Antonio D'ATENA, Sette tesi per il riavvio delle riforme costituzionali (Ottobre 2006)
AVVERTENZA: Intervento al Seminario ad inviti sulle riforme istituzionali organizzato il 25.9.2006 a Firenze (Fondazione Spadolini-Nuova Antologia) dal Ministro per le riforme istituzionali ed i rapporti con il Parlamento, al fine di avviare un percorso di ascolto e confronto con il mondo universitario ed accademico sul tema delle riforme.
Sommario:
Enuncerò, motivandole sinteticamente, sette tesi, che, nell’ipotesi di riapertura del processo di riforma costituzionale, condensano le esigenze, a mio avviso, prioritarie.
La prima tesi è di ordine metodologico. Alla luce dell’esperienza maturata nelle ultime due legislature, riterrei altamente raccomandabile deporre la concezione “eroica” della riforma costituzionale – mi riferisco alla pretesa di intervenire con una “grande” riforma di tipo palingenetico –, per abbracciare la prospettiva, forse meno appassionante ma certamente più costruttiva, della manutenzione della Costituzione. Che è, in genere, la prospettiva coltivata negli altri Stati europei.
Tale mutamento di approccio avrebbe il grande merito di deideologizzare il dibattito sulle riforme, spostando l’attenzione dai modelli generali, alle “cose”: dagli slogan, alle esigenze da soddisfare ed agli strumenti tecnici all’uopo utilizzabili. Esso, inoltre, ridurrebbe il rischio che gli interventi riformatori si carichino di contraddizioni. Un rischio, che, in presenza di un quadro politico estremamente frammentato come quello italiano, è proporzionale all’ambizione dei progetti di riforma ed alla loro estensione.
Non deve, infine, dimenticarsi che le “grandi” riforme costituzionali vanificano la funzione del referendum confermativo di cui all’art. 138, coartando la volontà del corpo elettorale. È, infatti, evidente che, posto di fronte a decisioni eterogenee, se non in reciproca tensione, l’elettore non può “distinguere” i contenuti cui eventualmente vada il proprio favore da quelli che disapprovi. Ed è, quindi, fatalmente sospinto a decidere, seguendo logiche di schieramento. Il che priva il suo intervento della funzione che dovrebbe rivestire (e, quindi, di un apprezzabile valore aggiunto).
Traducendo in termini operativi le considerazioni di cui sopra, riterrei opportuno che, in questa fase, si separasse il tema della forma di Stato da quello della forma di governo.
Anzitutto, perché l’intreccio tra i due, appesantirebbe il tavolo, accrescendo la probabilità di compromessi al ribasso. Inoltre, per la ragione che, mentre il tema della forma di Stato può considerarsi relativamente “maturo”, essendosi consolidata una riflessione abbastanza condivisa sugli interventi migliorativi necessari, sulla forma di governo si fronteggiano ancora diagnosi e terapie fortemente differenziate. Le quali attraversano entrambi gli schieramenti politici.
Passando dal piano del metodo a quello dei contenuti, aggiungo che – a mio modo di vedere – di tutti gli interventi sulla Costituzione, il più urgente è quello relativo al procedimento necessario per modificarla. Mi riferisco alla revisione dell’art. 138.
Non è, infatti, contestabile che la nostra rigidità costituzionale sia una rigidità “debole”, in quanto disponibile dalla maggioranza politica. Né a bilanciarla vale la possibilità del referendum confermativo, in caso di mancato raggiungimento della maggioranza dei due terzi, in seconda deliberazione. Infatti, mentre la maggioranza qualificata, esigendo normalmente il concorso delle opposizioni, obbedisce ad una logica garantistica, il referendum è espressione di una logica maggioritaria. Ed è in grado di fungere da correttivo nel solo caso che la maggioranza politica autrice della riforma costituzionale abbia perduto il consenso del proprio elettorato. Il che – sia detto per inciso – non sembra smentito dall’esito del referendum sulla riforma della XIII legislatura. È, infatti, vero che allora il corpo elettorale ha confermato una scelta compiuta da una maggioranza diversa da quella alla quale aveva appena dato i suoi favori. Ma a ciò ha contribuito la strategia della nuova coalizione di Governo. La quale ha presto deposto l’idea di impegnarsi in uno scontro referendario, preferendo battere la strada della riforma della riforma.
