Adriana CIANCIO, Sistema europeo dei partiti e integrazione politica nell’UE (aprile 2015)
(Testo, rivisto e aggiornato, della Relazione svolta al Convegno “Governance europea tra Lisbona e Fiscal Compact. Gli effetti dell’integrazione economica e politica europea sull’ordinamento nazionale”. Il testo è destinato alla pubblicazione degli Atti del Convegno ISSiRFA, tenutosi a Roma il 29 e 30 ottobre 2014).
1. I partiti politici europei: lo stato dell’arte
2. I partiti europei, fondamentali fattori di integrazione politica dell’Unione
3. Possibili linee di sviluppo dei partiti europei
1. I partiti politici europei: lo stato dell’arte
La riflessione odierna sui partiti europei e sul ruolo cui essi sono chiamati nel processo di integrazione politica nell’UE può grosso modo articolarsi intorno a tre interrogativi fondamentali.
Il primo, strettamente legato all’intitolazione assegnata a questo contributo, riguarda il quesito preliminare se oggi sia effettivamente possibile riferirsi alle formazioni politiche europee come ad un “sistema”, nel senso di assetto partitico strutturato e stabile, con una propria fisionomia ed identità (organizzatoria e ideologica), sufficientemente autonomo dall’originaria dipendenza dai partiti nazionali.
La domanda, in realtà, appare quasi retorica e la risposta, pertanto, scontata in senso negativo. In tal senso depone già l’elemento fattuale desumibile anche dalle più recenti elezioni per l’Europarlamento[1], ancora, pressoché per intero, consegnate ai partiti nazionali, per quanto taluni progressi nel senso dell’inveramento di un autentico sistema di partiti europei siano stati intravisti, fra l’altro, nelle designazioni uniche alla Presidenza della Commissione ad opera delle formazioni, che si riconoscono nelle grandi famiglie politiche europee[2], con candidati chiamati ad esprimere all’elettorato le rispettive, essenziali linee programmatiche già antecedentemente al voto, nel corso di dibattiti pubblici condotti sui media, in modo non dissimile da come avvengono i confronti tra i Leaders di partito in occasione delle elezioni nazionali. Permane, tuttavia, il dato di un suffragio espresso da elettori che sono cittadini europei per la formazione di un’istituzione europea, attraverso l’intermediazione realizzata, però, da partiti di dimensione essenzialmente nazionale, i quali, oltretutto, stentano a sottrarsi alla tentazione di utilizzare la campagna elettorale per il rinnovo dell’Europarlamento quale terreno di confronto reciproco e di scontro su temi, che, sovente, sono ancora di stretto interesse localistico e poco attinenti alle grandi problematiche, che intercettano oggi la stessa sopravvivenza dell’Unione[3]. Ciò contribuisce a rendere difficile, da un lato, al cittadino-elettore l’esatta percezione della dimensione (sovranazionale) in cui si colloca la scelta manifestata nelle urne; e, dall’altro lato, agli stessi eletti di esercitare il mandato ricevuto in linea con gli interessi prioritari dell’Unione, giacché essi, candidati e sostenuti da partiti nazionali, sono tuttora tentati di farsi carico dei relativi interessi politici, e comunque delle esigenze statali[4], a dispetto della circostanza che l’Assemblea sia l’unica istituzione europea in cui la cui rappresentanza è articolata sulla base delle affiliazioni ideologiche, più che in considerazione della provenienza territoriale dei propri membri e dei relativi tornaconti nazionali[5].
Ne soffre, in altri termini, la stessa fisiologia del rapporto rappresentativo. Ma di questo si è già detto abbondantemente altrove[6] e non si tornerà ad insistervi in questa sede.
Val la pena, però, in aggiunta, ribadire le considerazioni tratte dal processo di formazione dei partiti europei, i quali germinano non da fenomeni spontanei di aggregazione sociale intorno ad idee ed obiettivi politici condivisi, ma quale proiezione – si potrebbe dire – extraparlamentare dei gruppi politici, che si costituiscono all’interno del Parlamento dalla riunione dei deputati provenienti da partiti nazionali affini sotto il profilo ideologico[7]. I partiti europei, cioè, lungi dal presentarsi come “formazioni sociali”[8], hanno avuto, un’origine “interna”[9], ossia prettamente parlamentare[10], riproponendo, pertanto, nel loro processo di formazione una dinamica nell’usuale rapporto partiti-gruppi parlamentari più vicina all’esperienza inglese - ove i cd. Parliamentary parties nascono antecedentemente agli “Extraparliamentary parties”[11] (che dei primi, costituiscono, in origine, meri Comitati di supporto elettorale[12]) - che a quelle più diffuse nei sistemi di democrazia rappresentativa del Continente europeo, ove, di contro, i gruppi rappresentano – come si è soliti dire – la longa manus dei partiti in Parlamento, costituendo gli uni lo strumento organizzatorio interno con cui i secondi (per usare un’espressione forte) “occupano” l’assemblea rappresentativa e, attraverso essa, più in generale, le istituzioni[13].
Tale particolare dinamica del rapporto gruppi-partiti a livello europeo risulta favorita dalle previsioni del Regolamento generale dell’Assemblea, che (anche) sul punto appare confezionato sul modello delle norme di organizzazione interna del Parlamento francese[14], laddove – nel riferirsi (al Capitolo IV) ai raggruppamenti interni all’Europarlamento come “gruppi politici” - esclude la formazione di gruppi tra parlamentari legati solo, per così dire, sul piano tecnico-amministrativo, ma privi di ogni contiguità politica (sul modello del gruppo “misto” presente nell’ordinamento italiano, ma ignoto a quello europeo), imponendo da sempre la condivisione tra i membri di “affinità politiche” come condizione, che si aggiunge al requisito numerico e a quello della “transnazionalità”, per la costituzione dei gruppi[15]. Invero, secondo l’interpretazione che ne ha dato anche la giurisprudenza nell’occasione in cui è stata chiamata a pronunciarsi sul punto[16], solo raggruppamenti tra parlamentari uniti da affinità ideologiche-programmatiche, per quanto generiche e non eccessivamente stringenti[17], consentono di trascendere i particolarismi politici locali per costituire “luoghi” privilegiati, oltre che per l’esercizio delle specifiche attribuzioni parlamentari, anche per l’esplicazione di significativi compiti politici, che si sostanziano nel rappresentare la sede di aggregazione delle forze politiche nazionali e concorrere, in tal modo, alla formazione di partiti di dimensione sovranazionale, che possano assolvere alla finalità, prevista per questi ultimi dai Trattati, di contribuire a promuovere l’integrazione europea.
2. I partiti europei, fondamentali fattori di integrazione politica dell’Unione
La citazione richiama l’attenzione sulle previsioni del diritto primario dell’Unione, che da Maastricht in poi individuano i partiti europei quali soggettività intermedie tra le istituzioni e i cittadini[18], volti a formare, oltre che ad interpretare e recepire la volontà politica dei secondi per convogliarla nelle prime. Tuttavia, tra la previsione contenuta già nell’art. 138A, poi (in seguito alla rinumerazione di Amsterdam) art. 191 TCE[19] e l’approdo rappresentato da Lisbona si registra una lieve differenza letterale nella formulazione della disposizione sulle formazioni politiche sovranazionali, cui potrebbe anche attribuirsi scarso significato, se non fosse che sparisce il riferimento al ruolo dei partiti europei come fondamentali “fattori di integrazione”, presente nel Trattato sulla Comunità Europea, ma assente dal vigente art. 10, par.4 TUE[20].
La circostanza rinvia al secondo interrogativo, relativo all’effettivo ruolo che la presenza (rectius, l’assenza) di un sistema di partiti di livello genuinamente europeo gioca al fine della conformazione dell’UE come vera comunità politica (e non più soltanto meramente economica), che vuole fondare il proprio funzionamento sui principi della democrazia rappresentativa, come dichiara, al par.1, l’art.10 TUE, il quale – com’è noto - prosegue individuando nel Parlamento la sede della rappresentanza diretta dei cittadini e che, dopo aver previsto la legittimazione comunque democratica, per quanto indiretta, dei Consigli (europeo e dell’UE, art. 10, par.2 TUE), afferma il diritto dei cittadini di partecipare alla vita democratica dell’Unione (art. 10, par. 3), rimettendo, appunto, ai partiti europei la formazione di una coscienza politica europea e individuando in essi il canale privilegiato per esprimere la volontà dei medesimi cittadini (art. 10, par. 4).
Peraltro, se si estende la riflessione al complesso delle disposizioni di Lisbona, a prescindere dalla (voluta) assenza di ogni terminologia “federalista”[21], l’UE appare ormai delineata come prodromo di vera unione politica sufficientemente definita sotto il profilo giuridico e istituzionale: ne sono previste istituzioni comuni e relative attribuzioni, di cui è scandito l’assetto dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), sia pur secondo uno schema di collaborazione e complementarietà, nella ricerca del reciproco equilibrio, più che di separazione; determinate le competenze nei rapporti con gli Stati membri; individuato un sistema originario di fonti, oltretutto destinate a prevalere su quelle nazionali; definita una Carta delle libertà fondamentali (e, più in generale, previsto un corpo di diritti inviolabili, anche per effetto del richiamo al sistema della CEDU[22]), con un Giudice da ultimo disposto ad assicurarne l’applicazione persino con prevalenza sulle originarie libertà economiche[23], oltre che chiamato a sovrintendere alle infrazioni al diritto dell’Unione, non solo se provocate dagli Stati membri, ma, per quanto qui maggiormente interessa, anche quando indotte dalle stesse istituzioni comuni; un Giudice, che, ancora più a monte, esercita quella funzione, potrebbe dirsi, di nomofilachia nell’interpretazione del diritto, attraverso l’istituto del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TUE, essenziale allo stesso processo di integrazione, quantomeno giuridica[24]. E vi è, soprattutto, un patrimonio assiologico comune[25], individuato attraverso il richiamo contenuto nell’art. 2 TUE al rispetto dei diritti umani, della libertà, dell’uguaglianza, e, più in generale, dei principi dello Stato di diritto, quali valori condivisi dagli Stati membri, in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra i sessi, che dovrebbe fungere per l’operatore giuridico sia da canone ermeneutico e parametro di legittimità di altre disposizioni, europee e nazionali, che, altresì, da monito e criterio di valutazione rispetto alle richieste di ulteriori adesioni all’UE[26].
