Relazione al Convegno organizzato dall’ISSiRFA-CNR su Regionalismo in bilico tra attuazione e riforma della riforma, Roma, Sala del Cenacolo, 30 giugno 2004

I. - Nell’art. 117 novellato dalla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, il criterio della competenza per materia è alla base della distinzione delle tre forme di potestà legislativa rilevanti nel rapporto Stato-Regioni. Vi sono infatti, come è noto, materie riservate alla potestà esclusiva dello Stato; materie oggetto della potestà legislativa ripartita o concorrente; materie innominate assegnate alla potestà legislativa regionale non concorrente, secondo il criterio generale-residuale.
La distinzione della competenza legislativa per materia ha generato il convincimento che fra l’ambito di esercizio della potestà legislativa statale esclusiva e l’ambito di competenza regionale residuale fosse ormai segnata una rigida separazione, retta da precise delimitazioni, naturale premessa di contestazioni e di scontri. Tant’è che in sede governativa è stato espresso il convincimento che, ad evitare le incertezze e i conflitti propri della potestà legislativa concorrente, il rimedio fosse quello di sopprimere tale forma di legislazione: riportando alla potestà esclusiva dello Stato alcune materie attualmente oggetto della potestà concorrente (come la produzione e la distribuzione nazionale dell’energia), e assegnando le altre alla compiuta disciplina della legge regionale (1).
L’esperienza si è incaricata di mostrare come una simile concezione avesse delle alternative.
La linea lungo la quale si è manifestata la complessità dell’intreccio tra la competenza statale e quella regionale è stata di nuovo quella della dimensione degli interessi, il prorompere delle esigenze unitarie, l’irriducibile necessità di un ruolo unificante, riferito alla Repubblica, ma da esplicarsi dallo Stato. Vale subito notare che un tale esito ha sciolto in senso negativo la domanda posta da chi, forte di una approfondita riflessione sul tema dell’interesse nazionale (2), di fronte al venir meno del riferimento a tale interesse nel testo costituzionale novellato, e a qualche conclusione affrettata tratta da tale modalità formulare, si è chiesto (retoricamente): «Scompare l’interesse nazionale?» (3).
Invero, l’interesse nazionale non scompare; non possono scomparire le esigenze unitarie nella vita di un ordinamento che, per dettato costituzionale e per carattere strutturale, è essenzialmente uno e indivisibile; e che perciò, nell’assumere a proprio valore supremo il riconoscimento e lo sviluppo dell’autonomia locale, non può non esprimere modi e forme di bilanciamento richiesti dalla sua struttura unitaria.
Nell’assetto fissato dalla legge costituzionale n. 3 la salvaguardia delle esigenze unitarie è certamente affidata a specifici titoli abilitanti puntuali e distinti: ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi della Repubblica; al potere di sostituzione previsto nell’art. 120 comma 2, oltre che alla riserva allo Stato delle materie elencate nel comma 2 dell’art. 117 (4). Ma nell’applicazione/attuazione del nuovo Titolo V, altre vie per la tutela dell’interesse nazionale, ossia delle esigenze unitarie, si sono venute palesando: con l’approvazione di leggi dello Stato ricadenti su aspetti inclusi in materie regionali, o anche a proposito di leggi regionali impugnate dal Governo sull’assunto di una loro pretesa invasività della sfera di competenza dello Stato. Leggi attraverso cui il rigido assetto corrispondente alla separazione delle competenze per materia ha mostrato la sua capacità di flettersi nel segno delle esigenze da soddisfare.
Questa legislazione, statale e regionale, sottoposta all’esame della Corte costituzionale, ha portato il giudice delle leggi a compiere una ricostruzione del nuovo assetto introdotto dalle modifiche del titolo V, capace di svelare le risorse di razionalità insite in esso, sulla scorta dei principi enunciati nelle disposizioni della legge costituzionale n. 3.
Un’opera imponente nella quale la Corte si è avvalsa bensì del ricco patrimonio giurisprudenziale accumulato in cinquant’anni di attività (si è esattamente richiamata al riguardo la nota sentenza 177/1988), ma non utilizzato nel segno della continuità: come è imposto dalla diversità del criterio del riparto della competenza con la configurazione di una competenza generale-residuale delle Regioni; dalla consapevole esclusione di limiti generali rilevanti quali i principi generali dell’ordinamento, o le grandi riforme economico-sociali (5); e, ancora, come è imposto dalla mancata costituzionalizzazione della funzione statale di indirizzo e coordinamento, trasmodata, in vigenza dell’originario titolo V, dall’ambito delle funzioni amministrative regionali a quello della stessa funzione legislativa, e non delle sole Regioni a statuto ordinario (6).
I percorsi attraverso cui la Corte è venuta delineando la nuova fisionomia dell’ordinamento, e ha mostrato a quali congegni sia affidata la sua capacità di risposta ai bisogni unitari, possono individuarsi precipuamente: per un verso, nella definizione delle materie figuranti nell’elenco di cui all’art. 117 comma 2; per altro verso, nella ormai nota figura dell’attrazione in sussidiarietà delle funzioni delle Regioni allo Stato; senza trascurare lo spazio riconosciuto al potere sostitutivo nei rapporti tra i soggetti istituzionali che costituiscono la Repubblica.
