Stelio MANGIAMELI, La nuova parabola del regionalismo italiano: tra crisi istituzionale e necessità di riforme (ottobre 2012)
La nuova parabola del regionalismo italiano: tra crisi istituzionale e necessità di riforme
«L’unità d'Italia è stata e sarà - ne ho fede invitta - la nostra redenzione morale. Ma è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, il 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali»
Giustino Fortunato, 2 settembre 1899, lettera a Pasquale Villari
«L’unità italiana non esiste, salvo in letteratura e nella poesia»
Giuseppe Ferrari, La révolution et les réformes en Italie, Gennaio 1848
Sommario:
La situazione presente, se non un pantano, è certamente un guado profondo e la questione che emerge è sempre la stessa: è possibile nel contesto presente e dinanzi alla crisi pensare che sia ragionevole svilire ulteriormente il regionalismo italiano e il ruolo delle autonomie?
La domanda, com’è facile intuire, ha il suo fondamento nella lunga serie di atti normativi, perlopiù decreti legge, che nel corso della crisi sono stati adottati e che contengono disposizioni di carattere istituzionale, oltre a misure di tipo finanziario. Dal punto di vista costituzionale il regionalismo, quale principio organizzativo della Repubblica, è ineliminabile, tranne che non si pensi a una riforma costituzionale che modifichi radicalmente la forma di stato.
Ci si dovrebbe aspettare, perciò, da parte del parlamento e del governo una legislazione di attuazione del Titolo V in grado di mettere a punto le disposizioni sul riparto delle competenze legislative, di riordinare le funzioni amministrative, di assicurare la diretta responsabilità finanziaria dei diversi livelli di governo. Il tutto in modo che il regionalismo costituisca una risposta efficace anche rispetto alla crisi.
Se si riflette attentamente questo è, mutatis mutandi, lo stesso problema innanzi al quale si trovò il federalismo statunitense allorquando dovette affrontare la grande depressione del 1929. Ma su questo torneremo più avanti.
Il rilievo da cui prende le mosse questa riflessione è che sono trascorsi oltre 10 anni dalla revisione costituzionale del Titolo V e i governi che si sono succeduti, di centro-destra e di centro-sinistra, si sono dimostrati incapaci di attuare la riforma del regionalismo e la promozione delle autonomie come pure l’art. 5 della Costituzione richiederebbe e che, oggidì, sembra difficile trattare la condizione del regionalismo italiano, segnata dal ristagno della situazione istituzionale, per via della presenza di un governo sostenuto da una maggioranza frutto di mediazioni parlamentari e non del voto degli elettori, oltre che ispirato dalla peculiare condizione della finanza pubblica italiana, rispetto ai vincoli europei e, soprattutto, dai picchi dello spread dei titoli di Stato nel corso della crisi economica.
Chi volesse descrivere in modo obiettivo il regionalismo italiano oggi, dovrebbe riscontrare, innanzi tutto, una situazione di ambiguità politica. Le regioni, magari non pubblicamente, vengono accusate di essere origine e causa delle difficoltà di governo, da parte della classe politica nazionale. Alle regioni i media imputano pubblicamente di aggravare la situazione della finanza pubblica.
Eppure, nonostante la contestazione sia così forte, come nel 1992, quando si arrivò ad ipotizzare persino una soppressione dell’istituto, si avverte che con la riforma del Titolo V, operata tra il 1999 e il 2001, appare pressoché impossibile pensare a una soppressione delle regioni, perché altrimenti il tema sarebbe incautamente posto all’ordine del giorno del dibattito politico.
Questo stato di cose che possiamo definire di stagnazione istituzionale sta determinando una disfunzione del sistema repubblicano: le regioni e le autonomie locali sono in una condizione di contestazione che sta toccando in particolare la provincia, quale ente di area vasta, e cagionano una certa ripulsione della politica da parte dei cittadini.
Che cosa è accaduto? E, soprattutto, che cosa sta accadendo?
La risposta a questi interrogativi abbraccia integralmente la vita pubblica, e richiede, per ciò che attiene al regionalismo italiano, un chiarimento sulle vicende passate.
