvati 205 atti, di cui 130 leggi ordinarie, 44 decreti legge e 31 decreti legislativi; in particolare è stata adottata una legge costituzionale per la cessazione degli effetti dei commi 1° e 2° della XIII disp. trans. e fin. Cost.

nel 2003 sono stati approvati 289 atti di cui 171 leggi ordinarie, 48 decreti legge e 70 decreti legislativi; in particolare è stata adottata una legge cost. di modifica all'art. 51 Cost. e la legge di semplificazione per il 2001;

nel 2004 sono stati approvati 219 atti di cui 119 leggi ordinarie, 42 decreti legge e 58 decreti legislativi; in particolare sono state adottate una legge di interpretazione autentica e 3 leggi rinforzate (per l'istituzione delle province di Barletta, Andria, Trani, Fermo, Monza e Brianza).

Le leggi provvedimento e “secondarie” rappresentano ancora, in percentuale, un numero cospicuo nella produzione normativa dal 2002 al 2004.

In conclusione, dall'analisi numerica appena compiuta si possono desumere alcuni dati rilevanti e cioè: a) la diminuzione dell'impiego del decreto legge, riportato nei limiti previsti in Costituzione a partire dalla sent. n. 360/96 ed il contemporaneo aumento dell'uso del decreto legislativo; b) l'aumento dell'approvazione da parte del Parlamento di leggi provvedimento e “secondarie”, che, in percentuale, rappresentano una  parte cospicua della produzione normativa primaria; c) l'approvazione, negli ultimi anni di diverse leggi costituzionali di riforma e modifica di parti rilevanti della Costituzione.

Come può immaginarsi il superamento della crisi e il recupero di un ruolo centrale della legge, come fonte primaria e ordinaria nell’insieme delle fonti del diritto? Quale la vocazione peculiare che può essere ad essa assegnata, quanto ai contenuti, ai modi, agli ambiti di disporre, coerenti con il già ricordato ruolo privilegiato di mantenimento, integrazione, interpretazione e sviluppo della Costituzione?

Una risposta, meglio: una individuazione di tale ruolo o ambito privilegiato per lo svolgimento della funzione legislativa, non può prescindere dalla considerazione di come l’assetto pluralistico dell’ordinamento, già prescelto dalla Costituzione e poi potenziato dalla riforma del titolo V, e il sempre crescente condizionamento del diritto comunitario, si siano tradotti nella moltiplicazione e nella pluralità di fonti normative già, almeno potenzialmente, delineata a livello costituzionale e talora spesso corrispondente a sfere di forte autonomia, politica e sociale (fonti di autonomia regionale e locale, fonti che regolano i rapporti con le confessioni religiose, fonti di autonomia contrattuale, e via seguitando …).

In un tale – e sempre più complesso – ordito ordinamentale, la posizione della legge ordinaria parlamentare va riconsiderata. Essa non può più essere collocata (a parte pure la Costituzione e le leggi formalmente costituzionali) in ogni senso al vertice del c.d. sistema delle fonti. Essa deve recedere (si fa per dire) al ruolo – eminente – di fonte di norme sulla produzione, dei principi fondamentali di una normativa, affidata, prevalentemente, ad altri centri, soggetti, organi statali e non (Governo, enti pubblici, autorità indipendenti, soggetti dotati di autonomia territoriale o sociale).

La legge, insomma, proprio per la sua centralità nell’insieme delle fonti, dovrebbe essere, anzitutto, fonte sulla produzione del diritto,v fonte di norme di principio, se si vuole ricondurre effettivamente l’ordinamento ad un ordinato sviluppo. S’intende che, in tal senso, la legge verte su una materia tipicamente costituzionale, di kelseniana memoria, qual è quella della normazione sulla normazione.

Insomma, uno dei ruoli principali della legge dovrebbe essere quello di norma sulla normazione, come ordinazione e distribuzione di competenze normative. Essa sarebbe (sarà?) certamente una legge in materia costituzionale, e, come tale, si distinguerebbe (si distinguerà?) per questo suo carattere dalle altre leggi. Il tratto che valga a renderla ulteriormente riconoscibile tra le altre leggi, che pure possono vertere su materia costituzionale, non potrà non essere costituito dall’oggetto e dal contenuto dispositivo e dalla necessità di una sua espressa dichiarazione di abrogazione, modifica o deroga, oltre che dalla approvazione in assemblea.

Le leggi ordinarie in materia di fonti (ma anche, più in generale, in materia costituzionale) possono essere bensì derogate o abrogate da leggi successive, ma sempre in modo espresso (è già riconoscibile una consistente tendenza in questo senso, nella prassi legislativa). Inoltre, non tutto quanto è disposto da legge in materia costituzionale sembra poter essere derogato, sia pure espressamente, da leggi successive. Si pensi a leggi istitutive di un nuovo sottosistema positivo, quale quella di autorizzazione-esecuzione alle modificazioni del concordato lateranense. Potrebbe davvero una legge ordinaria successiva derogare a quanto puntualmente disposto da una legge o da un decreto di ricezione di un ulteriore accordo o di un’intesa?

La risposta negativa è suggerita dalla ratio stessa che ha inspirato l’istituzione del sottosistema, che è bensì modificabile, eliminabile, sostituibile con un altro, ma che, finché sussiste come tale, rappresenta strumento istitutivo di una riserva, assoluta o relativa che sia, di disciplina di una data materia alle fonti che lo costituiscono.

Sarebbe assurdo o irrazionale, cioè, che il legislatore parlamentare intervenisse, a volta a volta, in un ambito dal quale esso stesso ha consapevolmente ritenuto di doversi ritrarre, riconoscendo l’autonomia normativa di altri soggetti od organi appartenenti all’ordinamento interno o anche, a determinate condizioni costituzionalmente fissate, ad ordinamenti esterni.

E ciò, in generale, indipendentemente da un eventuale fondamento costituzionale del sottosistema, il quale, d’altra parte, ben può essere – come dicevo – modificato o anche abolito da una nuova legge ordinaria. Questo fatto, anziché indebolire la supremazia della legge rispetto alle altre fonti, la rafforza, in quanto consente ad essa di ergersi a fonte di norme principio o di norme sulla produzione: ogni sottosistema di fonti e di norme essendo – con i limiti e nel rispetto dei principi costituzionali – nella piena disponibilità del legislatore ordinario che, nel disporre in materia, però, si autolimita.

I modi possibili, attraverso i quali la legge parlamentare può forse riconquistare il suo ruolo di principale e naturale di fonte regolatrice del sistema, oltre che di fonte di norme regolative, generali, astratte e ripetibili, e soltanto occasionalmente rivolta a provvedere nella singola concreta evenienza, nel singolo caso concreto in deroga al diritto vigente da essa stessa posto, sono, verisimilmente, allo stato attuale, tre: a) un cosciente e razionale processo di delegificazione: b) un processo di riconoscimento-istituzione di nuovi tipi di fonti; c) la trasformazione da legge negoziata a regola delle negoziazioni.

Ognuno di questi punti meriterebbe un attento svolgimento; qui si può intanto auspicare che, almeno a traverso questi mezzi, la legge formale-parlamentare riacquisti un suo ruolo veramente primario e svolga la sua essenziale – anche se non esclusiva – funzione di fonte di norme-principio e di norme sulla produzione.

La primarietà rispetto alle altre fonti è ottenibile solo attraverso la autolimitazione tendenziale per ciò che riguarda la produzione diretta di norme di comportamento, autolimitazione che lascia maggiore spazio e offre migliori condizioni al legislatore parlamentare per dedicarsi alla “grande” legislazione e alla funzione di indirizzo e controllo politico. Questi sono gli auspici.

 

3. La posizione della legge statale nell'ordinamento italiano, oggi: rispetto alle leggi regionali

Ma qual è oggi la posizione della legge statale nell'insieme, sia pure disorganizzato, delle fonti del diritto italiano?

Chi si ostina a mantenere ancora il principio o schema gerarchico come ordinatore necessario del sistema delle fonti è costretto a relegare la legge ordinaria dello Stato addirittura ad un ottavo livello. Scrive G.U. Rescigno: "All'ottavo livello troviamo finalmente la legge ordinaria". E aggiunge significativamente: "Questa sola notazione, che riguarda la fonte un tempo ed ancor oggi per tradizione chiamata primaria, è sufficiente per mostrare con tutta evidenza lo sconvolgimento che il sistema delle fonti in Italia ha subito nel tempo: la fonte cosiddetta primaria in realtà nella scala gerarchica si colloca all'ottavo livello!" (Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in Dir. pubbl., 3, 2002, p. 785).