A) Con riguardo al primo profilo viene in rilievo il valore attribuito alle materie trasversali, alle materie-non materie, destinate non già a designare ambiti di disciplina, ma piuttosto ad individuare competenze del legislatore statale esercitabili con riferimento ad una pluralità di materie (7). Così dicasi della materia “Tutela della concorrenza” (sentenza n. 14/2004); così dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale” (sentenza n. 282 del 2002); così della materia “ordinamento civile” (sempre sent. n. 282/2002); così della “tutela dell’ambiente”, «che non sembra configurabile – argomenta paradigmaticamente la Corte – come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delineata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze». La configurazione dell’ambiente come “valore” costituzionalmente protetto delinea – è sempre la Corte – «una sorta di materia “trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale» (sentenza n. 407/2002; sentenza n. 536/2002).
Per converso, a proposito della installazione di elettrodotti e della prevenzione dei danni derivanti dai campi elettromagnetici, il gravame del Governo avverso una legge regionale che aveva disposto in materia, secondo l’assunto governativo violando la competenza esclusiva dello Stato, è stato rigettato dalla Corte: che ha statuito come le leggi regionali, nell’esercizio della potestà concorrente o residuale, possono legittimamente perseguire nella materia anzidetta il fine della tutela dell’ambiente (sentenza n. 307/2003).
Secondo la richiamata giurisprudenza, dunque, l’assegnazione di una materia ad uno dei soggetti legislativi, Stato o Regioni, non crea paratie, non traccia confini invalicabili, ma va piuttosto intesa e fatta operare alla stregua del criterio uniformità/differenziazione o, altrimenti detto, della dimensione degli interessi da soddisfare.
B) Con riferimento all’attrazione in sussidiarietà allo Stato di funzioni delle Regioni vengono – come è noto – connessi e contesti in sistema i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, già oggetto di formulazione legislativa (l. 59/1997) ed elevati a rango di principi costituzionali dalla legge n. 3.
Il titolo di legittimazione che abilita lo Stato ad attrarre alla sua competenza funzioni amministrative delle Regioni sono le istanze unitarie, che “pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione delle competenze, [basti pensare al riguardo alla legislazione concorrente dell’ordinamento costituzionale tedesco (Konkurrierende Gesetzgebung) o alla clausola di supremazia (Supremacy Clause) nel sistema federale statunitense]” (così testualmente la sentenza 303 del 2003). Istanze unitarie che possono dunque giustificare una deroga al normale riparto delle competenze, non soltanto nell’ordine amministrativo, ma, in ragione del principio di legalità (il quale esige che le funzioni amministrative assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge), con riguardo alle stesse funzioni legislative: ed è evidente come solo la legge statale possa svolgere tale compito unificante.
Il cardine della costruzione è dunque il principio di sussidiarietà, inteso peraltro in una attitudine ascensionale, da attuare nella forma di un procedimento che ne saldi l’operatività al principio di leale cooperazione. Una concezione, come dice la Corte, procedimentale e consensuale della sussidiarietà e dell’adeguatezza le cui manifestazioni possono ritenersi giustificate e valide, sempre che siano: a) proporzionate, b) non affette da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità e c) siano oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata.
La dottrina ha espresso il proprio apprezzamento per questa chiara visione di sistema, che dà risalto al ruolo dei diversi soggetti costitutivi della Repubblica, evitando il rischio di disfunzionali rigidità (8). Certo, non tutte le ombre sono state fugate, a cominciare dal dubbio sulla riferibilità dell’attrazione in discorso anche alle materie di potestà regionale residuale (ma le esigenze unitarie sembrano valere anche per tale forma di potestà) (9); e, ancora, interrogativi si pongono sulla portata del principio dell’intesa (10). Peraltro, la clausola di flessibilità individuata è coerente con l’impianto e le necessità dell’ordinamento (11).
C) Anche l’esercizio del potere di sostituzione di cui all’art. 120 comma 2 Cost. comporta una deroga all’ordine delle competenze Stato/Regioni, a tutela di esigenze unitarie (rispetto di norme e trattati internazionali, tutela dell’unità giuridica o unità economica, e in particolare tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali): pur se il presupposto dell’esercizio del potere in discorso è quello della mancata adozione di atti obbligatori; e pur se la sostituzione si concreta in una alterazione puntuale e temporanea dell’ordine delle competenze, diretta a salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento: alterazione che peraltro si trattiene sul piano dell’esercizio delle competenze (cfr. Corte cost., sentenza n. 43/2004) (12).
Disputata in dottrina è la possibilità di applicare l’istituto della sostituzione alla funzione legislativa regionale, ove il pregiudizio alle istanze unitarie indicate nell’art. 120 Cost. si verificasse a causa di omissioni o inadempimenti delle Regioni sul piano legislativo (13). Si pensi all’ipotesi di ritardi o di omissioni delle Regioni nell’attuazione ed esecuzione in via legislativa di accordi internazionali o di atti dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 117 novellato comma 5. Ove si ritenga che in questo caso il Governo, in via del tutto eccezionale, possa attuare la sostituzione a mezzo di un decreto-legge, si verificherebbe, per altro verso, un superamento del rigido riparto della competenza legislativa per materia.