E, tuttavia, la forza certamente prescrittiva e, insieme, descrittiva di questa disposizione e, più in generale, dell’intero apparato normativo di Lisbona non sembra ancora sufficiente a radicare quel senso di comune appartenenza politica all’Unione di cui è facile accertare la mancanza fra i cittadini europei.
La constatazione è immediata: tanto per esemplificare, se soltanto si domandasse ad un quisque de populo inglese se e quanto conta l’essere europeo, ovvero che senso attribuisce alla propria cittadinanza europea, o, ancora, in che misura essa influisce nella sua quotidianità, già sulla base di quegli stessi risultati elettorali cui all’inizio si accennava[27], non è azzardato ipotizzare che la risposta frequentemente potrebbe tutt’al più consistere in quel distaccato “pardon?” con cui i britannici sono soliti liquidare le questioni che assolutamente non comprendono o che scarsamente li interessano.
Eppure era inglese quel Sovrano Senzaterra, che, ancora in epoca feudale, dinanzi ai Baroni riuniti nella pianura di Runnymede acconsentiva a limitare le proprie prerogative in funzione di riconoscimento di alcuni diritti patrimoniali e successori, nonché di quell’habeas corpus prodromico a quella che nei secoli successivi sarebbe stata identificata come la libertà delle libertà, ossia la libertà personale[28].
Di origine inglese erano i coloni che dal Nuovo Continente ammonivano la madre patria di accogliere propri rappresentanti in Parlamento per poter pretendere imposte e dazi di importazione, conformemente a quel monito “no taxation without representation”, riassuntivo dei principi fondativi delle moderne democrazie rappresentative, convenzionalmente affermatosi nell’esperienza politico-costituzionale britannica già molto prima l’originaria codificazione nella Bill of Rights del 1689.
Ancora, certamente inglese, per quanto celato nell’anonimato, era quel pensatore, che anticipava la necessità che il Legislativo venisse scorporato dall’Esecutivo, in funzione di garanzia dei diritti che la natura attribuisce agli uomini, nati tutti ugualmente liberi in natura, e che poi spetterà allo Stato riconoscere e quindi tutelare[29]. E questo, com’è noto, quasi sessant’anni prima che sul Continente europeo altro intellettuale, pure in forma anonima, sulla scorta di altri presupposti filosofici, affinasse tali considerazioni, per concludere nella maniera più nitida che “ pour qu’on ne puisse pas abuser du povoir, il faut que (…) le pouvoir arrête le pouvoir”[30] e con tale affermazione gettasse le premesse teoriche di quell’art. 16 della “Déclaration des droits de l’homme et du citoyen”, unanimemente assunto dai giuristi a testata d’angolo delle conquiste del costituzionalismo.
Non può esservi dubbio, pertanto, sul contributo che la Gran Bretagna, o, forse, meglio l’Inghilterra ha nei secoli fornito al consolidamento di quel patrimonio costituzionale comune cui espressamente rinvia il citato art. 2 TUE. Eppure nei confronti del progetto di unione politica europea proprio Albione, per così dire, si rivela quanto mai “perfida”, non solo rifiutando da sempre l’ingresso nella moneta comune, che della comunità politica rappresenta certo una tappa decisiva, nella misura in cui quella monetaria è declinazione essenziale della sovranità, ma da ultimo rivendicando con sempre maggiore insistenza persino (ulteriori) restituzioni della medesima sovranità e al limite l’uscita stessa dal diritto dell’Unione[31].
Né il quadro appare molto più roseo se si getta lo sguardo altrove e, procedendo nell’esemplificazione, si considera appena ciò che sta accadendo in Francia, altro grande Stato europeo, che, sulla scorta dei ben noti presupposti filosofici giusnaturalistici, illuministi e razionalisti ha storicamente contribuito in modo determinante a fondare quel sistema di valori sinteticamente riassumibili nei principi informatori dello Stato di diritto, se è vero (come è vero) il trionfo elettorale della destra estrema e nazionalista di Marine Le Pen nelle elezioni amministrative[32], prima, e in quelle europee, dopo; e se dovesse risultare veritiero che Nicholas Sarkozy intende centrare la propria campagna elettorale per la riconquista dell’Eliseo (e ancor prima per la vittoria nelle primarie del centrodestra per la candidatura alle presidenziali[33]) sull’uscita della Francia dall’euro, con ciò evidenziando di voler cavalcare per le proprie ambizioni lo scontento che buona parte dell’elettorato ha già manifestato verso il progetto di unione politica europea, sin dal referendum del 2005 sul “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”.
Gli esempi inducono, pertanto, a dubitare che la sola (forza della) previsione normativa sia sufficiente a fondare nei cittadini europei quell’idem sentire, che rappresenta l’indispensabile presupposto per la costruzione di una (recte, di ogni) comunità politica.
Al riguardo, non può non osservarsi che dinanzi ad un impianto normativo-istituzionale sufficientemente definito, per non dire “sofisticato” - che delinea quella europea già come forma, per quanto embrionale, di unione politica - si avverte intorno al progetto di un’integrazione politica sempre più stretta tra i popoli dell’Europa un evidente problema di mancanza di consenso, le cui cause vanno, fra l’altro, rinvenute nella persistente carenza di legittimazione democratica dell’Unione, nelle nuove e diverse forme che essa assume dopo la stipulazione di Lisbona[34].
Rinvigorito il Parlamento, attraverso l’ampliamento delle sue attribuzioni legislative e di controllo[35], siccome la partecipazione dei Parlamenti nazionali al processo decisionale europeo[36], permane, invero, il dato del forte “scollamento” tra la “società” europea e le istituzioni dell’Unione[37]. Una distanza che in buona parte si spiega con quella che altrove è stata ritenuta una rappresentatività solo “formale” del PE, legata all’espressione diretta del suffragio[38], ma non sostenuta da una rappresentatività, per così dire, “sostanziale”, nella misura in cui i meccanismi di partecipazione popolare al voto e a ciò che esso esprime in termini di legittimazione non sono ancora gestiti da partiti di dimensione europea, ma soltanto nazionale[39].
Ciò oltretutto si frappone alla formazione di una “coscienza politica europea”, come si esprimono sin da Maastricht i Trattati nell’individuare nei partiti europei i canali privilegiati per esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione, i quali, pertanto, realmente rappresenterebbero fattori indispensabili di integrazione in seno ad essa.
Invero, il consolidamento di un sistema strutturato di partiti europei, con un reale aggancio nella realtà sociale, favorirebbe, a tacer d’altro, l’emersione tra i cittadini europei di quel senso di identità collettiva, funzionale a radicare l’identità nazionale di ciascuno nel più ampio contesto di dimensione sovranazionale. Viceversa, in mancanza di formazioni politiche di consistenza europea, che operino nel senso anzitutto di far maturare, ancor prima che recepire, la volontà politica dei cittadini per convogliarla nelle istituzioni, diventa arduo individuare quell’essenziale elemento di integrazione, che serva a far coagulare il senso dell’appartenenza generale all’Unione, nella carenza di elementi di identificazione di natura culturale e, tra essi, di una lingua comune[40].
Ai partiti europei, pertanto, spetta anzitutto la funzione fondamentale di catalizzazione del consenso popolare verso, ciascuno, una determinata (ossia, “di parte”) idea politica di Europa e, ancor prima, tutti insieme, intorno all’idea dell’Europa come vera Unione politica ed in tale direzione sono chiamati ad operare per conferire al progetto politico europeo “effettività”, nell’accezione di adesione spontanea e generalizzata all’ordinamento dell’Unione ed ai valori che esso esprime, al di là dell’effettività conseguita attraverso la via giudiziaria, che pure ha rappresentato in questi anni un canale importante di integrazione[41].
La ricerca di un idem sentire (de “europa”), oltretutto – si potrebbe ancora osservare - si pone come passaggio necessariamente propedeutico all’adozione di quella “decisione politica fondamentale”, in assenza della quale appare improbabile (e, ad ogni modo, sterile) la ripresa del processo costituente da tempo auspicato per superare il “compromesso” realizzato a Lisbona con tutti i limiti che esso ha rivelato, in particolare con il dilagare della crisi finanziaria e la conseguenziale adozione dei Trattati cd. “a latere” [42].
A margine può anche aggiungersi che a livello europeo si avverte oggi l’insufficienza, per non dire l’estraneità, dei partiti alla formazione delle sintesi politiche. Invero, i partiti nazionali, per come si sono tradizionalmente affermati, erano in primis soggetti culturali ed attori protagonisti della progettazione economica e sociale, mentre tale essenziale funzione politica sembra carente, per così dire, del titolare sul piano sovranazionale. Invero se, da un lato, le grandi decisioni si svolgono in altre sedi – se, ad esempio, le grandi questioni della bioetica sono risolte caso per caso dai giudici ovvero diversamente regolate negli ordinamenti interni; e, dall’altro, le decisioni macroeconomiche sono nei fatti assunte dalla BCE (istituzione indipendente e, quindi, apolitica, per definizione) - la capacità di integrazione, id est di identificazione/mobilitazione, dei partiti cd. europei viene a mancare e le stesse nomine sembrano ridursi all'applicazione di un “manuale Cencelli”, per il quale a ciascuno Stato - e quindi al partito in esso dominante - spetta un posto in Commissione, cosicché in ciascun ordinamento verrà di volta in volta individuato l’esponente gradito al partito nazionale al momento più forte[43].
Ai partiti europei, pertanto, spetterebbe anche il compito essenziale di elaborare quelle che altri definiscono “prestazioni di unità politica”[44], venendo chiamati, anche per tale via, a formare una coscienza politica dell’UE e, più in generale, ad assolvere ad una funzione, che si potrebbe definire di mediazione “politico-culturale” tra le istituzioni e i cittadini, accogliendone le opinioni, selezionandone gli interessi, per poi trasporli nel processo decisionale europeo, attraverso il loro preventivo, necessario, reale radicamento nel tessuto sociale.
3. Possibili linee di sviluppo dei partiti europei
Il terzo interrogativo, a questo punto, diventa obbligato, riguardando le leve su cui occorre spingere per far giungere il processo di strutturazione di un autentico sistema europeo di partiti politici a maturazione.