A parte le considerazioni che possono farsi sui rapporti del tipo legge con gli altri sette livelli ritenuti superiori, deve aggiungersi che - dopo la riforma del titolo V della Costituzione - la legge ordinaria non è più espressione di una competenza legislativa generale e quindi residuale (dove altre fonti sono incompetenti era competente la legge). Al contrario la competenza della stessa legge è delimitata nell'ambito delle materie ad essa espressamente ascritte (art. 117 Cost.). Una legge che disciplinasse altre materie "per ciò solo sarebbe incostituzionale" (G.U. Rescigno, loc. cit.). Andrebbe però precisato che il discorso è convincente nei confronti delle leggi regionali e non di qualsiasi altra fonte, a fronte della quale la legge statale ordinaria sembra mantenere la sua generalità (e residualità).

La potestà legislativa dello Stato è oggi espressione di una ben determinata (almeno in linea teorica e astratta) competenza, anzi di competenze, siano esse ricavabili dall'art. 117 (competenza esclusiva), sia da numerose altre disposizioni costituzionali. Si pensi all’art. 33, 6° co., Cost., secondo il quale sono le “leggi dello Stato” a stabilire i limiti al “diritto di darsi ordinamenti autonomi” delle “istituzioni di alta cultura, università ed accademie”; all’art. 114, 3° co., secondo cui “la legge dello Stato” disciplina l’ordinamento di Roma, capitale della Repubblica”; all’art. 116, 3° co., secondo il quale con “legge dello Stato” (legge rinforzata e atipica) possono attribuirsi alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, concernenti materie di competenza concorrente e perfino, in casi tassativamente determinati, di competenza statale esclusiva; all’art. 118, 3° co., che prevede la “legge dello Stato” per la disciplina di “forme di coordinamento fra Stato e Regioni” in materie di competenza statale esclusiva (immigrazione, ordine pubblico e sicurezza), nonché “forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali”; all’art. 119, 3° co., secondo il quale “la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per territori con minore capacità fiscale per abitante”; all’art. 119, 6° co., che prevede “principi generali determinati dalla legge dello Stato” per l’attribuzione del patrimonio agli enti territoriali”; all’art. 125, che riserva a “legge della Repubblica” di stabilire l’ordinamento degli organi di giustizia amministrativa di primo grado istituiti nella Regione; all’art. 132, 2° co., secondo cui è la “legge della Repubblica” (legge rinforzata) che dispone il distacco di Province e Comuni da una Regione  per aggregarle ad altra; all’art. 133, 1° co., secondo il quale è sempre una “legge della Repubblica” (rinforzata) a stabilire “il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito di una Regione”; e si sono omesse altre disposizioni costituzionali che avrò modo di ricordare più avanti (artt. 117, 5° e 9° co., art. 118, 2° co., art. 120, 2° co.).

Quel che è certo è però che, proceduralmente, davanti al giudice delle leggi, la dimostrazione (positiva o negativa) della competenza legislativa statale (sia da parte dello Stato per affermarla nei confronti di una propria legge contestata, sia da parte della Regione per negarla nei confronti di una propria legge contestata) costituisce il centro della quaestio: lo Stato deve dimostrare la sua competenza, alla Regione basta invece negare la competenza statale. E difatti la Corte costituzionale ha rilevato che la valutazione in ordine al rispetto dei limiti della competenza regionale debba muovere “non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario, dall’indagine sull’esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale” (sent. n. 282/02); ed ha affermato che la potestà legislativa statale sussiste solo ove sia ricavabile dalla Costituzione un preciso titolo di legittimazione (v. per es. sent. n. 1/04).

Il rapporto che lega (o che distingue) la competenza legislativa statale a quella regionale è dunque un rapporto di competenza. Avverto subito che, secondo me, la competenza di una fonte non comporta necessariamente "riserva di disciplina" alla fonte medesima. In altri termini vi può essere ad esempio competenza nel modo di disporre o di provvedere. La competenza può essere compatibile con la concorrenza di altra fonte. E il rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale è anche rapporto di competenza - concorrenza. In linea di principio ciò avviene paradigmaticamente e per definitionem nelle materie di competenza bipartita, concorrente o complementare, che dir si voglia.

Mentre nel caso della competenza statale esclusiva e della competenza regionale esclusiva, in quanto residuale, il rapporto dovrebbe essere, a prima vista, di separazione e quindi di competenza - riserva. Ma le cose non sono poi così semplici.

Secondo alcuni (G.U. Rescigno, op. cit., p. 786) vi è invece "un intreccio indissolubile tra competenza e gerarchia": oltre la competenza "c'è gerarchia, perché, una volta stabilito che lo Stato si è contenuto nella sua competenza, la legge regionale è subordinata alla legge statale". Se non che, essa è subordinata non a tutto ciò che è (eventualmente) contenuto nella legge statale, bensì ai soli principi e direi meglio: condizionata dai principi, mentre la competenza, vera e propria, alla disciplina (c.d. di dettaglio) è tutta della legge regionale che, invece, è incompetente a violare i principi (cfr. F. Pizzetti in Le Regioni, 2001, secondo il quale persino nella previsione relativa alla competenza concorrente (art. 117, 3° co. Cost.) non può negarsi una netta ripartizione di competenze tra legislatore regionale, che deve rispettare i principi determinati dalla legge statale, e legislatore statale, che può solo stabilire i principi fondamentali delle materie, lasciando integralmente al primo la definizione e la disciplina di ogni altro aspetto).

E poi, per stabilire se lo Stato si è mantenuto nella sua competenza, occorre confrontare legge statale e legge regionale e, solo nel concreto del confronto, stabilire se le due competenze modali sono state rispettate. È perciò inaccettabile la conclusione di chi, a proposito di presunti livelli, pone al c.d. ottavo livello, unitamente "le leggi statali che disciplinano le materie riservate allo Stato e quelle altre leggi statali che debbono limitarsi a porre i principi fondamentali in alcune materie regionali, mentre le leggi regionali che attuano i principi, proprio perché parzialmente subordinate alle leggi statali, vanno collocate nel nono livello" (G.U. Rescigno, loc. ult. cit.).

Il rapporto tra leggi statali e leggi regionali, di qualsiasi specie, è invece, secondo me, sempre un rapporto di competenze diverse, distinte, ma variamente interferenti o concorrenziali: un rapporto insomma di competenze concorrenti, ma vincolate. A prima vista, la sola competenza statale esclusiva e la competenza regionale residuale (o esclusiva) sarebbero caratterizzate da separazione secondo il criterio di competenza - riserva. E tuttavia vi sono almeno due ragioni che smentiscono anche tale rigida ripartizione: a) una è rappresentata dalla "natura" di alcune materie di competenza esclusiva statale; b) l'altra dalla flessibilità che la giurisprudenza costituzionale ha introdotto nel rapporto tra leggi statali e leggi regionali per salvaguardare imprescindibili esigenze unitarie.

 

A) Tra le materie di competenza legislativa statale (esclusiva) ve ne sono alcune dall'ambito indeterminato (di difficile determinazione) o così generale da consentire un tale notevole allargamento da poter investire competenze che statali non sono (o non sarebbero). Del resto alcune c.d. materie, denominate anche “materie non materie”, sono espresse in enunciati che indicano “non l’oggetto della competenza, ma gli scopi che mediante essa vanno perseguiti” (A. D’Atena, in Quad. cost., 1, 2003, 21).

Ed è perfino dubbio che per esse possa parlarsi propriamente di materie anche perché possono presentarsi, oltre che come “ambiti di competenza statale che consistono fondamentalmente in fini che debbono essere perseguiti mediante la competenza stessa” (G. Tarli Barbieri), come aspetti o profili di più materie contemporaneamente (c.d. materie trasversali), anche di quelle che residualmente (ed esclusivamente) spetterebbero alla disciplina regionale [già dalla sent. n. 282/02, la Corte ha affermato che in alcuni casi di materie di competenza esclusiva statale si tratta piuttosto di competenze idonee ad investire una pluralità di “materie”. Ma, se le c.d. materie trasversali si muovono orizzontalmente, abbracciando vari interessi e toccando oggetti diversi tra loro, sia nell’ambito della competenza concorrente, sia nell’ambito della competenza residuale, tuttavia “la capacità espansiva di tali materie non può arrivare al punto di schiacciare in senso verticale competenze regionali costituzionalmente previste”; ossia la trasversalità della materia “non può, cioè, esaurire del tutto il settore di competenza regionale che si trovi da essa attraversato” (F. Mannella, L’intervento della Corte costituzionale nel riparto delle competenze normative tra Stato e Regioni, par. 4.3.1.1. in paper, in corso di pubblicazione, e ivi citata sent. n. 14/04)].

Non c'è giurista per es. che non possa rilevare (o non abbia rilevato) che la "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" è talmente generale e penetrante da poter investire (e condizionare) qualsiasi legge regionale che prevedesse o prescrivesse prestazioni concernenti diritti civili e sociali (cfr. sent. n. 88/03 in cui la Corte definisce tale materia come “uno strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto).

