Antonio D'ATENA, Seconda Camera e regionalismo nel dibattito costituzionale italiano (Giugno 2006)
AVVERTENZA: Versione italiana del 'paper' inviato al Congresso annuale della IACFS (Tubinga, 28.6-1.7.2006).
Sommario
Com’è noto, l'istituzione delle Regioni ha rappresentato una delle maggiori novità del disegno delineato dalla Costituzione repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948. La quale, rovesciando un indirizzo centralistico risalente all’unificazione nazionale (1861), non solo ha potenziato le preesistenti autonomie locali (che ha fatto oggetto di specifico riconoscimento), ma ne ha anche arricchito l'articolazione, introducendo un nuovo livello territoriale di governo (quello regionale, appunto), che ha dotato di competenze legislative ed amministrative.
La formula organizzativa prescelta trovava un parziale precedente nella Costituzione spagnola del 1931. Alla sua elaborazione non sono, inoltre, rimaste estranee suggestioni federalistiche di matrice mitteleuropea.
Non è qui il caso di soffermarsi sul modo in cui tali modelli hanno influenzato i lavori dell’Assemblea costituente. Quello che va sottolineato è che il tentativo di raccordare la composizione della seconda camera (il Senato della Repubblica) all’articolazione regionale dell’ordinamento ha dato risultati molto deludenti.
È, infatti, vero che – a conclusione di una tormentata trattativa – si è cercato di collegare la struttura dell’organo alla regionalizzazione del Paese. Ma le regole introdotte a tale scopo non hanno trasformato il Senato in una Camera rappresentativa delle Regioni (come taluno avrebbe voluto).
Tali regole sono costituite:
a) dalla previsione che il Senato sia eletto “a base regionale” (art. 57, comma 1);
b) dalla garanzia di una rappresentanza “minima” alle Regioni, indipendente dalla consistenza demografica di ciascuna: una rappresentanza di 7 senatori per la generalità delle Regioni, di 2 senatori per il Molise e di un senatore per la Valle d’Aosta (art. 57, comma 3 ).
Iniziando dalla prima regola, può rilevarsi che – in presenza di un’elezione a suffragio universale e diretto (art. 58, comma 1, Cost.) – la previsione che il Senato sia eletto “a base regionale” non vale a collegare i senatori alle Regioni, considerate come istituzioni. Essa incide soltanto sulla legislazione elettorale: escludendo la possibilità che, nelle elezioni del Senato, possa essere utilizzato il collegio unico nazionale. È questa – tra l’altro – la ragione per la quale l’attribuzione del premio di maggioranza (secondo l’attuale, irrazionale, disciplina) deve avvenire in sede regionale (e non nazionale, come per la Camera dei Deputati).
Analoghe considerazioni valgono per la seconda regola: la previsione di un numero minimo di senatori da assicurare a ciascuna circoscrizione regionale. Tale previsione, infatti, pur garantendo il numero minimo di seggi di cui all’art. 57, comma 3, alle Regioni che, in base alla popolazione, non raggiungerebbero il quoziente necessario, non vale ad evitare enormi squilibri tra le rappresentanze regionali. Basti considerare che, nel Senato attuale, mentre la Regione più popolosa (la Lombardia) è presente con 47 senatori, la meno popolosa (la Valle d’Aosta) è presente con un solo senatore. Con un’escursione manifestamente incompatibile con le esigenze di una Camera di rappresentanza territoriale.
Son queste le ragioni per le quali, nella percezione comune, il Senato italiano è “sentito” come una Camera politica, la quale non si differenzia qualitativamente dalla prima Camera: la Camera dei Deputati.
Si tratta di una percezione assolutamente fondata. Per la ragione che le differenze organizzative sussistenti tra i due rami del Parlamento non incidono sulla qualità della rappresentanza. Ci si riferisce, oltre che alle differenze derivanti dalle regole sopra ricordate, a due ulteriori elementi:
a) alla diversa disciplina dell’elettorato attivo (18 anni per la Camera e 25 per il Senato) e di quello passivo (25 anni per la Camera e 40 per il Senato);
b) alla circostanza che, a differenza che nella Camera dei Deputati, nel Senato siano presenti alcuni membri di diritto a vita: gli ex Presidenti della Repubblica e 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica tra i cittadini che abbiano “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”.
