Massimo LUCIANI, Gli istituti di partecipazione popolare negli statuti regionali (Settembre 2006)
Avvertenza: lo studio trae origine dalla relazione al Convegno organizzato dall’ISSiRFA su I nuovi statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, Roma, Sala del Cenacolo, 4 luglio 2005
INDICE:
Nella prima vicenda statutaria regionale, quella del 1971, la dottrina aveva riposto molte aspettative. Si pensava che gli statuti avrebbero saputo dimostrare capacità progettuale e fantasia politica, assieme al desiderio di raccogliere la sfida per la creazione di un livello istituzionale intermedio dotato di caratteri suoi propri, peculiari e differenziati.
In particolare, era viva la speranza che gli statuti avrebbero saputo tracciare le linee di collegamento tra società politica e società civile, innestando potenti istituti di partecipazione popolare nell’impianto essenzialmente rappresentativo della forma di governo regionale. A questo, del resto, sembravano essere sollecitati dallo stesso testo dell’art. 123, comma 1, Cost., a tenor del quale “Lo statuto regola l’esercizio del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione”. In questo modo la Costituzione faceva delle regole della partecipazione popolare uno dei contenuti essenziali e necessari dello statuto. La dottrina, anzi, come è noto, aveva rinvenuto proprio in questo passaggio il segno più evidente dell’originalità di impostazione della Costituzione, che attendeva dai futuri statuti una risposta adeguatamente ardimentosa.
Non fu, lo si sa bene, così. Non fu così in the books e non fu così neppure in action: per un verso, gli statuti si appiattirono in buona misura sul modello degli istituti partecipativi previsti dalla Costituzione e dalla legislazione statale. Per l’altro, la classe politica regionale, ancora non sicura della propria stessa identità e della possibilità di costituirsi come entità socio-politica in qualche modo autonoma rispetto alla classe politica statale, non si sentì particolarmente stimolata a sollecitare il confronto con l’opinione pubblica regionale. Un confronto che non le serviva granché, peraltro, nel contesto di una generale aspirazione ad una diretta visibilità in sede nazionale, che scontava l’incomprensione dello specifico pregio della “politica regionale”.
L’attuazione della normativa statutaria, insomma, vuoi per un suo difetto intrinseco, vuoi per l’incapacità di distillarne quel che di buono vi giaceva, segnò il passo (anche e soprattutto nel campo della partecipazione popolare) un po’ dappertutto.
Sul piano dei contenuti delle varie normative statutarie, il conservatorismo si mostrò anzitutto nelle scelte relative all’istituto referendario, limitato all’ipotesi del referendum abrogativo e a quella del referendum consultivo.
Quanto ai referendum regionali abrogativi, la discussione tra i giuristi si concentrò soprattutto sul tema dei controlli delle relative richieste. Non è certo un caso che la prima significativa pronuncia della Corte costituzionale in materia sia stata su tale questione (sent. n. 43 del 1982, con la quale la Corte dichiarò illegittime due leggi regionali - l’una della Sardegna, l’altra del Trentino-Alto Adige - poiché affidavano la funzione di “Ufficio centrale” per il referendum abrogativo di leggi regionali ad una sezione della locale Corte d’appello, in violazione della riserva di legge statale quanto alla determinazione di “struttura e funzioni dell’ordine giudiziario”).
Quanto ai referendum consultivi, nonostante gli spazi lasciati dalla Costituzione alla partecipazione popolare a livello regionale, la prassi – come già detto – è stata alquanto deludente, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha seguito, sul punto, un indirizzo notevolmente restrittivo. Basti ricordare la notissima sent. n. 256 del 1989, che ha stabilito l’incostituzionalità delle leggi regionali che prevedono referendum consultivi capaci di condizionare le scelte (statali) di politica estera. In questo modo il referendum consultivo, alla fin fine, è stato ridotto alle sole questioni di rilevanza strettamente regionale, con conseguenze piuttosto prevedibili quanto alla residuale capacità dell’istituto di suscitare l’interesse della politica.