Se poi qui si tratti di una reviviscenza di un supposto rapporto gerarchico tra legge statale e legge regionale è altra, e del tutto platonica, questione, perché potrebbe ben dirsi che la legge statale è semplicemente competente a prevedere (determinare) i soli livelli essenziali delle prestazioni e non a disciplinare le prestazioni stesse. Si tratterebbe cioè di qualcosa di simile al rapporto competenziale tra principi (della materia) statali e disciplina regionale.

Ed è anche possibile, per converso, che la “trasversalità della materia” sia intesa dalla Corte costituzionale “in senso opposto, non già come capacità espansiva delle competenze statali, bensì come possibile emersione, nel settore, di competenze regionali” (così ancora, F. Mannella, op. cit.), così pure, più in generale, come è stato esplicitamente riconosciuto (G.U. Rescigno, op. cit., p. 788), "che vi siano casi rispetto ai quali la Costituzione non concede alcun appiglio alla legge statale, cosicché solo la legge regionale può disciplinare casi del genere", come pure ancora "vi possono essere poi casi in cui la legge statale potrebbe intervenire, ma se ne astiene, cosicché per un certo periodo, finché la legge statale non deciderà di intervenire, la legge regionale non è subordinata ad alcuna legge statale", non diversamente da quanto accade per i c.d. regolamenti indipendenti. È certo allora che per i casi di legge regionale che interviene nelle materie di competenza residuale “la scala gerarchica viene messa a dura prova” (corsivo mio), per cui “tale legge regionale non sta né nel nono livello, come quella della competenza concorrente, perché in principio questa legge regionale non è subordinata alla determinazione dei principi fondamentali individuati  con legge statale, ma non sta a rigore neppure nell’ottavo livello, alla pari con la legge statale, perché non si può mai escludere che in certi casi una qualche legge regionale sia costretta ad attenersi a disposizioni poste con legge statale” (come nel caso, prima ricordato, di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale). Si assiste cioè, come è stato ben detto, ad una “asimmetria” tra legge statale e legge regionale, poiché, se “in principio non è ammesso che la legge statale, se in astratto competente, sia in qualche caso e per qualche aspetto subordinata alla legge regionale …; è possibile invece che qualunque legge regionale, anche vertente in materia diversa da quelle di legislazione concorrente, in qualche caso e per qualche aspetto sia subordinata alla legge statale, cosicché è la singola e specifica legge regionale che in concreto può rivelarsi non subordinata ad alcuna legge statale, ma non il tipo legge regionale che, in quanto tipo, qualche volta (senza poter prevedere quale legge e quando) potrebbe cadere sotto la subordinazione a legge statale” (G.U. Rescigno, op. cit., pp. 788-789) (il primo corsivo è mio). Ma poiché persino la prima considerazione (non è ammesso che la legge statale in astratto competente sia subordinata alla legge regionale) è suscettibile di dubbio o di smentita [è il caso per es., ricordato dallo stesso Rescigno (p. 783, in nota), di limite alla legge statale derivante da legge regionale: accordo, sulla base di legge statale (art. 117, 9° comma, Cost.), di una Regione con altri Stati, vincolante anche nei confronti di successive leggi statali comuni che non ratifichino cioè nuovi trattati sostitutivi dei precedenti], non è chi non veda come il principio di gerarchia non regga proprio per niente e che il principio di competenza vada commisurato non al tipo di atto normativo, bensì al singolo e specifico atto adottato in concreto.

Semplificando al massimo, a proposito delle c.d. materie trasversali, si può dire che tre siano i settori particolarmente significativi, secondo quanto risulta dalla giurisprudenza costituzionale. Un quadro sintetico è offerto dall’ottimo contributo della Mannella, già citato (e in corso di pubblicazione), cui si può aggiungere quello della determinazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, 2° co., lett. p), secondo quanto ricordato da Scaccia (op. cit., § 5).

a) Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Se è condivisibile l’affermazione di Rescigno (op. cit., 786) che “è impossibile qui delimitare la materia statale o quella regionale”, è tuttavia necessario cercare di stabilire fino a qual punto la definizione dei “livelli essenziali” da parte di legge statale non pregiudichi competenze regionali relative alle “prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. Tanto più che "la trasversale, in quanto caratterizzata in chiave finalistica, non sembra consentire interpretazioni rivolte a circoscriverne preventivamente l’ambito … ma piuttosto definisce il proprio oggetto nell’atto del suo esercizio” (G. Scaccia, op. cit., 15) (corsivo mio). E, ancora, è sempre Scaccia che parla: “proprio per il fatto che le competenze di natura trasversale non hanno un oggetto preventivamente delimitabile (come è stato avvertito, del resto, da numerosa dottrina ricordata da Scaccia in nota 42), il modo in cui si raccordano alle materie regionali con le quali interferiscono non è riconducibile allo schema di rigida separazione proprio delle altre potestà esclusive statali”. Qui, non si tratta cioè di porre un limite di legittimità (preventivo ed astratto) alle fonti di autonomia “precludendone ogni invasione dello spazio costituzionalmente assegnato allo Stato”, bensì di contrapporre un limite “eventuale e non necessario”: “per i titoli è solo l’effettivo esercizio della stessa [competenza esclusiva statale] a vincolare le interferenti competenze regionali” (corsivo mio). Meglio non si sarebbe potuto dire! Dunque, è solo l’effettivo esercizio della competenza statale esclusiva a limitare la competenza legislativa regionale. Così che “la concorrenza tra fonti statali e regionali sul medesimo campo materiale, che per gli altri titoli di competenza legislativa esclusiva è radicalmente preclusa … diviene invece elemento essenziale del modus operandi delle competenze trasversali”. Concorso vincolato: ma il vincolo non è determinato a priori, come avviene invece per le competenze legislative bipartite o concorrenti, qualificate in termini finalistici (tutela della salute, tutela e sicurezza del lavoro, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario), in cui allo Stato è riservata la sola determinazione dei principi fondamentali. Nelle competenze funzionali di tipo esclusivo l’intervento statale, proprio perché la competenza è esclusiva, è modulabile, è di intensità regolativi diversa, secondo il fine che lo Stato si propone di raggiungere. La legge statale si presenta perciò, prima ancora che come norma regolativa, come norma sulla normazione (sulla ripartizione e qualificazione in concreto delle due competenze). 

Nella determinazione dei livelli essenziali, in particolare, proprio l’essenzialità (ossia la minimalità) dei livelli delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali induce a credere che il limite (interno) della competenza statale sia già fissato in Costituzione: lo Stato può stabilire i livelli minimi, la Regione può stabilire livelli più elevati. Non diversamente, anche la determinazione delle funzioni fondamentali degli enti territoriali minori sembra doversi limitare a quelle funzioni veramente “essenziali per il funzionamento” degli enti e “per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento”, secondo la formula dell’art. 2, l. n. 131/03 (c.d. La Loggia), mentre le Regioni potranno per il resto operare (anche su di esse), distribuendole fra gli enti minori, secondo il principio di sussidiarietà.

È chiaro che, ove nell’enunciato relativo alla competenza esclusiva statale non ricorrono termini quali “livelli essenziali” o “funzioni fondamentali”, l’intervento statale può sia limitarsi alla determinazione dei principi, “ovvero spingersi fino alla compiuta e analitica disciplina di alcuni ambiti della materia soggetta a interferenza” (G. Scaccia, op. cit., 16-17 e ivi l’esempio della sent. n. 14/04).

Tornando infine alla “determinazione dei livelli essenziali”, va ricordato che la Corte ha affrontato soprattutto la questione della distinzione tra tale determinazione dei livelli essenziali e la “tutela della salute”, che è materia di competenza concorrente (sent. n. 282/02). A questo proposito, la Corte chiarisce che, nella specie, la legge regionale impugnata (relativa alla sospensione della terapia elettroconvulsivante) non riguarda tanto livelli di prestazione, “quanto piuttosto l’appropriatezza, sotto il profilo della loro efficacia e dei loro eventuali effetti dannosi”, di attività rivolte alla tutela della salute, per cui “il punto di vista più adeguato … è quello che muove dalla constatazione che la disciplina in esame concerne l’ambito materiale della ”.

b) Tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Anche qui non può parlarsi di “materia in senso tecnico”, poiché essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze, sia di competenza regionale residuale (agricoltura, caccia e pesca, acque termali) sia di competenza concorrente (governo del territorio, tutela della salute, protezione civile ecc.) (secondo una risalente giurisprudenza costituzionale). Non è insomma una “materia”, bensì un “valore” costituzionalmente recepito e protetto (sentt. nn. 856/94; 382/99; 54 e 507/00) ovvero, se mai, una “materia trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali, mentre spettano allo Stato le determinazioni che rispondano ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale (in vario senso v. sentt. nn. 536/02; 222/03; 307/03; 331/03). Lo Stato ha il “compito”, il potere di dettare standards di protezione uniformi, validi per tutte le Regioni e non derogabili, anche se incidenti su competenze legislative regionali; ma di là da tali standards rimane sempre la possibilità per le Regioni, nell’esercizio della potestà concorrente o residuale, di assumere tra i loro scopi anche finalità di tutela ambientale, al fine di consentire più rigorose garanzie (sentt. nn. 536/02, 108/05), ciò che, però, “non comporta che lo Stato debba necessariamente limitarsi, allorquando individui l’esigenza di interventi di questa natura, a stabilire solo norme di principio, lasciando sempre spazio ad una ulteriore normativa regionale” (sent. n. 232/05).