L’Assemblea Costituente, nel momento in cui si pose il problema dell’articolazione della Repubblica, affrontò in modo concreto il dibattito sulla regione che, dall’unità d’Italia in poi, aveva animato la vita politica e la letteratura giuridica, economica e sociologica. L’idea regionale, nel redigere il Titolo V, ebbe contro, ancora una volta, il mito dell’unità nazionale, mai realizzata in Italia proprio per le ragioni che militavano a favore dell’istituzione della regione, ovvero per le differenze territoriali, di natura linguistica, storica e sociale, che potevano convivere solo grazie a una forma che consentisse di farle convergere gradualmente in un assetto più omogeneo delle diverse parti del paese. Tuttavia, l’avversione verso l’istituto regionale, in nome del rischio che rappresentava per l’unità nazionale, registrò una più forte convinzione da parte della sinistra e, in particolare, del Partito Comunista che riteneva necessaria una maggiore centralizzazione per realizzare le riforme economico-sociali, rispetto alle quali la presenza della regione era vista come un impedimento.
A sostegno della regione si posero, in modo deciso, le posizioni a favore delle libertà locali, che subito dopo l’unità d’Italia avevano cercato di porre un argine al processo di piemontesizzazione dello stato unitario; in Assemblea il tema delle libertà locali, esteso alla regione, venne ripreso e si avvantaggiò anche delle mortificazioni subite dagli enti locali durante il fascismo. Le autonomie locali, infatti, portavano intrinseco il carattere democratico e potevano benissimo essere concepite in modo compatibile con l’unità d’Italia; pertanto, la regione avrebbe avuto il merito di rafforzare il sistema democratico, impedendo una concentrazione del potere politico nelle mani dello stato solamente, e avrebbe permesso a quest’ultimo di occuparsi effettivamente delle questioni nazionali.
Sul divario che si registrava all’interno dell’Assemblea Costituente, con riferimento all’introduzione della regione, esercitò una forte influenza – com’è facile intuire – anche la questione meridionale. Come noto, questa era stata messa a fuoco all’indomani dell’unità d’Italia, con l’inchiesta Sonnino - Franchetti (1876), e immediatamente il dibattito sul tema si accese in Italia, tra chi sosteneva che l’unità d’Italia avesse danneggiato le regioni meridionali (F.S. Nitti) e coloro che lo negavano (L. Einaudi), così come tra chi riteneva strettamente collegato il tema meridionale con quello regionale, credendo necessaria questa istituzione (N. Colajanni – G. Salvemini – L. Sturzo), e coloro che, invece, consideravano risolutivo per la questione meridionale un forte intervento dello stato centrale e della sua amministrazione, senza bisogno di creare altre frammentazioni amministrative (G. Fortunato – P. Villari).
In Assemblea Costituente la questione meridionale appariva come un problema non risolto dell’unità d’Italia e a essa era da collegare anche il dibattito per la riforma agraria, cui la maggioranza dei partiti del tempo già pensava e cui riconnetteva un effetto redistributivo che avrebbe potuto avviare a soluzione i problemi del meridione. Ancora una volta, sul punto si registrò la divisione tra chi vedeva la riforma collegata all’opera esclusiva dello stato (essenzialmente la sinistra, ma anche i liberali) e chi la riconduceva al decentramento delle funzioni con l’introduzione dell’istituto regionale (la Democrazia cristiana, ma anche gli azionisti e i repubblicani).
Alla luce di tutto ciò, perciò, la soluzione adottata nel Titolo V non poteva non essere che di compromesso tra le due anime: quella regionalista e quella unitarista; questa contrapposizione andò a detrimento del regionalismo accolto. Osserva Livio Paladin: “l’intero disegno risultante dal Titolo V della Costituzione rimane fortemente ambiguo e lacunoso”, e richiama il severo giudizio di Salvemini, per il quale la disciplina costituzionale sarebbe stata solo un “vaso vuoto con sopra la targhetta Regione”.
In realtà si tratta di giudizi troppo intransigenti. Infatti, se è vero che il compromesso avrebbe limitato la nitidezza, e soprattutto la forza, dell’idea regionale, esso ha rappresentato, dal punto di vista costituzionale, una sua affermazione e, per quanto ambiguo e lacunoso il Titolo V potesse essere, non era certamente un vaso vuoto, semmai un vaso in parte da riempire e mai colmato in modo adeguato.
Se si richiama brevemente il risultato cui si pervenne in Assemblea Costituente, tralasciando i difficili passaggi che animarono il dibattito, si può con nitidezza raccogliere un’immagine del regionalismo italiano che riarticola lo stato unitario ereditato dal risorgimento e dal fascismo.
