AVVERTENZA: Lo studio trae origine dalla relazione tenuta al Convegno su "Sistema delle autonomie e dimensione istituzionale e sociale della religione", organizzato dalla cattedra di diritto ecclesiastico dell'Università di Roma "Tor Vergata" e dall'ISSiRFA (Roma, CNR, 12.12.2005)


 
Il tema relativo alle competenze in materia di beni culturali presenta profili disomogenei, potendo declinarsi sia in termini interorganici, ossia facendo riferimento alla distribuzione di competenze tra gli organi dello stesso ente (ma si tratta di un aspetto che non affronterò), sia in termini intersoggettivi, in relazione ad enti ed ordinamenti diversi. Sotto quest’ultimo profilo mi soffermerò soprattutto sul riparto di competenze tra Stato e Regioni, senza dimenticare gli aspetti che attengono ai rapporti tra l’ordinamento statale e quello sovranazionale dell’Unione Europea e tra lo Stato e la Chiesa cattolica.
Fissati i confini del mio intervento, prenderei le mosse da alcune suggestioni che derivano dalla relazione del prof. D’Atena. Mi riferisco alla considerazione in base alla quale il regionalismo in Italia assume i caratteri di un modello giacobino, quanto meno nel momento della sua genesi: vale a dire, le Regioni in Italia nascono tendenzialmente prive di una specifica identità culturale. Esse, tuttavia, pur essendo calate dall’alto, sono riuscite ad acquisire negli anni una caratterizzazione identitaria, e si è visto come questo risultato dipenda, in parte, da una scelta felice del Costituente ed, in parte, da un “fattore politico” legato all’esistenza di un nomen, di fonti ed organi regionali e di un popolo regionale che hanno contribuito al formarsi di una identità regionale inizialmente assente.
Ma, oltre a tali fattori, è dato rinvenire in questo processo anche un aspetto più propriamente “culturale”: quello relativo, appunto, alla tutela dei beni culturali.
In altre parole, e più in generale, è maturata nel corso del tempo la consapevolezza di come la disciplina dei beni culturali sia strumentale non soltanto allo sviluppo della cultura, come è ovvio, ma anche alla formazione di una identità. Quest’ultima diveniva, a sua volta, necessaria per corroborare l’idea di appartenenza ad un gruppo culturale e, quindi, per favorire in qualche modo la spontanea osservanza delle relative norme dei diversi ordinamenti, cioè l’effettività.
Una simile impostazione si riscontra nella nostra Costituzione, nell’articolo 9, comma 2, il quale lega la tutela del patrimonio storico artistico al concetto di Nazione. Viene cioè specificato il dovere di tutela da parte della Repubblica del patrimonio storico artistico, in quanto riferito alla Nazione.
Si tratta di un’impostazione che è possibile, poi, ritrovare anche nella giurisprudenza costituzionale, nonché nella normativa di attuazione della distribuzione di competenze tra Stato e Regioni.
È il caso di evidenziare, qui, un tratto peculiare degli interventi normativi in questa materia: ossia, tanto nel testo originario della Costituzione del 1948, quanto in quello risultato dalla revisione del 2001, i criteri utilizzati per ripartire le competenze tra Stato e Regioni in materia di beni culturali non si fondano sull’interesse “culturale” dello Stato; ciò significa che non si differenziano i beni in relazione all’interesse dell’ente territoriale. A livello costituzionale, non si distinguono, cioè, beni culturali statali e beni culturali regionali. Nelle disposizioni costituzionali del 1948, infatti, la ripartizione delle competenze legislative e di quelle amministrative veniva realizzata attraverso l’individuazione dei beni culturali soltanto in riferimento alla loro collocazione (ovvero al fatto che gli stessi fossero inseriti in collezioni, musei o biblioteche), nonché all’appartenenza del bene (attraverso la voce “musei e biblioteche di enti locali”, nella quale l’espressione “di enti locali” andava intesa - in un’ottica storico-normativa - come un richiamo all’ente cui il museo e la biblioteca appartenevano).