c) Tutela della concorrenza. A differenza delle altre due “materie trasversali”, in questa – pure considerata dalla dottrina come “trasversale” (v. per es. A. D’Atena in Quad. cost. 1, 2003) – tra le due accezioni della trasversalità (come competenza statale potenzialmente idonea ad espandersi in ogni settore, anche di competenza regionale; o come possibilità residua, ma rilevante, di interventi anche regionali, se funzionalmente collegati alla “materia”) la giurisprudenza costituzionale, che si va sempre più consolidando, ha decisamente optato per la prima, poiché qui non solo non si tratterebbe “di una materia di estensione certa”, bensì “di una funzione esercitabile sui più diversi oggetti”: il titolo di competenza funzionale “non definisce ambiti oggettivamente delimitabili, ma interferisce con molteplici attribuzioni delle Regioni” (sentt. nn. 14/04 e poi 272/04, 345/04, 77, 134, 162 e 175/05). Certo però che la differenza con le altre “materie trasversali” non mi sembra affatto qualitativa, se mai quantitativa. Tanto è vero che la stessa Corte si fa carico di stabilire sino a qual punto “la riserva allo Stato di tale competenza trasversale” possa poi ritenersi in sintonia con l’ampliamento delle attribuzioni regionali previsto dalla revisione del titolo V della Costituzione. E qui, ricollegandosi alla nozione di concorrenza in ambito comunitario, comprendente “interventi regolativi, disciplina antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza”, si distingue una tutela della concorrenza in senso statico (garanzia di interventi regolativi) e una in senso dinamico (che consente “misure pubbliche volte a ridurre gli squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali”.

L’intervento dello Stato si giustifica, insomma, per la sua rilevanza macroeconomica, restando alla competenza concorrente o residuale delle Regioni “gli interventi sintonizzati sulla realtà produttiva locale”.

Com’è stato notato da un’acuta dottrina (Corso, in Dir. Pubbl. 2002, 981 ss.; Buffoni, in Le istituzioni del federalismo, 2003, 345 ss.) e come del resto la stessa Corte costituzionale ha esplicitamente riconosciuto, non rimane che l’evanescente criterio di proporzionalità – adeguatezza (e, in definitiva, di ragionevolezza) della previsione legislativa per valutare, nelle diverse ipotesi, “se la tutela della concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato” (sent. n. 272/04), per cui “l’unico vero limite alla variabile intensità regolativa della funzione legislativa trasversale è rinvenibile … nella proporzionalità e adeguatezza dell’intervento legislativo statale, nell’esigenza di evitare la compressione della sfera di autonomia normativa regionale oltre quanto sia strettamente necessario al conseguimento del fine” (G. Scaccia, op. cit., 17).   

 

B) La flessibilità introdotta dalla giurisprudenza costituzionale nel rapporto tra leggi statali e leggi regionali può ben dipendere, come si è detto, dalla stessa “natura”, “estensione” e “pervasività” delle materie, di pseudo materie, che sono piuttosto finalità o valori (es. tutela dell'ambiente), di materie c.d. trasversali e via elencando; ma può anche dipendere soprattutto dal riconoscimento di quei nuovi (nuovi?) principi introdotti in Costituzione dalla riforma del titolo V e che sono alla base del conferimento delle funzioni amministrative (art. 118 al. Cost.) agli enti territoriali diversi dai Comuni (cui spettano istituzionalmente), ossia a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato. I principi in questione sono, com'è noto, i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

È più che presumibile a) che la legge di conferimento debba essere legge ordinaria dello Stato, almeno per ciò che riguarda le Regioni e lo Stato stesso quali destinatari del conferimento. Ed è soprattutto importante rilevare che lo Stato con legge ordinaria possa autoattribuirsi funzioni amministrative “per assicurarne l’esercizio unitario”.

È pure presumibile b) che il conferimento di funzioni amministrative comporti l’implicito conferimento di corrispondenti e correlative funzioni legislative, anche se la dottrina dominante aveva in principio escluso ogni interferenza della disposizione dell’art. 118 su quella dell’art. 117.

Ma con la fondamentale o "storica" (A. Ruggeri) sentenza n. 303/03 (sulla quale v., da ultimo, anche per ragguagli sulle critiche che la sentenza ha ricevuto, F. Mannella, op. cit., 40 ss. e note), la Corte costituzionale ha stabilito che l’avocazione da parte dello Stato delle funzioni amministrative che non possono essere adeguatamente ed efficacemente esercitate ad altri livelli di governo, ne comporta l’organizzazione e regolazione da parte della legge statale, in osservanza del principio di legalità [che non può certo essere rispettato se le funzioni amministrative attratte alla competenza statale siano poi regolate da leggi regionali (cfr. sent. 6/04), specie se poi si considera che è "soprattutto l'esigenza di esercizio unitario … che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa" (F. Mannella, op. cit., § 6.1.].

E d'altra parte, differenziate discipline regionali di funzioni amministrative attratte a livello nazionale costituirebbero altresì violazione del principio di buon andamento dell’amministrazione.

In tal modo i principi di sussidiarietà, adeguatezza, legalità e buon andamento concorrerebbero a rendere flessibile la distribuzione costituzionale delle potestà legislative, consentendo deroghe al riparto di competenze dell’art. 117: anche in materie di competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni, lo Stato può sempre assumere e regolare, tramite legge ordinaria, funzioni amministrative per assicurarne l’esercizio unitario. Quest'ultimo punto, peraltro, non è pacifico: in dottrina è stata sostenuta la tesi che esclude che le funzioni amministrative statali possano essere attinte da materie di competenza residuale delle Regioni, poiché "la Costituzione non solo esclude in radice la sussistenza di interessi unitari e infrazionabili, ma priva lo Stato del primo strumento di influenza sull'amministrazione: la legislazione di principio" (A. D'Atena; Violini). Ma è appunto proprio la mancanza dello strumento della legislazione di principio che mi sembra poter giustificare l'intervento statale a tutela delle istanze unitarie da salvaguardare (cfr. sent. n. 303/03). Del resto la sent. n. 6/04 ha accomunato indifferentemente il 3° e il 4° comma dell'art. 117 Cost. allorchè l'istanza di esercizio unitario trascenda l'ambito regionale: perché, nelle une e nelle altre materie, "una legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l'esercizio, è necessario che essa innanzi tutto rispetti i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nell'allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni" (corsivo mio) (cfr. pure, molto bene, sul punto, G. Scaccia, op. cit., 19, nota 56).  

Ma la deroga al riparto delle competenze legislative è condizionata, secondo la giurisprudenza costituzionale, peraltro oscillante, dalle circostanze: a) della proporzionalità e non irragionevolezza della “valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato” (ossia che la legge statale - che attribuisce le funzioni amministrative a livello centrale - detti "una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine" (sent. n. 6/04) (corsivi miei); e v., infatti, nel senso di sottrazione irragionevole ai Comuni di funzioni amministrative ad essi spettanti, sent. 196/04; b) che “sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata” (sent. 303/03) (corsivo mio) (cfr. pure sent. n. 6/04. Si distingue tra intesa (debole) e intesa forte: la prima trapela dalla stessa sent. 303/03 allorchè, movendo dal principio di sussidiarietà e dalla istanza unitaria che lo sorregge, ha ritenuto legittima una procedura che, pur imponendo l'intesa, preveda però che, in sua assenza, il dissenso sia superabile con meccanismi che finiscano comunque per consentire la prevalenza della decisione finale del Governo; anche se la stessa sentenza, in altro passo, afferma che l'individuazione delle opere in contestazione da parte dello Stato non vincola la Regione "sin quando l'intesa non venga raggiunta". Alla concezione dell'intesa debole forse corrisponde una valenza dinamica o procedimentale del principio di sussidiarietà, a quella dell'intesa forte una valenza consensuale). La concezione procedurale o procedimentale della sussidiarietà (già presente nel diritto comunitario) è divenuta così “consensuale”, ossia l’accordo tra Stato e Regione dev’essere una “intesa forte”: se non si raggiunge l’intesa, la legge statale (che, come ben la qualifica Scaccia, p. 20, è una “legge sussidiaria”) non è di per sé invalida, ma inefficace, “inoperante: in ogni sua parte nelle materie residuali; per la sola parte in cui pone disposizioni non aventi natura di principio nelle materie di potestà concorrente”.