Può, a questo punto, aggiungersi che – ai fini che qui interessano – una diversa qualità rappresentativa non poteva neppure ricollegarsi ad un’ulteriore differenza, contenuta originariamente nel testo della Costituzione e presto eliminata: la diversa durata delle legislature (5 anni per la Camera e 6 anni per il Senato). È, infatti, evidente che la più lunga durata del Senato non valeva, in alcun modo, a collegare quest’ultimo all’articolazione regionale dell’ordinamento.
Prima di chiudere sul punto, è il caso di sottolineare che assolutamente coerente con la piena omogeneità qualitativa dei due rami del Parlamento italiano è stata la scelta del bicameralismo perfetto. Le Camere italiane, infatti, sono dotate di identiche funzioni: partecipano entrambe, con eguali poteri, all’esercizio della funzione legislativa (art. 70 Cost.); entrambe, inoltre, accordano e revocano la fiducia al Governo (che, secondo quanto prevede l’art. 94 Cost., intrattiene con esse un rapporto fiduciario).
Tutto ciò premesso, è da dire che, fino agli anni ‘90, il tema della riforma del Senato non è mai stato all’ordine del giorno. Era oggetto di discussioni scientifiche, ma non era “sentito” dalle forze politiche.
È, ad esempio, significativo che la questione della “regionalizzazione” del Senato sia rimasta estranea ai lavori delle due Commissioni parlamentari bicamerali, che, nella IX e nella XI legislatura, sono state incaricate di elaborare progetti di riforma della seconda parte della Costituzione (progetti, peraltro, mai sottoposti a votazione in sede parlamentare).
Infatti, mentre la seconda – la Commissione De Mita-Iotti (1992-1994) – ha ignorato la questione, la prima – la Commissione Bozzi (1983-1985) –, pur occupandosi della riforma del Senato, ha avanzato delle proposte completamente slegate dall’esigenza di trasformarlo in una Camera delle Regioni. Ci si riferisce alla proposta di includere tra i membri di diritto a vita gli ex Presidenti delle Camere e gli ex Presidenti della Corte costituzionale.
Come si è anticipato, la “scoperta” del tema da parte del ceto politico risale agli anni ’90.
In proposito, vengono, anzitutto in considerazione le proposte avanzate nel 1995 da un Comitato di studio sulle riforme elettorali e costituzionali insediato dal primo Governo Berlusconi: il Comitato Speroni (dal nome del ministro delle riforme costituzionali, che lo presiedeva). Tale Comitato, composto da esperti, oltre che – come si è detto – dal ministro, con riferimento al Senato formulò due ipotesi: entrambe fortemente innovative ed intese a modificare la qualità rappresentativa dell’organo.
La prima ipotesi era trasparentemente ispirata al modello del Bundesrat tedesco. Essa prevedeva che il Senato fosse composto da membri dei Governi delle Regioni, con un’escursione rappresentativa compresa tra 1 e 9. La seconda ipotesi, pur raddoppiando le rappresentanze, manteneva tra esse le stesse proporzioni (da 2 a 18 senatori per ogni circoscrizione regionale). Tale proposta, tuttavia, prevedeva che i senatori fossero eletti in modo da rappresentare, per metà, le Regioni e, per l’altra metà, i Comuni e le Province. Le modalità di tale elezione non erano, peraltro, disciplinate dal progetto, il quale si limitava a precisare che si dovesse trattare di un’elezione “non diretta” e demandava l’attuazione di questo principio ad una futura legge del Parlamento.
Ma tali proposte non vennero mai discusse in Parlamento. Esse sono state, infatti travolte dalla crisi del primo Governo Berlusconi, che si verificò a soli 8 mesi dal suo insediamento.