L’avvento della riforma del Titolo V, con il nuovo impulso offerto alla progettazione statutaria, è parso aprire nuovi spazi alla partecipazione popolare negli ordinamenti regionali, sollecitando una volta di più l’originalità e l’audacia dei legislatori. Anche in questo caso, tuttavia, le aspettative sono andate in parte deluse, pur se si deve registrare un indubbio progresso rispetto al passato (un progresso, ovviamente, per ora unicamente sulla carta, ché la funzionalità dei nuovi istituti potrà essere valutata soltanto in futuro, se e quando la macchina sarà messa in moto).
Anche nella seconda stagione statutaria l’imitazione del modello statale è stata evidente, come dimostrano il successo dei referendum abrogativi o le timidezze in ordine all’iniziativa legislativa popolare (in senso proprio) o alla petizione. Non sono però mancati, stavolta, tentativi di originalità.
Certo, la giurisprudenza costituzionale non ha molto aiutato gli audaci. Prima, con la famosa sent. n. 304 del 2002, relativa allo statuto delle Marche, ha fortemente compresso la libertà di scelta in materia di forma di governo. Poi, con le sentt. nn. 372, 378 e 379 del 2004 ha ridotto notevolmente l’importanza delle innovazioni statutarie, elaborando l’ipotesi delle “non-norme” statutarie, e cioè delle affermazioni contenute negli statuti che sarebbero solo apparentemente precettive, ma sostanzialmente dichiarative (dichiarative, cioè, di generiche e non normative opzioni culturali se non “letterarie”).
La critica a questa giurisprudenza sarebbe, a mio avviso, piuttosto facile (anche norme riproduttive di altre sovraordinate sono comunque norme, come la stessa giurisprudenza costituzionale ha più volte affermato dichiarandole - anzi - sovente incostituzionali; non è sicuro che la precettività sia consustanziale alla normatività; la genericità non esclude la normatività, etc.), e certo non a caso buona parte della dottrina è stata addirittura impietosa (v., in particolare, Anzon). Quel che importa notare, qui, è che proprio nel dominio degli istituti di partecipazione il problema non è stato posto dalla Corte nei medesimi termini, tanto è vero che, con la sent. n. 379 del 2004, ha scrutinato nel merito (giungendo ad una declaratoria di infondatezza e non di inammissibilità per difetto di normatività della disciplina censurata) l’art. 15, comma 1, dello Statuto dell’Emilia-Romagna, a tenor del quale “La Regione, nell´ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, riconosce e garantisce a tutti coloro che risiedono in un Comune del territorio regionale i diritti di partecipazione contemplati nel presente titolo, ivi compreso il diritto di voto nei referendum e nelle altre forme di consultazione popolare”. In questo caso, come si vede, nonostante il contenuto di largo principio della disposizione statutaria, la Corte non ha saputo o voluto metterne in dubbio la giuridicità, sicché non ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale proposta dal ricorso governativo.
La spiegazione data da una parte della dottrina (Groppi), che il trattamento riservato a quella statuizione sia stato diverso perché la disciplina della partecipazione popolare fa parte del contenuto necessario dello statuto, potrebbe anche essere plausibile. Se davvero la Corte avesse fatto questo ragionamento, tuttavia, avrebbe dimostrato una volta di più l’infondatezza della premessa generale, poiché è privo di logica consequenzialità negare la giuridicità di talune previsioni in ragione del loro contenuto, ed affermarla di altre in ragione della loro struttura. In altre parole: o quel che conta è il contenuto, e allora non si capisce in che senso l’art. 15, comma 1, dello statuto dell’Emilia-Romagna potrebbe essere contrassegnato dalla normatività più delle previsioni dello statuto della Toscana maltrattate dalla sent. n. 372 del 2004, oppure quel che conta è la struttura, ma allora si dovrebbe dire che nessuna delle previsioni statutarie non necessarie ai sensi dell’art. 123 della Costituzione possiederebbe la normatività, benché non si comprenda in base a quale principio sarebbe possibile affermarlo (né la Corte ha fatto alcuno sforzo per mostrarlo).