Per evitare il difetto di giustiziabilità dell’applicazione del principio di sussidiarietà, è necessario condizionare l’efficacia della legge “sussidiaria” all’intesa “forte”. In questo modo la stessa giurisprudenza costituzionale acquisisce “un più saldo parametro di valutazione: il principio di leale collaborazione … per accertare se la sussidiarietà sia stata legittimamente invocata a fondamento della competenza statale” (Scaccia, p. 21). Se per es. la Regione opponesse un rifiuto immotivato, si potrebbe arrivare ad un conflitto di attribuzione, come pure, per converso, essa sarebbe obbligata a dimostrare, come si esprime la sent. n. 303/03, “la propria adeguatezza e la propria capacità di svolgere in tutto o in parte la funzione”, ai fini di un’eventuale illegittimità della legge statale.

È vero, peraltro, che la giurisprudenza costituzionale (sent. n. 6/04) ha ritenuto non illegittima una disciplina che prevede che due distinti livelli di partecipazione: il primo "dell'insieme delle Regioni" che ha per oggetto "la determinazione dell'elenco degli impianti di energia elettrica" da effettuare "previa intesa in sede di Conferenza" Stato - Regioni (intesa debole); il secondo della "Regione direttamente interessata", relativo all'autorizzazione ministeriale sui singoli impianti da adottarsi "a seguito di un procedimento unico" di intesa con la Regione stessa, "nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento" (intesa forte) per tutelare le funzioni regionali relative al governo del territorio, alla tutela della salute, e così via. L'intesa assume dunque "accezioni diverse e quindi una valenza scalare, in ragione degli interessi regionali coinvolti nelle diverse fattispecie" (F. Mannella, op. cit., § 6.3.). Ma nel senso della "intesa forte" possono poi citarsi altre successive sentenze (sentt. nn. 27/04, 242 e 285/05) per cui deve trattarsi "di atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti". Sarebbero allora vanificate, nel caso di intesa forte, le istanze unitarie, qualora non si prevedano procedure atte a superare l'eventuale dissenso? Resta sempre, in definitiva, la possibilità del conflitto di attribuzione da parte dello Stato nei confronti di un diniego regionale sulla base del parametro di "specifica esigenza unitaria … richiamata dalla legge procedimentale ovviamente in necessaria correlazione ai test di idoneità e necessità" (O. Chessa, in Le Regioni, n. 4, 2004). Insomma, per evitare un esito di stallo, "nei casi di mancato raggiungimento dell'intesa, potrebbe essere ipotizzato, in ipotesi, lo strumento del ricorso a questa Corte in sede di conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni" (sent. n. 383/05).   

La legge in sussidiarietà dev’essere comunque, anzitutto, almeno, una legge “procedimentale”, che predisponga cioè procedimenti nei quali siano rappresentate e rese operative le istanze delle Regioni, le cui competenze fossero “avocate” dallo Stato. Dunque, una legge di principi, oltre che una legge sulla produzione, norma sulla normazione, secondo il migliore spirito della legge che qui ho auspicato. Come precisa molto bene Scaccia (p. 22 in nota), “dal fatto che la delimitazione della efficacia della legge sussidiaria sia affidata ad un accordo fra gli organi di vertice dello Stato e della Regione, sembra logico desumere che tale legge debba essere indirizzata all’amministrazione, più che regolare direttamente condotte e rapporti di vita. Solo all’amministrazione regionale, infatti, non certo al comune cittadino, si può far carico di sapere se la legge statale possa essere applicata o se al contrario si debba ad essa negare applicazione, adducendo il mancato perfezionamento di un’intesa con la Regione interessata”. È naturale poi che proprio “per conseguire un maggior grado di uniformità nella disciplina della funzione amministrativa attratta, possa rendersi necessaria anche una regolazione più dettagliata”, anche perché “almeno quando interviene in ambiti riconducibili a una materia di legislazione concorrente, lo Stato dovrà necessariamente sospingersi oltre la semplice normazione di principio, per la quale disporrebbe già di un titolo di attribuzione specifico e dunque potrebbe fare a meno di invocare l’art. 118, primo comma, della Costituzione”. Ineccepibile.

Si ripropone pertanto il problema della legittimità della normativa di dettaglio statale nelle materie di competenza concorrente.

La soluzione della giurisprudenza costituzionale (sent. 303/03) che ha giustificato (“non irragionevole”) la temporanea compressione delle competenze regionali concorrenti da parte di disposizioni statali di dettaglio, come tali suppletive rispetto a sopravvenienti leggi regionali, è stata però tacciata di contraddittorietà: se lo Stato invoca la sussidiarietà quando la sola regolazione di principio è insufficiente ad assicurare la soddisfazione dell’interesse unitario, allora la legge statale non può essere cedevole una volta che la competenza sia stata legittimamente esercitata, cioè sia dotata dei requisiti procedurali e sostanziali (Scaccia, p. 22).

Indipendentemente qui dalla ulteriore questione sulla condizione della legge regionale, preesistente o successiva, rispetto alla legge statale o dei modi in cui la prima debba cedere alla seconda (per abrogazione, per illegittimità costituzionale originaria o sopravvenuta), si tratta di vedere se e in qual misura la legge regionale mantenga ancora una sua capacità di produzione normativa.

È plausibile che la legge sussidiaria sia “autorizzata a ridurre la capacità di produzione della legge regionale fino a confinarla negli ambiti della attuazione integrazione” (Scaccia, p. 23 e in nota 72 il richiamo alla giurisprudenza antecedente alla riforma del titolo V – sent. 271/96 – che riconosceva il ruolo incisivo dell’interesse nazionale, una volta tradotto dal legislatore in positive determinazioni della legge statale  così pregnanti e puntuali da consentire soltanto interventi regionali meramente attuativi).

Sia ben chiaro però che ciò non significa che nella materia attratta dalla competenza statale, la Regione sia privata di ogni competenza. Piuttosto può dirsi, come benissimo si è espresso Scaccia, che “dinanzi ad una avocazione sussidiaria, la riserva costituzionale di competenza si converte in limite interno al modo di esercizio della funzione legislativa statale” (p. 24). Qui, come pure rispetto alle competenze funzionali (in materie trasversali), il criterio di regolazione del concorso tra legge statale e legge regionale “diviene la proporzionalità”. Ma si capisce pure che è in definitiva rimessa al giudizio della Corte costituzionale la verifica del rispetto di tale criterio. Si tratta allora di concorso tra fonti diverse, non libero ma vincolato a quanto dispone la stessa norma statale sulla normazione. È pure chiaro allora che la c.d. legge sussidiaria non è un tipo di fonte, ma è soltanto,in concreto, volta a volta, quella singola legge che svolge il ruolo, specifico e strettamente sindacabile, di legge in sussidiarietà.

Ad ogni modo, se la legge in sussidiarietà, come pure, in modo diverso, la legge funzionale (competente nelle c.d. materie trasversali), può incidere e penetrare nelle materie di competenza legislativa regionale anche esclusiva, essa non può però autorizzare né consentire alla potestà regolamentare statale di ingerirsi in tali ambiti, poiché, come si esprime ancora la Corte (sent. 303/03) “in un riparto così rigidamente strutturato, alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti”. Qui “neppure i principi di sussidiarietà e adeguatezza possono conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro valore”. Meraviglia perciò che in una recente pronuncia (sent. n. 151/05) - isolato precedente - la Corte abbia non solo affermato che lo Stato possa effettuare una "chiamata in sussidiarietà" di una funzione amministrativa in materie di competenza regionale, anche in assenza di un'intesa con la Regione interessata, ma pure che il principio di sussidiarietà possa autorizzare l'esercizio delle potestà regolamentari, in deroga alla regola del riparto posta dall'art. 117, 6° co., Cost.. Si trattava, in verità, di una materia delicata, relativa al principio del pluralismo informativo (esterno), anzi di una "pluralità di materie e di interessi … appartenenti alla competenza legislativa esclusiva e concorrente dello Stato", però "senza che alcuna tra esse possa dirsi prevalente così da attrarre l'intera disciplina"; ma ciò non toglie che l'esercizio unitario della funzione amministrativa direttamente assunta dallo Stato (erogazione di un contributo economico a favore degli utenti del digitale terrestre, previa adozione di un regolamento che ne stabilisce criteri e modalità di attribuzione) possa esimere lo Stato da qualsiasi preventiva intesa con le Regioni e possa consentirgli l'adozione di regolamenti in materia di riserva assoluta di legge che copra gli ambiti di sussidiarietà.

Del resto la sentenza, tempestivamente criticata dalla dottrina (G. Scaccia), non è stata affatto seguita dalla giurisprudenza successiva (sentt. nn. 242, 270, 285 e 378/05).

Qual è dunque, conclusivamente, la posizione della legge statale rispetto alla legge regionale?