Tuttavia, bisogna constatare che nella giurisprudenza successiva, ed ancor prima nella normativa di attuazione – con particolare riferimento ai decreti di trasferimento delle funzioni amministrative – si è al contrario dato rilievo al fattore dell’interesse. In altri termini, nei decreti di cui si parla (in particolare nel d.P.R. n. 3 del 1972, ma senza escludere il d.P.R. n. 616 del 1977), la materia “musei e biblioteche di enti locali” è stata intesa con il significato “musei e biblioteche di interesse locale”. La giurisprudenza costituzionale, dal canto suo, ha tratto spunto da quanto disposto in tali decreti per operare una distinzione delle competenze in tema di beni culturali basata proprio sull’interesse, differenziando tra beni di interesse nazionale e beni di interesse regionale.
Tale indirizzo interpretativo si riscontra fino al 1998, quando il d.P.R. n. 112 introduce, con riguardo alle funzioni amministrative, un nuovo criterio discretivo, basato sul tipo di attività. In tale atto normativo si distingue, infatti, la tutela dalla valorizzazione e dalla gestione dei beni culturali, e le competenze vengono ripartite in relazione a queste tre attività. Siffatti criteri di distinzione hanno suscitato perplessità e critiche da una parte della dottrina che ha sottolineato come non fosse agevole pervenire ad una differenziazione certa tra i vari tipi di attività ed ha rimarcato le numerose sovrapposizioni ed interferenze cui dava luogo il ricorso a questa modalità di individuazione delle competenze.
Ciononostante, anche il revisore costituzionale del 2001 ha preferito impiegare i criteri fondati sulle attività, già utilizzati dal d.P.R. n. 112 del 1998. Sicché, nel nuovo art. 117  Cost. si trova riservata alla legislazione esclusiva dello Stato la competenza in ordine alla tutela dei beni culturali, mentre la valorizzazione degli stessi viene attribuita alla competenza concorrente.
Anche a livello costituzionale, si pone, pertanto, a questo punto, il problema riguardante l’interpretazione di queste materie.
A tale proposito, va rilevato anzitutto che la giurisprudenza costituzionale non ha inizialmente esplicitato le proprie tecniche di classificazione, poiché le prime sentenze si sono limitate ad individuare quasi apoditticamente e, comunque, caso per caso, a quali voci costituzionali le singole fattispecie oggetto del giudizio dovessero essere ascritte.
Successivamente, la Corte costituzionale ha avviato, invece, l’elaborazione di alcuni criteri, attraverso i quali individuare e differenziare i diversi ambiti materiali. Frutto di tale elaborazione sono le categorie delle “materie trasversali” e, con riferimento ai beni culturali, delle “materie-attività”.
Nelle prime la Corte riconosce allo Stato il potere di intervento in ogni ambito materiale: è quanto avviene, in particolare, nella tutela della concorrenza, nell’ordinamento penale, nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. E ritengo che si possa estendere lo stesso criterio anche con riferimento ai rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose.
Per i beni culturali invece, come si anticipava, il criterio utilizzato è diverso, dal momento che la Corte considera diversa la tipologia delle relative materie. La prima pronuncia che in proposito interviene è una sentenza del 2003, la n. 94, la quale stabilisce la direttrice seguita anche dalle successive decisioni n. 9 e n. 26 del 2004. Ebbene, in esse la Corte fa proprio il criterio interpretativo storico-normativo (la cui elaborazione, peraltro, in relazione alla precedente formulazione dell’art. 117, si deve al prof. D’Atena).
