Daniele FRANCO, Autonomia finanziaria delle regioni e spesa sanitaria (Novembre 2010)
1. Vorrei ringraziare l’ISSiRFA per l’invito a partecipare alla presentazione del Rapporto sulla finanza regionale. Dal 1983 l’ISSiRFA, attraverso l’Osservatorio finanziario regionale, pubblica un Rapporto annuale sulle entrate e sulle spese delle regioni basato sulla rielaborazione dei dati dei bilanci di previsione. Il Rapporto è estremamente utile; sono in particolare importanti lo sforzo di rendere confrontabili i dati (esempio: viene resa omogenea la rappresentazione contabile della compartecipazione all’IVA per la quale alcune regioni seguono criteri differenti) e la rapidità con cui esso è diffuso; abbiamo oggi un Rapporto che estende l’analisi al 2009, mentre le statistiche ufficiali sono disponibili solo fino al 2007.
Vorrei ringraziare pubblicamente l’ISSiRFA per questo lavoro. La qualità dell’informazione statistica è fondamentale in questa fase di trasformazione dell’assetto istituzionale italiano.
Come ha rilevato il Dr. Buglione, l’ISSiRFA propone quattro indicatori: a) Autosufficienza finanziaria (entrate geografiche correnti in percentuale delle spese correnti); b) Autonomia tributaria (tributi propri in percentuale del totale delle entrate correnti); c) Autonomia di spesa (entrate libere in percentuale del totale delle entrate, al netto dei mutui); d) Efficacia del sistema di perequazione (divario percentuale tra regioni del Nord e del Sud in termini di entrate correnti procapite).
Sono tutti molto utili. I primi tre indicatori misurano aspetti diversi del grado di decentramento, però quest’ultimo dipende anche dalla tipologia dei tributi assegnati agli enti e soprattutto dal loro grado effettivo di autonomia nel manovrarne il gettito. Sarebbe utile disporre anche di un indice dell’autonomia residua effettiva (1). Nell’ordinamento vigente il pieno utilizzo della leva fiscale da parte delle regioni a statuto ordinario (con riferimento all’Irap, all’addizionale Irpef e alle tasse automobilistiche) può essere stimato in circa il 10 per cento delle entrate correnti. Il nuovo disegno di legge, che prevede l’ampliamento dell’escursione fra aliquota minima e aliquota massima dell’addizionale all’Irpef (dall’attuale 0,5 all’1,1 nel 2014 e al 2,1 per cento dal 2015), dovrebbe aumentare tale valore. Sarebbe molto utile disporre di una stima dell’autonomia effettiva, tenendo anche conto dei limiti stabiliti (quali quello di evitare aggravi per i redditi da lavoro dipendente e da pensione sino ai primi due scaglioni di reddito).
La questione dell’autonomia finanziaria delle regioni va valutata soprattutto con riferimento alla sanità, che assorbe larga parte del loro bilancio. Nel definire le modalità di finanziamento delle regioni italiane occorre tenere a mente due aspetti principali: da un lato quello della gestione della spesa pubblica e del rispetto dei vincoli di bilancio; dall’altro quello della qualità dei servizi.
Vorrei ringraziare pubblicamente l’ISSiRFA per questo lavoro. La qualità dell’informazione statistica è fondamentale in questa fase di trasformazione dell’assetto istituzionale italiano.
Come ha rilevato il Dr. Buglione, l’ISSiRFA propone quattro indicatori: a) Autosufficienza finanziaria (entrate geografiche correnti in percentuale delle spese correnti); b) Autonomia tributaria (tributi propri in percentuale del totale delle entrate correnti); c) Autonomia di spesa (entrate libere in percentuale del totale delle entrate, al netto dei mutui); d) Efficacia del sistema di perequazione (divario percentuale tra regioni del Nord e del Sud in termini di entrate correnti procapite).