II. - Più in linea con la precedente esperienza è la figura che si è venuta delineando della potestà legislativa concorrente, nonostante la diversità della formula adoperata per denotarla nell’art. 117 novellato. La Corte ha avuto modo di dichiarare che le Regioni devono attenersi ai principi fondamentali della legislazione statale, siano essi stabiliti con leggi-cornice approvate nel nuovo contesto, siano essi invece desunti dalla legislazione statale in vigore (sentenza n. 282/2002). Non è dunque revocabile in dubbio che le Regioni possano esercitare la potestà legislativa nelle materie di competenza concorrente, anche in assenza di leggi dello Stato che formulino i principi fondamentali (Corte cost., sentenza n. 282 del 2002, sentenze nn. 196 e 201 del 2003) (14). Ciò che non è consentito è che le Regioni abbiano anche in via provvisoria poteri illimitati, per l’assoluta novità del rilievo assunto da taluni fenomeni sociali, e la mancanza perciò di una disciplina statale di principio (sentenza n. 359 del 2003 a proposito del mobbing).

III. - Rimane tuttavia, in generale, la complessità dei rapporti tra Stato e Regioni segnatamente nell’esercizio della funzione legislativa. Il rilevante contenzioso accumulatosi presso la Corte costituzionale ne è la spia. Una conferma da ultimo nella sentenza n. 196/2004, pubblicata il 24 giugno scorso. La Corte, con una decisione equilibrata, ha risolto un contenzioso affollato promosso da più Regioni a proposito del condono edilizio.
La Corte ha bensì respinto le censure che mettevano in discussione la stessa legittimità del condono edilizio, riapparso sulla scena benché in precedenti pronunce fosse stato lasciato indenne in ragione del suo carattere straordinario ed eccezionale (15) La legittimità costituzionale del condono edilizio era stata contestata dalle Regioni sia perché adottato con decreto-legge (art. 32 decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 come convertito ad opera della legge 24 novembre 2003, n. 326); sia perché inficiato da molteplici vizi sostanziali e, in particolare, per difetto di ragionevolezza. Con riguardo a tale ultimo profilo le Regioni avevano dedotto che la reiterazione stessa del condono escludeva quei caratteri di assoluta straordinarietà, eccezionalità e irripetibilità che soli, secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale, sentenza 28 luglio 1995, n. 416), possono giustificare una sanatoria destinata ad operare sulla illiceità penale e amministrativa degli abusi edilizi.
La Corte ha ritenuto non fondate le censure mosse. Quella riguardante il ricorso al decreto-legge, escludendo di poter riconoscere nella specie quella “evidente mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza prescritti dall’art. 77 Cost., che, secondo la sua consolidata giurisprudenza, potrebbero dar luogo alla dichiarazione di illegittimità dell’atto di urgenza (da ultimo, sentenze n. 341 del 2003 e n. 6 del 2004); invero, nel caso del condono edilizio in questione, non potrebbe negarsi la sussistenza di specifici motivi per un’immediata adozione ed entrata in vigore del testo normativo (efficacia su procedure giurisdizionali ed amministrative in corso; necessità di evitare spinte a modificare l’atto normativo nel corso della sua formazione); né potrebbe trascurarsi la necessità di inserire la disciplina in sanatoria in un contesto normativo più ampio, inteso a correggere l’andamento dei conti pubblici.
La Corte ha del pari ritento non fondata la censura di irragionevolezza, non senza aver prima contestato di aver mai affermato in via generale l’illegittimità costituzionale di ogni tipo di condono edilizio straordinario (si confronti peraltro la sentenza n. 416 del 1995). Piuttosto, dice la Corte, è necessario uno stretto scrutinio di costituzionalità al fine di stabilire se il condono abbia un ragionevole fondamento. E nella specie tale ragionevole fondamento viene ravvisato nella opportunità, espressa dall’art. 32 impugnato, di prevedere ancora una volta un intervento straordinario di condono edilizio nelle contingenze particolari della recente entrata in vigore sia del Testo unico delle disposizioni in materia edilizia, sia del nuovo Titolo V che consolida di più nelle Regioni e negli Enti locali la politica di gestione del territorio.
È difficile non rilevare lo sforzo argomentativo della Corte.(15).
Ma ha nel contempo dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della disciplina legislativa statale impugnata, sotto più riguardi, “per non avere previsto che la legge regionale possa disciplinare aspetti non trascurabili della materia” (16).
Appare dunque chiaro che l’ordinamento ha bisogno di modi di partecipazione all’esercizio della funzione legislativa che meglio rispondano al principio di leale cooperazione affiorato dalle pieghe della Costituzione materiale e ora assunto a principio costituzionale dichiarato. Del tutto condivisibile è invero la posizione di quanti vedono in tale principio la chiave di volta del sistema (17).
Invero, superato l’impianto gerarchico che informava di sé il disegno del previgente titolo V, l’ispirazione fondamentale che traluce dal disposto dell’art. 114 novellato e dalla nuova disciplina costituzionale è quella della collaborazione (18).
Il mancato svolgimento di tale principio, ad opera del legislatore costituzionale del 2001, in strutture organizzatorie o in moduli procedimentali costruiti in coerenza con il principio di partecipazione si può solo giustificare in una prospettiva di sua ravvicinata attuazione leggibile nella formula interlocutoria dell’art. 11 (“Sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione”). Sullo sfondo c’è, tra l’altro, la Camera delle Regioni (19).