Chiaro risulta il rifiuto dell’idea federale, atteso il carattere unitario e indivisibile della Repubblica; ma altrettanto netto si palesa il rifiuto del centralismo, con il principio del riconoscimento e della promozione delle autonomie locali e con il principio del decentramento, quali canoni di disciplina e di adeguamento dettati nei confronti dello Stato. La regione, in questa prospettiva, appare subito l’ente che avrebbe determinato il cambiamento più importante nella struttura dello stato; essa non era un mero ente di decentramento e di amministrazione (come ritenne a quel tempo Guido Zanobini), ma un ente dotato di potere legislativo e, perciò, espressione di un livello politico. L’adeguamento delle leggi della Repubblica “alla competenza legislativa attribuita alle Regioni” avrebbe dovuto comportare, perciò, non solo una regionalizzazione degli apparati amministrativi statali nelle materie dell’art. 117 Cost., ma soprattutto un diverso modo di legiferare dello stato.
Il vero limite del Titolo V non è dato dalle lacune riscontrabili sul versante della rappresentanza regionale nelle istituzioni nazionali e su quello dei raccordi tra stato e regioni e neppure sul ruolo da riconoscere alla regione nei confronti degli enti locali, problematiche che pure restano attuali, ma semmai dalla mancanza di meccanismi costitutivi delle regioni diretti e dal basso, e non rimessi integralmente al dispotismo della legge statale, come invece è accaduto. Risiede qui, peraltro, la differenza tra le regioni ordinarie e quelle speciali. Queste ultime, infatti, furono costituite e riconosciute, sia pure per ragioni storiche tra loro diverse, come entità originarie dell’ordinamento repubblicano e la loro affermazione soffrì delle vicende legate all’attuazione delle disposizioni del Titolo V riferite alle regioni ordinarie.
Le regioni ordinarie previste nel Titolo V, anche dopo la loro istituzione, perciò, furono sempre viste come una creazione artificiale e scarsamente vitale, nonostante le loro identità corrispondessero all’incirca alle c.d. “regioni storiche”. L’autonomia organizzativa delle regioni era sottoposta alla conformità alle leggi statali; l’autonomia legislativa era dipendente dai principi stabiliti con leggi statali; l’autonomia amministrativa, nonostante il c.d. principio del parallelismo con le materie della legislazione, poteva essere incisa dalla legge statale a favore degli enti locali, ed anche con eventuali deleghe di funzioni statali; e, infine, l’autonomia finanziaria regionale poteva essere modellata dal legislatore statale, prevedendo “forme” e “limiti” e il coordinamento con la finanza dello stato, delle provincie e dei comuni.
A ciò contribuì sensibilmente anche il clima politico degli anni ’70, ancora solidamente ancorato al ruolo degli apparati pubblici statali, ministeri ed enti pubblici, protesi alla protezione del mercato interno e dediti all’assistenzialismo; uno stato centralista che disegnò da subito un regionalismo debole nella legislazione, nell’amministrazione e nella sfera finanziaria: sia l’art. 17 della legge n. 281 del 1970, sia il trasferimento delle funzioni del 1972, e sia la coeva riforma tributaria, sono le testimonianze di quanto poco credito la classe politica nazionale diede alla creazione delle regioni. Anche i successivi interventi legislativi (la legge n. 382 del 1975 e il DPR n. 616 del 1977), nonostante le buone intenzioni che li ispiravano, non sortirono quell’effetto di riordino dell’ordinamento repubblicano e di attuazione dei principi costituzionali che pure apparivano nella loro chiarezza.
È difficile dire se fu più insipienza, o debolezza politica, fatto sta che di lì a poco si determinò la degenerazione del sistema regionale sotto i pesi del centralismo, puntualmente confermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale: decostituzionalizzazione delle materie enumerate, limite degli interessi, leggi cornice dettagliate, funzione di indirizzo e coordinamento, nessuna autonomia tributaria e trasferimenti vincolati sul versante della spesa. Questi i punti di arrivo del primo regionalismo.
Non è un caso che l’espressione più efficace, per descrivere questa esperienza, già alla fine degli anni ’80, sia stata quella che ha considerato l’attuazione concreta delle regioni come una realizzazione compiuta attraverso la “perversione del modello” costituzionale (D’Atena).