Sono tutti molto utili. I primi tre indicatori misurano aspetti diversi del grado di decentramento, però quest’ultimo dipende anche dalla tipologia dei tributi assegnati agli enti e soprattutto dal loro grado effettivo di autonomia nel manovrarne il gettito. Sarebbe utile disporre anche di un indice dell’autonomia residua effettiva (1). Nell’ordinamento vigente il pieno utilizzo della leva fiscale da parte delle regioni a statuto ordinario (con riferimento all’Irap, all’addizionale Irpef e alle tasse automobilistiche) può essere stimato in circa il 10 per cento delle entrate correnti. Il nuovo disegno di legge, che prevede l’ampliamento dell’escursione fra aliquota minima e aliquota massima dell’addizionale all’Irpef (dall’attuale 0,5 all’1,1 nel 2014 e al 2,1 per cento dal 2015), dovrebbe aumentare tale valore. Sarebbe molto utile disporre di una stima dell’autonomia effettiva, tenendo anche conto dei limiti stabiliti (quali quello di evitare aggravi per i redditi da lavoro dipendente e da pensione sino ai primi due scaglioni di reddito).
La questione dell’autonomia finanziaria delle regioni va valutata soprattutto con riferimento alla sanità, che assorbe larga parte del loro bilancio. Nel definire le modalità di finanziamento delle regioni italiane occorre tenere a mente due aspetti principali: da un lato quello della gestione della spesa pubblica e del rispetto dei vincoli di bilancio; dall’altro quello della qualità dei servizi.
2. Cominciando dalla dinamica della spesa, si può rilevare come tra il 1998 e il 2008 la crescita della spesa sanitaria abbia superato nettamente quella del PIL e quella delle altre spese primarie correnti. Durante l’ultimo biennio (si fa riferimento alle valutazioni del Ministero dell’Economia e delle finanze), la spesa sanitaria è cresciuta circa del 2,9 per cento l’anno, molto più del PIL, un po’ meno della restante parte della spesa corrente primaria.
Tassi annui di crescita
|
Spesa sanitaria
|
Pil
|
Spesa prim. corr. esclusa sanità
|
1993-1997
|
2,5
|
5,4
|
5,1
|
1998-2001
|
7,7
|
4,5
|
3,9
|
2002-2008
|
5,5
|
3,3
|
4,2
|
2009-2010
|
2,9
|
-0,4
|
3,2
|
Per il prossimo triennio, il Governo, con la decisione di finanza pubblica, indica una crescita della spesa sanitaria del 2,5 per cento l’anno, inferiore a quella del PIL (3,6 per cento), ma di gran lunga superiore a quella prevista per le altre voci di spesa (1,2 per cento).
Questi dati, unitamente all’esperienza degli altri paesi, indicano che è possibile che nel medio-lungo termine la crescita della spesa sanitaria resti significativamente superiore a quella del PIL (per gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, della dinamica della domanda di servizi sanitari, ecc.). È anche evidente che la dinamica della spesa sanitaria non riflette il ciclo economico. Sarebbe pertanto opportuno esplicitare a chi spetti il finanziamento degli incrementi strutturali di spesa e chi debba gestire le fluttuazioni cicliche del gettito rispetto al fabbisogno di risorse.
Una prima soluzione, sostanzialmente coerente con l’assetto che si sta prospettando (il fabbisogno sanitario nazionale standard verrebbe fissato in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo), attribuisce questa responsabilità allo Stato. Alle regioni resterebbe il potere di manovrare al margine le entrate, per scopi di corresponsabilizzazione e per evitare debordi della spesa. In questo approccio, per facilitare la programmazione regionale, sarebbe opportuno stabilire ex ante le risorse garantite alle regioni per i prossimi (per esempio 3) anni.
Se l’approccio fosse diverso, ovvero si decidesse che siano le regioni a farsi carico dei due problemi sopra indicati, ad esse andrebbero assegnati margini per accrescere progressivamente il proprio prelievo. Andrebbero inoltre creati rainy day funds per gestire gli effetti del ciclo (il Titolo V limita infatti l’indebitamento agli investimenti) (2).