In ogni caso, proprio in tema di partecipazione, e più specificamente di referendum, la Corte ha concesso agli statuti lo spazio più esplicito e più chiaro, affermando, nella stessa sent. n. 372 del 2004, che “La materia referendaria rientra espressamente, ai sensi dell’art. 123 della Costituzione, tra i contenuti obbligatori dello statuto, cosicché si deve ritenere che alle Regioni è consentito di articolare variamente la propria disciplina relativa alla tipologia dei referendum previsti in Costituzione, anche innovando ad essi sotto diversi profili, proprio perché ogni Regione può liberamente prescegliere forme, modi e criteri della partecipazione popolare ai processi di controllo democratico sugli atti regionali”.
Risulta dunque risolta, anche se limitatamente a questo profilo, la questione tanto agitata in dottrina del significato della “armonia” dello statuto con la Costituzione. Qui, infatti, nonostante quanto affermato dalla sent. n. 306 del 2002, il vincolo dell’armonia non sembra declinabile nel senso del doveroso rispetto dello spirito oltre che della lettera della Costituzione, perché il margine di autonomia statutaria si fa pieno, tanto che la “necessità” della disciplina dell’istituto referendario finisce per essere interpretata come la sua “libertà”.
Questa conclusione a me pare tuttavia eccessiva e va anche oltre l’interpretazione relativamente “debole” del vincolo costituzionale proposta da una parte della dottrina (Olivetti), che ha letto nell’esigenza di armonia il semplice vincolo ai principi costituzionali supremi o fondamentali. Anche in questo caso, la Corte ha desunto dalla struttura della disposizione (che al contrario di altre deve esistere) una parte significativa del suo regime giuridico. E anche stavolta non ha spiegato il fondamento logico di questa scelta (né, a mio avviso, avrebbe potuto, perché, a mio modesto parere, un fondamento logico non è dato rinvenirlo).
Venendo, ora, rapidamente ai contenuti delle scelte statutarie, appare evidente l’impossibilità di operare in questa sede una rassegna o anche solo una sistemazione o classificazione generale. Mi limiterò, pertanto, a mettere in luce taluni punti a me parsi particolarmente significativi (preciso, anche, che non mi occuperò del referendum sullo statuto regionale, poiché esso, già direttamente previsto dall’art. 123, comma 3, Cost., non è frutto di autonoma progettazione statutaria delle Regioni).
Un primo punto è quello della difficoltà di definire la nozione stessa di partecipazione popolare, visto che se ne confrontano due concezioni che paiono radicalmente opposte.
Quella che potremmo chiamare concezione estensiva la ritroviamo, oltre che nell’art. 15 dello statuto della Regione Emilia-Romagna (ne ho già riportato il comma 1, ma anche gli altri commi vanno nella medesima direzione), nell’art. 4 dello statuto della Calabria, a tenor del quale “La Regione promuove la partecipazione dei singoli, delle formazioni sociali e politiche e di tutte le componenti della Comunità calabrese, nonché delle comunità dei calabresi nel mondo alla vita delle istituzioni regionali, al fine di realizzare una democrazia compiuta e lo sviluppo civile delle popolazioni” (comma 1) e “A tal fine, la legge stabilisce procedure e criteri idonei per rendere effettiva la partecipazione, assicurando servizi e strutture regionali e prevedendo la consultazione di organismi rappresentativi di istanze sociali diffuse” (comma 2).
Come è agevole constatare, qui la partecipazione è intesa in senso davvero assai ampio, e cioè come generica partecipazione alla “vita” delle istituzioni e come apertura alla “consultazione” della società civile. Nella concezione che potremmo chiamare restrittiva, invece, essa coincide con la compartecipazione ai processi decisionali pubblici ovvero con l’assunzione di responsabilità decisionali pubbliche.