Nella realtà non si può parlare, unitariamente, né di legge statale, né di legge regionale. Il tratto che contraddistingue l’uno e l’altro tipo (forte) di legge, statale e regionale, è la provenienza unitamente alla procedura di adozione, insomma l’aspetto formale. Ma quanto alla efficacia o forza degli atti si è orami recisamente scisso il legame con la forma.

Come si hanno diversi sottotipi di legge regionale (potestà legislativa piena o esclusiva propria delle Regioni a statuto speciale, potestà bipartita, concorrente o complementare, potestà residuale esclusiva), così si hanno diversi sottotipi di legge statale, anche secondo questo angolo visuale del rapporto con la legislazione regionale: legge statale in competenza esclusiva, in competenza concorrente (idonea, in linea di massima, a porre solo i principi della materia), in competenza funzionale e in competenza sussidiaria (entrambe di individuazione giurisprudenziale).

Queste due ultime forme di potestà legislativa statale hanno certamente alterato il modello di separazione tra fonti statali e fonti regionali, rendendolo flessibile: lo schema distributivo predisposto dall’art. 117 Cost. è semplicemente tendenziale, poiché la legislazione statale funzionale-trasversale e quella sussidiaria si pongono come condizionanti e limitative della potestà legislativa regionale.

Mentre la competenza esclusiva statale esclude qualsiasi intervento regionale (se non quello dei regolamenti su delega della legge statale: art. 117, 6° comma, Cost.), nelle materie di competenza concorrente e anche in quelle di competenza “residuale” la legislazione regionale incontra il limite eventuale (se esercitata) della legislazione funzionale-trasversale e di quella sussidiaria. La legge statale in sussidiarietà può in concreto (disciplina di dettaglio) ridefinire l’estensione delle competenze regionali “residuali”, assegnandole un ruolo di mera attuazione-integrazione , mentre può altresì consentire il concorso della funzione regolativa di Stato e Regioni, coordinate secondo il criterio di ragionevolezza o di proporzionalità. In altri termini, le competenze statali “trasversali” e quelle “in sussidiarietà” cospirano verso l’affermazione della preferenza della legge statale rispetto a qualsiasi legge regionale (cfr. ancora Scaccia, p. 25).

In definitiva, la potestà legislativa statale e quella regionale corrono lungo una linea di competenze bensì differenziate, quanto alla possibilità e al modo di esercizio, ma modellata sulla (eventuale) preferenza della legge statale.

 

 

4. La “posizione” della legge statale nell’ordinamento italiano, oggi: rispetto alle fonti comunitarie

Per stabilire quale sia la posizione della legge statale rispetto alle fonti comunitarie, occorre prima indagare sulla collocazione di queste ultime nell’insieme delle fonti interne.

Si sa che le fonti comunitarie “entrano” nel nostro ordinamento mediante la legge (ordinaria) di recepimento dei trattati istitutivi della Comunità europea.

A rigore, qualsiasi fonte comunitaria (e le norme da essa prodotte) dovrebbe avere valore di legge ordinaria, se è vero, come si ritiene, che il c.d. ordine di esecuzione (e conseguentemente le norme introdotte) abbia il grado (gerarchico) della fonte nel quale esso è contenuto.

Ma i trattati comunitari non sono comuni accordi internazionali, presentano una caratteristica che, per il nostro ordinamento, può considerarsi “unica”: prevedono norme “esterne” che però, direttamente e immediatamente, senza necessità di recezione, “entrano” a far parte del nostro diritto oggettivo. Insomma costituiscono non solo un nuovo ordinamento (dotato di propri organi normativi, esecutivi e giudiziari capaci di agire stabilmente), ma di un ordinamento tale da produrre atti normativi efficaci negli ordinamenti dei singoli Stati membri della Comunità, indipendentemente da qualsiasi (ulteriore) recezione.

Questa limitazione (forte) della nostra sovranità è stata giusitificata – com’è notissimo – sulla base dell’art. 11 Cost.

Conseguentemente, si è delineata la tesi che le fonti comunitarie fossero “fonti atipiche”, intermedie tra le fonti costituzionali e le leggi ordinarie (V. Crisafulli, Fonti del diritto, 1968, 941 s., nt. 32); ma neppure questa tesi ha retto alla prova dei fatti, poiché la stessa giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto costantemente che le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono anche rispetto alle norme costituzionali, con il solo limite dei principi supremi e dei diritti inviolabili, a partire dalla sent. 399/87, secondo la quale le norme comunitarie derivate “si sostituiscono a quelle della legislazione interna e, se hanno derogato a disposizioni di rango costituzionale, debbono ritenersi equiparate a queste ultime, in virtù del disposto dell’art. 11 Cost.” e quindi le norme costituzionali concernenti le potestà regionali (artt. 117 e 118 al. Cost.) “valgono ai fini interni ed è perciò consentito alla disposizione comunitaria, sulla base del già citato art. 11 Cost., di distribuire in modo diverso le competenze per singoli casi da essa considerati”.

E vi è tutta una nutrita e costante giurisprudenza costituzionale (dal 1988 al 1998) che ha confermato tale idoneità del diritto comunitario ad incidere sulla distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni pur fissate in Costituzione, tanto che in dottrina è stata perfino riconosciuta alle fonti comunitarie “una efficacia sostanziale pari a quella di cui sono provviste le norme costituzionali o …un’efficacia quodammodo a quella espressa dalle norme costituzionali” (A. Ruggeri, in Giur. Cost. 1991, 1589).

Tuttavia, le norme comunitarie, sempre secondo la giurisprudenza, che segue sempre la tesi dualistica, non entrano a far parte dell’ordinamento italiano, non sono valutabili secondo canoni “interni”, e soprattutto possono soltanto “derogare” alle norme costituzionali e non già abrogarle, e la deroga stessa è stata esplicitamente riconosciuta soltanto con riferimento al riparto di competenze tra Stato e Regioni: esse sono idonee ad “incidere sull’esercizio delle competenze regionali quand’anche le stesse risultino fissate in norme di rango costituzionale” (sent. 224/94); anche se non mancano ammissioni più generiche, tali da far supporre che le norme comunitarie possano “derogare a norme interne di ragno costituzionale (purchè non contenenti principi fondamentali o diritti inalienabili della persona umana)” (sent. 117/94).

In definitiva, le fonti comunitarie sarebbero, in altro senso, ancora fonti atipiche: è stato detto che la loro posizione è “intermedia” o “mediana” (A. Ruggeri, Fonti e norme nell’ordinamento e nell’esperienza costituzionale, 1993, 284) tra i “principi fondamentali ad esse ad ogni modo superiori, e le norme costituzionali, ad esse inferiori”.

Se non che, il limite dei principi fondamentali o supremi riguarda tutte le norme vigenti nel nostro ordinamento e, d’altra parte, le norme costituzionali non sono tutte, necessariamente, derogabili e nessuna di esse è abrogabile da norme comunitarie. Ancora una volta la “atipicità” non può semplicemente ridursi alla creazione di un nuovo gradino nella scala gerarchica nella quale sarebbero disposti i tipi di atti normativi.

Si può dire però che le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono stabilmente su tutti gli atti legislativi del nostro ordinamento, nel senso che qualsiasi giudice è autorizzato a non applicare le norme legislative (interne) con quelle contrastanti: ciò che, peraltro, non suppone l’invalidità delle norme legislative, bensì semplicemente la loro inefficacia (se ha un senso la distinzione, proposta nella stessa giurisprudenza costituzionale, tra disapplicazione – che suppone l’invalidità – e la non applicazione – che non la supporrebbe). Peraltro, com’è pure a tutti noto, se la norma legislativa è impugnata (in via diretta) davanti alla Corte, quest’ultima potrà annullarla, ritenendola quindi invalida o illegittima (cfr. sentt. nn. 94/95, 482 e 520/95).

A parte questa vistosa ambiguità sullo “statuto” di una legge (parlamentare o regionale, qui non importa) nei confronti del diritto comunitario, è certo che la Corte costituzionale non ha preso – dopo la riforma del Titolo V, che ha eliminato ogni controllo preventivo sulle delibere regionali – posizione, non ha cioè esplicitamente ammesso una propria competenza a giudicare le leggi impugnate in via principale per violazione del diritto comunitario. Semplice sarebbe stato giudicare della incompatibilità comunitaria di una qualsiasi norma interna come illegittimità costituzionale (come violazione indiretta della Costituzione, la quale prevede ormai che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto … dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” (art. 117 al. Cost.). Com’è stato esattamente rilevato in dottrina (A. Celotto, Le fonti comunitarie…, 14), “è sorprendente rilevare come a oltre quattro anni dalla riforma costituzionale, la Corte non abbia apertamente preso posizione sul punto”, poiché, per es., la sent. 166/04, nel dichiarare incostituzionale una legge regionale contro la vivisezione per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto incidente su materie (ricerca scientifica e tutela della salute) attribuite alla potestà concorrente, ha lasciato cadere l’ulteriore censura relativa all’ostacolo dell’attività di sperimentazione ammessa nell’ordinamento comunitario. E nello stesso senso elusive sono altre decisioni degli anni appena trascorsi (sentt. nn. 213, 226, 359/03; nn.8, 99, 265 e 283/04). Forse solo nella più recente sent. 150/05 vi è un’implicita ammissione del fatto che la violazione delle norme comunitarie da parte di leggi regionali si configuri come illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 al. Cost.