Perché la questione della riforma costituzionale venga riportata all’ordine del giorno dovrà attendersi la legislatura successiva: la XIII legislatura (1996-2001). Si è trattato della legislatura alla quale si deve una radicale riforma del regionalismo: una riforma, in parte, realizzata con tecniche costituzionali di matrice decisamente federale. Basti considerare che, per suo effetto, la competenza legislativa generale spetta ormai alle Regioni (e non allo Stato, come precedentemente accadeva). Oggi, infatti, l’art. 117, comma 4, Cost. attribuisce alle assemblee legislative regionali “la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.
È, peraltro, da dire che tale riforma ha mantenuto praticamente inalterata la disciplina del Senato: sia per quanto riguarda la composizione, sia per quanto attiene alle competenze. L’unica modifica da cui, nella XIII legislatura, è stata interessata la seconda Camera non ha avuto alcun rapporto con la riforma del regionalismo. Ci si riferisce alla previsione che del Senato – come, del resto, della Camera dei Deputati – facciano parte anche membri eletti dai cittadini italiani residenti all’estero.
Ciò non significa, tuttavia, che il tema della regionalizzazione dell’organo sia stato totalmente trascurato dagli artefici della riforma. Essi si sono confrontati con esso, quando la riforma era in preparazione. Lo hanno, però, escluso dal testo finale.
Per rendersi conto dell’evoluzione della riflessione sul punto, è il caso di richiamare le tappe fondamentali del tormentato cammino che ha condotto alla revisione della disciplina costituzionale del regionalismo.
Il percorso ha avuto inizio con l’approvazione della legge costituzionale n. 1/1997, la quale, in funzione della riforma dell’intera seconda parte della Costituzione, aveva previsto uno speciale procedimento di revisione costituzionale, che si discostava dalla procedura normale (o ‘tipica’), contemplata dall’art. 138 della Costituzione, per due aspetti: anzitutto, per il ruolo istruttorio riservato a una Commissione bicamerale costituita ad hoc; inoltre, per la previsione che il testo deliberato dai due rami del Parlamento con due distinte votazioni dovesse essere sottoposto al referendum confermativo, comunque (indipendentemente, cioè, da uno specifico atto di promozione ed anche se approvato in seconda lettura con la maggioranza qualificata dei due terzi).
Dopo aver percorso le sue prime fasi (e dopo che la Commissione bicamerale – alla cui presidenza era stato chiamato Massimo D’Alema – aveva licenziato il suo definitivo progetto), il cammino così prefigurato si è interrotto, per esaurimento dell’accordo politico che ne era alla base: un accordo bipartisan tra le forze di centro-sinistra (allora al governo) e le forze di centro-destra (allora all’opposizione).
La sua interruzione, tuttavia, non ha comportato l’archiviazione del tema delle riforme costituzionali. Ha, semplicemente, decretato il superamento dell’idea che esso dovesse essere affrontato unitariamente (con la riscrittura di metà della Costituzione) e con modalità derogatorie rispetto all’ordinario procedimento di revisione.
Di qui, un mutamento di strategia, che ha portato all’approvazione – nelle vie tracciate dall’art. 138 Cost. – di sei leggi costituzionali, due delle quali hanno modificato il titolo della Costituzione dedicato alle Regioni ed alle autorità locali: il titolo V. Si tratta della l. cost. n. 1/1999 e della l. cost. n. 3/2001.
Se si esaminano i documenti da cui è stato scandito il cammino di cui s’è detto, può constatarsi che, mentre all’inizio, l’atteggiamento delle forze politiche era piuttosto aperto nei confronti della prospettiva di una riforma in senso autenticamente “federale” del Senato, successivamente si è registrato un deciso cambiamento di rotta.
Le posizioni iniziali sono testimoniate dalle proposte che, in base alla l.cost. n. 1/1997 già citata, i gruppi parlamentari e le assemblee legislative regionali hanno sottoposto alla Commissione bicamerale D’Alema. Da esse emergeva un consenso piuttosto diffuso al modello Bundesrat di tipo tedesco (che trovava – come abbiamo visto – un diretto precedente in una delle due ipotesi elaborate dalla Commissione Speroni).