E’ quanto accade all’art. 20 dello statuto della Regione Umbria, dove si stabilisce che “La Regione, al fine di creare nuovi spazi di democrazia diretta e di inclusione sociale, riconosce e garantisce la partecipazione dei cittadini, singoli e associati, all’esercizio delle funzioni legislative, amministrative e di governo degli organi e delle istituzioni regionali” (comma 1) e che “La partecipazione si attua mediante l’iniziativa legislativa e referendaria, il diritto di petizione e la consultazione” (comma 2). O anche all’art. 72 dello statuto del Piemonte, a tenor del quale “Sono istituti della partecipazione:
a) l’iniziativa popolare;
b) l’iniziativa degli enti locali;
c) il referendum abrogativo e consultivo;
d) l’interrogazione rivolta agli organi della Regione dagli enti locali, dai sindacati dei lavoratori e dalle organizzazioni di categoria a carattere regionale e provinciale;
e) la petizione di singoli cittadini, di enti e di associazioni”.
A mio parere, le definizioni più rigorose di “partecipazione popolare” sono senz’altro da preferire, come quelle che, per un verso, rendono meno probabile l’equivoco sulla portata delle garanzie statutarie e, per l’altro, pongono in luce i termini propriamente istituzionali della questione, collegando operativamente il fine (la crescita democratica della comunità regionale) con i mezzi (gli istituti di partecipazione stricto sensu).
Quanto al referendum abrogativo, è banale constatare come esso sia quello sul quale si è maggiormente appuntata, da sempre e conformemente al dato nazionale, l’attenzione. I nuovi statuti non sembrano tuttavia aver previsto norme di particolare originalità, anche se va notato lo sforzo di definire con una qualche precisione il regime dei controlli senza incorrere nei vizi (di invasione della materia della giurisdizione, riservata allo Stato), già da tempo segnalati dalla Corte costituzionale. Assai positivo, poi, sembra il tentativo, operato in particolare dallo statuto della Toscana, di mettere a frutto la lezione offerta dall’esperienza del referendum abrogativo sul piano nazionale. La dimostrata difficoltà di ottenere un tasso di partecipazione alle votazioni referendarie sufficientemente elevato, in particolare, ha suggerito l’adozione di una disciplina del quorum strutturale diversa da quella dettata dall’art. 75 Cost. Così, l’art. 75, comma 4, dello statuto toscano prevede che “La proposta di abrogazione soggetta a ”. In questo modo, sulla scia di note proposte dottrinali (Barbera, Morrone), la soglia di partecipazione minima al referendum si è ancorata al turnout elettorale, con la conseguenza che quella che potremmo chiamare “pretesa partecipativa” dello statuto è stata contenuta entro limiti realistici e concreti.referendum è approvata se partecipa alla votazione la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni regionali e se ottiene la maggioranza dei voti validamente espressi
Segnalerei, invece, un paio di profili problematici dello statuto dell’Emilia-Romagna, relativi agli artt. 15 e 20.
Quanto all’art. 15, viene in considerazione il comma 1, a tenor del quale “La Regione, nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, riconosce e garantisce a tutti coloro che risiedono in un Comune del territorio regionale i diritti di partecipazione contemplati nel presente titolo, ivi compreso il diritto di voto nei referendum e nelle altre forme di consultazione popolare”. In questo modo parrebbe conferita alla Regione la facoltà di concedere anche agli stranieri residenti il diritto di voto negli stessi referendum abrogativi, il che sarebbe alquanto discutibile. Come ho avuto modo di osservare in altra sede, non vi sono ostacoli costituzionali al conferimento agli stranieri del diritto di voto nelle elezioni amministrative, mentre l’art. 1 Cost., che riserva la sovranità al popolo (italiano) preclude la possibilità del conferimento di tale diritto quando il voto interferisce con l’esercizio della sovranità. Se (come aveva già scritto Bodin) l’essenza della sovranità sta soprattutto nel potere di “dare le leggi” a tutti, e se il referendum abrogativo regionale può incidere su leggi regionali, ne viene che la previsione statutaria sopra ricordata pone qualche problema di compatibilità con la Costituzione. Si deve osservare, peraltro, che il legislatore statutario ha accortamente aggiunto un significativo caveat, laddove ha precisato che il conferimento del diritto di voto è operato dalla Regione “nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute”, il che contribuisce a rendere meno gravi le preoccupazioni che ho segnalato. Anche la Corte costituzionale - se rettamente interpreto - ha già manifestato il medesimo avviso, osservando, a proposito di quel caveat, che “Quest’ultima espressione della disposizione impugnata manifesta con chiarezza l’insussistenza di una attuale pretesa della Regione di intervenirenella materia delle elezioni statali, regionali e locali, riconoscendo il diritto di voto a soggetti estranei a quelli definiti dalla legislazione statale, od inserendo soggetti di questo tipo in procedure che incidonosulla composizione delle assemblee rappresentative o sui loro atti ” (sent. n. 379 del 2004).