NOTE

(*) Questo scritto è destinato agli Studi in onore di Gianni Ferrara.

(1) LA LOGGIA, “Titolo V oggi, “Titolo V domani” e “Devolution”, in Le Regioni tra riforma amministrativa e revisione costituzionale. Atti dell’VIII Convegno nazionale di Studi Regionali a cura del Consiglio Regionale della Liguria, Maggioli editore 2002, p. 123 ss. Secondo il Ministro per gli Affari regionali, bisogna “tentare di eliminare per quanto più possibile, ridurre al minimo se non riusciremo ad eliminare tutte le materie in legislazione concorrente” (ivi, p. 127): in modo da dividere in maniera orizzontale la competenza (p. 128). Tale posizione è stata ribadita nel Convegno di studi su “Il rapporto Stato-Regioni dopo la riforma del Titolo V della Costituzione”, Napoli 31 gennaio-1 febbraio 2003, in Quaderni campani, n. 1, p. 217 s., in cui la figura della potestà legislativa concorrente è definita un “inferno normativo” (p. 218).

(2) BARBERA A., Regioni e interesse nazionale, Milano 1973.

(3) In Forum di Quaderni costituzionali (forumcostituzionale.it), e in Quaderni costituzionali, 2001, fasc. 1, p. 34 s., con il titolo “Chi è il custode dell’interesse nazionale?”. Secondo Barbera, con la riforma del Titolo V il legislatore “revisionante” del 2001 ha tolto al Parlamento le funzioni di custodia dell’interesse nazionale e le ha lasciate nelle mani della sola Corte costituzionale, atteso che tale interesse è uscito dall’ambito del controllo di merito, successivo ed eventuale, ed è divenuto presupposto di legittimità. La Tosi, A proposito dell’interesse nazionale, in Quaderni costituzionali, 2002, fasc. 1, 86 ss., è invece incline a ritenere che la determinazione dell’interesse nazionale nel nuovo assetto non potrà non configurarsi come frutto della collaborazione tra Parlamento e giudice costituzionale.

(4) Distingue la tutela dell’interesse nazionale fondata su specifici e distinti titoli abilitanti dalla tutela realizzabile nelle forme del coordinamento sulla base dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione: R. BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, in Le Regioni, 2001, 1213 ss. Rilievi sul punto anche in: TOSI, A proposito dell’interesse nazionale, loc. cit.

(5) Il nuovo quadro dei limiti all’esercizio della competenza legislativa regionale è segnalato da: CARETTI, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo Titolo V della Costituzione. Aspetti problematici, in Le Regioni, 2001, p. 1228, che pone in luce la corrispondenza tra la scomparsa di alcuni limiti e la nuova concezione dei rapporti fra lo Stato e le Regioni non più improntata alla supremazia dello Stato.