È da dire comunque che le ragioni del regionalismo avrebbero potuto avere un esito diverso. Infatti, sia pure in un quadro costituzionale che poteva apparire limitato, una coerente attuazione del Titolo V con i principi di autonomia e decentramento, avrebbe potuto comportare un regionalismo temperato, senza implicazioni ideologiche, ma efficace come principio organizzativo dello stato, distinguendo ciò che era di competenza locale, da ciò che doveva per necessità avere una disciplina nazionale.
Invece, la conclusione fu – come è stato detto anche da Ugo De Siervo – un “insopportabile degrado” del nostro regionalismo. Lo stato Moloc italiano, cresciuto a dismisura in enti e apparati, aveva disatteso l’art. 5 della Costituzione. Il principio di adeguamento, richiamato anche dalla IX disp. trans. e fin., ne usciva praticamente frustrato; e con esso l’aspirazione del Costituente di realizzare l’adeguamento dei principi e dei metodi delle leggi della Repubblica, alle esigenze delle autonomie e del decentramento e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni.
Ancora nel 1993 rimase lettera morta il risultato abrogativo del referendum sul Ministero dell’Agricoltura, voluto dalle regioni; e, visti gli sviluppi successivi, anche quello sul Ministero del Turismo e dello Spettacolo.
Da una autonomia regionale, nelle sue diverse componenti, ormai prostrata si ripartì, allorquando, dinnanzi alla crisi finanziaria susseguente al Trattato di Maastricht, con i criteri di convergenza e l’istituzione del sistema europeo delle banche centrali, il debito pubblico italiano mostrò la debolezza finanziaria dell’Italia e della sua competitività, in assenza di politiche basate sulla svalutazione monetaria.
Chi ipotizzò il rilancio della politica regionalista, e lo misurò per necessità con la condizione di crisi del paese, ritenne – non a torto – che le regioni avrebbero potuto rappresentare una svolta nell’assetto della Repubblica per affrontare i problemi dell’integrazione europea e del processo di internazionalizzazione dell’economia.
L’intuizione era certamente corretta, in quanto la crisi del 1992 – se si vuole, la prima del nuovo genere, anche se il profilo della globalizzazione risultava offuscato dalle tensioni europee verso la moneta unica – non poteva certamente essere affrontata chiudendo lo stato entro la sua sovranità e praticando politiche protezionistiche.
È stato perciò merito di Franco Bassanini, in qualità di Ministro della Repubblica, dopo il fallimento ripetuto dei tentativi di riforma costituzionale, la realizzazione di quello che sarebbe stato definito il “federalismo amministrativo” o a “Costituzione invariata”, ovvero di un trasferimento di compiti e funzioni in applicazione delle leggi n. 59 e 127 del 1997.
Si parlò, per questa esperienza di un “federalismo per abbandono” (Pitruzzella), per indicare una scelta da parte dello stato di riconoscere poteri e funzioni alle regioni solo per sgravare il bilancio statale da oneri finanziari che avrebbero ostacolato il raggiungimento dei criteri di convergenza.
Ma l’accusa coglieva nel segno solo sino ad un certo punto. Infatti, anche se tutta l’attività di governo dell’epoca era volta a far rientrare l’Italia tra i paesi europei che partecipavano sin dall’inizio alla moneta unica, per cui era necessario ricomporre il deficit del bilancio statale entro i limiti di Maastricht, la ragione profonda del rafforzamento del nostro regionalismo o della sua trasformazione in federalismo risiedeva nella circostanza che il nuovo assetto internazionale dell’economia, così come il processo di integrazione europeo, ponevano il problema di una ristrutturazione degli stati nazionali, ormai a sovranità aperta.
In un ordine economico internazionale caratterizzato dall’unificazione dei mercati finanziari e da un commercio estero decisivo per la valutazione delle politiche pubbliche degli stati, così come da forti processi di unificazione regionale, come l’Unione europea, gli stati nazionali assolvono funzioni diverse da quelle che li contraddistinguono in situazioni congiunturali nei quali il loro compito si limita alla protezione dei rispettivi mercati con misure di tipo autarchico e monetario.
È sin troppo evidente che anche la protezione degli “interessi nazionali”, come forma di protezione dei poteri centrali nei confronti delle regioni e delle autonomie locali, non ha più senso. In un sistema globalizzato ed europeizzato, gli interessi nazionali, infatti, vanno tutelati nei confronti degli altri interessi nazionali che si confrontano nelle sedi internazionali ed europee e in quelle sedi ai governi centrali spetta il compito di rappresentanza e di negoziazione degli interessi nazionali. Ciò implica che l’apertura delle sovranità e l’internazionalizzazione dell’economia richiedono uno stato organizzato diversamente dallo stato custode del proprio mercato.
