Vorrei richiamare l’attenzione sulla circostanza che molte delle difficoltà che in tema di federalismo fiscale, il nostro ordinamento deve affrontare, derivano dal modo in cui esso sta nascendo in Italia.

In proposito, va ricordato che lo Stato federale è un’entità complessa, articolata pluralisticamente. Lo Stato federale è il risultato di un’unione di diversi Stati che, per esprimersi, rinunciano alla loro sovranità internazionale e all’esercizio di alcune funzioni (come la moneta, la giustizia, amministrata secondo proprie regole, la difesa), affidandole a una forma statale più ampia lo Stato federale appunto. La prima forma moderna di Stato federale nasce negli Usa nel 1789 ed è fondata su un accordo tra diversi Stati sovrani che dà luogo alla costituzione di uno Stato federale. Simile è il processo che si è verificato in Germania (nel 1871). In ambedue i casi, gli enti, prima di costituire lo Stato federale, sono enti territoriali, sovrani e indipendenti, con propria autonomia politica, amministrativa, finanziaria, diversi tra loro per cultura, dimensioni e funzioni. Va anche osservato che questo modello che nasce con una struttura profondamente diversa da quella propria degli Stati unitari, tende a modificarsi, soprattutto nel Novecento, così da avvicinare, alcune forme federali, per alcune funzioni, a modelli tradizionalmente definiti come unitari (Si veda, Ordinamenti federali comparati. I. Gli Stati federali “classici”, a cura di R. Bifulco, Torino, Giappichelli, 2010).

Nel nostro ordinamento, il federalismo fiscale, inteso, all’origine, come piena autonomia finanziaria di entrata e di spesa da attribuire agli enti territoriali, nasce da una vicenda opposta. Uno Stato accentrato, al fine di un migliore svolgimento delle funzioni locali e in vista di una possibile riduzione della spesa pubblica decide di attribuire al governo locale diverse forme di autonomia, tra le quali, necessariamente, quella finanziaria. Questa maggiore indipendenza dal centro non esiste all’origine e va creata. Essa si raggiunge in Italia con un progressivo intervento del legislatore ordinario che, nel corso di un ventennio, ha riconosciuto agli enti diverse forme di autonomia: politica, amministrativa, normativa e finanziaria. Dopo un decennio (nel 2001), numerose tra le modifiche, che hanno investito, soprattutto, l’autonomia, normativa, amministrativa e finanziaria degli enti è stata accolta nella Costituzione.

In margine a questa duplice e inversa vicenda, si può osservare che, mentre nello Stato federale che nasce dall’unione spontanea di più Stati indipendenti, le risorse, almeno in parte, sono già esistenti, perché gli Stati aderenti già godono di un’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nella vicenda italiana, invece, le risorse finanziarie proprie degli enti sono, all’origine, inesistenti e sono state lentamente attribuite, ad esempio con l’introduzione dell’Ici o delle accise sulla benzina, dal legislatore ordinario.

Com’è noto, nell’attribuire risorse finanziarie a un ente territoriale il legislatore può seguire due strade: Quella dei trasferimenti, quella del riconoscimento di una capacità fiscale.

I trasferimenti – che hanno costituito fino a epoca recente la normale fonte di finanziamento degli enti locali territoriali - consistono nell’attribuzione di risorse finanziarie, provenienti dal bilancio dello Stato, spostate nel bilancio dell’ente o degli enti destinatari. I trasferimenti di somme possono essere liberi, in tal caso il percipiente li utilizza per determinati obiettivi che individua autonomamente, o vincolati. In questo secondo caso, anche la destinazione delle somme erogate deve seguire le indicazioni del governo centrale.

L’attribuzione della capacità fiscale riconosce all’ente la possibilità di imporre tasse sul proprio territorio, acquisendo entrate che lo responsabilizzano di fronte ai cittadini, quanto all’uso fattone. Per questo motivo, si può affermare che l’attribuzione della capacità impositiva costituisce, certamente, una misura contro gli sprechi che, viceversa, con i trasferimenti centro/periferia sono spesso inevitabili. E la discussione che da oltre un biennio si svolge in Parlamento, e, anche, al di fuori di esso, è centrata sul modo di sostituire i trasferimenti di bilancio che ancora residuano, con una autonomia impositiva più consistente, se non addirittura piena. Peraltro, la tendenza a sostituire i trasferimenti di bilancio con la capacità fiscale ha subito nel 2007 una battuta d’arresto. Infatti, la soppressione dell’Ici è stata sostituita con trasferimenti statali, peraltro insufficienti, come ha dichiarato il Presidente dell’Anci, Chiamparino (Camera dei deputati, XVI legislatura, Indagine conoscitiva, Commissione V. Bilancio, Tesoro e Programmazione, seduta del 4 febbraio 2010. 4. ss., ma passim).