(6) Ritiene che la funzione di indirizzo e coordinamento non trovi più posto nel nuovo sistema, e debba quindi ritenersi del tutto cessata: A. ANZON, I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto costituzionale, Giappichelli, Torino 2003, p. 245 s. La ANZON considera perciò non conforme a Costituzione il disposto di cui all’art. 8 comma 6 l. 5 giugno 2003, n. 131, che sembra mantenere in vita tale funzione per le materie di potestà esclusiva statale.

(7) Il rilievo centrale dell’elencazione delle materie legislative nell’architettura generale della riforma è sottolineato da: A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze, in Quaderni costituzionali, 2003, p. 15 ss., che propone il criterio storico-normativo per la determinazione dei contenuti delle formule costituzionali che le indicano, pur se con i limiti provenienti dalle materie nuove e dalle materie-non materie.
Una approfondita riflessione sul tema della definizione delle materie, di recente in: R. BIN, “Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale”. Rileggendo Livio Paladin dopo la riforma del Titolo V, nel sito astridonline.it.

(8) D’ATENA, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte costituzionale, in Giur. Cost., 2003, p. 2776 ss., che sottolinea lo sforzo della Corte di ricondurre a coerenza sistematica il titolo V novellato e, nel condividere il riconoscimento della valenza procedimentale del principio di sussidiarietà, ne segnala la rilevanza ai fini della giustiziabilità di tale principio.

(9) Esclude che l’attrazione in sussidiarietà allo Stato possa riguardare funzioni amministrative attinte da materie della competenza residuale delle regioni: D’ATENA, L’allocazione delle funzioni amministrative cit., p. 2778. Nel senso invece che il meccanismo della sussidiarietà/adeguatezza proclamato dall’art. 118 riguardi tutte le funzioni amministrative, e non è limitato alle sole materie in cui lo Stato ha competenza legislativa, giacché esigenze di esercizio unitario a livello nazionale possono riferirsi anche a materie di competenza legislativa regionale residuale: ANZON, Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni, in Giur. Cost., 2003, p. 2790. Nello stesso senso: TORCHIA, In principio sono le funzioni (amministrative): la legislazione seguirà (a proposito della sentenza 303/2003 della Corte costituzionale), nel sito astridonline.it.

(10) Analitiche considerazioni sul principio dell’intesa, sulle forme in cui questa può esprimersi e più in generale sul rapporto tra la sussidiarietà in senso dinamico e la leale collaborazione in: ANZON, Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative cit., spec. p. 2785 ss.

(11) A. MORRONE, La Corte costituzionale riscrive il Titolo V, in Quaderni costituzionali, 2003, p. 818, osserva che la sentenza n. 303 del 2003 è destinata a segnare una svolta nell’interpretazione del nuovo titolo V, con la stessa valenza di quelle decisioni della Corte costituzionale che hanno riscritto il vecchio Titolo V (sentenze nn. 15 e 16 del 1956 e sentenze da n. 138 a n. 142 del 1972).

(12) Già nella sentenza n. 303 del 2003 la Corte ha chiarito che, nella fattispecie di cui all’art. 120 Cost., “l’inerzia della Regione è il presupposto che legittima la sostituzione statale nell’esercizio di una competenza che è e resta propria dell’ente sostituito”. Un primo raffronto tra il potere di sostituzione dello Stato nei confronti delle Regioni secondo l’assetto previgente e il medesimo potere dopo la recente riforma del Titolo V in: MAINARDIS, I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre, in Le Regioni, 2001, p. 1357. Dello stesso A. si veda pure: Il potere sostitutivo (commento all’art. 8), in Stato, Regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, a cura di G. Falcon, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 157 ss.

(13) Nel senso che la sostituzione di cui all’art. 120 comma 2 Cost. riguardi solo le funzioni amministrative: CERULLI IRELLI - PINELLI, Normazione e amministrazione nel nuovo assetto costituzionale dei pubblici poteri, in Verso il federalismo, Il Mulino, Bologna 2004, p. 81; i quali, tuttavia, per i casi di particolare urgenza, e di situazioni contingibili capaci di porre a rischio l’unità giuridica ed economica del Paese, o i livelli essenziali delle prestazioni, ritengono che il Governo, non legittimato a ricorrere allo strumento legislativo, possa utilizzare poteri atipici, nella specie il potere di ordinanza.
Ad avviso del LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della legge cost. n. 3 del 2001, relazione presentata al Convegno su “Il nuovo Titolo V della Costituzione. Lo stato delle autonomie”, Roma 19 dicembre 2001, p. 20 del dattiloscritto, l’ampio dettato dell’art. 120 Cost. induce a ritenere che il Governo possa sostituirsi nell’esercizio della funzione legislativa a mezzo del decreto-legge.
Problematica la posizione di CARETTI, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale, cit., p. 1229, il quale, ragionando nell’ambito dell’ipotesi che il mancato riferimento all’esercizio della sostituzione per la funzione legislativa nell’art. 120 costituisca una lacuna non voluta, e rimediabile in via interpretativa, indica come possibile soluzione l’intervento in via sostitutiva del Parlamento in forza del principio di sussidiarietà.