In questa linea si muovevano le proposte elaborate dalle Regioni, nonché quelle presentate da alcuni gruppi politici presenti nella Camera dei Deputati: i gruppi di Forza Italia e di Rinnovamento italiano. Tali proposte prevedevano che la seconda Camera si componesse di membri (o rappresentanti) degli esecutivi regionali, ovvero di membri da questi nominati e revocabili. Ad un'ispirazione non dissimile obbediva, inoltre, il progetto presentato dai deputati del gruppo dei Popolari e Democratici-l'Ulivo, il quale, peraltro, affiancava ai membri dei Governi regionali un certo numero di Sindaci e di Presidenti di Provincia, da designare mediante un procedimento elettorale di secondo grado.
A ciò è da aggiungere che, con la sola eccezione del progetto elaborato dai deputati di Forza Italia, che prevedeva una rappresentanza proporzionale alla popolazione delle singole Regioni, tutti gli altri cercavano di evitare eccessivi squilibri tra le delegazioni regionali. Quello con l'escursione maggiore era il progetto delle Regioni, che fissava il minimo in 1 ed il massimo in 8 voti.
Ma – come si è anticipato – queste aperture non hanno avuto seguito nell’elaborazione del testo di riforma da parte della Commissione bicamerale D’Alema.
È – ad esempio – molto significativo che di esse non si trovi traccia nella proposta licenziata dal Comitato chiamato occuparsi del Parlamento e delle fonti normative, presieduto dalla senatrice Ersilia Salvato. Tale proposta manteneva una continuità assoluta con il modello costituzionale originario. L’unica differenza atteneva al numero dei senatori (ridotto da 315 a 200). Per il resto, essa conservava il sistema del numero minimo di seggi da garantire a ciascuna Regione: riducendo la soglia standard da 7 a 5, per adeguarla alla riduzione del numero complessivo dei senatori.
Parzialmente diverso è il giudizio per i due testi licenziati dal plenum della Commissione bicamerale il 30 giugno ed il 4 novembre 1997. Il primo era un testo preparatorio sul quale i parlamentari hanno proposto degli emendamenti di cui la Commissione bicamerale ha tenuto conto ai fini dell’elaborazione del secondo: il testo da sottoporre ai due rami del Parlamento.
Il primo documento, all’art. 97, preveva l’istituzione, presso il Senato della Repubblica di una speciale commissione – la Commissione delle autonomie territoriali – presieduta da un senatore e formata, per un terzo da senatori, per un terzo da presidenti di Regioni e per l’ultimo terzo da rappresentanti dei comuni e delle province eletti con elezione di secondo grado.
La proposta licenziata dalla Commissione bicamerale il 4 novembre, a propria volta, prevedeva l’integrazione con rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, non di una Commissione, ma del plenum del Senato. L’art. 89, infatti prevedeva che, con riferimento a certe materie, regionalmente o localmente "sensibili", il Senato si riunisse in “sessioni speciali”, con la partecipazione di consiglieri comunali, provinciali e regionali "eletti in ciascuna Regione in numero pari a quello dei relativi senatori".
Al di là delle differenze tra esse sussistenti, non può non notarsi la debolezza di entrambe le soluzioni. Le quali: a) riservavano alle sedi integrate con rappresentanze regionali e locali un ruolo meramente consultivo; b) non alteravano il principio della proporzionalità dei rappresentanti alla consistenza demografica delle circoscrizioni regionali; c) non mettevano i rappresentanti regionali e locali in condizione di partecipare da soli ai processi di decisione in cui dovevano essere coinvolti, ma prevedevano che essi operassero unitamente agli ordinari membri del Senato.
Ma neppure questa strada è stata percorsa fino in fondo.
Infatti, dopo l’interruzione dello speciale procedimento previsto dalla l.cost. n. 1/1997 (e dopo la rottura dell’accordo bipartisan su cui si fondava), il disegno di legge costituzionale che ha riavviato il processo di riforma del regionalismo – il progetto Amato (dal nome del ministro delle riforme dell’epoca) – escludeva deliberatamente dal proprio orizzonte il tema della riforma del Senato. Nella relazione che lo accompagnava, questa decisione veniva giustificata in nome della correttezza costituzionale, che avrebbe reso inopportuno che di una riforma destinata ad incidere sull’assetto del Parlamento si occupasse il Governo.