Si deve aggiungere, però, che è quasi impossibile, a meno di non imporre agli amministrati consistenti sacrifici finanziari, che tutti gli enti locali siano in grado di raccogliere per intero, sul territorio, le risorse di cui hanno bisogno. Per questo motivo, è sempre necessario un intervento finanziario dello Stato. Il problema che si pone è, però, quello di un equilibrio tra le risorse che possono essere acquisite dall’ente sul territorio e quelle trasferite dal bilancio dello Stato.

Questa osservazione apre la questione della differente ricchezza dei territori. Vi sono, infatti, enti locali in grado di raccogliere consistenti risorse per lo volgimento delle funzioni fondamentali. Ed esistono, al contrario, altri enti che, per diverse ragioni, tra le quali la loro dimensione, godono di una scarsa capacità contributiva. (Si veda , G. Corso, Welfare e Stato federale: uguaglianza e diversità delle prestazioni, in Regionalismo, Federalismo, Welfare State, Atti del Convegno tenuto a Roma il 9-10 maggio 1996, Milano, Giuffrè, 1997, 403 ss) ed hanno entrate insufficienti.

Conseguenza di ciò è che o lo Stato attribuisce agli enti una massima potestà impositiva, in modo da renderli completamente autosufficienti (con il rischio, però, che alcune popolazioni paghino tasse in misura eccessiva rispetto alle proprie entrate) o sarà costretto a intervenire direttamente, secondo le esigenze, utilizzando il fondo perequativo (art. 119 cost., c.3), riducendo la loro autonomia per colmare le differenze. Naturalmente, ciò che fino a oggi non è stato determinato è la misura dell’intervento statale in rapporto alle entrate dell’ente. Ricordando quanto disposto dalla legge n. 75/1970, si può affermare che l’intervento finanziario statale, al fine di preservare l’autonomia dell’ente, non deve configurarsi come essenziale per lo svolgimento delle sue funzioni fondamentali. Quantificando, si potrebbe affermare che l’intervento pubblico , ampio o ridotto che sia, non debba superare il 50 per cento delle somme che l’ente è in grado di raccogliere sul territorio.

Va anche precisato che l’intervento finanziario a favore degli enti locali è un intervento a carattere redistributivo. Esso può avvenire attraverso una forma di “solidarietà orizzontale”, tra territori ricchi e meno ricchi, o verticalmente. In questo secondo caso, seguito sino a oggi nel nostro ordinamento, l’arbitro delle erogazioni finanziarie è lo Stato.

La differente ricchezza dei territori e l’esigenza di redistribuzione delle risorse impedisce, però, l’attribuzione agli enti di una autonomia piena, mettendo, in tal modo, in crisi i principi su cui si fondava la richiesta del federalismo fiscale. Infatti, orizzontalmente o verticalmente ci dovrà essere comunque una redistribuzione di ricchezza, in contrasto con il riconoscimento, agli enti più ricchi di godere integralmente delle risorse raccolte sul proprio territorio. (F. Gallo, Il nuovo art. 119 della Costituzione e la sua attuazione in Astrid, L’attuazione del federalismo fiscale, a cura di F. Bassanini e G. Macciotta, Bologna, 2003; R. Perez, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali, in “Rass. tribut.” n.1/2007).

Il tema centrale del federalismo sul quale oggi si discute attiene, dunque, al grado di autonomia finanziaria da attribuire agli enti locali. E vi sono almeno tre motivi perché questa non sia attribuita in forma piena.

Il primo motivo è che l’autonomia riconosciuta agli enti si deve bilanciare con il vincolo europeo (contenuto nel Patto di stabilità e crescita) che richiede, annualmente, agli Stati, il raggiungimento di risultati finanziari definiti. Risultati che gli Stati conseguono imponendo adeguati comportamenti all’ordinamento locale. E ciò richiede, in quest’ultimo, un’imperfetta autonomia.

 Anche il secondo motivo ha una matrice europea ed è riconducibile alla circostanza che un’eccessiva differenziazione di una parte dei cittadini, nel godimento dei servizi essenziali, si scontra con il trattato di Roma del 1957. Il trattato, con l’art. 2, prevede che la Comunità promuova un elevato livello di protezione sociale e “il miglioramento del tenore e della qualità della vita” dei cittadini (cioè di tutti i cittadini).

Il terzo motivo riguarda il livello essenziale delle prestazioni, contemplato dall’art. 117 cost. c. 2, lettera m). Queste prestazioni, pensiamo a quelle sanitarie, devono essere garantite, almeno fino a un certo livello, e nel rispetto di determinati standard, all’intera popolazione, a meno di non incorrere nella violazione del principio di uguaglianza, sancito dalla nostra Costituzione.