Il ragionamento seguito dalla Corte è il seguente: partendo dal presupposto che l’elenco costituzionale delle materie persegue una finalità di tipo garantistico, quest’ultima può essere soddisfatta soltanto se nell’interpretare le materie venga ad esse attribuito il significato che assumevano nella normativa precedente la revisione, vale a dire nella normativa vigente al momento in cui la riforma è stata elaborata. In quest’ordine di idee, la Corte riconosce espressamente che utili elementi per la distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali possono essere desunti dagli artt. 148, 149, 150 e 152 del d.P.R. n. 112 del 1998, ed in modo ancor più chiaro afferma che è individuabile una linea di continuità tra la legislazione degli anni 1997-1998, sul conferimento di funzioni alle autonomie substatali, e la legge costituzionale n. 3 del 2001. Nella sentenza n. 26 del 2004, si specifica, inoltre, in termini espliciti che le materie inerenti i beni culturali vanno qualificate come “materie- attività”.
Quanto appena detto lascerebbe pensare che la giurisprudenza costituzionale, una volta intervenuta la modifica degli elenchi costituzionali, abbia conseguentemente modificato anche i propri criteri di interpretazione delle materie; e quindi, per quel che concerne i beni culturali, che abbia abbandonato la distinzione della competenza relativa a tali beni in funzione dell’interesse.
Invece, secondo la Corte, l’utilizzazione del criterio storico-normativo consente di distinguere nuovamente la competenza sui beni in base all’interesse. Nella sentenza n. 94 del 2003 si afferma, infatti, che la materia “tutela dei beni culturali” deve essere, come detto, interpretata sulla base della legislazione vigente al momento della revisione, ossia sulla base del Testo unico dei beni culturali del 1999. Ebbene, continua la Corte, nella legislazione vigente, come pure nel Codice dei beni culturali del 2004 e nella “legge Bottai” del 1939, i beni culturali sono individuati sulla base di un provvedimento amministrativo, che ne riconosce l’interesse storico-artistico, provvedimento adottato dal Ministero per i Beni e le Attività culturali. Ne consegue, ad avviso della Corte, che soltanto i beni per i quali sia intervenuto tale provvedimento possano dirsi “culturali” in senso proprio; tutti gli altri beni, anche qualora presentassero profili di interesse culturale, non rientrano in quell’ambito materiale, ciò proprio sulla base del criterio storico-normativo. Seguendo siffatta impostazione, con la sentenza in esame, la Corte ha  ritenuto legittima una legge regionale del Lazio che ha sostanzialmente creato una nuova categoria di beni culturali, di interesse regionale: i locali storici del Lazio. La legittimità di tale legge, per il Giudice costituzionale, deriva proprio dal fatto che con essa non si individuerebbero beni culturali, difettando al riguardo il provvedimento ministeriale: pertanto la Regione è competente a disciplinarli. Si vede bene come in questo modo trovi ancora una volta spazio la demarcazione tra beni culturali di interesse nazionale e beni culturali di interesse regionale.
Quanto fin qui esposto vale per le funzioni legislative. Per quanto concerne le funzioni amministrative, la loro ripartizione, a mio modo di vedere, è attualmente, in linea generale, pressoché decostituzionalizzata. Da un lato, si abbandona la distribuzione delle materie attraverso la tecnica dell’elencazione delle materie; dall’altro, non trova più riconoscimento il principio del “parallelismo delle funzioni legislative ed amministrative”, accolto invece nella Costituzione del 1948. Il vigente art. 118 Cost. determina esclusivamente i principi che debbono guidare il legislatore statale e quello regionale nell’allocazione delle funzioni, ma non fissa direttamente la titolarità della competenza.
Tuttavia, per quanto concerne l’amministrazione delle attività riguardanti i beni culturali, il testo costituzionale stabilisce qualcosa di più, disponendo al terzo comma dell’art. 118 che la legge statale deve disciplinare forme di intesa e coordinamento fra Stato e Regioni nella materia della tutela dei beni culturali. Questa previsione si giustifica per le difficoltà interpretative connesse alla distinzione tra la tutela e la valorizzazione, che come ricordato, è utilizzata per la ripartizione di competenze già nel d.P.R. n. 112 del 1998 ed è stata ripresa, con riferimento alle funzioni legislative, nel nuovo art. 117 Cost., nonché nel Codice dei beni culturali del 2004.