In questa direzione è interessante seguire gli sviluppi, anche recenti, del Regolamento sullo “statuto ed il finanziamento dei partiti europei”, adottato, ai sensi di ciò che dispone oggi l’art. 224 TFUE (già art. 191, 2 co. TCE[45]), sin dal 2003[46] e da ultimo orientato (con la recente riforma dell’aprile 2014) a definire un modello unitario di partito europeo indipendente dalla conformazione assunta dai partiti negli ordinamenti nazionali (e dai connessi limiti) ed a favorire il positivo, fattivo e concreto impegno delle formazioni politiche sovranazionali nelle elezioni per l’Europarlamento.
Non importa in questa sede ripercorrere in dettaglio le vicende, che hanno condotto ad approvare le norme sul finanziamento dei partiti europei[47]. Ai fini che qui rilevano è sufficiente segnalare i punti salienti dell’evoluzione di una normativa, nata con l’ambiziosa denominazione di “statuto”, ma che, lungi dal dar vita ad un vero schema statutario comune alle forze politiche europee, con i contenuti tipici di uno statuto-tipo di partito, ha inizialmente perseguito lo scopo (più limitato) di definire le condizioni che formazioni politiche sovranazionali devono rispettare per “ambire” alla qualifica di “partiti europei”[48] e con tale etichetta essere ammessi a contribuzioni a carico del bilancio dell’Europarlamento[49].
Per quanto nelle prime norme del 2003 fosse evidente la subordinazione della figura “partito europeo” alla conformazione assunta dai partiti negli ordinamenti nazionali, a seguito, principalmente della prescrizione (art. 3, lett.a) richiedente la personalità giuridica di uno degli Stati membri (quello in cui il partito avesse sede), tuttavia già dal complesso della normativa originaria si può desumere la spinta verso una sorta di istituzionalizzazione delle formazioni politiche sovranazionali[50]. Ciò anche sulla base della stessa disposizione testé richiamata, nonché delle altre, che delineano le varie forme di controllo, per lo più rimesse al Parlamento (art. 5)[51], circa la verifica del rispetto, da parte dei soggetti richiedenti il finanziamento, delle condizioni prescritte nel Regolamento[52] e attinenti principalmente all’osservanza dei valori dell’Unione (art. 3, lett.c). Ne risultava, in altri termini, quantomeno avviato il processo di consolidamento di una rappresentanza politica europea indipendente dalle formazioni politiche nazionali, soprattutto per effetto del divieto di utilizzare i fondi eventualmente ottenuti da soggetti politici europei per finanziare partiti nazionali (art. 7).
La finalità appare maggiormente evidente, e meglio assicurata, già con le prime modifiche, adottate sulla scorta di una Risoluzione del PE del 2006[53], che, preso atto di taluni limiti presenti nell’originario sistema di finanziamento, ne auspicava il superamento allo scopo di pervenire “ad un vero e proprio statuto dei partiti politici europei”, che definisse i loro diritti e doveri e desse loro la possibilità di ottenere una personalità giuridica basata sul diritto comunitario e valida anche negli Stati membri[54], nella prospettiva che i partiti europei possano realmente diventare “ vivaci attori delle scelte della politica europea, ancorati a tutti i livelli della società e aperti alla partecipazione effettiva dei cittadini non soltanto mediante le elezioni europee, ma anche in tutti gli altri aspetti della vita politica europea”[55]. Pertanto, sul presupposto che i partiti di livello europeo siano “un elemento sostanziale per formare ed esprimere un’opinione pubblica senza la quale non si può realizzare un ulteriore sviluppo dell’Unione europea”[56], il PE riteneva opportuno potenziare l’assistenza finanziaria ad essi, dando in tal modo impulso al processo di riforma, conclusosi nel 2007 con l’approvazione, d’accordo col Consiglio, delle nuove norme sulle attività e il finanziamento dei partiti europei[57].
Tra esse, tralasciando altre previsioni, conviene attenzionare quelle con più evidenza intese ad affrancare l’attività dei partiti europei dalla dipendenza dagli omologhi nazionali, tra cui la disposizione che eleva (dal 75% all’85%) la percentuale di contribuzione massima esigibile a carico del bilancio dell’Unione (art. 10), preordinata a ridurre proporzionalmente i finanziamenti ottenuti per il tramite dei partiti nazionali, nonché l’autorizzazione finalmente concessa ai partiti europei di poter utilizzare i contributi riscossi dall’UE per finanziare attività connesse alle campagne elettorali per il PE (art. 8, III co) [58]. Considerato che in precedenza non era prevista tale possibilità, si comprende agevolmente la portata concretamente innovativa della disposizione, che per la prima volta considera i partiti di dimensione europea quali soggetti autonomamente idonei ad impegnarsi nelle elezioni per l’Europarlamento, a fianco ed oltre ai partiti nazionali ed in vista del progressivo esautoramento di questi ultimi, con il fine di conferire a tale consultazione elettorale un carattere autenticamente europeo.
Ancora nella novella del 2007 merita considerazione la previsione di “fondazioni politiche europee”[59], destinate ad affiancare i partiti per integrarne gli obiettivi politici e l’azione di formazione e informazione, attraverso lo svolgimento, fra l’altro, di “attività di osservazione, analisi e arricchimento del dibattito sulle politiche pubbliche europee e sul processo di integrazione europea”, nonché sviluppando azioni legate a “questioni di politica pubblica europea”, tra cui l’organizzazione di seminari, eventi di formazione e conferenze, allo scopo di “promuovere la democrazia”. E’, al riguardo, significativo che tali fondazioni vengano ammesse al finanziamento solo ove formalmente associate ad un partito europeo[60], potendo avanzare istanze di contribuzione esclusivamente per il tramite di partiti esistenti, così da cooperare al rafforzamento del ruolo politico e, potrebbe dirsi, di mediazione culturale di questi ultimi.
Pertanto, già con l’approvazione delle prime norme sul finanziamento dei partiti europei e, ancor di più, con la modifica del 2007 si era compiuto un passo importante nella direzione di far acquisire al dibattito politico europeo una dimensione autonoma da quella localistica e nazionale, attraverso l’intervento di formazioni politiche istituzionalizzate di livello sovranazionale[61], incaricate non solo di divenire protagoniste delle elezioni europee, ma, più in generale, di rispondere al ruolo per esse previsto nei Trattati di esprimere la voce dei cittadini europei, recependone le istanze politiche, per realizzarne l’effettiva partecipazione e contribuire in tal modo al consolidamento della democrazia nell’UE[62].
In tale direzione la vera svolta sembra, peraltro, segnata dall’ultima modifica, realizzata con la redazione di un nuovo, ulteriore Regolamento, definitivamente approvato lo scorso 16 aprile[63], il cui tratto saliente, ai fini che qui rilevano[64], consiste nella possibilità per le formazioni politiche, che rispondano ai requisiti prescritti di ottenere, previa registrazione presso il Parlamento, una personalità giuridica di diritto europeo, con il relativo status comune, in modo da consentirne, attraverso l’acquisizione di uno statuto unico basato sul diritto dell’Unione, l’indipendenza dalle forme giuridiche nazionali, che ne hanno finora condizionato la conformazione, definendone i limiti, e poter così in fine permettere ai partiti europei[65] di assolvere al ruolo, attribuito ad essi dai Trattati, di contribuire “a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”.
Invero, solo attraverso una competizione elettorale interamente giocata tra formazioni politiche sovranazionali si potrà realisticamente conseguire l’obiettivo di raccogliere i consensi dei cittadini su problematiche di respiro europeo e intorno ad istanze programmatiche ed ideali, facendone maturare la “coscienza” o, forse, potrebbe anche dirsi, la “consapevolezza” europea.
Tuttavia, l’ultima modifica, destinata ad entrare in vigore (soltanto) il 1 gennaio del 2017, non sortirebbe per intero gli effetti auspicati ove non venisse frattanto accompagnata dall’adozione (ai sensi di ciò che prevede oggi la prima parte dell’art. 223 TFUE, I co.[66]) di una procedura elettorale (finalmente) uniforme. Assecondando, in tal modo, auspici da più parti e da lungo tempo formulati[67], ciò consentirebbe di presentare agli elettori, nell’ambito di circoscrizioni di dimensioni transnazionali (se non una unica per l’intero territorio dell’Unione, di difficile realizzazione), liste comunque unitarie di candidati, impegnati sulla base di programmi politici comuni, centrati su obiettivi e problematiche di respiro genuinamente europeo, che diano in tal modo vita ad un dibattito pubblico di livello sovranazionale, quale snodo fondamentale per l’effettiva conformazione delle elezioni del Parlamento come “autenticamente” europee e, in connessione, quale spinta propulsiva per l’auspicato, definitivo consolidamento di un reale sistema di partiti europei, sufficientemente autonomo dai partiti nazionali.
1. I partiti politici europei: lo stato dell’arte
2. I partiti europei, fondamentali fattori di integrazione politica dell’Unione
3. Possibili linee di sviluppo dei partiti europei
1. I partiti politici europei: lo stato dell’arte
La riflessione odierna sui partiti europei e sul ruolo cui essi sono chiamati nel processo di integrazione politica nell’UE può grosso modo articolarsi intorno a tre interrogativi fondamentali.
Il primo, strettamente legato all’intitolazione assegnata a questo contributo, riguarda il quesito preliminare se oggi sia effettivamente possibile riferirsi alle formazioni politiche europee come ad un “sistema”, nel senso di assetto partitico strutturato e stabile, con una propria fisionomia ed identità (organizzatoria e ideologica), sufficientemente autonomo dall’originaria dipendenza dai partiti nazionali.
La domanda, in realtà, appare quasi retorica e la risposta, pertanto, scontata in senso negativo. In tal senso depone già l’elemento fattuale desumibile anche dalle più recenti elezioni per l’Europarlamento[1], ancora, pressoché per intero, consegnate ai partiti nazionali, per quanto taluni progressi nel senso dell’inveramento di un autentico sistema di partiti europei siano stati intravisti, fra l’altro, nelle designazioni uniche alla Presidenza della Commissione ad opera delle formazioni, che si riconoscono nelle grandi famiglie politiche europee[2], con candidati chiamati ad esprimere all’elettorato le rispettive, essenziali linee programmatiche già antecedentemente al voto, nel corso di dibattiti pubblici condotti sui media, in modo non dissimile da come avvengono i confronti tra i Leaders di partito in occasione delle elezioni nazionali. Permane, tuttavia, il dato di un suffragio espresso da elettori che sono cittadini europei per la formazione di un’istituzione europea, attraverso l’intermediazione realizzata, però, da partiti di dimensione essenzialmente nazionale, i quali, oltretutto, stentano a sottrarsi alla tentazione di utilizzare la campagna elettorale per il rinnovo dell’Europarlamento quale terreno di confronto reciproco e di scontro su temi, che, sovente, sono ancora di stretto interesse localistico e poco attinenti alle grandi problematiche, che intercettano oggi la stessa sopravvivenza dell’Unione[3]. Ciò contribuisce a rendere difficile, da un lato, al cittadino-elettore l’esatta percezione della dimensione (sovranazionale) in cui si colloca la scelta manifestata nelle urne; e, dall’altro lato, agli stessi eletti di esercitare il mandato ricevuto in linea con gli interessi prioritari dell’Unione, giacché essi, candidati e sostenuti da partiti nazionali, sono tuttora tentati di farsi carico dei relativi interessi politici, e comunque delle esigenze statali[4], a dispetto della circostanza che l’Assemblea sia l’unica istituzione europea in cui la cui rappresentanza è articolata sulla base delle affiliazioni ideologiche, più che in considerazione della provenienza territoriale dei propri membri e dei relativi tornaconti nazionali[5].