Naturalmente, l’intervento statale a favore degli enti con minore capacità contributiva (art. 119, c.3), è finalizzato alla riduzione delle differenze tra i territori. consentendo agli enti economicamente disagiati di offrire le prestazioni che l’ordinamento giudica essenziali, a livelli considerati accettabili.

Si deve aggiungere che, anche nella riduzione delle differenze, deve essere stabilita una misura. E di questo aspetto, fino a oggi, non si è discusso sufficientemente. Infatti, l’intervento finanziario dello Stato, in base alla Costituzione, deve consentire lo svolgimento delle prestazioni essenziali, ma non deve essere tale da colmare in toto le differenze tra gli enti, sino al punto in cui il livello e la qualità dei servizi, riscontrabili in Lombardia sia pari a quelli di un comune del Sud. In particolare, l’intervento statale attraverso il fondo perequativo (art. 119, c.3), ne ha parlato prima di me Enrico Buglione, deve limitarsi a rendere possibile il godimento, da parte dell’intera popolazione, di alcuni servizi che l’ordinamento giudica essenziali.

In un’ipotesi opposta, in cui a tutti gli enti fosse riconosciuto il medesimo grado di benessere, l’ente con minori risorse non avrebbe nessun interesse ad attivarsi per il raggiungimento di una maggiore efficienza, e quello con superiori entrate, potrebbe arrestarsi a una certa soglia impositiva, per non vedersi privato di alcune fonti di benessere a favore di altri territori.

Va ricordato che il problema dell’uguale accesso dei cittadini ai servizi di natura sociale, si sta ponendo oggi in Germania, Paese nel quale è sempre esistito un profondo senso di uguaglianza che ha dato luogo a un consapevole federalismo consociativo, nel senso che si è consentito alla popolazione il godimento di servizi, in misura uguale, un pari accesso agli stessi beni, in una parola, una pari dignità sociale (sul tema, P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino, 2010). Questo modo di essere è stato recentemente rafforzato dalla Corte costituzionale tedesca (sentenza 2 BvE 2/08 vom 30 juni 2009, Absatz-Nr. (1-421) che ha svalutato il carattere vincolante di alcune disposizioni dei trattati europei per preservare la sovranità dello Stato tedesco. (La decisione è stata commentata da S. Cassese, L’Unione europea e il guinzaglio tedesco, in “Giorn. dir. amm.”, n. 9/2009, 1003 ss.). Da poco più di un anno, però, la Legge Fondamentale tedesca, dietro la pressione del Cancelliere Angela Merkel è stata modificata (si veda il commento sul “Giorn. dir. amm.” n. 1/2011). Il nuovo articolo 109 della Legge Fondamentale (luglio 2009), ha imposto allo Stato e a tutti i Lander il bilancio in pareggio, regola introdotta nel 1919 dalla Costituzione di Weimar e accolta dalla Legge Fondamentale tedesca nel 1949 (art. 110, c. 1). La riforma, però, diversamente dal passato, ha vietato allo Stato federale e a tutti i Lander il ricorso al debito, anche per finanziare spese per investimenti, abbandonando così la golden rule e ha permesso, sia allo Stato federale che ai Lander, l’accensione di un debito in misura limitatissima, non superiore allo 0, 35% del Pil.

Con questa riforma, le regole di bilancio sono state profondamente modificate e comporteranno che, diversamente dal passato, il cittadino non coinciderà più con l’utente (A. Brancasi, Le modalità di finanziamento della spesa pubblica come limitazione al ridimensionamento dello Stato sociale, in “Dir. pubbl.”, 1996, 341ss.). Il primo, infatti, è titolare di diritti fondamentali, il secondo, di diritti finanziariamente condizionati (F. Merusi, I servizi pubblici negli anni Ottanta, in “Quad. reg.”, n. 1/1985, 39 ss., spec. 52 ss). Conseguentemente, la riforma, consentirà ai Lander più ricchi di godere di servizi migliori, in contrasto con un principio, anche di costituzione materiale, che ha governato la Germania almeno per 60 anni, sulla base del quale vi deve essere tra i cittadini una sostanziale uguaglianza sociale, oggi perduta.

La conclusione da trarre da questa vicenda investe il carattere contraddittorio della guida finanziaria tedesca che, da un lato, afferma la piena sovranità dello Stato rispetto alle decisioni europee (con la ricordata sentenza 2 BvE 2/08 vom 30 juni 2009), dall’altro, si richiama ai principi europei per modificare le leggi del bilancio e del debito, con il rischio di creare profonde diseguaglianze tra gli utenti dei servizi fondamentali.

 

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