AVVERTENZA: Relazione al Convegno 'Il regionalismo italiano in cerca di riforme' organizzato dal Centro studi sul Federalismo, Moncalieri, 9-10 marzo 2007
 
SOMMARIO: 
 
   
1. La prospettiva adottata: il punto di vista dei rapporti “intersoggettivi” tra gli enti territoriali
Il punto di vista qui adottato per affrontare il tema in oggetto è quello dei rapporti “intersoggettivi” e non quello dei rapporti “interorganici”. Ci si occuperà pertanto del criterio di distribuzione della potestà regolamentare tra “enti” (Stato, Regioni ed altri enti territoriali) e non di come si distribuisce lo stesso potere regolamentare tra gli “organi” che all’interno degli enti stessi detengono compiti e funzioni di indirizzo politico (Consiglio, Giunta, Presidente della Giunta).
Tale prospettiva pare peraltro quella privilegiata dall’art. 117, comma VI ( secondo cui “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”) che suggerisce all’interprete un’ottica di interrelazioni tra enti territoriali, collegando la potestà regolamentare a compiti che dagli stessi enti devono essere assolti: per un verso all’esercizio della funzione legislativa (di Stato e Regioni) e, per altro verso, alla gestione delle funzioni amministrative (di Stato, Regioni ed altri enti territoriali).
Pur nella convinzione che le potenzialità interpretative insite nella norma consentano (come parte della dottrina ha dimostrato) anche letture più spostate sull’asse dei rapporti tra organi, si è qui privilegiata l’interpretazione dell’art. 117 comma nel contesto della dinamica del riparto delle funzioni legislative e amministrative, piuttosto che in collegamento con l’introduzione della forma di governo (“transitoria”) che si deve alla legge costituzionale n. 1/1999.
 
 
 2. Le interpretazioni della dottrina
La dottrina ha inquadrato il 117 sesto comma in quattro prospettive assai diverse:
 
a)     quella del mutamento della forma di governo;
 
b)    quella del rapporto tra fonti primarie e fonti secondarie (= la potestà regolamentare come funzione normativa);
 
c)     quella del parallelismo funzione legislativa-funzione regolamentare
 
d)    quella del rapporto amministrazione-normazione (= la potestà regolamentare come esplicazione della funzione amministrativa).
 
 
2.1. La potestà regolamentare quale proiezione della forma di governo
     Le tesi di cui alla lett. a) interpretano l’art. 117, comma VI alla luce della forma di governo (“transitoria”) introdotta dalla legge costituzionale n. 1/1999 ed assumono esservi una “necessaria corrispondenza tra la titolarità della funzione regolamentare e la configurazione della forma di governo”(Tarchi), nel senso che il rafforzamento dell’esecutivo (presidente e giunta) rispetto all’assemblea legislativa richiede l’accrescimento delle funzioni dell’esecutivo stesso: “tra queste, una delle più caratteristiche ed una delle più incontestabili è, appunto, quella regolamentare” (Tarchi).
     In questa prospettiva, e generalizzando tale assunzione anche sul terreno degli altri enti territoriali, si giunge a ritenere che  la “funzione regolamentare è attribuzione geneticamente riconducibile alla funzione esecutiva” (Tarchi).
Il fondamento di questa tesi è costituito dalla posizione “costituzionale” degli esecutivi (di cui il riconoscimento costituzionale delle fonte regolamentare sarebbe una ovvia conseguenza), e che li sottrarrebbe dalla necessità di una preventiva e continua autorizzazione legislativa.
Sempre in questo filone, ma con una sfumatura sensibilmente diversa, si colloca la tesi secondo cui non sarebbe il mutamento della forma di governo ad influire sul sistema delle fonti, bensì la stessa ri-definizione di quel sistema attuata dalla Costituzione nel momento in cui attribuisce direttamente uno specifico potere normativo agli esecutivi (Governo nazionale e governi locali).
Infatti è il testo costituzionale che ora riconosce espressamente “il governo come organo non solo di indirizzo, ma anche di normazione, in quanto dotato di una propria potestà normativa secondaria” (Tarchi). Che poi  tale ri-definizione scaturisca dal mutamento della forma dei governo o meno non assume, secondo questa ricostruzione e a differenza della prima, uno specifico rilievo di causa-effetto.
 
 
 2.2. La potestà regolamentare quale funzione normativa
     All’interno della prospettiva di cui alla lett. b) (secondo cui il potere regolamentare di cui all’art. 117, comma VI è entrato a tutti gli effetti nell’ordinamento costituzionale quale funzione normativa costituzionalmente prevista) sono state sostenute tesi esattamente speculari: quella che lega l’ingresso del potere regolamentare in Costituzione al rapporto di gerarchia tra fonti primarie e fonti secondarie (che la previsione costituzionale avrebbe rafforzato), e quella che, invece, ritiene che la stessa previsione costituzionale abbia scardinato il rapporto di gerarchia, fondando una riserva di regolamento.
     La prima delle due prospettazioni assume che l’art. 117 (in particolare con riguardo agli enti locali territoriali) fonderebbe una “riserva costituzionale di competenza regolamentare-territoriale (…) adottando il crisma della legge in senso materiale e frantumando il concetto tradizionale della stessa riserva di legge” (Di Genio). La gerarchia, secondo questa ricostruzione, non costituisce più “il criterio ordinatore degli atti dei pubblici poteri né l’istituto cardine dei rapporti ordinamentali”(Piraino) sostituito da un “coordinamento funzionale che implica che le diverse fonti normative siano innanzitutto equiordinate e poi paritariamente concorrenti alla determinazione dell’ordinamento generale” (Piraino).
La forza normativa di tali fonti si fonderebbe sulla loro capacità di rappresentanza della comunità di cui sono esponenziali gli enti che le adottano, in contrapposizione all’idea della legge quale strumento di interesse generale, ormai definitivamente tramontato. Starebbe qui “la primazia degli statuti e dei regolamenti locali che, se pur pretendono una sfera loro riservata, sono comunque aperti alle direttive che Stato e Regioni, per esigenze di unitarietà o di eguaglianza nei livelli essenziali delle prestazioni, dettano dal loro punto di vista generale” (Piraino).
Per altri ancora la riserva di competenza (assoluta) insisterebbe precipuamente sulle funzioni “proprie”, poiché queste sarebbero nella loro determinazione di esclusiva competenza dell’ente locale, anche in assenza di una statuizione specifica da parte del legislatore statale o regionale (Mangiameli).
     La seconda prospettiva, pur partendo dall’idea che la funzione regolamentare sia una funzione normativa, giunge a conclusioni diametralmente opposte.
Una prima tesi (Guzzetta) parte dall’assunzione di una centralità dell’esercizio delle funzioni amministrative per cui lo svolgimento di tali funzioni costituirebbe l’oggetto tipico dell’autonomia degli enti riservata in prima battuta agli statuti (114 e 123 Cost.). Ne deriva che “l’eventuale competenza di Stato e Regioni in tali ambiti … dovrebbe in ogni caso garantire uno spazio di determinazione sufficiente a sviluppare un autonomo indirizzo normativo”(Guzzetta). La riserva regolamentare di Stato e regioni, inoltre, troverebbe ulteriori limiti negli articoli 97 e 118 che, a diverso titolo, prevedono una riserva di legge.
Il combinato disposto degli artt. 97, 114, 117 e 118 indurrebbe pertanto a ritenere che “il legislatore costituzionale ha voluto privare Stato e Regioni di una potestà regolamentare in materia di organizzazione e svolgimento delle funzioni attribuite a Comuni, Province e Città metropolitane” (Guzzetta). Tale potestà regolamentare è invece completamente intestata a tali enti che, tuttavia, in presenza delle riserve di legge di cui agli articoli 97 e 118, devono esercitarla nell’ambito e nel rispetto delle leggi statali e regionali.  
La prospettiva secondo cui la disciplina della potestà regolamentare contenuta nel titolo V andrebbe letta quale funzione normativa strettamente connessa al principio di gerarchia, è maggiormente enfatizzata dalla tesi secondo cui la riforma costituzionale non avrebbe rafforzato il potere regolamentare locale: i regolamenti locali, anche dopo la revisione del Titolo V, sono e rimarrebbero atti normativi secondari a tutti gli effetti (Floridia, Parodi, Calvieri).
La disciplina costituzionale del potere regolamentare, infatti, “non si basa sul criterio delle materie” (Parodi), poiché essa configurerebbe, invece “un riparto per materia solo in sede di distribuzione delle attribuzioni regolamentari tra Stato e Regioni, analogamente a quanto accade per il riparto delle attribuzioni legislative” (Parodi).
Con la conseguenza che l’ambito davvero riservato alla competenza regolamentare locale sarebbe quello dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni amministrative quale “unica materia” assegnata agli enti locali (Parodi).
Ne consegue che l’area riservata all’autonomia regolamentare locale è unicamente “la disciplina dei singoli procedimenti amministrativi a livello locale, conservando invece al legislatore regionale l’esclusiva competenza in ordine alla delineazione dei principi comuni a tutti i procedimenti amministrativi regionali e locali, per la parte non riconducibile all’art. 117, c. 2, lett. p)” (Parodi, Gambino).
Ovviamente tale potere dovrebbe trovare, comunque e sempre, nella legge di attribuzione delle funzioni non solo il suo fondamento ma altresì (e soprattutto) la sua disciplina.
     Più sfumata, ma convergente nelle conclusioni, la posizione di chi, pur assumendo che l’innovazione del 117, comma VI, consiste nella garanzia costituzionale del potere regolamentare locale, non ritiene farne discendere una competenza “onnicomprensiva” dei regolamenti locali (Caretti), che finirebbe “per risolvere l’esercizio della potestà legislativa ad atti di mera attribuzione di funzioni, al più con l’indicazione di qualche finalità da raggiungere” (Caretti).
Più convincente parrebbe, invece, impostare il rapporto tra leggi statali e regionali e regolamenti locali in termini di concorrenza e non di separazione, con la conseguenza che le leggi in questione dovrebbero farsi carico di disciplinare “anche l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni, tranne che per quanto attiene alle regole di organizzazione e di svolgimento interne all’ente locale” (Caretti).
 