Ne soffre, in altri termini, la stessa fisiologia del rapporto rappresentativo. Ma di questo si è già detto abbondantemente altrove[6] e non si tornerà ad insistervi in questa sede.
Val la pena, però, in aggiunta, ribadire le considerazioni tratte dal processo di formazione dei partiti europei, i quali germinano non da fenomeni spontanei di aggregazione sociale intorno ad idee ed obiettivi politici condivisi, ma quale proiezione – si potrebbe dire – extraparlamentare dei gruppi politici, che si costituiscono all’interno del Parlamento dalla riunione dei deputati provenienti da partiti nazionali affini sotto il profilo ideologico[7]. I partiti europei, cioè, lungi dal presentarsi come “formazioni sociali”[8], hanno avuto, un’origine “interna”[9], ossia prettamente parlamentare[10], riproponendo, pertanto, nel loro processo di formazione una dinamica nell’usuale rapporto partiti-gruppi parlamentari più vicina all’esperienza inglese - ove i cd. Parliamentary parties nascono antecedentemente agli “Extraparliamentary parties”[11] (che dei primi, costituiscono, in origine, meri Comitati di supporto elettorale[12]) - che a quelle più diffuse nei sistemi di democrazia rappresentativa del Continente europeo, ove, di contro, i gruppi rappresentano – come si è soliti dire – la longa manus dei partiti in Parlamento, costituendo gli uni lo strumento organizzatorio interno con cui i secondi (per usare un’espressione forte) “occupano” l’assemblea rappresentativa e, attraverso essa, più in generale, le istituzioni[13].
Tale particolare dinamica del rapporto gruppi-partiti a livello europeo risulta favorita dalle previsioni del Regolamento generale dell’Assemblea, che (anche) sul punto appare confezionato sul modello delle norme di organizzazione interna del Parlamento francese[14], laddove – nel riferirsi (al Capitolo IV) ai raggruppamenti interni all’Europarlamento come “gruppi politici” - esclude la formazione di gruppi tra parlamentari legati solo, per così dire, sul piano tecnico-amministrativo, ma privi di ogni contiguità politica (sul modello del gruppo “misto” presente nell’ordinamento italiano, ma ignoto a quello europeo), imponendo da sempre la condivisione tra i membri di “affinità politiche” come condizione, che si aggiunge al requisito numerico e a quello della “transnazionalità”, per la costituzione dei gruppi[15]. Invero, secondo l’interpretazione che ne ha dato anche la giurisprudenza nell’occasione in cui è stata chiamata a pronunciarsi sul punto[16], solo raggruppamenti tra parlamentari uniti da affinità ideologiche-programmatiche, per quanto generiche e non eccessivamente stringenti[17], consentono di trascendere i particolarismi politici locali per costituire “luoghi” privilegiati, oltre che per l’esercizio delle specifiche attribuzioni parlamentari, anche per l’esplicazione di significativi compiti politici, che si sostanziano nel rappresentare la sede di aggregazione delle forze politiche nazionali e concorrere, in tal modo, alla formazione di partiti di dimensione sovranazionale, che possano assolvere alla finalità, prevista per questi ultimi dai Trattati, di contribuire a promuovere l’integrazione europea.
2. I partiti europei, fondamentali fattori di integrazione politica dell’Unione
La citazione richiama l’attenzione sulle previsioni del diritto primario dell’Unione, che da Maastricht in poi individuano i partiti europei quali soggettività intermedie tra le istituzioni e i cittadini[18], volti a formare, oltre che ad interpretare e recepire la volontà politica dei secondi per convogliarla nelle prime. Tuttavia, tra la previsione contenuta già nell’art. 138A, poi (in seguito alla rinumerazione di Amsterdam) art. 191 TCE[19] e l’approdo rappresentato da Lisbona si registra una lieve differenza letterale nella formulazione della disposizione sulle formazioni politiche sovranazionali, cui potrebbe anche attribuirsi scarso significato, se non fosse che sparisce il riferimento al ruolo dei partiti europei come fondamentali “fattori di integrazione”, presente nel Trattato sulla Comunità Europea, ma assente dal vigente art. 10, par.4 TUE[20].
La circostanza rinvia al secondo interrogativo, relativo all’effettivo ruolo che la presenza (rectius, l’assenza) di un sistema di partiti di livello genuinamente europeo gioca al fine della conformazione dell’UE come vera comunità politica (e non più soltanto meramente economica), che vuole fondare il proprio funzionamento sui principi della democrazia rappresentativa, come dichiara, al par.1, l’art.10 TUE, il quale – com’è noto - prosegue individuando nel Parlamento la sede della rappresentanza diretta dei cittadini e che, dopo aver previsto la legittimazione comunque democratica, per quanto indiretta, dei Consigli (europeo e dell’UE, art. 10, par.2 TUE), afferma il diritto dei cittadini di partecipare alla vita democratica dell’Unione (art. 10, par. 3), rimettendo, appunto, ai partiti europei la formazione di una coscienza politica europea e individuando in essi il canale privilegiato per esprimere la volontà dei medesimi cittadini (art. 10, par. 4).
Peraltro, se si estende la riflessione al complesso delle disposizioni di Lisbona, a prescindere dalla (voluta) assenza di ogni terminologia “federalista”[21], l’UE appare ormai delineata come prodromo di vera unione politica sufficientemente definita sotto il profilo giuridico e istituzionale: ne sono previste istituzioni comuni e relative attribuzioni, di cui è scandito l’assetto dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), sia pur secondo uno schema di collaborazione e complementarietà, nella ricerca del reciproco equilibrio, più che di separazione; determinate le competenze nei rapporti con gli Stati membri; individuato un sistema originario di fonti, oltretutto destinate a prevalere su quelle nazionali; definita una Carta delle libertà fondamentali (e, più in generale, previsto un corpo di diritti inviolabili, anche per effetto del richiamo al sistema della CEDU[22]), con un Giudice da ultimo disposto ad assicurarne l’applicazione persino con prevalenza sulle originarie libertà economiche[23], oltre che chiamato a sovrintendere alle infrazioni al diritto dell’Unione, non solo se provocate dagli Stati membri, ma, per quanto qui maggiormente interessa, anche quando indotte dalle stesse istituzioni comuni; un Giudice, che, ancora più a monte, esercita quella funzione, potrebbe dirsi, di nomofilachia nell’interpretazione del diritto, attraverso l’istituto del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TUE, essenziale allo stesso processo di integrazione, quantomeno giuridica[24]. E vi è, soprattutto, un patrimonio assiologico comune[25], individuato attraverso il richiamo contenuto nell’art. 2 TUE al rispetto dei diritti umani, della libertà, dell’uguaglianza, e, più in generale, dei principi dello Stato di diritto, quali valori condivisi dagli Stati membri, in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra i sessi, che dovrebbe fungere per l’operatore giuridico sia da canone ermeneutico e parametro di legittimità di altre disposizioni, europee e nazionali, che, altresì, da monito e criterio di valutazione rispetto alle richieste di ulteriori adesioni all’UE[26].
E, tuttavia, la forza certamente prescrittiva e, insieme, descrittiva di questa disposizione e, più in generale, dell’intero apparato normativo di Lisbona non sembra ancora sufficiente a radicare quel senso di comune appartenenza politica all’Unione di cui è facile accertare la mancanza fra i cittadini europei.
La constatazione è immediata: tanto per esemplificare, se soltanto si domandasse ad un quisque de populo inglese se e quanto conta l’essere europeo, ovvero che senso attribuisce alla propria cittadinanza europea, o, ancora, in che misura essa influisce nella sua quotidianità, già sulla base di quegli stessi risultati elettorali cui all’inizio si accennava[27], non è azzardato ipotizzare che la risposta frequentemente potrebbe tutt’al più consistere in quel distaccato “pardon?” con cui i britannici sono soliti liquidare le questioni che assolutamente non comprendono o che scarsamente li interessano.
Eppure era inglese quel Sovrano Senzaterra, che, ancora in epoca feudale, dinanzi ai Baroni riuniti nella pianura di Runnymede acconsentiva a limitare le proprie prerogative in funzione di riconoscimento di alcuni diritti patrimoniali e successori, nonché di quell’habeas corpus prodromico a quella che nei secoli successivi sarebbe stata identificata come la libertà delle libertà, ossia la libertà personale[28].
Di origine inglese erano i coloni che dal Nuovo Continente ammonivano la madre patria di accogliere propri rappresentanti in Parlamento per poter pretendere imposte e dazi di importazione, conformemente a quel monito “no taxation without representation”, riassuntivo dei principi fondativi delle moderne democrazie rappresentative, convenzionalmente affermatosi nell’esperienza politico-costituzionale britannica già molto prima l’originaria codificazione nella Bill of Rights del 1689.
Ancora, certamente inglese, per quanto celato nell’anonimato, era quel pensatore, che anticipava la necessità che il Legislativo venisse scorporato dall’Esecutivo, in funzione di garanzia dei diritti che la natura attribuisce agli uomini, nati tutti ugualmente liberi in natura, e che poi spetterà allo Stato riconoscere e quindi tutelare[29]. E questo, com’è noto, quasi sessant’anni prima che sul Continente europeo altro intellettuale, pure in forma anonima, sulla scorta di altri presupposti filosofici, affinasse tali considerazioni, per concludere nella maniera più nitida che “ pour qu’on ne puisse pas abuser du povoir, il faut que (…) le pouvoir arrête le pouvoir”[30] e con tale affermazione gettasse le premesse teoriche di quell’art. 16 della “Déclaration des droits de l’homme et du citoyen”, unanimemente assunto dai giuristi a testata d’angolo delle conquiste del costituzionalismo.