Tali difficoltà hanno imposto – o quanto meno sollecitato – l’introduzione di una norma finalizzata a realizzare un coordinamento attraverso la collaborazione tra Stato e Regioni. Ad ogni modo, la tutela dei beni culturali è una di quelle poche materie in cui la Costituzione ora prevede, con riferimento alle funzioni amministrative, forme di coordinamento e di intesa. Da questo punto di vista, inoltre, è di sicuro rilievo il richiamo alle intese, poiché quando esse sono nominate da disposizioni costituzionali, secondo quanto affermato dalla Corte a partire dalla sent. n. 408 del 1998, debbono essere necessariamente considerate “intese forti”: il loro mancato raggiungimento, cioè, impedisce allo Stato di adottare unilateralmente l’atto amministrativo.
 
Passando ad un ulteriore profilo, quanto ho finora detto in merito ai rapporti tra Stato e Regioni trova una qualche corrispondenza anche nelle relazioni tra Stato ed Unione Europea.
Con riferimento al diritto europeo va sottolineato, anzitutto, l’iniziale mancanza dei presupposti normativi per interventi in materia di beni culturali da parte dell’ordinamento comunitario. È fin troppo noto come quest’ultimo, nella sua origine, si ponesse come fenomeno indirizzato a realizzare un’integrazione di mercato, dal cui ambito veniva quindi esclusa la tutela dei beni culturali. Difatti, tuttora l’art. 30 del TCE pone una norma alla stregua della quale rimangono impregiudicati i limiti alla circolazione per la tutela dei patrimoni storico-artistici nazionali. E nella stessa direzione si muove l’art. 87, con riferimento agli aiuti di Stato.
Inoltre, va pure rammentato che le Istituzioni europee sostanzialmente non esercitano funzioni amministrative, salvo che in casi molto particolari e certamente non per quanto concerne i beni culturali. Di conseguenza, da questo punto di vista, un problema di ripartizione delle competenze, in senso proprio, non si pone e comunque, ove si ponga, andrebbe risolto a favore dello Stato membro.
Rispetto alla situazione iniziale, tuttavia, sono intervenuti due fattori di cambiamento. Il primo è dato dalla nascita dell’Unione Europea, e dunque dall’estensione dell’integrazione cui si aggiunge la consapevolezza della rilevanza della materia culturale per la formazione di un’identità europea in senso forte. Il secondo fattore è, ancora una volta, l’emersione della distinzione tra tutela e valorizzazione, ma potrebbe dirsi più precisamente tra conservazione e valorizzazione. Si vuole intendere che l’ordinamento europeo nasce e si legittima anche grazie all’assunzione di un indirizzo, di matrice liberale, tendente al rafforzamento anche dei diritti individuali. Ebbene, la conservazione dei beni culturali si muove, invece, in direzione opposta, cioè tende a limitare il diritto di proprietà. Nel momento in cui accanto alla conservazione viene enucleata una possibile diversa attività, per l’appunto quella di valorizzazione (la quale non produce più un effetto limitativo dei diritti individuali), emerge un interesse dell’ordinamento europeo. La valorizzazione, cioè, diversamente dalla conservazione, non ha carattere limitativo della proprietà privata e, dunque, si concilia con lo spirito liberistico dell’Unione europea.