Per sottrarre la Costituzione alla disponibilità della maggioranza politica, è sufficiente prevedere sempre la necessità della maggioranza qualificata. La soluzione si giustifica, sia per allineare la nostra costituzione agli standard correnti nel costituzionalismo contemporaneo, sia per offrire alle opposizioni parlamentari garanzie minime, che, senza il loro coinvolgimento nelle decisioni aventi ad oggetto i diritti fondamentali e le basilari regole del gioco democratico, sarebbero ingiustificabilmente pretermesse, sia per scongiurare la prospettiva che ogni maggioranza scriva la “propria” costituzione, con conseguente, intollerabile, instabilità del quadro complessivo.
A mio avviso, si tratta di un’esigenza che andrebbe soddisfatta sempre: quali che siano le altre variabili del sistema istituzionale. Non è, però, contestabile che essa si imponga con forza particolare nell’attuale situazione italiana, in presenza di meccanismi elettorali rivolti a sovrarappresentare la maggioranza politica, in funzione della governabilità. I quali possono mettere la costituzione alla mercé di maggioranze parlamentari non maggioritarie nel corpo elettorale.
Stabilita questa priorità, non ci si può nascondere che il maggiore ostacolo sul suo cammino è rappresentato dalla riforma del titolo V approvata nella XIII legislatura: e, più precisamente, dalla l. cost. n. 3 del 2001 (poiché sulla l. cost. n. 1 del 1999 si è registrato un consenso larghissimo e bipartisan). Non è, infatti, accettabile che una riforma adottata a stretta maggioranza venga blindata per effetto di una revisione del procedimento di revisione costituzionale.
L’ostacolo non è, però, insormontabile.
Esso può essere superato in due modi diversi: o inserendo la riforma dell’art. 138 in un pacchetto di riforme del titolo V condivise da maggioranza ed opposizione (secondo un’ipotesi da me avanzata in un Seminario tenutosi alla LUISS nel maggio 2005), o prevedendo, con norma transitoria, che, per un certo numero di anni, il titolo V sia modificabile con il procedimento attualmente vigente (secondo l’opinione espressa da Leopoldo Elia nella stessa occasione).
Prima di chiudere sul punto, è il caso di aggiungere che, intervenendo sull’art. 138, si potrebbe avviare una riflessione sulla possibilità di riconoscere alle Regioni un ruolo nel procedimento più incisivo dell’attuale (risolventesi – com’è noto – nella possibilità di proporre il referendum confermativo). L’esigenza vale soprattutto per le modifiche aventi ad oggetto il riparto delle competenze tra centro e periferia, analogamente a quanto, in genere, accade negli ordinamenti che conoscono forme di decentramento politico a base territoriale. È noto, infatti: a) che, nei sistemi federali, le entità sub-statali sono in genere chiamate a partecipare – o direttamente o/e attraverso la seconda Camera (di tipo “federale”) – alla riscrittura delle regole costituzionali (o, almeno, a quella delle regole riguardanti il riparto di competenze); b) che negli altri sistemi a regionalismo forte (Spagna e Portogallo), le Regioni concorrono alla modifica dei rispettivi statuti di autonomia (che sono gli atti contenenti la distribuzione delle competenze tra esse e lo Stato centrale).
L’esigenza non è, peraltro, del tutto ignorata in Italia. Essa ha iniziato a ricevere un timido riconoscimento per le Regioni ad autonomia speciale, chiamate ormai, per effetto della l. cost. n. 2/2001, ad esercitare un ruolo consultivo nel procedimento di revisione degli statuti (che sono – com’è noto – leggi costituzionali). È il caso, inoltre, di ricordare che una partecipazione più incisiva era prevista dalla riforma costituzionale bocciata dal referendum del 12 e 13 giugno 2005. La quale, sulle modifiche degli statuti speciali, richiedeva l’intesa con le Regioni corrispondenti. Soluzione, questa, significativamente ripresa da alcuni progetti di revisione costituzionale presentati nell’attuale legislatura da esponenti della nuova maggioranza.
Venendo alla forma di Stato, riterrei salutare distinguere le riforme praticabili da quelle che praticabili non sono.
Il rilievo vale per la trasformazione del Senato in una camera di rappresentanza territoriale. Una trasformazione, la quale, richiedendo il consenso dell’organo che dovrebbe esserne interessato, presupporrebbe in questo un’improbabile propensione al suicidio istituzionale.
Del resto, il dibattito costituzionale svoltosi nelle ultime due legislature dimostra il carattere assolutamente teorico dell’ipotesi di intervenire radicalmente sui due principi costituzionali che, nella prospettiva della trasformazione predetta, andrebbero messi in discussione: l’elezione diretta dei senatori ed il fortissimo squilibrio tra le rappresentanze regionali nel Senato.