Non può esservi dubbio, pertanto, sul contributo che la Gran Bretagna, o, forse, meglio l’Inghilterra ha nei secoli fornito al consolidamento di quel patrimonio costituzionale comune cui espressamente rinvia il citato art. 2 TUE. Eppure nei confronti del progetto di unione politica europea proprio Albione, per così dire, si rivela quanto mai “perfida”, non solo rifiutando da sempre l’ingresso nella moneta comune, che della comunità politica rappresenta certo una tappa decisiva, nella misura in cui quella monetaria è declinazione essenziale della sovranità, ma da ultimo rivendicando con sempre maggiore insistenza persino (ulteriori) restituzioni della medesima sovranità e al limite l’uscita stessa dal diritto dell’Unione[31].
Né il quadro appare molto più roseo se si getta lo sguardo altrove e, procedendo nell’esemplificazione, si considera appena ciò che sta accadendo in Francia, altro grande Stato europeo, che, sulla scorta dei ben noti presupposti filosofici giusnaturalistici, illuministi e razionalisti ha storicamente contribuito in modo determinante a fondare quel sistema di valori sinteticamente riassumibili nei principi informatori dello Stato di diritto, se è vero (come è vero) il trionfo elettorale della destra estrema e nazionalista di Marine Le Pen nelle elezioni amministrative[32], prima, e in quelle europee, dopo; e se dovesse risultare veritiero che Nicholas Sarkozy intende centrare la propria campagna elettorale per la riconquista dell’Eliseo (e ancor prima per la vittoria nelle primarie del centrodestra per la candidatura alle presidenziali[33]) sull’uscita della Francia dall’euro, con ciò evidenziando di voler cavalcare per le proprie ambizioni lo scontento che buona parte dell’elettorato ha già manifestato verso il progetto di unione politica europea, sin dal referendum del 2005 sul “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”.
Gli esempi inducono, pertanto, a dubitare che la sola (forza della) previsione normativa sia sufficiente a fondare nei cittadini europei quell’idem sentire, che rappresenta l’indispensabile presupposto per la costruzione di una (recte, di ogni) comunità politica.
Al riguardo, non può non osservarsi che dinanzi ad un impianto normativo-istituzionale sufficientemente definito, per non dire “sofisticato” - che delinea quella europea già come forma, per quanto embrionale, di unione politica - si avverte intorno al progetto di un’integrazione politica sempre più stretta tra i popoli dell’Europa un evidente problema di mancanza di consenso, le cui cause vanno, fra l’altro, rinvenute nella persistente carenza di legittimazione democratica dell’Unione, nelle nuove e diverse forme che essa assume dopo la stipulazione di Lisbona[34].
Rinvigorito il Parlamento, attraverso l’ampliamento delle sue attribuzioni legislative e di controllo[35], siccome la partecipazione dei Parlamenti nazionali al processo decisionale europeo[36], permane, invero, il dato del forte “scollamento” tra la “società” europea e le istituzioni dell’Unione[37]. Una distanza che in buona parte si spiega con quella che altrove è stata ritenuta una rappresentatività solo “formale” del PE, legata all’espressione diretta del suffragio[38], ma non sostenuta da una rappresentatività, per così dire, “sostanziale”, nella misura in cui i meccanismi di partecipazione popolare al voto e a ciò che esso esprime in termini di legittimazione non sono ancora gestiti da partiti di dimensione europea, ma soltanto nazionale[39].
Ciò oltretutto si frappone alla formazione di una “coscienza politica europea”, come si esprimono sin da Maastricht i Trattati nell’individuare nei partiti europei i canali privilegiati per esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione, i quali, pertanto, realmente rappresenterebbero fattori indispensabili di integrazione in seno ad essa.
Invero, il consolidamento di un sistema strutturato di partiti europei, con un reale aggancio nella realtà sociale, favorirebbe, a tacer d’altro, l’emersione tra i cittadini europei di quel senso di identità collettiva, funzionale a radicare l’identità nazionale di ciascuno nel più ampio contesto di dimensione sovranazionale. Viceversa, in mancanza di formazioni politiche di consistenza europea, che operino nel senso anzitutto di far maturare, ancor prima che recepire, la volontà politica dei cittadini per convogliarla nelle istituzioni, diventa arduo individuare quell’essenziale elemento di integrazione, che serva a far coagulare il senso dell’appartenenza generale all’Unione, nella carenza di elementi di identificazione di natura culturale e, tra essi, di una lingua comune[40].
Ai partiti europei, pertanto, spetta anzitutto la funzione fondamentale di catalizzazione del consenso popolare verso, ciascuno, una determinata (ossia, “di parte”) idea politica di Europa e, ancor prima, tutti insieme, intorno all’idea dell’Europa come vera Unione politica ed in tale direzione sono chiamati ad operare per conferire al progetto politico europeo “effettività”, nell’accezione di adesione spontanea e generalizzata all’ordinamento dell’Unione ed ai valori che esso esprime, al di là dell’effettività conseguita attraverso la via giudiziaria, che pure ha rappresentato in questi anni un canale importante di integrazione[41].
La ricerca di un idem sentire (de “europa”), oltretutto – si potrebbe ancora osservare - si pone come passaggio necessariamente propedeutico all’adozione di quella “decisione politica fondamentale”, in assenza della quale appare improbabile (e, ad ogni modo, sterile) la ripresa del processo costituente da tempo auspicato per superare il “compromesso” realizzato a Lisbona con tutti i limiti che esso ha rivelato, in particolare con il dilagare della crisi finanziaria e la conseguenziale adozione dei Trattati cd. “a latere” [42].
A margine può anche aggiungersi che a livello europeo si avverte oggi l’insufficienza, per non dire l’estraneità, dei partiti alla formazione delle sintesi politiche. Invero, i partiti nazionali, per come si sono tradizionalmente affermati, erano in primis soggetti culturali ed attori protagonisti della progettazione economica e sociale, mentre tale essenziale funzione politica sembra carente, per così dire, del titolare sul piano sovranazionale. Invero se, da un lato, le grandi decisioni si svolgono in altre sedi – se, ad esempio, le grandi questioni della bioetica sono risolte caso per caso dai giudici ovvero diversamente regolate negli ordinamenti interni; e, dall’altro, le decisioni macroeconomiche sono nei fatti assunte dalla BCE (istituzione indipendente e, quindi, apolitica, per definizione) - la capacità di integrazione, id est di identificazione/mobilitazione, dei partiti cd. europei viene a mancare e le stesse nomine sembrano ridursi all'applicazione di un “manuale Cencelli”, per il quale a ciascuno Stato - e quindi al partito in esso dominante - spetta un posto in Commissione, cosicché in ciascun ordinamento verrà di volta in volta individuato l’esponente gradito al partito nazionale al momento più forte[43].
Ai partiti europei, pertanto, spetterebbe anche il compito essenziale di elaborare quelle che altri definiscono “prestazioni di unità politica”[44], venendo chiamati, anche per tale via, a formare una coscienza politica dell’UE e, più in generale, ad assolvere ad una funzione, che si potrebbe definire di mediazione “politico-culturale” tra le istituzioni e i cittadini, accogliendone le opinioni, selezionandone gli interessi, per poi trasporli nel processo decisionale europeo, attraverso il loro preventivo, necessario, reale radicamento nel tessuto sociale.
3. Possibili linee di sviluppo dei partiti europei
Il terzo interrogativo, a questo punto, diventa obbligato, riguardando le leve su cui occorre spingere per far giungere il processo di strutturazione di un autentico sistema europeo di partiti politici a maturazione.
In questa direzione è interessante seguire gli sviluppi, anche recenti, del Regolamento sullo “statuto ed il finanziamento dei partiti europei”, adottato, ai sensi di ciò che dispone oggi l’art. 224 TFUE (già art. 191, 2 co. TCE[45]), sin dal 2003[46] e da ultimo orientato (con la recente riforma dell’aprile 2014) a definire un modello unitario di partito europeo indipendente dalla conformazione assunta dai partiti negli ordinamenti nazionali (e dai connessi limiti) ed a favorire il positivo, fattivo e concreto impegno delle formazioni politiche sovranazionali nelle elezioni per l’Europarlamento.
Non importa in questa sede ripercorrere in dettaglio le vicende, che hanno condotto ad approvare le norme sul finanziamento dei partiti europei[47]. Ai fini che qui rilevano è sufficiente segnalare i punti salienti dell’evoluzione di una normativa, nata con l’ambiziosa denominazione di “statuto”, ma che, lungi dal dar vita ad un vero schema statutario comune alle forze politiche europee, con i contenuti tipici di uno statuto-tipo di partito, ha inizialmente perseguito lo scopo (più limitato) di definire le condizioni che formazioni politiche sovranazionali devono rispettare per “ambire” alla qualifica di “partiti europei”[48] e con tale etichetta essere ammessi a contribuzioni a carico del bilancio dell’Europarlamento[49].
Per quanto nelle prime norme del 2003 fosse evidente la subordinazione della figura “partito europeo” alla conformazione assunta dai partiti negli ordinamenti nazionali, a seguito, principalmente della prescrizione (art. 3, lett.a) richiedente la personalità giuridica di uno degli Stati membri (quello in cui il partito avesse sede), tuttavia già dal complesso della normativa originaria si può desumere la spinta verso una sorta di istituzionalizzazione delle formazioni politiche sovranazionali[50]. Ciò anche sulla base della stessa disposizione testé richiamata, nonché delle altre, che delineano le varie forme di controllo, per lo più rimesse al Parlamento (art. 5)[51], circa la verifica del rispetto, da parte dei soggetti richiedenti il finanziamento, delle condizioni prescritte nel Regolamento[52] e attinenti principalmente all’osservanza dei valori dell’Unione (art. 3, lett.c). Ne risultava, in altri termini, quantomeno avviato il processo di consolidamento di una rappresentanza politica europea indipendente dalle formazioni politiche nazionali, soprattutto per effetto del divieto di utilizzare i fondi eventualmente ottenuti da soggetti politici europei per finanziare partiti nazionali (art. 7).