 
 2.3. Il potere regolamentare quale conseguenza del parallelismo tra funzione legislativa e funzione regolamentare
     La prospettiva di cui alla lett. c) si fonda su un asserito parallelismo introdotto dal 117 sesto comma tra funzioni legislative e funzioni regolamentari.
     Il punto di partenza di tale ricostruzione è costituito dall’assunto secondo cui l’art. 118 Cost “regola la titolarità delle funzioni amministrative, ma non le attribuisce direttamente” (Falcon). Il riparto di competenze legislative Stato-Regioni, conseguentemente, “riguarda soprattutto la disciplina delle funzioni amministrative” (Falcon). Alla stessa constatazione si arriverebbe anche partendo dal 118 il cui secondo comma precisa che la titolarità delle funzioni amministrative proprie e conferite dipende “dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
Non vi sarebbe, pertanto, una grande differenza pratica con il precedente assetto dato che anche “l’originario 118 prevedeva, sia sul versante dello scorrimento delle funzioni dalla Regione agli enti locali che sul versante della espansione delle funzioni regionali, correttivi alla eccessiva rigidità che ne sarebbe derivata” (Falcon). Con la conseguenza che, nelle materie al di fuori del 117, le funzioni amministrative erano nella disponibilità del legislatore statale, mentre in quelle del 117 vi era invece una “titolarità di principio regionale” (Falcon).
     In questa prospettiva, per alcuni ritenuta problematica poiché conterrebbe il principio di una estensione eccessiva del potere regolamentare regionale rispetto a quello statale, il conferimento del potere regolamentare segue l’asse della distribuzione “per materia”, con la conseguenza di porre in primo piano, almeno in relazione alla disciplina delle funzioni amministrative, unicamente il rapporto Stato-Regioni.
Ne deriverebbe, come logica conseguenza che le funzioni amministrative locali “sono disciplinate dalla legge (…) quanto all’attribuzione dei poteri, ai fini di interesse pubblico da perseguire (insomma alla disciplina sostanziale); mentre sono disciplinate dai regolamenti locali per quanto attiene al procedimento amministrativo” (Cerulli).
 
 
2.4. La potestà regolamentare quale strumento normativo per l'esercizio delle funzioni amministrative
     In queste ricostruzioni il primo dato che viene assunto è che il potere regolamentare di cui all’art. 117, comma VI, almeno relativamente agli locali, “è un potere normativo che non verte su “materie” ma su “funzioni, un potere normativo che presenta carattere di strumentalità rispetto ai poteri amministrativi di cui l’ente viene dotato” (Tosi).
     La prima e più rilevante conseguenza è che l’”estensione orizzontale” (Tosi) di tale potere regolamentare è assegnato alle fonti competenti a conferire le funzioni amministrative (leggi statali o regionali) e in primo luogo alla legge statale di individuazione delle “funzioni fondamentali” (ma ovviamente anche di quelle conferite e proprie). Tale individuazione, infatti, equivale ad un processo per cui “la Regione si spoglia (o viene spogliata, se il conferimento è disposto con legge statale) di quote di potere regolamentare”(Tosi, Merloni).
     Il 117, comma VI, secondo altri, sancirebbe “il principio della stretta connessione tra il riconoscimento e l’attribuzione di funzioni amministrative agli enti locali e il loro ruolo di regolazione” (De Martin). In tal modo, oltre a consolidare una linea che già con la l. 59/1997 e con il T.U. enti locali si era introdotta nell’ordinamento, si conferisce un fondamento costituzionale al potere regolamentare.
Tale prospettiva, precisano altri ancora, “acquista un valore particolare per quanto riguarda gli enti locali, non dotati di potere legislativo, ma divenuti ora titolari di un solido potere normativo che va collegato alla fondamentale garanzia costituzionale di autonomia dell’art. 5, ora rafforzata dall’art. 114 Cost.” (De Martin). Su queste basi si può ora ritenere che vi sia più che una riserva di regolamento, “una preferenza per il regolamento locale, al quale spetterebbe il compito di regolare, pur con alcuni limiti, l’esercizio delle funzioni di spettanza di ciascun ente”, fermo restando che tale mancato esercizio produrrebbe la vigenza di normative statali o regionali da considerarsi cedevoli.
    La regola del parallelismo, in conclusione si sarebbe spostata con la revisione costituzionale, a delineare il rapporto tra amministrazione e normazione con l’introduzione di una sorta di “parallelismo” tra funzioni regolamentari e funzioni amministrative (D’Atena).
 