Quanto all’art. 20, le perplessità maggiori le suscita il comma 4, a tenor del quale “Dopo la presentazione della richiesta di referendum, sono ammissibili solo interventi diretti a modificare, in conformità alla richiesta stessa, la disciplina preesistente. Qualora intervengano tali provvedimenti di modifica, la Consulta di
garanzia statutaria verifica se l’intervento medesimo risponda appieno al quesito referendario, rendendo quindi superfluo l’espletamento del referendum, oppure, dando atto della parzialità dell’intervento, riformula i quesiti referendari”. Già in altra occasione ho avuto modo di criticare la tesi dell’effetto di vincolo che - sul legislatore statale - sarebbe determinato dalla semplice presentazione di una richiesta referendaria. Se quelle critiche sono (come confido) fondate, la limitazione imposta dallo statuto al legislatore regionale finisce per essere in contrasto con il principio di “libertà” del legislatore medesimo.
garanzia statutaria verifica se l’intervento medesimo risponda appieno al quesito referendario, rendendo quindi superfluo l’espletamento del referendum, oppure, dando atto della parzialità dell’intervento, riformula i quesiti referendari”. Già in altra occasione ho avuto modo di criticare la tesi dell’effetto di vincolo che - sul legislatore statale - sarebbe determinato dalla semplice presentazione di una richiesta referendaria. Se quelle critiche sono (come confido) fondate, la limitazione imposta dallo statuto al legislatore regionale finisce per essere in contrasto con il principio di “libertà” del legislatore medesimo.
4.3.- Il referendum consultivo.
Il referendum consultivo lo troviamo, secondo tradizione, un po’ in tutti gli statuti, né sembrano porsi oggi questioni particolari. E’ opportuno, semmai, ricordare che la giurisprudenza costituzionale in materia ha tracciato limiti piuttosto precisi alla consultazione referendaria.
Il referendum consultivo lo troviamo, secondo tradizione, un po’ in tutti gli statuti, né sembrano porsi oggi questioni particolari. E’ opportuno, semmai, ricordare che la giurisprudenza costituzionale in materia ha tracciato limiti piuttosto precisi alla consultazione referendaria.
Merita una considerazione particolare la questione del rapporto tra consultazione regionale e vicende costituzionali statali. A questo proposito, la sent. n. 496 del 2000 (sulla scia della sent. n. 470 del 1992, ma con ben maggiore articolazione argomentativa) ha chiaramente affermato che “non è... consentito sollecitare il corpo elettorale regionale a farsi portatore di modificazioni costituzionali, giacché le regole procedimentali e organizzative della revisione, che sono legate al concetto di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), non lasciano alcuno spazio a consultazioni popolari regionali che si pretendano manifestazione di autonomia”.