La finalità appare maggiormente evidente, e meglio assicurata, già con le prime modifiche, adottate sulla scorta di una Risoluzione del PE del 2006[53], che, preso atto di taluni limiti presenti nell’originario sistema di finanziamento, ne auspicava il superamento allo scopo di pervenire “ad un vero e proprio statuto dei partiti politici europei”, che definisse i loro diritti e doveri e desse loro la possibilità di ottenere una personalità giuridica basata sul diritto comunitario e valida anche negli Stati membri[54], nella prospettiva che i partiti europei possano realmente diventare “ vivaci attori delle scelte della politica europea, ancorati a tutti i livelli della società e aperti alla partecipazione effettiva dei cittadini non soltanto mediante le elezioni europee, ma anche in tutti gli altri aspetti della vita politica europea”[55]. Pertanto, sul presupposto che i partiti di livello europeo siano “un elemento sostanziale per formare ed esprimere un’opinione pubblica senza la quale non si può realizzare un ulteriore sviluppo dell’Unione europea”[56], il PE riteneva opportuno potenziare l’assistenza finanziaria ad essi, dando in tal modo impulso al processo di riforma, conclusosi nel 2007 con l’approvazione, d’accordo col Consiglio, delle nuove norme sulle attività e il finanziamento dei partiti europei[57].
Tra esse, tralasciando altre previsioni, conviene attenzionare quelle con più evidenza intese ad affrancare l’attività dei partiti europei dalla dipendenza dagli omologhi nazionali, tra cui la disposizione che eleva (dal 75% all’85%) la percentuale di contribuzione massima esigibile a carico del bilancio dell’Unione (art. 10), preordinata a ridurre proporzionalmente i finanziamenti ottenuti per il tramite dei partiti nazionali, nonché l’autorizzazione finalmente concessa ai partiti europei di poter utilizzare i contributi riscossi dall’UE per finanziare attività connesse alle campagne elettorali per il PE (art. 8, III co) [58]. Considerato che in precedenza non era prevista tale possibilità, si comprende agevolmente la portata concretamente innovativa della disposizione, che per la prima volta considera i partiti di dimensione europea quali soggetti autonomamente idonei ad impegnarsi nelle elezioni per l’Europarlamento, a fianco ed oltre ai partiti nazionali ed in vista del progressivo esautoramento di questi ultimi, con il fine di conferire a tale consultazione elettorale un carattere autenticamente europeo.
Ancora nella novella del 2007 merita considerazione la previsione di “fondazioni politiche europee”[59], destinate ad affiancare i partiti per integrarne gli obiettivi politici e l’azione di formazione e informazione, attraverso lo svolgimento, fra l’altro, di “attività di osservazione, analisi e arricchimento del dibattito sulle politiche pubbliche europee e sul processo di integrazione europea”, nonché sviluppando azioni legate a “questioni di politica pubblica europea”, tra cui l’organizzazione di seminari, eventi di formazione e conferenze, allo scopo di “promuovere la democrazia”. E’, al riguardo, significativo che tali fondazioni vengano ammesse al finanziamento solo ove formalmente associate ad un partito europeo[60], potendo avanzare istanze di contribuzione esclusivamente per il tramite di partiti esistenti, così da cooperare al rafforzamento del ruolo politico e, potrebbe dirsi, di mediazione culturale di questi ultimi.
Pertanto, già con l’approvazione delle prime norme sul finanziamento dei partiti europei e, ancor di più, con la modifica del 2007 si era compiuto un passo importante nella direzione di far acquisire al dibattito politico europeo una dimensione autonoma da quella localistica e nazionale, attraverso l’intervento di formazioni politiche istituzionalizzate di livello sovranazionale[61], incaricate non solo di divenire protagoniste delle elezioni europee, ma, più in generale, di rispondere al ruolo per esse previsto nei Trattati di esprimere la voce dei cittadini europei, recependone le istanze politiche, per realizzarne l’effettiva partecipazione e contribuire in tal modo al consolidamento della democrazia nell’UE[62].
In tale direzione la vera svolta sembra, peraltro, segnata dall’ultima modifica, realizzata con la redazione di un nuovo, ulteriore Regolamento, definitivamente approvato lo scorso 16 aprile[63], il cui tratto saliente, ai fini che qui rilevano[64], consiste nella possibilità per le formazioni politiche, che rispondano ai requisiti prescritti di ottenere, previa registrazione presso il Parlamento, una personalità giuridica di diritto europeo, con il relativo status comune, in modo da consentirne, attraverso l’acquisizione di uno statuto unico basato sul diritto dell’Unione, l’indipendenza dalle forme giuridiche nazionali, che ne hanno finora condizionato la conformazione, definendone i limiti, e poter così in fine permettere ai partiti europei[65] di assolvere al ruolo, attribuito ad essi dai Trattati, di contribuire “a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”.
Invero, solo attraverso una competizione elettorale interamente giocata tra formazioni politiche sovranazionali si potrà realisticamente conseguire l’obiettivo di raccogliere i consensi dei cittadini su problematiche di respiro europeo e intorno ad istanze programmatiche ed ideali, facendone maturare la “coscienza” o, forse, potrebbe anche dirsi, la “consapevolezza” europea.
Tuttavia, l’ultima modifica, destinata ad entrare in vigore (soltanto) il 1 gennaio del 2017, non sortirebbe per intero gli effetti auspicati ove non venisse frattanto accompagnata dall’adozione (ai sensi di ciò che prevede oggi la prima parte dell’art. 223 TFUE, I co.[66]) di una procedura elettorale (finalmente) uniforme. Assecondando, in tal modo, auspici da più parti e da lungo tempo formulati[67], ciò consentirebbe di presentare agli elettori, nell’ambito di circoscrizioni di dimensioni transnazionali (se non una unica per l’intero territorio dell’Unione, di difficile realizzazione), liste comunque unitarie di candidati, impegnati sulla base di programmi politici comuni, centrati su obiettivi e problematiche di respiro genuinamente europeo, che diano in tal modo vita ad un dibattito pubblico di livello sovranazionale, quale snodo fondamentale per l’effettiva conformazione delle elezioni del Parlamento come “autenticamente” europee e, in connessione, quale spinta propulsiva per l’auspicato, definitivo consolidamento di un reale sistema di partiti europei, sufficientemente autonomo dai partiti nazionali.
Adriana Ciancio
Professore Associato di Diritto Costituzionale
presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania
presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania
[1] Cfr. AA. VV., L’Europa al voto: le liste, i sistemi elettorali e i risultati nei 28 Stati dell’Unione, in federalismi.it, 2014, n. 11.
[2] Come segnalato, tra gli altri, da M. CARTABIA, Elezioni europee 2014: questa volta è diverso, in forumcostituzionale.it del 25/07/2014, p. 1 ss.; e A. MANZELLA, Quei segnali per l’Unione, in “La Repubblica” del 10-02-2014, secondo gli auspici in precedenza già espressi da G. BONVICINI – G.L. TOSATO – R. MATARAZZO, I partiti politici europei e la candidatura del presidente della Commissione, in Il diritto dell’Unione europea, 2009, n.1, 182 ss., nell’ottica del rafforzamento della legittimazione democratica della Commissione attraverso il legame politico con il Parlamento.
[3] Sul tema anche M.R. ALLEGRI, I partiti politici a livello europeo fra autonomia politica e dipendenza dai partiti nazionali, in federalismi.it, 2013, p. 29 ss.
[4] Sia pur in prospettiva dichiaratamente politologica, la circostanza è sottolineata anche da S. GOULARD – M. MONTI, La democrazia in Europa. Guardare lontano, Milano, 2012, p. 43 ss.
[5] Sul peso delle “delegazioni nazionali” all’interno dei gruppi europei e, di conseguenza, nell’ambito dei lavori parlamentari cfr. F. BINDI – P. D’AMBROSIO, Il futuro dell’Europa. Storia, funzionamento e retroscena dell’Unione europea, Milano, 2005, p. 184 ss.
[6] Sia consentito richiamare qui le riflessioni già svolte in A. CIANCIO, Quali prospettive per l’integrazione politica in Europa dopo le elezioni?, in federalismi.it, 2014, n. 11, p. 4 ss.; e ID., Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa. Relazione introduttiva, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa, a cura di A. Ciancio, Roma, 2014, p. 14 ss.
[7] Cfr., tra gli altri, L. BARDI – P. IGNAZI, Il Parlamento europeo, Bologna, 1999, p. 87; e, se si vuole, A. CIANCIO, Partiti politici e gruppi parlamentari nell’ordinamento europeo, in Pol. Dir., 2007, p. 153 ss., in particolare p. 157 ss.
[8] Sui partiti come formazioni sociali, per tutti, C. CHIMENTI, I partiti politici, in Manuale di diritto pubblico, II. L’organizzazione costituzionale, a cura di G. Amato – A. Barbera, V ed., Bologna, 1997, p. 51 ss.
[9] Secondo la nota ricostruzione di M. DUVERGER, I partiti politici, trad. it., Milano, 1961, p. 16 ss.
[10] In tal senso, già, G. GUIDI, I gruppi parlamentari del Parlamento europeo, Rimini, 1983, p. 137.
[11] Sull’origine dei partiti in Gran Bretagna, ed in particolare sull’affermazione della loro “organizzazione nazionale” in un momento successivo alla cd. “organizzazione parlamentare” degli stessi, cfr. G.D. FERRI, Studi sui partiti politici, Roma, 1950, p. 13 ss.; e P. BISCARETTI DI RUFFIA, Diritto costituzionale, VII ed., Napoli, 1965, p. 755, che colloca la nascita del “Parliamentary party” nella seconda metà del XVII secolo, mentre la vera e propria “Party Organisation” si sarebbe affermata solo dopo il 1867 con l’Associazione liberale di Birmingham. In argomento, v. anche C. ROSSANO, Partiti e Parlamento nello Stato contemporaneo, Napoli, 1972, p. 281 ss.; O. MASSARI, I partiti politici in Gran Bretagna tra organizzazione interna e “modello Westminster”, in Quad. cost., 1992, p. 107 ss., specialmente p. 116 ss., ove l’A. mette in luce come nel sistema britannico, data l’originaria, stretta connessione tra organizzazione parlamentare ed extraparlamentare dei partiti, più che ai “gruppi” sarebbe opportuno riferirsi ai partiti “in Parlamento”; e M.P.C.TRIPALDI – T. TEKLE’, I partiti politici nell’ordinamento del Regno Unito, in Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto europeo, a cura di S. Merlini, I, Torino, 2001, p. 215 ss.