 3. La prospettiva interpretativa probabilmente più feconda e rispondente all’assetto complessivo del Titolo V: la potestà regolamentare funzionalizzata all’esercizio delle funzioni amministrative

     Rispetto a tali prospettive è probabilmente quest’ultima a dimostrarsi più convincente poiché contribuisce in maniera più adeguata a rispondere all’interrogativo di fondo che suscita la nuova normativa costituzionale: e cioè qual è la ratio dell’attribuzione della potestà regolamentare così come delineata nell’art. 117, comma VI? 
     A tali questioni non indicano una risposta completamente convincente le prime tre impostazioni sopra descritte.
Esse, pur adeguatamente motivate, scontano una certa parzialità nella risposta a quell’interrogativo.
Il nesso tra potere regolamentare e forma di governo costituisce una chiave di lettura orizzontale e meramente interna a ciascuno degli enti interessati e non spiega il nesso anche verticale tra fonti che promanano da enti diversi; non fornisce cioè un criterio di sistemazione tra le varie fonti interessate. Inoltre si fonda su un “sillogismo aristotelico” non dimostrato (Parisi), ed anzi sottoposto a convincente revisione critica sia dalla dottrina (Bartole), dalla Corte costituzionale (Sent. 313/2003).
Le tesi che rappresentano il potere regolamentare in funzione esclusivamente normativa agganciandolo al rispetto del principio di gerarchia si muovono, per converso, in un’ottica verticale (la gerarchia) che non tiene conto dell’acquisita autonomia degli enti territoriali e, soprattutto, dell’intersezione di molte competenze sia normative che amministrative condivise tra gli stessi enti (in primo luogo tra Stato e Regioni) e, dunque, rischia di fornire spiegazioni e soluzioni rigide.
Ed ancora la prospettiva secondo cui l’attribuzione del potere regolamentare seguirebbe il principio introdotto dalla norma del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni regolamentari si fonda sul discutibile dato di partenza secondo cui l’art. 118 Cost. non costituirebbe criterio di attribuzione delle funzioni amministrative.
Ora una cosa è sostenere che la norma costituzionale non è immediatamente auto-applicativa, altra e ben diversa cosa è sostenere che il legislatore (statale o regionale) non trovi nell’art. 118 Cost. un vincolo nell’attribuzione delle funzioni amministrative.
     La prospettiva funzionalista, invece, contribuisce non solo a dare risposte più convincenti all’interrogativo iniziale ma anche a conferire una razionalità complessiva alla norma.
Solo apparentemente, infatti, l’art. 117, comma VI, introduce un doppio criterio, l’uno valevole nei confronti dello Stato e delle Regioni (il criterio delle “materie”), l’altro applicabile agli altri enti territoriali (il criterio della “funzione”) (Parodi).
Tale duplice lettura del criterio, in realtà, si scontra con almeno quattro livelli di considerazioni diverse che la mettono seriamente in crisi:
 
a)     il criterio delle materie riproduce il parallelismo legislazione-amministrazione che la dottrina, all’unanimità, considera tendenzialmente superato dal Titolo V (Bin);
b)    come convincentemente dimostrato (Bin) la norma che prevede la delega dallo Stato alle Regioni non può che riferirsi alla delega di “funzioni amministrative”, non avendo alcun senso la delega di potere regolamentare;
c)     la concentrazione di potestà regolamentare al livello regionale è correlata al fatto che la legislazione regionale è essenzialmente disciplina dell’azione amministrativa (Falcon, Cammelli);
d)    lo scopo della norma, complessivamente considerato pare quello di evitare i “doppi” o “terzi binari” (di strutture e di apparati amministrativi) nell’esercizio di funzioni amministrative nello stesso settore e, dunque, la “concorrenza di regolamenti di enti diversi sul medesimo oggetto, rectius sull’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni amministrative” (Tosi).
 
Proprio tali considerazioni inducono ad una lettura univoca della norma, secondo cui il criterio di attribuzione del potere regolamentare è sostanzialmente analogo nei rapporti Stato-Regioni, Stato-enti locali e Regioni-enti locali e si basa sul dato del “conferimento” delle funzioni amministrative (nelle varie formule in cui questo e denominato e si atteggia di trasferimento, individuazione di funzioni fondamentali…). L’ente che trasferisce o delega la funzione amministrativa, in sostanza, “si spoglia anche del potere di disciplinarne in via esclusiva l’organizzazione e l’esercizio” (Bin) .
Tale lettura assume un significato certamente diverso (caricandosi anche di problematiche diverse) nella sua applicazione al rapporto Stato-Regioni o ai rapporti tra Stato-Regioni ed altri enti locali.
     Quanto al rapporto Stato-Regioni esso si traduce nella regola secondo cui “lo Stato può emanare regolamenti soltanto laddove abbia potestà esclusiva e soltanto se non decide di delegare le funzioni amministrative alle Regioni” (Bin). Tale lettura, certamente conforme al complessivo impianto delineato dal Titolo V con riguardo ai rapporti tra legislazione e amministrazione e a quel “definitivo tramonto dello storico binomio unità amministrativa-unità politica” (Cammelli), non dovrebbe tuttavia essere assunta in maniera eccessivamente rigida.
Se così fosse occorrerebbe mettere in discussione tutta la regolazione tecnica e, solo per limitarsi a due aspetti assolutamente macroscopici del sistema, occorrerebbe rivedere funditus le attribuzioni di importanti ed autorevoli Autorità amministrative indipendenti ed altresì i compiti di taluni enti strumentali. Sia per le prime (Autorità delle telecomunicazioni, Autorità dei lavori pubblici…) che per i secondi, infatti, (C.N.R.) sarebbe assorbente il rilievo per cui essi operano ormai in ambiti non completamente riconducibili all’art. 117, comma II (Cerulli).
     Quanto agli enti locali il suo significato è certamente più dirompente dal punto di vista dell’innovazione che introduce. L’attribuzione del potere regolamentare, se letto in connessione con gli artt. 114, comma 2 (“I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”), e l’art. 118, comma 1 pare indicare decisamente la direzione della funzionalizzazione del potere regolamentare all’esercizio delle funzioni amministrative.
Nel precedente quadro costituzionale il solo esercizio della funzione amministrativa non dava necessariamente origine all’esistenza di un potere normativo: statuti e regolamenti venivano sostanzialmente intesi come atti di organizzazione interna (Tarli Barbieri). E’ solo con la l. 142 che si inizia ad introdurre un concetto diverso: di funzione normativa di rilievo anche esterno per la disciplina di funzioni amministrative (accesso, responsabilità del procedimento…).
La importanza del ruolo assunto dagli enti territoriali nell’esercizio delle funzioni amministrative è ora decisamente sancito negli articoli 114, comma 2 e 118 comma primo. Lo strumento per l’esercizio di quelle funzioni è, appunto, la potestà regolamentare del 117, comma VI.
Senza voler enfatizzare più di tanto il principio di sussidiarietà è tuttavia difficilmente negabile che con la sua introduzione anche gli enti territoriali dispongono ora del potere normativo (la potestà regolamentare) per l’esercizio delle proprie funzioni.  
Del resto è la sussidiarietà ad avere temperato il parallelismo tra funzioni legislative e amministrative, così come configurato nel precedente assetto costituzionale. Non introducendo un parallelismo inverso (Ruggeri, Morrone, Violini) bensì introducendo una regola differente: la funzione amministrativa va di pari passo con quella legislativa, tranne che la sussidiarietà (di cui va valutata la ragionevolezza) (Dickman) imponga una distribuzione diversa.
Nel nuovo quadro costituzionale l’applicazione della sussidiarietà si riverbera indubbiamente anche sul piano delle fonti: chi ha la titolarità della funzione amministrativa deve disporre dei poteri normativi per esercitarla.
     Da questo punto di vista la tesi della riserva assoluta di regolamento (Piratino) rischia anch’essa di divenire parziale poichè assume, in maniera speculare, il punto di vista della gerarchia delle fonti. Parrebbe più corretto asserire, invece, che al posto di una riserva di regolamento vi sia “un semi-vincolo di astensione per il legislatore statale o regionale” (Balboni).
La necessità, altrimenti detto, che la funzione legislativa statale (e a cascata regionale) si esplichi non tanto nel verso della limitazione delle autonomie “bensì nel promuoverne e rilanciarne le manifestazioni positive verso crescenti acquisizioni, in rispondenza ad un bisogno di autodeterminazione che, quanto più si appaga e rinviene ambiti via via più estesi e forme inusuali di realizzazione, tanto più concorre, per la sua parte, a rinsaldare e preservare l’unità” Ruggeri).    
Sì, dunque, a leggi statali e regionali di definizione dei principi di disciplina sostanziale tesi a contemperare gli interessi propri delle comunità locali con quelli della comunità nazionale, senza tuttavia comprimere o vincolare la possibilità degli enti locali di “regolare” l’esercizio della funzione in base alle proprie esigenze (Pizzetti). Allo stesso modo si a leggi regionali che intervengano anche sul procedimento amministrativo nell’ottica di assicurare il coordinamento, senza tuttavia interferire con la gestione degli stessi e tantomeno di introdurre vincoli (procedimentali o organizzativi) nella struttura dell’ente locale.
 