Personalmente, l’autore di queste pagine è convinto che la ragione dell’omissione fosse diversa. E si legasse alla consapevolezza che il tema del Senato fosse un tema difficile, se non impossibile, da affrontare, a causa di un noto paradosso in tema di riforme costituzionali: il paradosso, secondo cui, gli organi che decidono le riforme non sono propensi a riformare radicalmente se stessi (soprattutto, se – come nel caso di specie – la riforma ne possa decretare il suicidio istituzionale).
Quale che sia la spiegazione che si ritenga preferibile, certo è che l’ipotesi di riformare il Senato non è stata mai presa in seria considerazione nel successivo procedimento parlamentare. L’unica concessione all’esigenza di assicurare, in qualche modo, il coinvolgimento delle Regioni nei processi di decisione politica nazionale è stato rappresentato dalla c.d. “bicameralina”.
Ci si riferisce alla previsione (contenuta nell’art. 11 l. cost. n. 3/2001), in forza della quale i regolamenti parlamentari possono disporre l’integrazione, con esponenti di estrazione regionale e locale, di un organo preesistente: la Commissione bicamerale per le questioni regionali (composta da 15 deputati e 15 senatori). Il citato art. 11 ha inoltre previsto: a) che la Commissione così integrata debba essere obbligatoriamente consultata quando il Parlamento approvi una legge-cornice in materie di legislazione concorrente od una legge in materia di finanza regionale; b) che, ove il Parlamento intenda discostarsi dal parere reso dalla Commissione, la votazione debba avvenire nel plenum ed a maggioranza assoluta. Per rendersi conto della portata della seconda previsione, è il caso di ricordare che la Costituzione italiana, di regola, ammette che le leggi vengano deliberate nelle Commissioni parlamentari (art. 72 Cost.).
Si tratta, comunque, di una soluzione piuttosto debole.
Anzitutto per la formula possibilistica prescelta: quella del rinvio ai regolamenti parlamentari (che manca di ogni impegnatività). Inoltre, per la composizione dell’organo. È, infatti, evidente che, se s’intende dar voce alle entità sub-statali in termini in qualche modo accostabili agli standard in uso nelle esperienze federali, la previsione dell’integrazione, con esponenti regionali, di un organo parlamentare statale non costituisce certo la soluzione più incisiva.
La soluzione, infine, non può considerarsi pienamente soddisfacente neppure per i poteri riservati al consesso: l’aggravio procedimentale non essendo sufficiente a conferire al parere i caratteri di un efficace strumento di codecisione.
Detto questo, è da aggiungere che sino a questo momento – per dissensi politici sulla composizione e sul dosaggio delle rappresentanze regionali e locali – la norma non ha ricevuto attuazione.
Con l’entrata in vigore della l.cost. n. 3/2001, il cammino delle riforme costituzionali non è, comunque, arrivato al capolinea. A ciò ha contribuito il fatto che la maggioranza politica che – nella XIV legislatura (2001-2006) – ha ereditato la riforma costituzionale è stata una maggioranza diversa da quella che ne aveva assunto la paternità.
Non deve, quindi, sorprendere che, nel corso della XIV legislatura, si siano avviati processi di riforma della riforma costituzionale. Si usa il plurale, perché le iniziative che si sono succedute nel tempo sono state tre: il d.d.l.cost. sulla c.d. devolution, che, approvato in prima lettura dal Senato nel dicembre 2002, il 14 aprile 2003 è stato licenziato, sempre in prima lettura, dalla Camera dei Deputati; lo schema di d.d.l. cost. approvato dal Consiglio dei Ministri l’11 aprile 2003, su iniziativa del Ministro La Loggia, e successivamente archiviato; il d.d.l.cost di riforma dell’intera seconda parte della Costituzione, che, tra il 2004 ed il 2005, dopo una falsa partenza (segnata dal primo testo approvato dal Senato e profondamente modificato dalla Camera), è stato approvato in seconda lettura dai due rami del Parlamento e bocciato nel referendum popolare dei giorni 25 e 26 giugno 2006.