Sulla base di queste considerazioni, si comprende perché nel Trattato di Maastricht venga inserito un nuovo Titolo, dedicato alla cultura, in cui si riviene, anzitutto, una qualificazione in termini di interesse (in relazione, cioè, ai beni culturali di interesse europeo). Inoltre, si stabilisce che l’Unione contribuisce allo sviluppo della cultura e favorisce la cooperazione per la tutela dei beni culturali: anche in tale ambito, pertanto, trova spazio il principio collaborativo, in modo non troppo diverso da quanto previsto dalla Costituzione italiana con riguardo ai rapporti tra Stato e Regioni. Mi limito, infine, a ricordare che, sempre nello stesso arco temporale in cui si colloca il Trattato di Maastricht, intervengono altri due atti comunitari (il Regolamento n. 3911 del 1992 e la Direttiva n. 7 del 1993) che riguardano il commercio dei beni culturali. Si tratta di atti che tuttavia non sono conseguenza applicativa di quanto previsto nel citato Titolo del Trattato di Maastricht, derivando piuttosto dall’uso dei cosiddetti poteri impliciti dell’Unione.
 
Da ultimo e sempre sotto il profilo intersoggettivo delle norme sulle competenze, non possono dimenticarsi i rapporti, in tema di beni culturali, tra Stato e confessioni religiose e, specificamente, tra Stato e Chiesa cattolica. Anche a questo proposito possono rilevarsi dei tratti comuni con la distribuzione delle competenze tra lo Stato e le Regioni.
Va sottolineato, in primo luogo, che il panorama normativo presenta caratteristiche del tutto peculiari con riguardo all’ordinamento della Chiesa cattolica, nel senso che essa può vantare la tradizione forse più risalente in materia di tutela dei beni culturali. È ben conosciuta l’esistenza di atti che già nel XV secolo disciplinavano quest’ambito, fino ad arrivare al notissimo Editto del Cardinale Pacca, del 1820, attraverso il quale si introduce la prima disciplina organica dei beni culturali. Disciplina che, come è noto, ha ispirato anche la successiva legislazione italiana.
Peraltro, dal Concordato tra lo Stato italiano e la Santa sede del 1929 non emerge il profilo della possibile sovrapposizione tra le competenze statali e quelle della Chiesa in tema di beni culturali. Profilo che, invece, si manifesta nella modifica al Concordato del 1984, ove si introduce espressamente, ancora una volta, il principio di collaborazione. Si tratta di un principio, come ha già rilevato il prof. Mirabelli, soltanto accennato, il quale tuttavia ha poi trovato sviluppo in una serie di intese successive. Mi limito in questa sede a citarne due, precisando che non sono le uniche e che alcune sono state concluse anche a livello locale. La prima, del 1996, è stata resa esecutiva nel nostro ordinamento con il d.P.R. n. 571 dello stesso anno; la seconda è recentissima, dell’inizio del 2005, ed è stata resa esecutiva subito dopo con il d.P.R. n. 78. In quest’ultima intesa si possono rinvenire, pur in mancanza di un’espressa qualificazione, alcuni istituti tipici della valorizzazione dei beni culturali.
 
Per tirare le fila e chiudere questo mio intervento, ritengo di poter rimarcare tre rilievi.
Anzitutto, la ripartizione di competenza appare necessariamente, direi quasi ontologicamente, collegata ad un interesse particolare e qualificato nei riguardi del bene. E si tratta di un interesse – va sottolineato – che non è meramente culturale, ma concorre alla formazione di una identità.
In secondo luogo, bisogna considerare che il bene culturale presenta una pluralità di interessi, che, come accennato, sono tanto universali (come strutturalmente può qualificarsi l’interesse culturale), quanto localizzati (in quanto contribuiscono, appunto, alla creazione delle identità). Una siffatta situazione impone, dunque, l’affermazione e l’attuazione del principio di collaborazione tra i vari ambiti, livelli ed enti.
Infine, la collaborazione e l’integrazione tra i diversi ordinamenti e soggetti è stata storicamente favorita, e lo è ovviamente tuttora, dalla differenziazione delle attività che possono avere ad oggetto i beni culturali, in particolare dalla differenziazione tra la tutela e la valorizzazione.

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