 
 4. Governo e Parlamento di fronte all’attuazione dell’art. 117, comma VI: l’inerzia del legislatore e l’attivismo regolamentare del Governo
La notevole difficoltà che il nuovo assetto della potestà regolamentare ha incontrato sul piano attuativo è stata principalmente (e correttamente) attribuita sia alla carenza di norme transitorie che rendessero più agevole il compito dei soggetti a vario titolo coinvolti nei processi normativi di attuazione della stessa riforma (De Martin); sia alla carenza assoluta di una “normativa imprescindibile per il funzionamento del sistema” (Vandelli).
La funzionalità del nuovo sistema di riparto della funzione regolamentare avrebbe, infatti, richiesto che lo Stato adottasse prontamente:
 
a)     leggi di ulteriori trasferimenti di funzioni e compiti amministrativi rispetto al decentramento amministrativo operato dalla legge n. 59/1997;
b)    leggi di determinazione dei livelli essenziali;
c)     leggi di ricognizione dei principi fondamentali della materia;
d)    la legge (o le leggi) di attuazione dell’art. 119;
e)     la legge di revisione del T.U. enti locali con la definizione delle funzioni fondamentali, proprie e conferite.
 
Tali leggi erano (e sono tuttora) da considerarsi indispensabili anche per l’attuazione del sistema di competenze regolamentari fissato nel 117.
Senza leggi di attribuzioni di funzioni amministrative che si adeguano al mutato riparto di competenze legislative (e amministrative) manca l’oggetto stesso dell’esercizio del potere regolamentare: quelle precedenti (come la l. n. 59/1997) non garantiscono necessariamente (come si è puntualmente verificato) il corretto riparto di competenze regolamentari. Basti rammentare che il d.lgs 112/1998 ha mantenuto in vita la funzione di indirizzo e coordinamento, e cioè lo strumento attraverso cui il Governo ha saldamente mantenuto l’indirizzo e il controllo dell’esercizio delle funzioni amministrative (quando non anche legislative) delle Regioni.
La carenza di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma II, lett.m) ugualmente risulta anche fortemente interdittiva non solo dell’esercizio del potere legislativo regionale in materia di diritti civili e sociali, ma altrettanto impeditiva, a cascata, della possibilità per gli altri enti territoriali di adottare le normative regolamentari di disciplina dell’erogazioni delle relative prestazioni amministrative.
Altro e diverso aspetto è collegato alla mancata adozione di leggi cornice che si riverbera negativamente anche sull’esercizio delle funzioni amministrative. Vi sono settori in cui la carenza delle stesse non è riempibile dall’attività regionale di individuazione dei principi, come per l’erogazione di prestazioni che devono essere garantite in maniera uniforme oppure di contributi. Nell’uno e nell’altro caso la carenza dei principi non può essere sostituita da un’attività ad opera delle Regioni e non può non avere il suo presidio naturale nell’attività statale di individuazione dei principi. E’ il caso dell’erogazione del servizio di istruzione e dell’erogazione dei contributi del FUS. In entrambi i casi la competenza legislativa è passata alle Regioni ma esse non la possono concretamente esercitare in assenza delle leggi di principio statale.
Ancora, l’inattuazione dell’art. 119 Cost. Pare evidente, infatti, come la realizzazione effettiva del decentramento passa anche attraverso il modo con cui il sistema regionale nel suo complesso riuscirà a garantire l’eguale posizione costituzionale dei soggetti in materia di diritti. Il modello di finanziamento delle Regioni e degli enti territoriali diventa indispensabile al fine di consentire agli enti stessi di dotarsi di una organizzazione che gli consenta l’erogazione dei servizi funzionale alla garanzia dei diritti.
Infine, per quanto riguarda più strettamente gli enti locali territoriali la mancata revisione del T.U. Soprattutto il contenuto delle funzioni fondamentali, infatti, è destinato ad incidere significativamente sull’ambito della loro potestà regolamentare e, di conseguenza su quella delle Regioni.
     A tali carenze si è sommato un comportamento sostanzialmente elusivo che a livello statale si è concretizzato sia in quella che è stata definita la “fuga dal regolamento” De Siervo); sia nell’adozione di regolamenti di delegificazioni adottati sulla base di leggi pre-vigenti il titolo V.
Il Governo, in sostanza, per un verso, non ha diminuito la propria produzione regolamentare, attraverso il meccanismo dell’adozione di regolamenti di delegificazioni adottati sulla base di leggi precedenti il 2001 e, per l’altro, verso, quando doveva operare ex novo ha fatto ricorso in qualche occasione alla discutibilissima prassi degli atti “non regolamentari” la cui adozione è stata prevista da fonti primarie.
     Sul versante regionale alla carenza di una legislazione di ri-definizione dei compiti e funzioni amministrative conferite con la precedente legislazione di trasferimento (l. 59/1997 e d.lgs. 112/1998 più leggi regionali di attuazione), si è accompagnata una “più accentuata connotazione del profilo amministrativo della Regione in termini di programmazione, coordinamento, e indirizzo” (Castelli) cui, tuttavia, non è conseguita affatto “la messa in discussione della sua amministrazione indiretta” (Castelli).
Le Regioni, in sostanza, non dismettono le proprie funzioni amministrative mantenendone accentrata una quota assai significativa esercitata attraverso enti strumentali: paradossalmente dopo il 2001 si è avuta una vera e propria esplosione di organismi amministrativi che a vario titolo esercitano funzioni amministrative indirette per “interposta” Regione (Castelli).
Un effetto questo in qualche misura prevedibile in funzione di una interpretazione del Titolo V che ha accentuato l’esclusione delle Regioni dall’”ordinamento costituzionale” riservato allo Stato (ordinamento civile, ordinamento penale, ordinamento processuale)” (Falcon). Prevedibile, dunque, ma non scontato nei suoi effetti: una sorta di effetto domino per cui il trattenimento delle funzioni a livello statale, ha prodotto analogo effetto a livello regionale.
Anche in sede regionale, inoltre, si è verificato il fenomeno dei “regolamenti travestiti” e cioè di atti formalmente amministrativi a contenuto regolamentare.
 