Tralasciando, in questa sede, indicazioni più specifiche, posso limitarmi a ricordare che, negli ordinamenti federali:
a) l’eventuale previsione dell’elezione diretta dei membri della seconda Camera trova, in genere, un robusto bilanciamento nel carattere paritario delle rappresentanze assicurate alle entità sub-statali (è il caso di USA e Svizzera, con due rappresentanti per entità);
b) l’eventuale previsione di rappresentanze differenziate, in funzione della consistenza demografica delle entità federate, è, normalmente, accompagnata da due correttivi: la configurazione della seconda camera come organo di secondo grado (eletto dai Parlamenti o espresso dai Governi delle entità federate); un’escursione limitata tra la rappresentanza massima e la rappresentanza minima (che, in Germania va da 3 a 6 ed in Austria da 3 a 12).
Se non si prende atto di ciò, la pretesa di conferire al Senato una qualità rappresentativa diversa da quella della Camera politica è fatalmente destinata al fallimento.
Ma non basta.
Come confermano i tentativi compiuti nelle ultime due legislature, mettere le mani sul Senato, senza regionalizzarlo (o – se si preferisce – senza federalizzarlo), espone al rischio di soluzioni notevolmente peggiorative della disciplina attuale. Basti pensare: da un lato, al bizzarro Senato delle autonomie e delle garanzie concepito dalla Commissione bicamerale D’Alema; d’altro lato, alla previsione, ancora più bizzarra, di un Senato titolare di competenza esclusiva sulle leggi-cornice (secondo la “riforma della riforma” bocciata dal referendum del giugno scorso).
Personalmente, non ho mai condiviso l’idea che la seconda delle riforme citate fosse, comunque, da salutare con favore, avendo il merito di archiviare il nostro bicameralismo perfetto (soprattutto per quanto riguarda il rapporto fiduciario con il Governo).
Sono, infatti, convinto che, se, per ottenere tale risultato, non vi fosse altra strada che quella di creare un’assemblea parlamentare, non solo, inidonea a rappresentare le Regioni, ma anche dotata di competenze legislative meglio esercitabili dalla Camera politica, il prezzo sarebbe troppo alto. Meglio allora – lo dico paradossalmente – eliminare il bicameralismo: una soluzione drastica, ma lineare, certamente preferibile a confusi pasticci.
Per quanto specificamente attiene al titolo V, un eventuale nuovo percorso riformatore non dovrebbe ripartire da zero, poiché, nella scorsa legislatura, si è sviluppata una riflessione molto intensa sulle riforme costituzionali del 1999 e del 2001 e sugli interventi necessari a correggerne le parti meno felici. Può, anzi, aggiungersi che alcuni risultati di tale riflessione sono stati recepiti dalla riforma della riforma più volte citata, la quale andrebbe – per queste parti – recuperata.
Dell’intesa sugli Statuti regionali speciali – da me valutata molto positivamente – ho già detto. Passando in rassegna gli altri punti della riforma della riforma che, a mio avviso, meritano di essere ripresi, posso ricordare:
- l’esplicitazione del carattere “amministrativo” delle intese e degli organi comuni di cui all’art. 117, comma 8;
- l’esplicitazione del riferimento alle autonomie funzionali e l’espressa sottoposizione, alla legislazione esclusiva dello Stato, della competenza ordinamentale ad esse relativa;
- l’attribuzione dei poteri sostitutivi di cui all’art.120, comma 2, allo “Stato”, anziché al “Governo”;
- l’esclusione dell’effetto dismissivo a carico della Giunta e dell’effetto dissolutorio a carico del Consiglio regionale, in caso di cessazione del Presidente per morte od impedimento permanente;
- l’eliminazione – dotata di valore eminentemente “estetico” (ma non per questo disprezzabile) – della menzione negativa del visto commissariale a proposito degli Statuti regionali ordinari (la quale aveva senso nel 1999 e non nel 2001).
È inutile dire che si tratta di una sommarissima esemplificazione, non mancando altri temi sui quali il processo di maturazione è in stato piuttosto avanzato. Essa è, comunque, sufficiente ad evidenziare che, su un buon numero di questioni, gli interventi migliorativi sul titolo V non incontrerebbero problemi né di ordine tecnico né di ordine politico.