Ad ogni modo non è certo più contestabile che le leggi nazionali (statali e regionali) contrastanti con le norme comunitarie siano disapplicabili (o non applicabili?) o annullabili (nella ipotesi di impugnazione diretta) per contrasto con il diritto comunitario.

D’altra parte, il diritto comunitario è certamente idoneo a derogare al riparto costituzionale di competenze legislative tra Stato e Regioni, al punto che la Corte costituzionale non ha potuto fare a meno di ammettere che “le riportate prescrizioni comunitarie delineano, pertanto, un sistema che autorizza esclusivamente la istituzione di una riserva di livello nazionale”, dichiarando incostituzionale “l’esistenza di una , non consentita dalla riportata normativa comunitaria, con conseguente illegittimità costituzionale della disposizione censurata” (di una legge della Valle d’Aosta) (sent. n. 286/05; analogamente sentt. 272 e 324 del 2005).

La validità (o solo l’efficacia?) delle leggi regionali, ma anche delle leggi statali, è dunque condizionata dalle norme comunitarie, e tuttavia vi è una rilevante differenza tra le prime e le seconde. Pur nell’impatto con le norme comunitarie, le leggi statali conservano una posizione di preminenza, svolgono un ruolo decisivo.

Come si è prima e anche ora ricordato, nel riparto delle competenze tra Stato e Regioni, a favore della legge statale, accanto alle materie funzionali - trasversali, alla esercitata sussidiarietà, svolge (o dovrebbe svolgere) un ruolo decisivo anche il diritto comunitario, che, com'è stato ben detto, dovrebbe "essere uno degli strumenti ideali per spostare blocchi di competenza dalle regioni allo stato, grazie al tradizionale e inoppugnabile argomento della titolarità statale delle competenze comunitarie" (A. Celotto, p. 15).

Come si vede, la legge statale conserva un ruolo dominante - di sviluppo e svolgimento della Costituzione - nella gestione e conformazione di volta in volta mutevole del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, anche in ragione della preminenza del diritto comunitario; ma anche nella formazione ed attuazione di quest'ultimo il suo ruolo è indiscutibilmente rilevante e anche conforme al suo "dover essere".

La legge n. 11 del 2005 (come già la l. n. 86/89, c.d. La Pergola, da essa integralmente abrogata) è in proposito caratteristica: è una tipica legge sulla produzione: nel disciplinare la partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione europea e le procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, da un lato prevede un potere del Governo di dettare criteri e direttive, nei confronti delle Regioni nelle materie su cui incidono direttive comunitarie, mediante atti normativi non legislativi (regolamenti o deliberazioni del Consiglio dei Ministri); dall'altro, circoscrive tale potere alle materie di potestà legislativa esclusiva statale (art. 16, 4° comma).

D'altra parte, ogni legge comunitaria è (anche) una legge sulla produzione.

Per es. già la legge comunitaria per il 2001 (l. n. 39 del 2002) contiene una soluzione "ponte" per quanto riguarda la funzione sostitutiva della legge statale nei confronti delle norme regionali nell'attuazione del diritto comunitario (art. 1, 5° comma): gli atti normativi statali adottati nelle materie di competenza legislativa regionale entrano in vigore, qualora le Regioni non abbiano già provveduto ad adottare proprie norme attuative alla data di scadenza del termine stabilito per l'attuazione della normativa comunitaria, ma con efficacia suppletiva, perdendo cioè vigenza con l'entrata in vigore di ciascuna normativa regionale di attuazione. Come si vede, la legge comunitaria svolge la norma costituzionale secondo la quale, mentre il potere di dare attuazione ed esecuzione degli atti dell'Unione europea spetta alle Regioni "nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato", è quest'ultima poi che "disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza", fissando, nella specie, il termine (data di scadenza, stabilito per l'attuazione della direttiva) dal quale si verifica l'inadempienza.

L'art. 5, 1° comma, della legge n. 131 del 2003 (c.d. legge La Loggia) affronta sia il problema della partecipazione regionale alla "fase ascendente" del diritto comunitario, alla formazione cioè delle norme comunitarie, prevedendo tale partecipazione mediante modalità da definire in sede di Conferenza Stato - Regioni, arrivando a stabilire che, nelle materie di competenza regionale residuale "il Capo delegazione, che può essere anche un Presidente di Giunta regionale o di Provincia autonoma, è designato dal Governo sulla base di criteri e procedure determinati con un accordo generale di cooperazione tra Governo, Regioni a statuto ordinario e a statuto speciale, stipulato in sede di Conferenza Stato - Regioni. In attesa o in mancanza di tale accordo, il Capo delegazione è designato dal Governo". L'art. 5, 2° comma, ha configurato una sorta di ricorso "mediato" e "unitario" delle Regioni alla Corte di giustizia, prevedendo il potere del Governo di proporre ricorso dinanzi alla Corte di giustizia della Comunità europea avverso gli atti normativi comunitari ritenuti illegittimi anche su richiesta di una delle Regioni o delle Province autonome.

Il potere "si trasforma" poi in obbligo, qualora il ricorso "sia richiesto dalla Conferenza Stato - Regioni a maggioranza assoluta delle Regioni o delle Province autonome". Tutta questa normativa, impugnata da alcune Regioni a statuto speciale per lesione delle proprie competenze, è stata ritenuta non illegittima dalla Corte costituzionale (sent. n. 239/04). Particolarmente significativa è l'affermazione che la scelta di prevedere l'obbligo, per il Governo, di proporre il ricorso qualora esso sia richiesto dalla Conferenza a maggioranza assoluta, rientri nella discrezionalità del legislatore statale e non sia irragionevole, poiché la richiesta di impugnazione della Conferenza, per di più con la prescritta maggioranza assoluta, è espressiva di una posizione sufficientemente condivisa dal sistema delle autonomie regionali.

Quanto al potere sostitutivo, non vi è nulla di nuovo: preventiva intimazione e successiva emanazione dell'atto sostitutivo (ovvero la nomina di un commissario ad acta) (art. 8), ma non si affronta il problema relativo al momento della inadempienza attuativa: deve seguire o può anche precedere l'esercizio del potere? Mentre la prassi anteriore, convalidata dalla giurisprudenza costituzionale, optava per quest'ultima soluzione, consentendo l'emanazione di una normativa statale con carattere cedevole o suppletivo, l'art. 117, 5° comma, Cost. parla testualmente di "esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza", come confermato dalla sent. 371/01 della Corte, di accoglimento di un conflitto promosso dalla Provincia di Trento nei confronti di un regolamento governativo in sede di sostituzione preventiva, ma già reso inefficace dalla successiva disciplina provinciale della materia, preferenzialmente competente (sentenza quindi monitoria).

La più recente l. n. 11 del 2005 ha posto una particolare attenzione alla partecipazione italiana alla "fase ascendente" (di formazione cioè delle norme comunitarie) e al relativo ruolo delle Regioni. La razionalizzazione di tale fase si è cercata creando un apposito "Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei" al fine di concordare le linee politiche del Governo sul processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell'Unione europea e di consentire il puntuale adempimento dei compiti comunitari (artt. 2 e 3). E si noti che qui si valorizza altresì la partecipazione del Parlamento al processo di formazione delle decisioni comunitarie, anche mediante la previsione di una riserva di esame parlamentare da parte delle Camere, specie rispetto alla formazione di atti di particolare importanza politica, economica e sociale (art. 4), oltre alla garanzia e disciplina delle modalità di partecipazione alla formazione degli atti comunitari da parte di regioni e province autonome (art. 5), degli enti locali (art. 6), delle parti sociali e delle categorie produttive (art. 7).

Nella attenzione a tutti i livelli di governo alla formazione degli atti comunitari, non può trascurarsi che la partecipazione parlamentare riveste un ruolo rilevante.

Come si vede, tutta la "fase ascendente" è "dominata" dalle determinazioni di una legge formale (appunto la l. 11/05) che concorre (come norma sulla produzione), sia pure indirettamente, alla predisposizione (formazione) degli atti comunitari.

Sul versante dell'attuazione, l'impianto della legge comunitaria è sostanzialmente invariato, specialmente per ciò che concerne le modalità di recezione della normativa comunitaria.

Il quadro che ne risulta è comunque il seguente: alle regioni spetta il potere di dare immediata attuazione alle direttive comunitarie nelle materie di propria competenza, mentre nelle materie di competenza concorrente è necessario l'adeguamento ai principi fissati dalla successiva legge comunitaria (art. 16).