L’approccio implicito nella legge n. 42 e nel decreto legislativo sembra essere il primo. Sarebbe però bene esplicitarlo e definire meccanismi per stabilire le assegnazioni alle regioni negli anni a venire.
3. L’altro aspetto che andrebbe considerato nel definire le modalità di finanziamento delle regioni e della spesa sanitaria è quello della qualità dei servizi. Attualmente, a fronte di una spesa sanitaria pro-capite sostanzialmente omogenea nelle regioni a statuto ordinario, si rileva una qualità di servizi sanitari che varia molto da regione a regione (3). Una prima indicazione è fornita dai dati sull’emigrazione sanitaria tra regioni; i flussi netti sono molto rilevanti, soprattutto dal Sud al Centro Nord. Anche i dati dell’Istat sulla qualità percepita dell’assistenza ospedaliera, medica e alberghiera, indicano l’esistenza di ampie differenziazioni nella qualità dei servizi, soprattutto tra il Nord e il Sud, ma anche all’interno del Centro, del Nord e del Sud.
L’indagine Eurostat sulla qualità dei servizi sanitari percepita in vari paesi europei mette in luce la peculiare situazione italiana. Mentre negli altri paesi europei non si rilevano ampie divergenze tra la qualità dei servizi ospedalieri nelle regioni relativamente ricche e povere, in Italia il divario è enorme, a svantaggio delle regioni meridionali (4).
Queste ultime si caratterizzano anche per i tassi di ospedalizzazione relativamente elevati per tutte le classi di età e per l’elevato numero di presidi ospedalieri di dimensioni limitate, dove si sfruttano meno le economie di scala. Anche gli indicatori di appropriatezza risultano peggiori, per esempio con riferimento all’incidenza dei parti cesarei e all’incidenza delle dismissioni con DRG medici da reparti chirurgici (5).
I sistemi sanitari regionali presentano ampie differenze sotto molti profili. La diffusione delle strutture ospedaliere varia fortemente: si va dalle 12 strutture per milione di abitanti del Veneto alle 30 del Lazio. La spesa per i farmaci essenziali è molto differenziata tra le regioni italiane in relazione sia ai consumi sia ai costi medi; si spende in genere di più nelle regioni meridionali.
Questi dati mostrano che la qualità dei servizi in concreto fornita ai cittadini italiani nelle diverse regioni varia moltissimo nonostante i livelli di spesa pro capite non siano molto diversi. I servizi sanitari sono in media peggiori nel Mezzogiorno, ma vi sono differenziazioni anche nel Nord e nel Centro. Questo è probabilmente il problema principale della sanità italiana.
Questa situazione suggerisce di riflettere su quale assetto del finanziamento del sistema sanitario possa contribuire maggiormente al miglioramento della qualità dei servizi.
Innanzitutto, può essere di aiuto la trasparenza delle scelte fiscali: il cittadino deve poter individuare quale è il livello di governo in concreto responsabile per i servizi e il relativo carico fiscale. Può tuttavia essere opportuno non contare solo sui meccanismi di reazione elettorale dei cittadini. Al concetto di costo/fabbisogno standard dovrebbero associarsi interventi volti a migliorare gli indicatori riguardanti la qualità dei servizi. Occorre un sistema di valutazioni indipendente e trasparente. Occorre poi dare ai cittadini informazioni chiare e confrontabili sulla qualità dei servizi e rendere operativi i meccanismi sanzionatori per gli enti che non assicurano i livelli essenziali delle prestazioni o l’esercizio delle funzioni fondamentali o gli obiettivi di servizio.
L’indagine Eurostat sulla qualità dei servizi sanitari percepita in vari paesi europei mette in luce la peculiare situazione italiana. Mentre negli altri paesi europei non si rilevano ampie divergenze tra la qualità dei servizi ospedalieri nelle regioni relativamente ricche e povere, in Italia il divario è enorme, a svantaggio delle regioni meridionali (4).