[12] Sul punto, oltre agli Autori citati supra nella nota precedente, cfr. G. DE VERGOTTINI, Lo “Shadow Cabinet”. Saggio comparativo sul rilievo costituzionale dell’opposizione nel regime parlamentare britannico, Milano, 1973, p. 168 ss., il quale sottolinea la circostanza con particolare riferimento all’organizzazione del Partito Conservatore.
[13] Più estesamente sul rapporto gruppi parlamentari - partiti sia consentito richiamare A. CIANCIO, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Milano, 2008, passim; e, con più specifico riferimento alle funzioni dei gruppi, anche all’esterno delle Camere, p. 141 ss., e p. 177 ss.
[14] Art. 19, I co. Rég. Ass. Nat.: “Les deputes peuvent se grouper par affinités politiques”; e art.5, I co. Rég. Sen.: “Les sénateurs peuvent s'organiser en groupes par affinités politiques”, su cui cfr. R. BIAGI, I gruppi parlamentari in Francia, in Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto europeo, cit., p. 109 ss. Sulle analogie tra le norme di organizzazione interna del PE e quelle dei Regolamenti delle Assemblee parlamentari francesi già G. GUIDI, Il Parlamento europeo: assemblea di gruppi (considerazioni critiche e di diritto comparato alla luce del nuovo regolamento parlamentare), in Dir. com. e scambi intern., 1982, p. 585 ss. e ID., I gruppi parlamentari, cit., p. 60.
[15] Cfr., da ultimo, l’art. 30 del Regolamento. Sui requisiti di costituzione dei gruppi all’interno del PE, dettagliatamente, S. BARONCELLI, I gruppi parlamentari nell’esperienza del Parlamento europeo, in Rappresentanza politica, gruppi parlamentari, partiti: il contesto europeo, cit., p. 14 ss.
[16] Trib. di I grado, sez. III ampliata, 2 ottobre 2001, cause riunite T-222/99, T-327/99 e T-329/99, Martinez – De Gaulle – Front National- Bonino e altri c. Parlamento europeo, in Racc. giur., 2001, II-2823, su cui più ampiamente, volendo, A. CIANCIO, I gruppi parlamentari, cit., p. 76 ss., in particolare p. 83 ss.
[17] A differenza di ciò che stabiliscono i Regolamenti delle Assemblee francesi, infatti, i deputati che si riuniscono in gruppi nel PE non sono tenuti a sottoscrivere una dichiarazione politica comune, mentre, su impulso dell’ufficio di Presidenza, in anni recenti è stata introdotta una nota interpretativa del Regolamento, in base alla quale il requisito delle affinità politiche è considerato implicito alla stessa costituzione del gruppo e può essere sindacato nel merito solo nell’ipotesi di aperta negazione della sua sussistenza da parte dei componenti il gruppo stesso, nel qual caso il Parlamento dovrà valutare se esso si sia formato o meno in conformità al Regolamento. Sul punto, da ultimo, S. BARONCELLI, Efficienza e deputati indipendenti nel Parlamento europeo, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico, cit., p. 104 ss.
[18] Al riguardo, merita sottolineare come la prima apparizione nel diritto primario dell’Unione di una previsione sui partiti europei sia avvenuta contestualmente all’introduzione della cittadinanza (all’epoca ancora detta) “comunitaria”: infatti, nonostante la disposizione sui partiti politici fosse stata inserita nella sezione del Trattato CE relativa al Parlamento, essa con ogni evidenza si pone in rapporto con quella concezione dell’ordinamento europeo come comunità politica, e non più meramente economica, definitivamente svelata con la stipulazione di Maastricht.
[19] “I partiti politici a livello europeo sono un importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione. Essi contribuiscono a formare una coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione”. La disposizione era stata ripresa, in modo pressoché testuale, nel “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” (art. I-46, n.4), nell’ambito del complessivo Titolo VI, intitolato “La vita democratica dell’Unione”, che conteneva una serie di istituti di collegamento diretto tra i cittadini e le istituzioni europee, nel quadro del più generale intento di riduzione del tradizionale “deficit democratico” dell’UE. Inoltre, anche la Carta dei diritti fondamentali afferma che “i partiti politici a livello dell’Unione contribuiscono ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione”, con una disposizione (art. 12), posta nel Capo (II) sulle Libertà, che nel disciplinare in generale il diritto di associazione, segnatamente in campo politico, oltre che sindacale e civico, evidenzia anche con tale collocazione l’ampia considerazione di cui sono fatti oggetto i partiti europei, destinati a non esaurire il proprio ruolo nell’elezione del Parlamento, bensì investiti del compito di intervenire ogniqualvolta possa ravvisarsi occasione di partecipazione politica dei cittadini, secondo quanto segnalato anche dall’ estensore della celebre Relazione della Commissione per gli Affari istituzionali del Parlamento europeo del 1996 “sulla posizione costituzionale dei partiti politici europei” K. TSATSOS, European Political Parties? Preliminary reflections on interpreting the Maastricht Treaty article on political parties (Article 138A of the EC Treaty), in Human Rights Law Journal, 1995, XVI, p., 8.
[20] “I partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”.
[21] Così R. BIN – G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, XIV ed., Torino, 2013, p. 100.
[22] Art. 6, 2 co. TUE. Peraltro, è recentissima la pronuncia della CGE, espressasi negativamente sul progetto di accordo di adesione dell’UE alla “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, con il parere 2/13 del 18-12-2014 (reso ai sensi dell’art. 218, par. 11 TFUE), che individua taluni profili di dubbia compatibilità con il diritto dell’Unione, tra cui, essenzialmente, la presunta menomazione alla primauté di esso, quale insindacabilmente interpretato (e interpretabile) dalla medesima Corte di Giustizia, su cui, a prima lettura, H. LABAYLE, La guerre des juges n’aura pas lieu. Tant mieux? Libre propos sur l’avis 2/13 de la Cour de Justice relatif à l’adhésion de l’Union à la CEDH, in www.gdr-elsj.eu, 22-12-2014.
[23] Di segno contrario le conclusioni da ultimo espresse da R. BIN, Nuove strategie per lo sviluppo democratico e l’integrazione politica in Europa. Relazione finale, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico, cit., p. 504 ss., secondo cui, a parte le limitatissime, recenti, eccezioni (individuate nei celebri casi Kadi, in materia di terrorismo, e Digital Rights Ireland Ltd., in tema di tutela della privacy) la CGE non sarebbe neppure oggi orientata prioritariamente a custodire i diritti degli individui, bensì, come sempre, le quattro originarie libertà economiche. Per una diversa lettura della giurisprudenza europea, che ritiene sin dalle origini precipuamente rivolta alla garanzia dei diritti fondamentali, cfr. D. U. GALETTA, La tutela dei diritti fondamentali (in generale, e dei diritti sociali in particolare) nel diritto UE dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in Riv. It. Dir. Pubbl. com., 2013, p. 1175 ss., ed ivi ulteriori riferimenti all’ampia letteratura giuspubblicistica in materia. Sul tema, volendo, anche A. CIANCIO, L’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali in ambito europeo, tra luci ed ombre, in federalismi.it, 2012, n.21.
[24] Sull’istituto del rinvio pregiudiziale per questione interpretativa, per tutti, R. ROMBOLI, Corte di giustizia e giudizi nazionali: il rinvio pregiudiziale come strumento di dialogo, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico, cit., p. 431 ss.
[25] Cfr. B. CARAVITA, Il federalizing process europeo, in federalismi.it, 2014, n. 17, p. 5 ss. In posizione parzialmente differente, G. DE VERGOTTINI, Forma di governo dell’Unione europea, in Treccani.it., 2009, il quale, tuttavia, individua proprio nell’assetto valoriale dell’UE il carattere più propriamente “costituzionalistico” dell’ordinamento europeo, rispetto ad una natura dell’UE, che ritiene ancora fondamentalmente internazionalistica e, come tale, priva dei tratti di unione politica di stampo federale. Conformemente E. CASTORINA, I valori fondanti dell’Unione europea, in ID., Riflessioni sul processo costituente europeo, Torino, 2010, p. 379 ss.
[26] V. ancora G. DE VERGOTTINI, op. loc. ult. cit.
[27] Cfr. F. CLEMENTI, Nel Regno che rischia di dividersi l’Europa è sempre più distinta e distante, in federalismi.it, 2014, n. 11, p. 9 ss.
[28] Il riferimento è con ogni evidenza alla Magna Charta (Libertatum), proclamata nel 1215 da Re Giovanni Plantageneto, tradotta in lingua italiana anche per la collana “Il Monitore Costituzionale”, con prefazione di A. Torre, Macerata, 2007.
[29] J. LOCKE, Two Treaties of Government, London, 1690, fra cui, in particolare, v. Il Secondo Trattato sul Governo, trad. it. di A. Gialluca, Milano, 2009.
[30] Il pensiero è chiaramente attribuibile a CHARLES-LUIS de SECONDAT, Baron de LA BREDE et de MONTESQUIEU, come espresso ne De l’esprit des Lois, Libro XI, Cap. 4, Genève, 1748. Per la traduzione italiana v. ID., Lo spirito delle leggi, BUR, Milano, 1967, p. 206.
[31] Ai sensi di ciò che prevede l’art. 50 TUE.
[32] Il riferimento è alle elezioni comunali svoltesi in Francia il 23 marzo 2014, con secondo turno di ballottaggio la successiva domenica 30 marzo.
[33] Cfr. M. MOUSSANET, Il ritorno di Sarkozy, Ump pronto a riaffidarsi all’ex presidente, su “Il Sole 24 Ore” del 29/11/2014.
[34] Sul diverso significato, che sarebbe da attribuire all’idea di deficit di democrazia nell’UE dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, cfr. A. MANZELLA, Verso un governo parlamentare euro-nazionale?, in Il sistema parlamentare euro-nazionale, a cura di A. Manzella – N. Lupo, Torino, 2014, p. 5 ss.
[35] In particolare attraverso l’estensione della procedura di codecisione, ormai assurta a “procedura legislativa ordinaria” (art. 289, par. 1 TFUE) e le numerose occasioni di controllo politico, principalmente nei confronti della Commissione (designazione del Presidente, potere di censura, svolgimento di interrogazioni), che oltretutto annualmente è tenuta a presentare al primo una relazione generale sull’attività dell’Unione (art. 249, par.2 TFUE), oltre a relazioni specifiche su singoli settori; nonché rispetto ad altre istituzioni (interrogazioni al Consiglio, all’Alto rappresentante per gli affari esteri e persino alla BCE, nonostante il carattere di assoluta indipendenza di essa). Va menzionato, inoltre, l’intervento relativo alla formazione e approvazione del bilancio, ai sensi degli art. 314 ss. TFUE. Sulle competenze del Parlamento dopo il Trattato di Lisbona cfr. almeno C. FASONE – N. LUPO, Il Parlamento europeo alla luce delle novità introdotte nel Trattato di Lisbona e nel suo regolamento interno, in Studi sull’integrazione europea, 2012, VII, p. 329 ss.