Il potere sostitutivo statale torna ad essere preventivo, esercitabile - se possibile, dopo una prima intimazione a provvedere agli enti interessati (art. 10, 3° comma) - con norme cedevoli, pure di natura regolamentare o amministrativa (art. 11, 8° comma; art. 13, 2° comma) in attuazione dell'artt. 117, 5° comma, Cost.

Come è stato opportunamente rilevato (A. Celotto, p. 20), però, il problema reale dell'attuazione delle direttive comunitarie è stato sostanzialmente eluso: "la vera riforma sarebbe dovuta consistere nello sforzo (titanico?) di trasformare la legge comunitaria annuale da una sorta di con cui si dirige e si smista il recepimento degli atti comunitari, nella vera e propria sede privilegiata di attuazione" (corsivo mio); e tutto ciò anche per garantire una maggiore tempestività di adeguamento ed altresì il recupero della centralità del Parlamento, secondo quanto ho cercato di auspicare nella presente conversazione.

In definitiva, la posizione della legge ordinaria statale rispetto alle fonti comunitarie è davvero complessa e articolata. Rispetto alle fonti comunitarie direttamente applicabili è, per di più, incerta, oscillante - secondo la stessa giurisprudenza costituzionale - tra la inefficacia (non applicazione) ad opera di qualsiasi giudice od operatore giuridico ed invalidità (nel caso di ricorso alla Corte in via di azione), ma certamente recessiva.

Rispetto alle fonti comunitarie non direttamente applicabili è comunque centrale, anche se disposta su molteplici piani logici e condizionanti: a monte: leggi di esecuzione dei trattati comunitari, a valle: leggi sulla organizzazione della partecipazione alla formazione e della attuazione degli atti comunitari (es. legge comunitaria), leggi di delega per l'attuazione e via discorrendo.           

 

5. Quale ruolo per la legge statale ordinaria?

In termini estremamente e volutamente sintetici, oltre che imprecisi, se la “posizione” della legge statale è, rispetto alle leggi regionali, in rapporto di “competenza – concorrenza” e, rispetto alle fonti comunitarie direttamente applicabili, in rapporto di “recessione”, nonché, rispetto a quelle non direttamente applicabili, in rapporto di “strumentalità”, il “ruolo” discende dal senso in cui deve intendersi la “posizione”.

Il rapporto di competenza – concorrenza tra leggi statali e leggi regionali è uno schema generico all’interno del quale possono ravvisarsi diversi modi di atteggiamento del rapporto stesso. Non vi è la legge statale, ma tante leggi statali quante sono le materie elencate dall’art. 117 e quelle residuali che negli elenchi non rientrano, essendo previste in altre disposizioni costituzionali.

Così, se è possibile escludere ogni competenza legislativa regionale nelle materie di competenza esclusiva statale, resta peraltro da definire i rapporti e i confini tra alcune di queste materie e alcune altre demandate alla legislazione concorrente. D’altra parte, alcune delle materie di competenza statale esclusiva sono di tale latitudine ed atteggiate teleologicamente, come si è già ricordato, da sovrapporsi a competenze regionali. E vi è pure la possibilità per la legge di operare in sussidiarietà nei confronti di funzioni amministrative (ma anche, per necessità logica, delle corrispondenti funzioni legislative) “per assicurarne l’esercizio unitario … sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” (art. 118 al. Cost.). Ma nessuna di queste competenze della legge statale, anzi di singole leggi statali, può annullare la corrispettiva competenza legislativa regionale.

È per questo che si può sempre parlare di competenze concorrenti e di concorso vincolato tra fonti.

In ogni modo la legge statale è preminente; e lo è soprattutto sempre se la si consideri quale produttrice di norme sulla normazione o comunque sulla regolazione o sull’esercizio di poteri autoritativi normativi (e anche provvedimentali).

È quanto risulta, manifestamente, dalle disposizioni costituzionali. È la legislazione statale quella “riservata” alla “determinazione dei principi fondamentali” nelle materie di legislazione concorrente (art. 117, 3° co., Cost.); è la “legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”, nonché pone “le norme di procedura” per la partecipazione “alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari” e per i provvedimenti di “attuazione” e di “esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea” (art. 117, 5° comma, Cost.); è ancora la legge dello Stato che, nell'ambito delle competenze regionali, disciplina “casi” e “forme” di conclusione, da parte delle Regioni, di “accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato” (art. 117, 9° co., Cost.).

Ma è ancora la legge statale che “disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni" nelle materie dell’ “immigrazione” e dell’ “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale”, e che “disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali” (art. 118, 3° co., Cost.).

Ed è infine la legge statale che “istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante” (art. 119, 3° co., Cost.); ed anche la destinazione di “risorse aggiuntive” e l’effettuazione di “interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni” sono competenze attribuite allo Stato (e quindi, ovviamente, anche, alla legge statale) (art. 119, 5° co., Cost.); come pure è la legge dello Stato che determina “i principi generali” per l’attribuzione di un proprio patrimonio ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni (art. 119 u.c. Cost.), come è sempre la legge che “definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi [del Governo nei confronti delle Regioni e degli altri enti territoriali] siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione" “nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali” (art. 120, cpv. Cost.). E tale legge – evidentemente statale – in quanto pone norme sulle procedure dei poteri governativi sostitutivi – è veramente, seppure mediatamente, norma di salvaguardia e di chiusura nei confronti di ogni potere (e dell’autonomia) degli enti territoriali, garantendo che i poteri governativi sostitutivi siano comunque fedeli ai principi di sussidiarietà e di leale collaborazione. Ancora una volta, la legge statale si presenta come norma (procedimentale) sulla normazione o su prescrizioni procedimentali nei confronti di norme e provvedimenti governativi.

Il ruolo della legge statale è eminentemente quello di garantire bensì l’unità e la coerenza dell’ordinamento, in conformità dei dettati costituzionali, ma attraverso strumenti idonei e rispettosi dell’autonomia degli enti ai quali la Costituzione garantisce poteri che non possono essere, di regola, soppressi e che non sono, oltre ragionevole misura, comprimibili. All’interno dell’ordinamento.

Ma – ormai è incontestabile – che il nostro ordinamento è collegato in maniera indissolubile a quello comunitario (senza che tuttavia ne sia ancora una semplice articolazione). Anche qui la legge statale svolge un suo ruolo indefettibile e, per ciò stesso, primario.

Quando non si tratti di recessione nei confronti di norme comunitarie direttamente applicabili, la legge statale contribuisce – come si è visto – alla formazione e alla attuazione della normativa comunitaria, in varii modi, anche qui sempre rispettosi dell’autonomia regionale.

Ma se l’auspicio alla trasformazione della legge comunitaria da norma sulla normazione di attuazione delle direttive comunitarie in “vera e propria sede privilegiata di attuazione” può esaltare l’attuazione direttamente disposta dal Parlamento, anche sul versante delle norme comunitarie direttamente applicabili, si è rilevato e … lamentato che il problema dei controlimiti, necessari e sufficienti ad impedire l’entrata nel nostro ordinamento delle norme comunitarie contrastanti con i principi supremi e con i diritti inviolabili della persona umana, non sia stato ancora seriamente affrontato, non ostante che la riforma costituzionale (l. cost. n. 3 del 2001) abbia finalmente menzionato l’ “ordinamento comunitario” come fonte di “vincoli” per ogni specie di potestà legislativa (art. 117 al. Cost.).

Non esiste cioè nel nostro ordinamento costituzionale una clausola di supremazia a favore del diritto europeo, che ne stabilisca però con chiarezza condizioni e limiti di prevalenza; e questo tanto più considerando che l’ordinamento comunitario tende ad occupare spazi sempre più penetranti e coinvolgenti anche l’area dei diritti fondamentali, al punto che in una sentenza del Consiglio di Stato di quest’anno (8 agosto 2005, n. 4207) si legge che “è stato, ed è, concepibile conservare uno spazio giuridico statale del tutto sottratto all’influenza del diritto comunitario, uno spazio nel quale lo Stato continua ad essere interamente sovrano, vale a dire indipendente, e perciò libero di disporre delle proprie fonti normative. È appunto l’area dei diritti fondamentali, la cui tutela funge da insopprimibile ‘controlimite’ alle limitazioni spontaneamente accettate con il trattato”. Ma in qual modo e in quale misura ed estensione deve intendersi il rispetto (o la violazione) di quei “principi supremi dell’ordinamento e dei diritti inviolabili della persona umana” di cui pure la proposta di revisione dell’art. 11 Cost. (Atti Camera n. 2218, presentata il 23.1.2002) si limita a ragionare?

Quale può essere in proposito il ruolo che la legge ordinaria - e quale altra fonte potrebbe mai essere? - è chiamata a svolgere?

 

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