Gioco forza, se il ruolo dello stato nell’attuale fase storica risiede fondamentalmente nella funzione di rappresentanza e negoziazione degli interessi nazionali nelle sedi internazionali ed europee, la funzione del governo nella politica interna si riduce sensibilmente a poche e limitate politiche pubbliche, essenzialmente di perequazione territoriale e di sostituzione dei governi locali nel caso di atti o inadempimenti che possano ridondare in forme di minaccia per l’unità nazionale o pregiudicare la posizione internazionale dello stato.
Risulta, allora, evidente che la domanda politica dei cittadini, in termini di servizi e politiche pubbliche legate al territorio, avrebbe dovuto trovare un interlocutore diverso dal governo centrale, più attento alle questioni interne e più prossimo ai loro bisogni. Di qui, perciò, un processo di rivalorizzazione delle regioni e delle autonomie locali, niente affatto strumentale, ma per affrontare in modo più adeguato la fase storica dell’europeizzazione e della globalizzazione.
Non è un caso che in questo processo non si colloca solo l’Italia, ma tutti i paesi europei compresi quelli più tradizionalmente unitaristi come la Gran Bretagna, che nel 1997 ha avviato con successo il secondo processo di Devolution, e la Francia, che nel 2003 ha realizzato una compiuta costituzionalizzazione della regione, auspicata già agli inizi degli anni ’60 dal Presidente De Gaulle.
Ma anche paesi europei di tradizione federale e autonomistica come la Germania e la Spagna conoscono nello stesso arco di tempo processi di revisione costituzionale e di organizzazione del loro decentramento interno. La prima già con le modifiche costituzionali (1994), dovute alla riunificazione tedesca, e successivamente con la riforma costituzionale delle competenze del 2006 e quella della finanza del 2009. La seconda con la riscrittura degli statuti di autonomia, attraverso i quali si determinano gli assetti concreti delle competenze regionali in quell’ordinamento.
La portata della revisione costituzionale operata dalle leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001 è stata alquanto controversa. Ha rappresentato un’acquisizione nel linguaggio politico del preteso federalismo che questa riforma avrebbe introdotto e del quale correntemente si è discusso anche in ambito giornalistico.
In realtà, in sede di revisione costituzionale, nonostante i tentativi di modifica dell’articolo 1 della Costituzione, con l’inserimento dell’aggettivo “federale”, e della rubrica del Titolo V, con la dicitura: “L’Ordinamento federale della Repubblica” [1], non è stata introdotta alcuna espressione linguistica che possa far intravedere l’idea di una trasformazione, sia pure iniziale, dell’ordinamento repubblicano verso il federalismo [2].
Il principio fondamentale, nell’ambito dell’organizzazione territoriale, resta quello fissato dall’art. 5 Cost. e cioè il principio di unità e indivisibilità della Repubblica, per il quale uno è il popolo titolare del potere politico di legittimazione e unica è la sovranità che fonda lo Stato (rectius: la Repubblica) e questo principio di unità è originario e non il frutto di un processo di unificazione progressiva come quello che si realizza negli stati federali [3].
Inoltre, pur tra le rilevanti modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, non sussisterebbe una piena equiparazione tra i diversi soggetti istituzionali che compongono l’ordinamento repubblicano, «così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali». Infatti, l’art. 114 Cost. non comporterebbe «affatto una totale equiparazione fra gli enti in esso indicati, che dispongono di poteri profondamente diversi tra loro» e «nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato (sarebbe) pur sempre riservata, nell’ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all’art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un’istanza unitaria», la quale «postula necessariamente che nel sistema esista un soggetto – lo Stato, appunto – avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento» [4].
Come si vede la classe politica italiana, sia di estrazione statale e sia di provenienza regionale, di fronte alla crisi, reagì con un fervore federalista; ve ne è ancora traccia nella legge n. 42 del 2009, che reca nel titolo: “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”.