Alcuni commentatori (Moschella, Mangia) hanno ravvisato i segni di un’inversione di indirizzo nell’ord. n. 102 del 2001. In quella occasione, la Corte rigettò la domanda di sospensione, proposta dal Presidente del Consiglio, nei confronti di una delibera della Regione Lombardia, a tenor della quale si intendeva sottoporre agli elettori lombardi il seguente quesito: “Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie alla promozione del trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale, alla Regione?”. La Corte negò la tutela cautelare, osservando che, nella specie, “la delibera consiliare in questione non coinvolge «scelte fondamentali di livello costituzionale» in presenza delle quali non è consentita la separata consultazione di frazioni del corpo elettorale (sentenza n. 496 del 2000) e che pertanto non ricorrono quelle gravi ragioni che, sole, giustificano la sospensione dell’esecuzione degli atti che danno luogo al conflitto di attribuzione tra Stato e Regione”.
A mio avviso (e a prescindere dal fatto che la Corte non ha più avuto occasione di pronunciarsi nel merito, perché, cambiata la maggioranza parlamentare, lo Stato ha rinunciato al ricorso) questo passaggio non giustifica l’opinione di un intervenuto o incipiente mutamento giurisprudenziale. Anche se l’ordinanza parla delle “iniziative istituzionali necessarie”, ciò non vuol dire che esse non possano concretarsi in altro che nella presentazione di una proposta di legge costituzionale. La Corte, infatti, chiarisce espressamente che è proprio il “livello costituzionale” che deve rimanere intangibile per il referendum regionale, sicché esclude a priori che l’eventuale voto favorevole sul quesito possa essere interpretato come un vincolo politico alla rappresentanza regionale di adottare proprio iniziative di legge costituzionale (e, del resto, il testo del quesito lombardo mostra chiaramente che la strada del progetto di legge costituzionale non era affatto la sola che, nell’ipotesi di esito positivo della consultazione referendaria, avrebbe potuto o dovuto essere seguita dalla Regione).
Come che sia di questo problema, quel che realmente non convince nella giurisprudenza costituzionale relativa ai referendum consultivi sono i presupposti concettuali dai quali muove, radicati - mi sembra dimostrato soprattutto dalla già ricordata sent. n. 256 del 1989 - nel convincimento che il popolo, titolare della sovranità, non possa mai essere ridotto allo stato di mero consulente. Anche qui ho avuto modo di manifestare in altra sede più di una perplessità su questa tesi, quantomeno (ma gli argomenti potrebbero essere ben più numerosi) perché non è affatto detto che un soggetto titolare della sovranità sia addirittura costretto a dover sempre agire come tale, e perché il popolo sa, nel momento in cui è chiamato ad un referendum consultivo, quale sia il valore giuridico del giudizio manifestato (e questo, influenzando anche il comportamento dei votanti, rende arbitrario e lesivo della stessa volontà popolare riconoscere effetti vincolanti ad una consultazione che gli stessi votanti non avevano concepito altro che come tale).
Grande è la prudenza degli statuti quanto al c.d. referendum propositivo (e cioè, per usare una terminologia più appropriata, all’iniziativa legislativa popolare in senso proprio). Si segnala, comunque, lo statuto del Lazio, che tuttavia suscita qualche perplessità.
All’art. 62, invero, si dispone che “I soggetti titolari del potere di promuovere il referendum abrogativo di cui all’articolo 61 possono presentare al Presidente del Consiglio regionale, con le modalità previste dallo stesso articolo e dall’articolo 37, comma 4, una proposta di legge regionale da sottoporre a referendum propositivo popolare” (comma 1) e che “Qualora il Consiglio regionale non abbia deliberato in ordine alla proposta di legge da sottoporre al referendum propositivo entro un anno dalla dichiarazione di ammissibilità della relativa richiesta, il Presidente della Regione, con proprio decreto, indice il referendum propositivo popolare sulla proposta stessa” (comma 2). Come si vede, lo statuto consente il ricorso alla votazione referendaria solo nel caso in cui il Consiglio regionale sia rimasto inerte, mentre nulla dispone per quanto concerne l’ipotesi di un’approvazione della proposta di iniziativa popolare, ma con modificazioni (eventualmente assai significative). Questa lacuna lascia dubbiosi quanto alla possibilità di qualificare l’istituto ora descritto come una forma di “vera” popular initiative.