Soffermando l’attenzione su quest’ultimo testo, è preliminarmente da sottolineare che il processo che ha portato alla sua adozione non è stato meno tormentato di quello da cui è nata la riforma costituzionale del 2001. La difficoltà di mettere insieme le anime della maggioranza (in cui coesistevano forze radicalmente autonomistiche e forze decisamente centralistiche) ha reso, infatti, il compromesso politico estremamente faticoso.
Queste difficoltà si sono ripercosse anche sulla disciplina dedicata al Senato, che, nel passaggio dal progetto governativo alle diverse stesure che si sono stratificate in sede parlamentare, ha subito modificazioni molto profonde. Il compromesso finale non è stato, tuttavia, un compromesso soddisfacente. Tanto che, secondo un giudizio praticamente unanime tra i costituzionalisti, la disciplina dedicata alla seconda camera ed ai suoi compiti rappresentava probabilmente la parte peggiore della riforma.
Consistenti riserve giustificava, anzitutto, la disciplina dettata per la composizione dell’organo. Il quale, pur essendo denominato Senato “federale” della Repubblica, non corrispondeva agli standard normalmente in uso nei sistemi di tipo federale.
Questo non significa che il tentativo di legarne la struttura all’articolazione regionale dell’ordinamento sia mancato del tutto. Il fatto è che gli accorgimenti all’uopo introdotti erano troppo deboli per conseguire lo scopo in vista del quale sono stati introdotti.
Due elementi possono considerarsi al riguardo decisivi.
Anzitutto, il notevole squilibrio tra le rappresentanze regionali. Per rendersene conto, è sufficiente comparare la soluzione adottata a quelle che si riscontrano negli ordinamenti autenticamente federali. La riforma prevedeva, infatti, che tra la rappresentanza minima e la rappresentanza massima vi fosse un'escursione compresa tra 1 e 38 (a tali valori corrispondendo il numero di senatori, rispettivamente, spettanti alla Valle d’Aosta e alla Lombardia). Negli ordinamenti federali, invece, la rappresentanza delle istituzioni sub-statali, o è paritaria (prescindendo del tutto della consistenza demografica di ciascuna), o è differenziata in termini molto più contenuti.
L’altro elemento non agevolmente conciliabile con la pretesa natura federale dell’organo era rappresentato dalla tecnica d’investitura dei suoi titolari: l’elezione diretta. E, cioè, la stessa tecnica usata per le camere politiche.
È vero che, nel panorama comparato, non mancano casi di elezione diretta dei membri della Camera rappresentativa delle entità federate. Ciò vale – ad esempio – per il Senato USA e per il Consiglio degli Stati svizzero. È, tuttavia, da dire che, in tali esperienze, la tecnica predetta trova, in genere, un contrappeso nella rappresentanza paritaria garantita a ciascuna entità sub-statale. È, infatti, noto che, tanto nel Senato nordamericano quanto nel Consiglio degli Stati svizzero, la rappresentanza assicurata ad ogni entità è di due seggi. La sola eccezione è costituita dai sei Cantoni svizzeri meno popolosi (prima della riforma del 1999, significativamente denominati “mezzi Cantoni”), cui è assicurata una rappresentanza dimezzata.
I due elementi appena ricordati – squilibrio rappresentativo ed elezione diretta – non erano significativamente compensati dall’inclusione, tra i requisiti di eleggibilità dei Senatori, della titolarità passata o attuale di una carica elettiva in un qualunque livello territoriale di governo, con elezione nel territorio della Regione (art. 58). Tale requisito non è, di per sé, idoneo ad assicurare un rapporto tra l’eletto e l’istituzione regionale. Nella specie, inoltre, esso presentava un carattere meramente simbolico: risultando sostituibile dalla residenza nella Regione alla data dell’indizione delle elezioni.