(14) La legge n. 131 del 2003, come è noto, al dichiarato intento di orientare, nella fase di prima applicazione, l’attività legislativa delle Stato e delle Regioni fino all’emanazione delle leggi recanti i nuovi principi fondamentali, ha conferito al Governo la delega per la ricognizione dei principi fondamentali ricavabili dalle leggi vigenti.
Tale delega è stata fatta segno di severe critiche. D’ATENA, Legislazione concorrente, principi impliciti e delega per la formulazione dei principi fondamentali, in Forum di Quaderni costituzionali (forumcostituzionale.it), l’ha definita aberrante; mentre BIN, La delega relativa ai principi fondamentali della legislazione statale (commento all’art. 1, commi 2-6), in Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, a cura di G. Falcon, cit., p. 21 ss., attraverso una attenta distinzione fra i principi e i criteri direttivi, mostra che il vero oggetto della delega non è tanto l’individuazione dei principi fondamentali quanto la ridefinizione delle materie.
Con riguardo ai profili della competenza e del procedimento, seri dubbi sulla legittimità della delega possono discendere dal disposto di cui all’art. 11 legge costituzionale n. 1 del 2003, se inteso nel senso che la materia dei principi fondamentali sia coperta da riserva di assemblea (così BASSANINI, Attuazione dell’art. 117, primo e terzo comma, della Costituzione in materia di legislazione regionale, in Legge “La Loggia”. Commento alla L. 5 giugno 2003 n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, Maggioli editore 2003, p. 22 ss., spec. p. 38, sottolinea l’incompatibilità della delega al Governo per la determinazione dei principi fondamentali con lo speciale procedimento delineato nell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 e, soprattutto, con lo spirito della concertazione fra Stato e Regioni cui tale procedimento è preordinato). Rilievo che costituisce il risvolto sul piano formale dell’obiezione di ordine politico-sostanziale alla delega di cui trattasi, che si richiama alla funzione strategico-proiettiva dei principi fondamentali e, come tale, esige che essi siano fissati con valore innovativo dalle Camere titolari istituzionali della funzione legislativa (sostanzialmente concorde la posizione di C. E. GALLO, Perché no ad un testo unico dei principi fondamentali nelle materie regionali, in Quaderni costituzionali, 2002, p. 358 ss.).
A tutte le riserve che precedono possono aggiungersi le incertezze che sicuramente circonderebbero l’operazione ricognitiva del Governo, e le probabili censure di illegittimità degli atti delegati per violazione dei principi e criteri direttivi stabiliti con formula generica nella legge n. 131. Peraltro, di tali incertezze e difficoltà sembra conseguenza, e conferma, la recente proroga per un anno della delega, disposta con la legge 28 maggio 2004, n. 140, in conversione del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80.
Vuole aggiungersi che la posizione appena espressa non sembra contraddetta da quella giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il decreto-legge può di per sé costituire legittimo esercizio dei poteri legislativi di competenza statale, compresa la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di cui all’art. 117 comma 3 Cost. (sentenze n. 6 e n. 196 del 2004). Pare infatti decisivo notare al riguardo che altro è il rapporto del decreto-legge, atto provvisorio e da convertire in legge, con la potestà legislativa delle camere; altro è il rapporto del decreto delegato con la previa legge di delegazione. Peraltro, il ricorso al decreto-legge per stabilire i principi fondamentali da attuarsi dalle Regioni è ipotesi che suscita qualche dubbio proprio in ragione della provvisorietà e della possibile decadenza ex tunc dell’atto di urgenza.