 
 5. La giurisprudenza: le posizioni (in parte simili e in parte divergenti) del Consiglio di Stato e della Corte costituzionale
Rispetto a tale situazione di complessiva dubbia legittimità costituzionale sono intervenuti con posizioni in parte simili ma in parte sensibilmente diverse sia il Consiglio di Stato, in sede consultiva, sia la Corte costituzionale in diversi ricorsi in via principale e conflitti di attribuzione.
In estrema sintesi si potrebbe affermare che, pur giungendo spesso alle stesse conclusioni, l’ottica assunta dal Consiglio di Stato, dovendosi esprimere unicamente sulla legittimità di regolamenti statali, è stata prevalentemente quella del riparto regolamentare per “materie”, mentre quella adottata dalla Corte, in forza della portata più comprensiva del giudizio di costituzionalità, è stata quella del riparto regolamentare per “funzioni”.
 
 
6. I pareri del Consiglio di Stato
 
Con il parere n. 1 dell’11 aprile 2002 l’Adunanza Generale, dovendo pronunciarsi sullo schema di un d.m. concernente l’istituzione e la regolazione della figura professionale dell’odontotecnico, stabilisce anzitutto che le disposizioni legislative attributive della potestà regolamentare al Ministro della salute (art. 4 l. n. 42/1999) devono considerarsi venute meno dopo la riforma del Titolo V , poiché la materia delle professioni e della tutela della salute è stata inclusa tra quelle di competenza concorrente. L’intervento statale relativo alle professioni sanitarie, pertanto, può avere ad oggetto i soli principi fondamentali della materia e può essere effettuato unicamente con lo strumento della legge.
Alla decisione dell’ 11 aprile si è conformata la Sezione Consultiva per gli atti normativi nell’adunanza del 22 aprile 2002 richiesta dal Ministero della salute di un parere sullo schema di decreto ministeriale concernente l’individuazione della figura professionale dell’ottico (anch’esso precedentemente inquadrato, come l’odontotecnico, tra gli esercenti “professioni sanitarie ausiliarie”).
Il parere reso dalla sezione Consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato in data 26 agosto 2002 riguarda, invece, uno schema di decreto ministeriale concernente la tutela, la valorizzazione e la gestione dei beni culturali (sulla medesima questione la stessa sezione aveva avuto modo di pronunciarsi già il primo luglio 2002).
Sebbene rileva il Collegio, si tratti di attività tutte strettamente connesse tra di loro, tuttavia “alla sostanziale equiparazione dei tre concetti da un punto di vista sostanziale non corrisponde nell’ordinamento un’euguale equiparazione da un punto di vista del riparto di competenze, sia normative che amministrative, tra Stato e Regioni”. In particolare, per quanto concerne il riparto di funzioni normative, il nuovo art. 117, ai commi secondo e terzo, affida la tutela dei beni culturali alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, la valorizzazione dei medesimi a quella concorrente di stato e Regioni, mentre non menziona gli aspetti inerenti alla gestione. Sebbene la mancata indicazione faccia deporre, in considerazione della clausola generale contenuta al primo comma, nel senso di un’attribuzione alle Regioni in via esclusiva, la Sezione ritiene tale conclusione poco opportuna, proprio in considerazione della forte connessione tra i vari aspetti, che suggerisce di mantenere in capo allo Stato il potere di regolamentazione della materia, anche solo in relazione ai principi fondamentali. In questa ottica deve essere ritenuta prevalente la connessione tra gestione e valorizzazione piuttosto che la “connessione, pure innegabile, col concetto di tutela”, affidandosi così la regolamentazione delle attività di tutela, valorizzazione e gestione dei beni culturali allo Stato in via esclusiva (tutela) e concorrente (valorizzazione e gestione).
Ciò posto, riprendendo le conclusioni già raggiunte nella precedente pronuncia dell’Adunanza generale del 11 aprile 2002 la Sezione stabilisce che le disposizioni del decreto legislativo 368/1998, attributive della potestà regolamentare al Ministro dei beni culturali ed ambientali, devono ritenersi venute meno a seguito dell’entrata in vigore del nuovo titolo V della Costituzione; pertanto alla Stato spetta solo il potere di determinare i principi fondamentali della materia per via legislativa.
Più articolato e indubbiamente più interessante è il parere n. 5 del 17 ottobre 2002 dell’Adunanza Generale su uno schema di regolamento sulla produzione e commercializzazione delle bevande alcoliche, predisposto sulla base dell’art. 50, comma 1, della l. n. 146/1994 (legge comunitaria per il 1993), che autorizza l’adozione di regolamenti di delegificazione secondo la procedura prevista dall’art. 4, comma 5 della l. n. 86/1986 (legge La Pergola).
Dopo aver assunto che il principale ostacolo all’adozione di tale regolamento è costituito dal fatto che esso attiene ad una materia riconducibile a quelle dell’alimentazione e/o tutela della salute di competenza concorrente, l’Adunanza precisa che in tal caso neppure sarebbe consentita l’adozione di un regolamento cedevole. L’obiezione (avanzata dall’Amministrazione interessata) secondo cui la prassi dei regolamenti cedevoli sarebbe consentita sino all’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della legge delegante viene respinta dal Consiglio di Stato con l’argomentazione secondo cui le modifiche costituzionali devono ritenersi “immediatamente applicabili, in quanto espressione di una disciplina destinata in via diretta a prendere il posto delle precedenti regole in tema di riparto delle competenze”, come risulterebbe altresì dalla circostanza della mancata previsione di una disciplina transitoria.
Con la riforma del Titolo V, dunque, lo Stato non può adottare regolamenti in materie affidate alla potestà esclusiva o concorrente delle Regioni (fatta eccezione per il caso della mancata attuazione del diritto comunitario), anche se fondati su una normativa primaria anteriore. Continuano ad essere efficaci, anche se non più conformi al quadro costituzionale, i soli regolamenti statali adottati, alle medesime condizioni, anteriormente alla modifica costituzionale in ossequio al principio di continuità dell’ordinamento.
Lo scostamento più significativo con l’indirizzo assunto dalla Corte costituzionale si registra nel parere della Sezione atti consultivi n. 335/2003 del 10 febbraio 2003
Oggetto del parere della Sezione atti consultivi è uno schema di regolamento in materia di trasporti volto a disciplinare le funicolari aeree e terrestri in servizio pubblico destinate al trasporto di persone.
Nel parere si legge che, poiché la normativa costituzionale è “stabilita in modo diretto e completo dalla Costituzione”, la disciplina in essa contenuta non è disponibile e, pertanto, un intesa come quella raggiunta in seno alla Conferenza Stato- Regioni è richiamata dalla premessa dell’atto in questione, “non può valere di per sé a fondare l’esercizio della potestà regolamentare dello stato su materie non riservate alla sua competenza legislativa esclusiva”.
 7. La giurisprudenza costituzionale
 
La prospettiva “funzionalistica” del potere regolamentare pare quella sostanzialmente accolta nella giurisprudenza costituzionale. Va precisato che essa si è sostanzialmente incentrata, come inevitabile, sul rapporto Stato-Regioni, mentre la potestà regolamentare degli altri enti territoriali è stata solo incidentalmente richiamata nella sent. n. 246/2006 a causa della impossibilità per gli enti stessi di difendere direttamente innanzi alla Corte le proprie attribuzioni costituzionalmente garantite.
Per quanto attiene al rapporto Stato-Regioni, le ormai numerose sentenze della Corte che direttamente o incidentalmente toccano o affrontano il problema dell’allocazione della funzione regolamentare possono essere lette, per quanto qui interessa, attraverso uno schema classificatorio che si fonda sulla tipologie di competenza legislativa riconosciuta dalla Corte all’interno del giudizio e sulle conseguenze che essa ne deduce in quanto ad esercizio del potere regolamentare.
Seguendo tale classificazione possiamo distinguere tra competenza elusiva statale; competenza concorrente; competenze esclusive delle Regioni o Province autonome; connessione di competenze tra Stato e Regioni.
 