Non molto interesse destano le previsioni statutarie in materia di iniziativa legislativa popolare in senso improprio (e cioè di iniziativa popolare analoga a quella prevista dall’art. 71 Cost.). Da questo punto di vista, uno sforzo di maggior precisione sembra essere stato fatto dallo statuto della Regione Liguria, che all’art. 7, comma 2, dispone che “Il Consiglio regionale deve deliberare in via definitiva sulle iniziative di cui al comma 1 [cioè sulle iniziative legislative proposte da cinquemila elettori della Regione, da almeno dieci Comuni o da uno o più Comuni che rappresentino almeno 50.000 abitanti, da una Provincia o dalla Città metropolitana] entro un anno dalla loro presentazione”. Le conseguenze dell’inosservanza del termine non sono chiarite, ma il solo fatto ch’esso sia stato fissato sembra indicare un certo favor per le iniziative popolari (e degli enti locali).
La petizione, indubbiamente il più debole degli istituti partecipativi, ha trovato essa pure accoglienza diffusa nei nuovi statuti regionali. Si segnala, peraltro, il testo dello statuto della Regione Campania approvato in prima lettura, che all’art. 15, comma 3, stabilisce che “Gli organi regionali hanno l’obbligo di prendere in esame le petizioni e di fornire risposta scritta ai richiedenti”. Anche qui non sono offerte indicazioni sulle conseguenze dell’inosservanza dell’obbligo, ma sembra comunque apprezzabile l’accenno di uno sforzo per rendere la petizione un poco più “appetibile” di quanto in genere non sappia essere.
C’è, per gli istituti di partecipazione, uno spazio nuovo negli ordinamenti regionali, dopo le modifiche al Titolo V della Costituzione, apportate dalle ll. costt. nn. 1 del 1999 e 3 del 2001? La risposta all’interrogativo è senz’altro affermativa. Nel nuovo art. 123 Cost. la regolazione dell’esercizio degli istituti di partecipazione e in particolare del referendum, adesso, è ricompresa nel contesto della determinazione della forma di governo regionale, che la Costituzione affida (sia pure nel rispetto di certi limiti) agli statuti. Proprio tale nuovo contesto, a mio parere, incide sul margine di discrezionalità statutaria nei confronti del referendum, che a tutta prima parrebbe immutato, ove si considerassero solo le parole che l’art. 123 dedica direttamente a quell’istituto. La giurisprudenza costituzionale, al di là delle affermazioni che - sopra lo si è visto - non paiono condivisibili, conferma questa conclusione.
E’ dubbio, invece, che si possano desumere spazi ulteriori dalla più recente giurisprudenza costituzionale sul rapporto tra Regioni e sovranità. Certo, nella sent. n. 106 del 2002 si legge che “il legame Parlamento-sovranità popolare costituisce inconfutabilmente un portato dei principî democratico-rappresentativi”, e tuttavia quella tra Parlamento e sovranità non è “una relazione di identità”, tanto che sarebbe errato ritenere che “nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza, la sovranità popolare, senza che leautonomie territoriali concorrano a plasmarne l’essenza”. Poiché l’art. 1 Cost. - prosegue la Corte - stabilisce che la sovranità “appartiene” al popolo, esso “impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendovisi. Le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali”.
La complessa prosa di questa pronuncia non aiuta a capire, con precisione, quale sia, il rapporto che, per la Corte, si instaura tra Regioni e sovranità. Nondimeno, anche se le Regioni, in quanto contitolari della funzione legislativa (art. 117, comma 1, Cost.), compiono, come ho accennato, atti di sovranità, resta fermo il principio dell’unitarietà del popolo italiano e dell’insussistenza di una pluralità di popoli regionali. Non abbiamo, sul punto, una giurisprudenza chiara come quella del Conseil constitutionnel sulla Corsica, ma i limiti che la Corte ha tracciato ai referendum consultivi regionali e alla partecipazione delle Regioni al procedimento di revisione costituzionale sembrano ispirati alla medesima logica.