Tra i temi sui quali si è registrato, nella scorsa legislatura, un significativo grado di maturazione v’è anche quello delle materie. È, d’altra parte, noto che su esso non è mancato l’impegno della maggioranza politica dell’epoca: testimoniato, oltre che dal testo sottoposto al referendum (che, in proposito, conteneva alcune correzioni interessanti), da una bozza governativa, elaborata nell’aprile 2003 e presto archiviata: la Bozza-La Loggia, la quale anche conteneva alcune soluzioni interessanti.
La centralità della questione non ha bisogno di essere sottolineata. È, infatti, evidente che, soprattutto nel quadro del rovesciamento dell’enumerazione delle competenze, l’individuazione degli oggetti della competenza legislativa (specialmente della competenza legislativa dello Stato) è cruciale: su essa giocandosi, in larga misura, l’equilibrio tra le esigenze unitarie ed infrazionabili (di spettanza del legislatore centrale) e le esigenze di differenziazione (di pertinenza delle autonomie regionali).
Non è d’altronde casuale che gran parte degli interventi di manutenzione della Costituzione da cui è scandita l’evoluzione dei sistemi federali abbiano ad oggetto “materie” di competenza: si tratta, in genere, di materie, che – attesa la competenza generale delle entità sub-statali – vengono attribuite allo Stato centrale.
Tale approccio, sanamente pragmatico, non è rimasto – ad esempio – estraneo alla recentissima riforma del federalismo tedesco. La quale risulta di difficile lettura, se ci si colloca sul terreno della tipologia generale delle competenze (da essa notevolmente complicata), ma appare più decifrabile, se viene considerata nell’ottica degli oggetti di competenza. La differenziazione estremamente articolata delle soluzioni è, infatti, per intero, costruita sulle necessità immanenti a questi ultimi (o, comunque, sulle necessità ritenute tali dal legislatore costituzionale federale). Di qui, un intreccio di regole ed eccezioni, per intero, giocato sulle “cose”. Si pensi – ad esempio – alla nuova disciplina della konkurrierende Gesetzgebung. La quale ammette, bensì – con eccezione alla regola generale –, che in talune materie – come la caccia e la protezione della natura – la legislazione federale sia derogata dai Länder, ma – con eccezione dell’eccezione – sottrae a tale regime alcuni oggetti, i quali, pur compresi nelle materie predette, richiedono (se il legislatore federale così ritenga) una regolamentazione unitaria (e, quindi, inderogabile): è il caso – ad esempio – delle licenze di caccia e della tutela dell’ambiente marino.
Ebbene – è noto – che questa attenzione alle “cose” non ha ossessionato il legislatore costituzionale italiano del 2001. Stanno a confermarlo le sviste e le omissioni riscontrabili negli elenchi di cui all’art. 117, commi 2 e 3: sviste ed omissioni, che hanno posto non pochi problemi alla Corte costituzionale
È vero che la Corte, fino a questo momento, è riuscita a governare la complessità del nuovo quadro costituzionale, in modo, tutto sommato, soddisfacente, immettendo nel sistema elementi di razionalità ad esso estranei.
Non si può, tuttavia, affidare alle sole risorse della giurisdizione costituzionale la correzione di tutti i difetti del riparto licenziato dal legislatore costituzionale nel 2003. Neanche l’ortopedia giurisdizionale più spinta può, infatti, risolvere in radice certe omissioni o certe discutibili collocazioni. Senza considerare che il problema del “chi fa che cosa” è uno di quei problemi che dovrebbero investire direttamente la responsabilità degli organi legislativi.
Per queste ragioni, ritengo che un’attenta rivisitazione delle materie, anche alla luce di soluzioni previste dalla “riforma della riforma” (si pensi all’energia) o dalla Bozza-La Loggia, sia senz’altro da raccomandare.
Al tema delle materie si lega – almeno in parte – quello del rafforzamento degli elementi cooperativi del sistema. Ciò è confermato dalla giurisprudenza della Corte, la quale ha risolto molte delle difficoltà legate agli elenchi costituzionali, invocando la cooperazione tra Stato e Regioni (e, quindi, chiamando opportunamente in causa gli attori politici). Ciò è accaduto – ad esempio – in presenza di oggetti suscettibili di essere imputati a materie, non solo diverse, ma anche sottoposte a diversi regimi competenziali. E si è verificato quando il giudice delle leggi ha sentito l’esigenza di ridurre il tasso di eteronomia di alcune competenze finalistiche dello Stato, o di bilanciare la portata degli interventi in sussidiarietà.