Maggiore efficacia presentavano altri due correttivi. Anche se essi, in presenza dell’elezione diretta dei Senatori e di squilibri rappresentativi così pronunziati come quelli che si sono ricordati, non erano tali da “federalizzare” significativamente l’organo.
Ci si riferisce, in primo luogo, alla previsione della contestualità dell’elezione dei Senatori e dei membri delle assemblee legislative regionali (dalla costituzione italiana, denominate “Consigli regionali”). In base alla nuova disciplina, infatti, i membri del Senato avrebbero dovuto essere eletti contemporaneamente ai Consigli regionali e sarebbero dovuti decadere dal mandato contemporaneamente ai membri di questi. Con la conseguenza che, se un Consiglio regionale fosse stato sciolto anticipatamente, secondo quanto prevede l’art. 126 Cost., ciò avrebbe automaticamente comportato la decadenza dei senatori della medesima Regione, alla cui sostituzione si sarebbe dovuto procedere contemporaneamente alla nuova elezione del Consiglio.
Considerazioni in parte analoghe possono valere per la disciplina dettata in materia di quorum per la validità delle sedute e per l’adozione delle decisioni.Il riferimento è alla disposizione in forza della quale condizione di validità delle sedute sarebbe stata la presenza di “senatori eletti in almeno un terzo delle regioni” (art. 64, comma 3).
Prima di chiudere sul punto, è il caso di segnalare che, non riuscendo a “federalizzare” il Senato, gli artefici della riforma sono ricorsi ad un palliativo che presenta qualche punto di contatto con le sessioni speciali del Senato previste dalla Commissione bicamerale D’Alema (supra, n. 3.2.). Si tratta della previsione che alle sedute del Senato partecipassero, senza diritto di voto, rappresentanti delle Regioni e degli enti locali, rispettivamente, eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle autonomie locali (che sono organi consultivi presenti in ogni Regione e composti da rappresentanti degli enti locali).
Ma il discorso sul Senato non può chiudersi a questo punto. La disciplina ad esso dedicata dal progetto non giustificava perplessità soltanto per gli aspetti strettamente organizzativi, ma anche sotto il profilo funzionale.
Tali perplessità si legavano al fatto che essa non si limitava ad attribuire al Senato funzioni tipiche delle seconde camere federali (come l’elezione di parte dei giudici costituzionali e la partecipazione procedimento di revisione della Costituzione). Essa infatti gli assegnava anche competenze eccentriche, sulla base di una strategia istituzionale non agevolmente decifrabile.
L’ambito in cui questo difetto era più visibile era quello del procedimento legislativo. Un ambito, nel quale la riforma introduceva una novità di tutto rilievo: l’affiancamento alle leggi bicamerali delle leggi monocamerali, nel procedimento formativo delle quali ad una Camera sarebbe spettato un ruolo autenticamente deliberativo ed all’altra il potere di formulare proposte da sottoporre alla definitiva decisione della prima.
La singolarità della soluzione non stava tanto nella distinzione tipologica dei procedimenti legislativi e nella previsione di una qualche partecipazione di entrambe le Camere anche all’elaborazione delle leggi monocamerali. Qualcosa di simile si riscontra, ad esempio, in Germania: la Legge fondamentale riconoscendo al Bundesrat sia l’assenso in ordine alle leggi sulle quali esso è specificamente chiamato ad un ruolo di codecisione, sia un potere di “obiezione”, relativamente alle altre leggi federali, il quale trova espressione in rilievi su cui si pronunzia definitivamente il Bundestag.
Quello che rendeva il progetto singolare era la previsione di leggi monocamerali del Senato: di leggi, cioè, sulle quali alla Camera dei Deputati sarebbe dovuto spettare un mero potere di proposta.
La singolarità cui si è accennato derivava dal fatto che, nei sistemi federali e regionali, la legislazione centrale ha la funzione di garantire le ragioni dell’unità: assicurando quel tanto di uniformità che la Costituzione richiede, pur nel contesto di un sistema informato al policentrismo legislativo. Essa, quindi, chiama coerentemente in causa la Camera politica (rappresentativa dell’intera comunità nazionale) e non la Camera delle autonomie (rappresentativa – come si è detto – delle entità federate), alla quale viene, al più, riconosciuto un ruolo codecisorio (richiedendone – ad esempio – il necessario assenso).