a)    Competenza esclusiva statale
 
Nelle giudizi in cui la Corte assume l’esistenza di una competenza esclusiva statale nella materia su cui si controverte si può intravedere una distinzione tra quelle che, seconda una nota ed efficace definizione, possono considerarsi materie esclusive “escludenti” e materie esclusive “non escludenti”.
Quando la materia è esclusiva-escludente dello Stato (quale per la Corte la tutela dei beni culturali) (Sent. 9/2004) la conclusione è scontata: il potere regolamentare è dello Stato.
Quando invece oggetto della controversia è una materia esclusiva-non escludente (quale ad esempio la tutela dell’ambiente) allora la posizione della Corte cambia sensibilmente. In tale ambito possono essere tollerati interventi regionali, ovviamente giustificati da un titolo di competenza legislativa regionale (3 0 4 comma dell’art. 117) che, a loro volta possono costituire la base legale dell’eventuale e successivo potere regolamentare (Sentt. 407/2002; 246/2006).
 
b)    Competenza esclusiva regionale
 
Le sentenze più significative in materia sono quelle che hanno avuto ad oggetto controversie inerenti la competenza primaria delle Province autonome di Trento e Bolzano.
Qui la posizione della Corte è assai netta: in tale ambito non è ammissibile un potere regolamentare dello Stato (Sentt. 287/2005; 263/2005).
Il compito della Corte in questi casi è stato a volte facilitato dalla presenza di competenze primarie o concorrenti delle Province autonome e dalla contestuale esclusione o di competenze statali. Così nel caso del conflitto di attribuzione sollevato dalle Province di Trento e Bolzano nei confronti di un “Regolamento recante norme per le funicolari aeree e terrestri in servizio pubblico destinate al trasporto di persone” completamente coincidente con la competenza primaria delle Province in materia di “comunicazioni e trasporti di interesse provinciale, compresi la regolamentazione tecnica e l’esercizio degli impianti di funivia” (Sent. 327/2006).
Nei casi di intrecci di competenze primarie e concorrenti delle Province autonome la Corte ha escluso l’esistenza di esigenze che giustificassero la necessità di un esercizio unitario della funzione che sarebbe stato in grado di determinare l’attrazione in sussidiarietà ex art. 118, comma 1. Così nel caso del conflitto di attribuzione sollevato dalla provincia di Trento nei confronti di un decreto ministeriale contenente “Requisiti che devono possedere le società scientifiche e le associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie” per invasione di competenze nelle materie “formazione professionale”; “ordinamento degli uffici provinciali e del personale addetto” e “tutela della salute” (Sent. 328/2006).
Anche nel caso della potestà residuale delle Regioni ordinarie la Corte ha ribadito l’esclusione di una potestà regolamentare statale. Il che, tuttavia, potrebbe non essere poi così significativo a fronte del carattere dichiaratamente “interstiziale” di tale competenza in cui compaiono, tra l’altro: sagre, fiere, manifestazioni di carattere religioso, benefico o politico (Sent. 1/2004); disciplina sanzionatoria per l’impianto abusivo di vigneti (Sent. 12/2004); artigianato (Sent. 162/2005); trasporto pubblico locale (Sent. 222/2005); organizzazione amministrativa della Regione (Sent. 17/2004).
 
c)     Competenza concorrente
 
In presenza di competenze concorrenti la posizione della Corte è necessariamente più articolata. 
In linea generale nelle materie di competenza concorrente (in applicazione del comma VI dell’art. 117) non possono darsi regolamenti statali che anzi devono essere annullati, tranne in tre ipotesi: quando il regolamento statale sia precedente la revisione costituzionale; quando la legge regionale risulti abrogata per contrasto con la sopravvenuta legge quadro e vi sia un regolamento statale in materia; quando, infine, la revisione costituzionale abbia scorporato materie di competenza esclusiva statale, intestandole alle Regioni, ma l’inerzia del legislatore nell’adozione dei principi fondamentali non è superabile dall’attività ricognitiva delle Regioni.
In questi casi la Corte accede, con argomentazioni diverse, alla discutibile tesi della “cedevolezza” del regolamento statale che rimane vigente sino all’intervento regionale.
Della prima ipotesi è emblema la sent. 376/2002 con cui la Corte ha “salvato” i regolamenti di delegificazione adottati sulla base della legge di semplificazione del 1999, tra cui anche regolamenti di delegificazione di procedimento amministrativi di competenza delle Regioni. In questo caso le Regioni ponevano in discussione lo stesso meccanismo della cedevolezza (introdotto dall’art. 20, comma 2, l. 59/1997), poiché intimamente contrastante con l’art. 117 Cost. I regolamenti governativi, infatti, non potrebbero disciplinare materie di competenza legislativa regionale e lo strumento della delegificazione, secondo i ricorrenti, non sarebbe abilitato ad operare per fonti tra le quali vi è un rapporto di competenza e non di gerarchia. 
Con l’interpretativa di rigetto la Corte (che ha assunto come parametro le disposizioni precedenti la revisione costituzionale, essendo il ricorso stato proposto precedentemente) ha precisato che quei regolamenti non abrogano le leggi regionali preesistenti, poiché il loro effetto deve ritenersi limitato alle sole fonti primarie statali “che già risultassero applicabili, a titolo suppletivo e cedevole, in assenza di corrispondente disciplina regionale”.
Non sfugge all’interprete che in tal modo le Regioni sono costrette ad intervenire (e necessariamente almeno all’inizio con legge) allo scopo di evitare effetti comunque difficilmente evitabili in presenza di regolamenti statali di delegificazione che, sebbene teoricamente delegificanti norme statali, in realtà costituiscono l’unica disciplina applicabile anche ai procedimenti amministrativi regionali (Di Cosimo).
Allo stesso modo non sfugge che la permanenza in vita del regolamento statale di delegificazione impedisce di fatto l’operatività del 117 comma VI: il regolamento regionale che intervenisse autonomamente (tranne vi fossero coperture statutarie) non potrebbe produrre l’effetto di abrogare il regolamento statale. Effetto che si produrrebbe solo con l’intervento della legge regionale.
La seconda ipotesi si desume tra l’altro, dalla soluzione di un conflitto di attribuzione sollevato dalla provincia di Bolzano e dalla regione Valle d’Aosta nei confronti del d.p.R. (“Regolamento recante istituzione del sistema di qualificazione per gli esecutori di lavori pubblici”) e del d.p.R. (“Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici”) per contrasto con la propria competenza esclusiva in materia di lavori pubblici di interesse provinciale e regionale e dalla Regione Emilia-Romagna nei confronti del secondo dei due regolamenti per invasione della propria competenza in materia di disciplina dei lavori pubblici di interesse regionale. Anche in questo caso i ricorrenti contestavano l’applicabilità in via suppletiva dei regolamenti statali.
Facendo leva sul principio di continuità, la Corte, dopo aver affermato che non spetta allo Stato adottare regolamenti in materia di competenza regionale, tuttavia tali regolamenti si applicano nel caso che le leggi regionali (delle sole Regioni ordinarie) risultino abrogate per contrasto con la sopravvenuta legge quadro, “oltrechè là dove non vi sia mai stata legislazione regionale ( e dunque la disciplina statale previgente e ora delelgificata continui ad applicarsi) in forza del principio di continuità” (Sent. 302/2003).
La terza ed ultima ipotesi in cui, pur affermando il principio generale, la Corte salva i regolamenti statali vigenti in materia di competenza concorrente, ha riguardato un’ipotesi del tutto peculiare di applicazione del principio di continuità: il caso di una materia attribuita alle Regioni in cui la carenza di intervento del legislatore statale impedisce al legislatore regionale di intervenire. Con la sent. 255/2004 la Corte ha dichiarato infondato il ricorso della Regione Toscana contro un d.l poi convertito in legge che, riproducendo, il meccanismo contenuto nella l. 163/1985 (“Nuova disciplina degli impegni dello Stato a favore dello spettacolo” ) rinvia i criteri e le modalità di erogazione dei contributi e le aliquote di ripartizione del Fondo unico per lo spettacolo a decreti del Ministro non aventi natura regolamentare.
La Corte, dopo aver inquadrato la materia nella promozione e organizzazione di attività culturali (concorrente) asserisce tuttavia che il principio di continuità non consente la caducazione automatica e l’automatica sopravvenuta incostituzionalità della disciplina. Le leggi regionali, infatti, non potrebbero assolvere ad una attività che è necessariamente statale (principi e criteri per l’erogazione dei contributi..) e la cui sospensione inciderebbe sulle aspettative dei soggetti richiedenti i contributi.
In tale circostanza, prosegue la Corte, “ci si trova con tutta evidenza dinnanzi alla necessità ineludibile che in questo ambito, come in tutti quelli analoghi divenuti ormai di competenza regionale ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost., ma caratterizzati da una procedura accentrata, il legislatore statale riformi profondamente le leggi vigenti (in casi come questi non direttamente modificabili dai legislatori regionali) per adeguarle alla mutata disciplina costituzionale”. In un settore del genere, afferma ancora la Corte “si sconta in modo particolare la difficoltà derivante dalla mancanza nella l.c. 3/2001 di qualunque disposizione transitoria finalizzata a disciplinare la fase di passaggio nelle materie in cui si sia registrato un mutamento di titolarità tra Stato me Regioni e particolarmente la dove occorre passare da una legislazione che regola procedure accentrate a forme di gestione degli interventi amministrativi imperniati sulle Regioni, senza che le leggi regionali da sole possano direttamente trasformare la legislazione vigente in modo efficace”.
 