(15) La legittimità costituzionale del condono edilizio era stata contestata dalle Regioni sia perché adottato con decreto-legge (art. 32 decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 come convertito ad opera della legge 24 novembre 2003, n. 326); sia perché inficiato da molteplici vizi sostanziali e, in particolare, per difetto di ragionevolezza. Con riguardo a tale ultimo profilo le Regioni avevano dedotto che la reiterazione stessa del condono escludeva quei caratteri di assoluta straordinarietà, eccezionalità e irripetibilità che soli, secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale, sentenza 28 luglio 1995, n. 416), possono giustificare una sanatoria destinata ad operare sulla illiceità penale e amministrativa degli abusi edilizi.
La Corte ha ritenuto non fondate le censure mosse. Quella riguardante il ricorso al decreto-legge, escludendo di poter riconoscere nella specie quella “evidente mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza prescritti dall’art. 77 Cost., che, secondo la sua consolidata giurisprudenza, potrebbero dar luogo alla dichiarazione di illegittimità dell’atto di urgenza (da ultimo, sentenze n. 341 del 2003 e n. 6 del 2004); invero, nel caso del condono edilizio in questione, non potrebbe negarsi la sussistenza di specifici motivi per un’immediata adozione ed entrata in vigore del testo normativo (efficacia su procedure giurisdizionali ed amministrative in corso; necessità di evitare spinte a modificare l’atto normativo nel corso della sua formazione); né potrebbe trascurarsi la necessità di inserire la disciplina in sanatoria in un contesto normativo più ampio, inteso a correggere l’andamento dei conti pubblici.
La Corte ha del pari ritento non fondata la censura di irragionevolezza, non senza aver prima contestato di aver mai affermato in via generale l’illegittimità costituzionale di ogni tipo di condono edilizio straordinario (si confronti peraltro la sentenza n. 416 del 1995). Piuttosto, dice la Corte, è necessario uno stretto scrutinio di costituzionalità al fine di stabilire se il condono abbia un ragionevole fondamento. E nella specie tale ragionevole fondamento viene ravvisato nella opportunità, espressa dall’art. 32 impugnato, di prevedere ancora una volta un intervento straordinario di condono edilizio nelle contingenze particolari della recente entrata in vigore sia del Testo unico delle disposizioni in materia edilizia, sia del nuovo Titolo V che consolida di più nelle Regioni e negli Enti locali la politica di gestione del territorio.
È difficile non rilevare lo sforzo argomentativo della Corte.

(16) La Corte, dopo aver precisato che l’urbanistica e l’edilizia sono ascrivibili alla competenza concorrente in materia di “governo del territorio”; e, con riferimento alla disciplina del condono edilizio, che (a parte gli aspetti penalistici integralmente riservati allo Stato) solo alcuni limitati contenuti di principio di tale disciplina possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali ai sensi del nuovo art. 117 Cost., dichiara l’illegittimità costituzionale dell’impugnata normativa statale con riguardo a ben sette profili. Tutti per mancato rispetto della competenza di dettaglio delle Regioni nella materia del governo del territorio.
Merita risalto l’implicazione che la Corte fa discendere dalla rilevata particolare struttura del condono edilizio straordinario, che presuppone un’accentuata integrazione fra il legislatore statale e il legislatore regionale. Una volta riconosciuto che le Regioni hanno una incomprimibile sfera di potestà legislativa propria, la cui lesione ha portato alla dichiarazione di illegittimità della legislazione statale invasiva, la Corte afferma che tuttavia le Regioni sono tenute ad adottare la disciplina di loro competenza nel termine congruo che lo Stato vorrà fissare. Ove le Regioni o le Province autonome non esercitassero il proprio potere legislativo nel termine stabilito, non potrà che applicarsi la disciplina statale censurata come illegittima.
Di certo, l’orientamento della Corte trova la sua ispirazione nel principio di leale cooperazione, invero esplicitamente richiamato nella decisione n. 196 (punto 21 dei considerata in diritto). Tuttavia, tale principio non dà interamente conto della soluzione adottata. Vi è in più la rilevanza del ruolo dello Stato come interprete delle esigenze unitarie dell’ordinamento che – nella visione della Corte – lo legittima, anche attraverso il decreto-legge, a compiere scelte di politica legislativa assai incidenti: scelte rispetto alle quali alle Regioni residua bensì uno spazio attuativo ma condizionato nei contenuti e circoscritto nel tempo. Quanto una tale visione contribuisca a fare chiarezza sulla pariteticità dello Stato e delle Regioni, conclamata sulla base dell’enunciato di cui all’art. 114 Cost. novellato, non occorre sottolineare.
D’altra parte, vale notare la difficoltà di dare al paradigma ricostruttivo della Corte una portata generale, capace di travalicare i confini di ambiti di disciplina intrecciati e complessi come quello del condono edilizio, in cui concorrono profili di governo del territorio, politiche criminali, esigenze di finanza pubblica, sopravvenienza di corpi normativi. Il capitolo dei rapporti tra lo Stato e le Regioni con riguardo alla delimitazione delle rispettive sfere di competenza legislativa si mostra così, anche alla luce delle indicazioni offerte dalla questione del condono edilizio, molto più complicato e molteplice di quanto non possa ricavarsi da una irenica concezione del riparto della funzione legislativa secondo una geometrica distinzione delle materie intese come perimetri precisi e reciprocamente invalicabili.
La rilevata complessità dei rapporti Stato-Regioni si manifesta anche nella soluzione, certo non lineare, che consiste nel dichiarare applicabile nelle Regioni rimaste inerti la disciplina statale del condono considerata invasiva e, come tale, costituzionalmente illegittima. C’è da chiedersi: ma come può una normativa di legge, annullata in quanto illegittima, rivivere allo spirare del termine assegnato dallo Stato alle Regioni per l’esercizio della propria potestà legislativa? Si tratta di una fattispecie che sembra opposta a quella delle norme cedevoli, perché le norme statali caducate dalla sentenza di accoglimento possono riacquistare efficacia (per volontà della Corte) dopo un lasso di tempo dalla cessazione dell’efficacia, non perderla. O bisogna ritenere piuttosto che la Corte abbia così fatto valere un effetto nuovo delle pronunce di accoglimento , quello della sospensione dell’efficacia?
Di sicuro può dirsi che alla base delle statuizioni della Corte vi è la concezione dell’ordinamento modellato dal nuovo Titolo V, delle sue esigenze unitarie e del ruolo, rispetto ad esse, dello Stato, limpidamente già espressa nella sentenza n. 274 del 2003 (B. CARAVITA DI TORITTO, Del condono e altro ancora: solo la Corte è in grado di esprimere saggezza istituzionale?, nel sito federalismi.it, n. 14/2004, ravvisa appunto la ratio della decisione n. 196 nella necessità che lo Stato possa apprestare gli strumenti che assicurino alle scelte di principio da esso compiute di avere attuazione ed esecuzione).