[36] Per tutti v. N. LUPO, I poteri europei dei parlamenti nazionali: questioni terminologiche, classificazioni e primi effetti, in Il sistema parlamentare euro-nazionale, cit., p. 101 ss.
[37] Sulla circostanza insiste D. GRIMM, La forza dell’UE sta in un’accorta autolimitazione, in Nomos, 2014, n. 2.
[38] Sulla concezione “formale” della democrazia, che rinviene la sua “essenza”, in termini procedurali, nella modalità di selezione dei “capi” da parte della collettività dei governati affidata al metodo elettivo, dovuto il riferimento a H. KELSEN, Essenza e valore della democrazia, in La democrazia, con Introduzione di M. Barberis, Bologna, 1995, p. 128 ss.
[39] Sul punto sia consentito richiamare ancora A. CIANCIO, Quali prospettive, cit., p. 4 ss.
[40] E’ notoriamente questo uno degli argomenti evocati da D. GRIMM, Una costituzione per l’Europa, in Il futuro della Costituzione, a cura di G. Zagrebelsky-P.P. Portinaro-J. Luther, Torino, 1996, p. 356 ss., che, nella mancanza di un idioma comune, rinviene un ostacolo difficile da superare all’affermazione di un’opinione pubblica e di un dibattito pubblico europeo, quali condizioni di vera democrazia in Europa ed, in ultima analisi, causa principale dell’inesistenza di un demos europeo, ciò che si frapporrebbe, in modo pressoché insuperabile, alla strutturazione dell’UE come vera Unione politica. Contra J. HABERMAS, Una Costituzione per l’Europa? Osservazioni su Dieter Grimm, ivi, p. 372 ss.; e, più di recente, B. CARAVITA, Il federalizing process europeo, cit., p.1.
[41]Al punto da condurre a poter considerare l’UE già dotata di una “costituzione”, sia pur in un senso non inscindibilmente connesso alla statualità, ma secondo una nozione, che colloca la stessa al centro di una pluralità di sistemi (politico-istituzionali, normativi ed assiologici), di cui essa opererebbe la sintesi, dandone, allo stesso tempo, manifestazione, cfr. A. RUGGERI, L’integrazione europea attraverso i diritti e il “valore” della Costituzione, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico, cit., p. 473 ss. Sul tema v. anche A. CARIOLA, Integrazione processuale vs integrazione sostanziale, ivi, p. 203 ss.
[42] Più ampiamente in argomento A. MORRONE, Crisi economica e diritti. Appunti per lo stato costituzionale in Europa, in Quad. cost., 2014, n.1, p. 79 ss.; ID., Crisi economica e integrazione politica in Europa, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico, cit., p. 349 ss.; e ID., Una costituzione per l’Europa? Per uno stato costituzionale europeo, in federalismi.it, 2014, n. 23.
[43] Per la proposta di modifica della composizione della Commissione - nel contesto di una più generale riorganizzazione istituzionale, in senso “direttoriale”, dell’ipotizzata “Federazione” europea - in funzione di una rappresentanza connotata in senso anche politico, oltre che geografico-territoriale, cfr. B. CARAVITA, op. cit., p.19.
[44] Cfr. P. RIDOLA, Il voto europeo del 6 e 7 giugno: la “sfera pubblica europea”, l’integrazione multilivello e le sfide della complessità, in federalismi.it, 2009, n. 12, p. 6.
[45]Sulla genesi nel diritto europeo primario della previsione sullo statuto ed il finanziamento dei partiti europei, introdotta per la prima volta soltanto con la stipulazione di Nizza del 2001, nonostante i tentativi effettuati già in sede di redazione del Trattato di Amsterdam, cfr. G. GRASSO, Partiti politici europei, in Dig. Disc. Pubbl., Agg., 2008, p. 615 ss.
[46] Regolamento CE n.2004/2003 del 4-11-2003.
[47] Più ampiamente sull’argomento, G. GRASSO, op. cit., p. 623; e, se si vuole, A. CIANCIO, I partiti politici europei e il processo di democratizzazione dell’Unione, in federalismi.it, 2009, ora in ID., Persona e “Demos”. Studi sull’integrazione politica in Italia e in Europa, Torino, 2010, p. 253 ss.
[48] Cfr. G. GRASSO, Democrazia interna e partiti politici a livello europeo: qualche termine di raffronto per l’Italia?, in Pol. Dir., 2010, n. 4, p. 609 ss.
[49] Nel medesimo senso anche C. MARTINELLI, Il finanziamento pubblico dei partiti europei, in Quad. cost., 2004, p. 418.
[50] Conformemente A. FUSACCHIA, The party must go on! Il finanziamento pubblico dei partiti politici europei, in Riv. It. Sc. Pol., 2006, p. 88.
[51] Diffusamente sul punto, cfr. ancora G. GRASSO, Partiti politici europei, cit., p. 624.
[52] A questo fine è stato anche modificato il Regolamento del PE, con l’inserimento di un Titolo XI denominato “Competenze relative ai partiti politici a livello europeo” (artt. 198-200), che fra l’altro attribuisce al Presidente del Parlamento europeo di rappresentare l’istituzione nei rapporti con i partiti europei (art. 198) e demanda all’Ufficio di Presidenza il compito di valutate le istanze di finanziamento.
[53] Risoluzione del Parlamento europeo sui partiti politici europei del 23 marzo 2006, in GU C 292 E del 1 dicembre 2006, 127.
[54] Così il n.4 del Capo intitolato “Il contesto politico” della Risoluzione cit. alla nota precedente.
[55] Punto 2 del Capo “Il contesto politico”, cit.
[56] Punto 3 del Capo “Il contesto politico”, cit.
[57] Regolamento n. 1524/2007 del 18 dicembre 2007, in GU L 343 del 27 dicembre 2007.
[58] Per maggiori approfondimenti sul tema è possibile leggere ancora A. CIANCIO, I partiti politici europei, cit., p. 257 ss.
[59] Art. 1 Reg. 1524/2007, che modifica l’art.2 del Regolamento del 2003, aggiungendo un punto 4 che individua come fondazione politica a livello europeo “un ente o una rete di enti dotati di personalità giuridica in uno Stato membro, affiliati ad un partito politico a livello europeo, che, attraverso le proprie attività, nel rispetto degli obiettivi e dei valori fondamentali perseguiti dall’Unione europea, sostengono ed integrano gli obiettivi di tale partito a livello europeo”.
[60] Cfr. ancora l’art. 1 Reg. 1524/2007 in modifica dell’art. 3 Reg. del 2003.
[61] Per più ampie riflessioni sul tema, sia consentito rinviare ancora a A. CIANCIO, I partiti politici europei, cit., p. 250 ss.
[62] Guarda con perplessità alla prospettiva, che considera ormai tramontata, S. STAIANO, I partiti europei fuori tempo, in federalismi.it, 2012, n. 15, p. 2 ss.
[63] Sul tortuoso iter che ha condotto al varo del nuovo Regolamento cfr. M R. ALLEGRI, Democrazia, controllo pubblico e trasparenza dei costi della politica, in federalismi.it, 2014, n.9, p. 9 ss.; e ID., Il nuovo regolamento sullo statuto e sul finanziamento dei partiti politici europei: una conclusione ad effetto ritardato, in Riv. AIC, 2014, n.2, p 1 ss.
[64] Più in dettaglio sui contenuti del nuovo Regolamento G. SAVOIA, Democrazia interna ai partiti in Italia e nell’Unione Europea: discipline a confronto, in federalismi.it, 2014, n. 6, p. 10 ss.
[65] Così testualmente definiti solo con l’approvazione di tali ultime norme (mentre in precedenza venivano identificati ancora come partiti “di livello europeo”), le quali, quindi, manifesterebbero, anche nella denominazione in fine attribuita alle formazioni politiche europee, l’intento di liberare queste ultime dalla posizione di subordinazione e dipendenza dai partiti nazionali, in cui erano rimaste confinate fino a questo momento.
[66] Anche in questo caso si tratta di disposizione non nuova, preceduta da analoga previsione già espressa nell’art. 190, IV co. TCE. Sul piano della realizzazione concreta, però, non si è andati oltre la formulazione di una Risoluzione da parte del PE, che nel 1998 propose di attribuire una percentuale di seggi sulla base dello scrutinio di lista di tipo proporzionale nell’ambito di una circoscrizione unica formata dall’intero territorio dell’Unione, secondo quanto ricordato anche da V. LIPPOLIS, I partiti politici europei, in Rass. Parl., 2002, p. 955 ss. Invero, la proposta venne accantonata dal Consiglio, che, nella decisione del 2002 n. 772 di modifica dell’Atto del 1976 sulla procedura elettorale per il Parlamento europeo, si limitò ad imporre agli Stati membri solo generici principi comuni, tra cui i principale concerne l’adozione del metodo proporzionale, lasciando in tal modo prevalere l’alternativa (pure prevista sin da Maastricht e oggi dall’ultima parte dell’art. 223, I co. TFUE) che l’elezione avvenga “secondo principi comuni a tutti gli Stati membri”, nella diversità, però, delle singole leggi nazionali, su cui cfr., da ultimo, G. CHIARA, Elezione del Parlamento europeo e nuovi assetti istituzionali comunitari: guardando, con un po’ di scetticismo, oltre le legislazioni nazionali, in Nuove strategie per lo sviluppo democratico, cit., p. 77 ss.
[67] Cfr., ex multis, G.E. VIGEVANI, Parlamento europeo: una nuova procedura elettorale uniforme, in Quad. cost., 2003, p. 175 ss.; F. RASPADORI, Il deficit di rappresentatività del Parlamento europeo: limiti e soluzioni, in Studi sull’integrazione europea, 2009, I, p. 121 ss.; J. HABERMAS, La nuova Europa in quattro mosse, in “La Repubblica” del 07-02-2014; e, volendo, anche A. CIANCIO, Quali prospettive, cit., p. 8.