     L’effetto dell’annullamento del regolamento statale nelle materie di competenza regionale concorrente, in conclusione, si verifica automaticamente solo quando esso venga introdotto completamente ex novo (senza avere fondamento in una legge statale precedente) dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001: così nelle sent.. nn. 12/2004; 17/2004 e 30/2005. Soprattutto in quest’ultima la Corte ha espresso in maniera assolutamente lineare il proprio indirizzo col dire che “nelle materie di competenza concorrente la normativa statale deve limitarsi alla determinazione dei principi fondamentali, spettando, invece, alle Regioni la regolamentazione di dettaglio, trattandosi di fonti tra le quali non vi sono rapporti di gerarchia, ma di separazione di competenze”. Conseguentemente annulla la disposizione impugnata ( art. 25 l. finanziaria 2003) nella parte in cui rinvia a futuri regolamenti ministeriali la disciplina del pagamento e della riscossione di somme per contratto. 
 
d)    Connessione di competenze
 
Ancora più elaborata risulta la giurisprudenza costituzionale in quell’ambito che potremmo definire di “connessione di competenze”. L’ambito in cui, a causa dell’oggetto della disciplina, non solo l’art. 117 configura una convivenza di competenze legislative sia di Stato che di Regioni (l’ipotesi principe sono, ovviamente, le competenze concorrenti), ma soprattutto si rende necessario coordinare le relative competenze amministrative.
La questione è stata affrontata e risolta dalla Corte con la sent. n. 303/2003che, come noto, ha, tra l’altro, fissato il principio secondo cui l’applicazione del principio di sussidiarietà incide sull’esercizio delle funzioni normative di disciplina delle funzioni amministrative comportando, nel caso in questione, un’attrazione verso l’alto.
Il ragionamento della Corte (che ha ricevuto più critiche di quante effettivamente ne meritasse) si fonda su una interpretazione sostanzialmente condivisibile del combinato disposto degli articoli 118 e 117, comma VI, secondo cui l’attribuzione di funzioni amministrative (secondo i criteri previsti dal 118) necessita dei poteri normativi per la sua disciplina (secondo il sistema di regole prefigurato nel 117, comma VI).     
In questa prospettiva non solo la Corte non ha “riscritto” il Titolo V Morrone), ma ha invece esplicitato una premessa maggiore per la sua lettura: non ci si può addentrare nell’attuazione del Titolo V con la riserva mentale del principio del parallelismo.
Quel principio oggi trova il suo limite nel principio di sussidiarietà (e pare si possa continuare ad aggiungere quello di adeguatezza).
Del resto, nel caso di connessione di competenze legislative rispetto alle quali si renda necessario altresì un coordinamento amministrativo si possono dare due ipotesi: l’intervento di entrambi ovvero la prevalenza di quello che garantisce nella concreta situazione la salvaguardia dell’interesse da tutelare.  
La prima delle due ipotesi parrebbe esclusa dagli artt. 117, comma VI e 118 che si reggono, sulla negazione del “doppio binario” (Bartole), cioè della “convivenza accanto alle strutture amministrative regionali, di strutture amministrative statali rispetto allo stesso settore di materia (…) in nome non solo della garanzia dell’autonoma competenza degli enti territoriali, ma anche in ragione di esigenze di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa” (Bartole).
Tant’è che le eventuali forme di coordinamento (amministrativo) tra Stato e Regioni sono esplicitamente individuate al comma III dell’art. 118.
Il senso delle due norme appena richiamate pare, dunque quello di evitare, nel limite del possibile, la contestuale convivenza di strutture e apparati amministrativi di enti diversi nello stesso settore.
Se così è, allora, l’ipotesi della necessità del coordinamento amministrativo (ulteriore rispetto a quello previsto dalla stessa norma) va risolto sulla base del principio di sussidiarietà (e parrebbe di dover aggiungere anche di adeguatezza). Difficilmente queste ipotesi condurranno all’applicazione del principio di sussidiarietà verso il “basso”, più facilmente dirigeranno la soluzione verso l’applicazione dell’inciso del primo comma dell’art. 118 che, ai fini di garantire l’esercizio unitario, trascina verso l’”alto” l’esercizio delle funzioni amministrative.  
Stupisce, dunque, l’eccessiva enfasi negativa con cui si è voluto leggere il nesso instaurato tra funzioni amministrative e legislative (meglio normative) nella sent. 303. Asserire che l’esercizio delle funzioni amministrative postula il potere normativo non vuol dire “conferire un primato culturale all’amministrazione” (Ruggeri), meno che mai asserire che è il 118 la chiave interpretativa del 117 (Morrone), (francamente, peraltro, non vi nulla di stupefacente nel fatto che 117 e 118 vanno letti l’uno ad integrazione dell’altro ed in direzione biunivoca).
Casomai se un enfasi negativa va posta su quella sentenza è l’idea che traspare di una sussidiarietà verso l’”alto” esattamente normale (e speculare) quanto quella verso il “basso” (D’Atena). Alla lettura fortemente “verticistica”, infatti, si accompagna l’idea di una sua perfetta assimilazione all’ipotesa inversa e contraria.
L’inciso “salvo che per assicurarne l’esercizio unitario” viene in sostanza letto anziché come deroga ammissibile al principio di sussidiarietà, come il suo equivalente nella direzione contraria. La norma, invece, andrebbe letta spostando l’inciso in fondo “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, salvo che per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato”.
Ora è evidente che il significato autentico del principio (quello che si lega saldamente con l’art. 5 della Costituzione) non sta nella sua lettura meccanicamente bi-direzionale, bensì nella sua combinazione con l’art. 5 e con il principio democratico (Pizzetti).
 