Resta, tuttavia, il fatto che oggi i presidi procedimentali ed organizzativi della cooperazione tra lo Stato e le Regioni sono inadeguati. Tutto finisce per gravare sulla Conferenza Stato-Regioni, la quale si è rivelata uno degli elementi centrali della dinamica dei rapporti centro-periferia. Ciò presenta dei vantaggi, ma anche un non trascurabile inconveniente, poiché sposta sul versante degli esecutivi anche decisioni di pertinenza propriamente legislativa. Dal che risultano sacrificati, tanto i Consigli regionali, quanto il Parlamento nazionale: l’accordo eventualmente raggiunto in sede di Conferenza, costituendo, in genere, una soluzione “blindata”, politicamente non modificabile dal legislatore.
Se, peraltro, si prende atto che la via della regionalizzazione di una delle due assemblee parlamentari non è ragionevolmente percorribile (v. supra, n. 3), è difficile sfuggire alla conclusione che la strada da seguire sia quella tracciata dal legislatore costituzionale del 2001, quando ha previsto la “bicameralina”. La quale andrebbe finalmente istituita.
Nella prospettiva della riforma costituzionale potrebbe anche pensarsi al rafforzamento del ruolo dell’organo, sia sul versante procedimentale (con previsione – ad esempio – di maggioranze qualificate per gli scostamenti dai suoi pareri, in certe materie), sia estendendone l’intervento ad ambiti ulteriori, nei quali l’esigenza di una cooperazione “parlamentare” è particolarmente forte. Si pensi alle leggi adottate nell’esercizio delle competenze di tipo finalistico, all’attrazione in sussidiarietà di competenze in favore dello Stato, agli interventi sostitutivi nel campo legislativo (che, a mio avviso [v. supra n. 4], la riforma dovrebbe chiaramente ammettere). Corrispondentemente, sarebbe il caso di intervenire sui Consigli delle autonomie locali (i CAL), prevedendone – ad esempio – l’intervento consultivo obbligatorio, quando l’attrazione in sussidiarietà delle competenze amministrative venga operata con legge della Regione (secondo quanto consente l’art. 118, comma 2).
Al rafforzamento della dimensione cooperativa del sistema potrebbe infine contribuire un intervento rivolto a dotare la Conferenza Stato-Regioni della copertura costituzionale di cui oggi è carente, recuperando, per questa parte, uno dei contenuti della riforma della scorsa legislatura.
Non mi nascondo che, oggi, nel momento in cui alcune Regioni affidano le loro esigenze di maggiore autonomia al meccanismo di cui all’art. 116 u.c., non ci sono probabilmente le condizioni politiche per aprire una riflessione su tale norma.
Non può, però, ignorarsi che essa consente lo spostamento, a livello regionale di competenze che involgono profili di non contestabile rilevanza nazionale. Alla sua stregua, ad esempio, è possibile l’attribuzione alle Regioni che ne facciano richiesta dell’intera materia dell’istruzione (mediante la regionalizzazione, tanto della competenza esclusiva statale in materia di “norme fondamentali sull’istruzione”, quanto della competenza concorrente in materia di “istruzione”). E analoghe considerazioni possono valere per la tutela dell’ambiente, anch’essa integralmente regionalizzabile. Inoltre, per effetto dell’upgrading delle competenze concorrenti, la legislazione regionale potrebbe essere sottratta al limite dei principi legislativi statali in ambiti che, a stretto rigore, dovrebbero essere riservati al legislatore centrale, come la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, o le grandi reti di trasporto e di navigazione.
Non sfugge, ovviamente, che il procedimento di cui all’art. 116 u.c. demanda tali spostamenti di competenza alla legge dello Stato: ad una legge da adottare a maggioranza assoluta, nonché su iniziativa della Regione e d’intesa con essa. Con la conseguenza che il Parlamento può non consentire ad attribuzioni di competenza alle Regioni, in ambiti da esso ritenuti insuscettibili di frazionamento legislativo.
Si tratta, tuttavia, di un esito tutto affidato alla politica e, in quanto tale, legato alle situazioni politiche contingenti che si possano, di volta in volta, dare.
Non va, in particolare, sottovalutato il rischio che, ove la sopravvivenza della coalizione al Governo dipenda dal sostegno determinante di forze autonomistiche (o di forze connotate dal forte radicamento locale), si sviluppino derive di tipo spagnolo: con cedimenti sul terreno delle esigenze unitarie e con corrispondenti riduzioni del tasso di eguaglianza presente nel sistema.