Queste ultime si caratterizzano anche per i tassi di ospedalizzazione relativamente elevati per tutte le classi di età e per l’elevato numero di presidi ospedalieri di dimensioni limitate, dove si sfruttano meno le economie di scala. Anche gli indicatori di appropriatezza risultano peggiori, per esempio con riferimento all’incidenza dei parti cesarei e all’incidenza delle dismissioni con DRG medici da reparti chirurgici (5).
I sistemi sanitari regionali presentano ampie differenze sotto molti profili. La diffusione delle strutture ospedaliere varia fortemente: si va dalle 12 strutture per milione di abitanti del Veneto alle 30 del Lazio. La spesa per i farmaci essenziali è molto differenziata tra le regioni italiane in relazione sia ai consumi sia ai costi medi; si spende in genere di più nelle regioni meridionali.
Questi dati mostrano che la qualità dei servizi in concreto fornita ai cittadini italiani nelle diverse regioni varia moltissimo nonostante i livelli di spesa pro capite non siano molto diversi. I servizi sanitari sono in media peggiori nel Mezzogiorno, ma vi sono differenziazioni anche nel Nord e nel Centro. Questo è probabilmente il problema principale della sanità italiana.
Questa situazione suggerisce di riflettere su quale assetto del finanziamento del sistema sanitario possa contribuire maggiormente al miglioramento della qualità dei servizi.
Innanzitutto, può essere di aiuto la trasparenza delle scelte fiscali: il cittadino deve poter individuare quale è il livello di governo in concreto responsabile per i servizi e il relativo carico fiscale. Può tuttavia essere opportuno non contare solo sui meccanismi di reazione elettorale dei cittadini. Al concetto di costo/fabbisogno standard dovrebbero associarsi interventi volti a migliorare gli indicatori riguardanti la qualità dei servizi. Occorre un sistema di valutazioni indipendente e trasparente. Occorre poi dare ai cittadini informazioni chiare e confrontabili sulla qualità dei servizi e rendere operativi i meccanismi sanzionatori per gli enti che non assicurano i livelli essenziali delle prestazioni o l’esercizio delle funzioni fondamentali o gli obiettivi di servizio.
__________________________________
Note
(1) Cfr. P. De Matteis e G. Messina (2010), “Le capacità fiscali delle Regioni italiane”, Rivista economica del Mezzogiorno, n. 3; G. Messina (2006), “Attualità e prospettive del decentramento fiscale in Italia: quanto spazio per l’autonomia impositiva delle Regioni?”, Economia italiana, n. 3.
(2) Cfr. F. Balassone, D. Franco e S. Zotteri (2007), “Rainy Day Funds: Can They Make a Difference in Europe?”, in The Role of Fiscal Rules and Institutions in Shaping Budgetary Outcomes, Proceedings from the ECFIN Workshop held in Brussels on 24 November 2006, European Economy, Economic Papers, n. 275.
(3) Cfr. D. Alampi e M. Lozzi (2009), “Qualità della spesa pubblica nel Mezzogiorno: il caso di alcune spese decentrate”, in Mezzogiorno e politiche regionali, Banca d’Italia; D. Alampi, G. Iuzzolino, M. Lozzi e A. Schiavone (2010), in Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia, Banca d’Italia.
(4) Cfr. il capitolo sulla finanza pubblica decentrata nel volume L’economia delle regioni italiane della Banca d’Italia, luglio 2010.
(5) Cfr: M. Lozzi (2008), “L’assistenza ospedaliera in Italia”, Questioni di economia e finanza, Banca d’Italia, n. 28; A. Schiavone (2008), “L’efficienza tecnica degli ospedali pubblici italiani”, Questioni di economia e finanza, Banca d’Italia, n. 29; M. Francese e M. Romanelli (2010), “Health Care in Italy: Expenditure Determinants and Regional Differentials”, in A. Testi et al., Proceedings of the XXXVI International ORHAS Conference, Franco Angeli, Milano.