e)     La potestà regolamentare degli enti territoriali
 
L’attuazione del 117, comma VI, in relazione alla potestà regolamentare degli altri enti territoriali è stata incidentalmente (ma significativamente) richiamata dalla Corte in due recenti sentenze.
Nella 246/2006, nel dichiarare parzialmente infondato un ricorso del Governo contro una legge regionale per invasione di competenza, ritiene illegittimo l’art. 7 della suddetta legge regionale poiché, col prevedere l’adozione di regolamenti “cedevoli” ad opera della Giunta regionale, invade la sfera di regolamentazione assegnata ai Comuni. Si legge così nella sentenza: “Se il legislatore regionale nell’ambito delle proprie materie legislative dispone discrezionalmente delle attribuzioni di funzioni amministrative agli enti locali, ulteriori rispetto alle funzioni fondamentali, anche in considerazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, non può contestualmente pretendere di affidare ad un organo della regione – neppure in via suppletiva – la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle Province in riferimento a quanto loro attribuito dalla legge regionale medesima. Nei limiti, infatti, delle funzioni attribuite dalla legge regionale agli enti locali, solo questi ultimi possono – art. 117, comma VI – adottare i relativi regolamenti relativi all’organizzazione e all’esercizio delle funzioni loro affidate dalla Regione”.
Nella sent. 116/2006 il richiamo alla potestà regolamentare degli enti locali è certamente più labile. Nel dichiarare l’incostituzionalità di molte disposizioni di un d.l. in materia di agricoltura la Corte afferma che talune di esse sono lesive della competenza legislativa della Regione nella materia agricoltura “dal momento che non può essere negato, in tale ambito, l’esercizio del potere legislativo da parte delle Regioni per disciplinare le modalità di applicazione del principio di coesistenza nei diversi territori regionali, notoriamente molto differenziati dal punto di vista morfologico e produttivo” (punto 7 considerato in diritto).
 
 
In conclusione emerge un quadro che pur con i chiaroscuri della “cedevolezza” conferma la lettura funzionalistica del 117, comma VI: l’attribuzione della potestà regolamentare, più che in connessione con la funzione legislativa, va letta insieme all’attribuzione delle funzioni amministrative.
L’attribuzione di queste ad opera della legge statale o di quella regionale, non fonda, ma richiede necessariamente le relative potestà normative per la loro disciplina.
 
 
8. La questione aperta: l’inerzia del legislatore statale nella definizione del quadro di “contesto” per rendere operativo il sistema delineato nell’art. 117, comma VI
Sebbene la giurisprudenza sopra esaminata abbia contribuito certamente a tenere in equilibrio il sistema durante il periodo (non ancora chiuso) della transizione dal precedente al nuovo assetto costituzionale essa è (e si è dichiarata) apertamente impotente a risolvere la questione centrale su cui ruota l’attuazione del 117, comma VI: esso pur fondando costituzionalmente il potere regolamentare non è autoapplicativo.
Le regole di competenza disposte dal 117 comma VI non sono auto-applicative né per le Regioni, né per gli enti locali.
     Per quanto riguarda le Regioni la conseguenza più grave dell’inattuazione è che alla carenza di una disciplina statale di trasferimenti (o deleghe) delle funzioni amministrative sulla base del Titolo V revisionato consegue una mancata riorganizzazione del proprio apparato amministrativo che continua a legittimare la convivenza, accanto alle strutture amministrative regionali, di strutture amministrative statali.
L’esempio più macroscopico è costituito dal fallimento del disegno relativo agli Uffici territoriali del Governo. Questi, che avrebbero dovuto costituire l’”unica” amministrazione statale decentrata in cui avrebbero dovuto confluire i compiti di coordinamento tra centro ed enti territoriali su tutte le materie, continuano in realtà ad essere affiancati da altri uffici amministrativi statali decentrati le cui funzioni amministrative rientrano ora nell’ambito di competenze legislative regionali. Così gli Assessorati regionali dell’istruzione sono ancora affiancati dalle Direzioni regionali dell’istruzione i cui compiti non si sono minimamente modificati; così come gli assessorati regionali alla cultura rimangono affiancati dalle Direzioni regionali della cultura che continuano indisturbate ad esercitare gli stessi identici compiti che svolgevano prima che la materia della valorizzazione e promozione dei beni culturali fosse assegnata alle Regioni quale materia concorrente. 
Ciò, come è evidente, costituisce il più rilevante impedimento non tanto all’esercizio del potere legislativo delle Regioni sulle materie, quanto all’esercizio del potere regolamentare inteso quale potere di disciplina delle funzioni amministrative. 
La presenza di leggi previgenti, infatti, non è sufficiente a rendere operativo il nuovo meccanismo di competenze perché spesso lascia in piedi la tagliola dei regolamenti statali (o altri atti amministrativi) fondati, per l’appunto, sulle leggi precedenti la revisione costituzionale 2001, che spesso la Corte è costretta a salvare per evitare effetti devastanti sul sistema.
     Per quanto riguarda gli enti locali, la mancata attuazione della l. 131/2003 quanto alla individuazione delle loro funzioni non è tranquillamente sostituibile dall’art. 7 del T.U sugli enti locali perché questo rinvia alla loro individuazione (“Nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto, il comune e la provincia adottano regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni”).
Né può considerarsi sufficiente, almeno per quanto riguarda il Comune il richiamo all’ art. 13 (“Spettano al comune le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”).
Nelle sue applicazioni alle fonti, in sostanza, il criterio della competenza regolamentare contenuto nel VI comma dell’art. 117 dimostra sino in fondo il suo “carattere complessivamente in autonomo” (Ruggeri).
     Di tale necessità di applicazione non può che farsi carico il Parlamento: da questo punto di vista forse ingenerosamente si è criticata la giurisprudenza costituzionale che anche in situazioni (e soluzioni) difficile ha ricoperto un ruolo di supplenza che, come evidenziato polemicamente dal Presidente Zagrebelsky nella Relazione sulla giustizia costituzionale del 2003, non era “ne voluto, né gradito”.
Certo può addebitarsi alla Corte di aver esasperato il criterio di continuità. Ma non sta qui il problema.
Non è stata, infatti, l’affermazione del principio di continuità a frenare ma l’inattuazione del Titolo V. La continuità ha prodotto la permanente vigenza del precedente impianto mentre l’inattuazione è andata nei suoi effetti ben oltre: ha consentito all’impianto precedente di continuare a legittimare le competenze amministrative (e dunque regolamentari) in aperta dissonanza con il nuovo riparto di competenze (Belletti).
Alla prospettiva della continuità che era l’unica percorribile dalla Corte e che aveva l’utilità in assenza di norme transitorie di tenere in equilibrio il sistema non è seguita quella della discontinuità che solo il legislatore poteva (e può) far propria poiché necessariamente intrisa di indirizzo politico.
Vi è da augurarsi a questo punto che la (faticosa) ripresa dell’attuazione del Titolo V contrassegnata dal varo in Consiglio dei ministri della “Delega al Governo per l’attuazione dell’art. 117, secondo comma, lett. p) della Costituzione, per l’istituzione delle città metropolitane e per l’ordinamento di Roma Capitale e per l’attuazione dell’art. 118, commi primo me secondo e delega al Governo per l’adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla legge costituzionale n. 3/2001” non si arresti.
Vi è da augurarsi, in altri termini, “che la politica si riappropri del suo ruolo” (Vandelli).
 
 
 
 

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