Riservare al Senato federale – come faceva l’art. 70, comma 2, del progetto – l’adozione delle leggi-cornice nelle materie di legislazione concorrente appariva, pertanto, un autentico non-senso.
A questo punto, è il caso di avvertire che le due anomalie appena passate in rassegna non si compensavano. Non si sarebbe potuto, in particolare, sostenere che il carattere non autenticamente federale del Senato rendesse accettabile l’affidamento ad esso di funzioni che dovrebbero spettare alla Camera politica (o anche alla Camera politica).
I problemi nascevano dal fatto che la riforma, pur non conferendo al Senato i caratteri di una camera "federale", ne prevedeva lo sganciamento dal rapporto fiduciario con il Governo: sottraendolo, conseguentemente, allo scioglimento anticipato (e, quindi, ad ogni possibilità di condizionamento da parte del Primo Ministro).
Di qui, un cortocircuito dalla portata dirompente.
È, infatti, palese che, se nel Senato si fosse affermata una maggioranza diversa dalla maggioranza di Governo, la sua competenza esclusiva in materia di leggi-cornice avrebbe rischiato di compromettere irreparabilmente la politica governativa: tra le materie di legislazione concorrente figurando materie di rilevanza strategica ai fini dell’indirizzo politico del Governo (si pensi – per fare un solo esempio – al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario).
Son queste le ragioni per le quali tale soluzione era stata sottoposta a vivacissime critiche in sede politica e dottrinale, sin dal momento in cui ha fatto la sua prima apparizione: ci si riferisce al momento dell’adozione del progetto governativo di legge costituzionale che ha dato inizio al procedimento parlamentare.
Tali critiche, tuttavia, non hanno indotto il Parlamento a modificare radicamente la decisione. Evidentemente non sussistevano le condizioni politiche per farlo. In conseguenza di ciò, non si è trovato niente di meglio che cercare di bilanciarla, mediante antidoti goffi, oltre che inefficaci.
Primo problema: come evitare che la legislazione monocamerale del Senato paralizzasse l’azione di governo? L’antidoto escogitato dal legislatore costituzionale è tranchant. Si tratta del riconoscimento al primo Ministro del potere di espropriare il Senato della competenza costituzionalmente riconosciutagli, per spostarla alla Camera dei deputati.
Secondo problema: come ovviare agli inconvenienti derivanti dall’intrico delle competenze, in presenza di tre categorie di leggi (bicamerali, monocamerali-Camera e monocamerali-Senato)? Anche qui, l’antidoto è tranchant. Il testo legislativo rendeva, infatti, il riparto disponibile dai Presidenti delle Camere, chiamati a decidere – in modo, per giunta, insindacabile – le modalità di approvazione degli atti rispetto ai quali possa registrarsi un conflitto tra i due rami del Parlamento.
In questa sede non è il caso di approfondire l’analisi.
Un punto merita, comunque, di essere sottolineato: che molto verosimilmente l'intervenuta bocciatura del progetto in sede di referendum popolare non segnerà la fine del percorso riformatore.
È, infatti, diffusa tra le forze politiche, sia di maggioranza che di opposizione, l’idea che il tema della riforma costituzionale vada ripreso ed affrontato in modo bipartisan (a differenza di quanto è avvenuto nelle due ultime legislature). Ciò rende prevedibile la riapertura di una riflessione sulla seconda Camera.
Quello che non è – a giudizio dello scrivente – prevedibile è che tale riflessione approdi ad una riforma idonea a raccordare efficacemente la composizione del Senato all’articolazione regionale del Paese. È, infatti, estremamente improbabile – anche a causa del paradosso sulle riforme richiamato in precedenza (n. 3.2.) – che si mettano in discussione le due regole che, in questa prospettiva, andrebbero radicalmente riviste: la regola della rappresentanza fondamentalmente proporzionale tra le Regioni e quella dell’elezione diretta dei senatori.