(17) In tal senso: VIOLINI, Meno supremazia e più collaborazione nei rapporti tra i diversi livelli di governo? Un primo sguardo (non privo di interesse) alla galassia degli accordi e delle intese, in Le Regioni, 2003, p. 691 ss. In termini ancora più decisi: BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, loc. cit.

(18) Segnala come la riforma del Titolo V abbia trascurato la necessità della collaborazione fra i soggetti (Stato e Regioni) titolari della potestà legislativa, condizione perché la «concorrenza» produca una disciplina compiuta: TORCHIA, “Concorrenza” fra Stato e Regioni dopo la riforma del titolo V: dalla collaborazione unilaterale alla collaborazione paritaria, in Le Regioni, 2002, p. 647 ss.

(19) Il disegno di legge costituzionale avente ad oggetto la revisione della parte seconda della Costituzione, attualmente all’esame della Camera dei deputati dopo l’approvazione in prima lettura ad opera dell’altro ramo del Parlamento (A.S. 2544), prevede l’istituzione del Senato federale. Peraltro, al testo della riforma sono state rivolte critiche severe, osservandosi che in effetti di federale il Senato proposto ha soltanto il nome. Invero, tale organo non rappresenta né le Regioni né il mondo delle autonomie locali; per altro verso, essendo al di fuori del circuito della fiducia, squilibra la forma di governo.
Critiche e riserve sono state avanzate anche da Cariche istituzionali (Presidente del Senato, Osservazioni sulle riforme istituzionali, lettera inviata il 16 gennaio 2004 al Governo e al Sen. Giuliano Amato; sito astridonline.it). L’intento di dare vita anche in Italia alla Camera delle autonomie richiede, dunque, sia sul piano della composizione, sia su quello delle funzioni e dei raccordi, una soluzione diversa: non necessariamente in chiave di trasposizione di modelli altrove messi in atto (come il Bundesrat tedesco), ma piuttosto facendo attenzione alla coerenza sistematica della scelta.
In attesa che venga sciolto il nodo intricato della seconda Camera, il coordinamento fra Stato e Regioni rimane affidato al sistema delle Conferenze: anzitutto alla Conferenza Stato-Regioni, che opera come sede di confronto e di raccordo tra Esecutivo nazionale ed Esecutivi regionali (su cui: I. RUGGIU, La Conferenza Stato-Regioni nella XIII e XIV legislatura, in Le Regioni, 2003, p. 195 ss., la quale conclude il suo studio affermando che “il destino del federalismo italiano continua ad essere quello del sistema conferenze”, ivi, p. 250).
Peraltro, le prospettive aperte dal nuovo Titolo V con la esplicita costituzionalizzazione del principio di leale collaborazione, e la rilevanza assegnata dalla recente giurisprudenza della Corte agli accordi e alle intese interistituzionali (sentenze n. 303 del 2003 e n. 43 del 2004) inducono a chiedersi se la strumentazione giuridica esistente (sedi e procedimenti) sia adeguata, o non occorrano piuttosto, nella stessa linea del raccordo tra gli Esecutivi, delle modifiche (si veda al riguardo il Documento della Regione Campania sui rapporti Stato Regione e sul funzionamento della Conferenza Stato-Regioni, nel sito astridonline.it, 6 giugno 2004).

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