La Corte costituzionale, come si è visto, si è incaricata di contraddire ogni tentativo di legare la riforma costituzionale a teorie dello stato federale determinate da considerazioni storico-politiche; così che può dirsi che il regionalismo italiano, anche dopo l’ampia revisione del Titolo V, che ha toccato ben 18 articoli su 20 che lo compongono, rappresentava non un problema di metafisica dello stato, ma realisticamente – come riteneva Kelsen, parlando del federalismo austriaco – la scelta a favore di un particolare principio organizzativo che avrebbe dovuto modellare la Repubblica.
A oltre 10 anni dalle leggi costituzionali del 1999 e del 2001, può dirsi che, anziché l’enfasi federale, sarebbe stata sufficiente dal punto di vista politico una seria volontà di attuazione delle nuove disposizioni costituzionali; invece, con l’approvazione della riforma, il riflusso fu immediato e progressivo.
La classe politica centrale, superata la preoccupazione di rimanere fuori dall’euro, per la quale aveva accettato la riforma delle funzioni amministrative, considerò immediatamente con apprensione le nuove norme costituzionali. Queste, infatti, avevano sanzionato mutamenti significativi del regionalismo italiano, nella logica di una compiuta trasformazione della Repubblica.
Non è un caso che in quasi tutte le norme del Titolo V è rintracciabile un significato costituzionale preciso che dà un senso univoco all’intero sistema: reazione ai modelli interpretativi adottati nel corso del primo regionalismo, con attuazione più piena dei principi di autonomia e decentramento di cui all’articolo 5 della Costituzione.
In questa logica, basti pensare all’esclusione di ogni riferimento agli interessi nazionali, che corrisponde ovviamente non alla loro scomparsa, ma appunto ad una loro diversa collocazione, rispetto alle relazioni stato - regioni; all’estensione alle regioni speciali della maggiore autonomia legislativa della quale dovrebbero essere dotate le regioni ordinarie a seguito del cambiamento costituzionale (art. 10, l.c. n. 3 del 2001); alla possibilità di forme e condizioni particolari di autonomia anche per le regioni ordinarie, singolarmente considerate (art. 116, comma 3, Cost.); e, infine, alla previsione, “sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione”, di una particolare forma di partecipazione al procedimento legislativo statale da parte dei rappresentanti delle regioni e degli locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali (art. 11, l.c. n. 3 del 2001).
Si può richiamare anche la diversa formulazione della disciplina statutaria, che rende le regioni in grado di sviluppare la propria forma di governo secondo un vero e proprio principio di autonomia. Si noti ancora la diversa formulazione della competenza concorrente, in aperta polemica con le vicende del primo regionalismo, e la previsione di una forte competenza esclusiva, sin lì inedita.
Sul piano amministrativo la riforma, inoltre, prevedeva un ruolo sostanzialmente paritario delle regioni con lo stato rispetto agli enti locali, con la eccezione delle competenze della lettera p del comma 2 dell’art. 117 Cost.
Infine, dal punto di vista della finanza pubblica, si consideri la competenza attribuita alle regioni, sia pure a titolo concorrente, in materia di “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, almeno sino alla revisione della legge costituzionale n. 1 del 2012.
Il quadro costituzionale, sinteticamente richiamato, costituiva una diversa affermazione dei principi dell’art. 5 Cost., essenzialmente basato sulla definizione dei compiti delle regioni e degli enti locali; con un peculiare ruolo delle autonomie, che le considera tra i soggetti costitutivi della Repubblica (art. 114, comma 1, Cost.) e con una parità di vincoli per il legislatore statale e per quello regionale (art. 117, comma 1, Cost.).
Dalla riforma emergeva con forza un ordinamento organizzato intorno al canone della “competenza”, piuttosto che della “supremazia”, e orientato alla differenziazione con margini consistenti per l’uniformità, al fine di assicurare l’omogeneità delle condizioni di vita di tutto il Paese. Infatti, allo stato sarebbe spettato determinare i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (lettera m); inoltre, in situazioni particolari di crisi istituzionale, non si sarebbe potuto negare un intervento risolutore dello stesso, sia avvalendosi di particolari strumenti, come nel caso della destinazione di “risorse aggiuntive” a favore di determinati enti territoriali, oppure di “interventi speciali” dello stato medesimo (art. 119, comma 5, Cost.), sia adoperando con adeguatezza i poteri sostitutivi nei confronti di organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni, di cui il nuovo Titolo V dotava il governo della Repubblica (art. 120, comma 2, Cost.).
Anche in questa vicenda istituzionale, così come nei confronti del testo varato dall’Assemblea costituente, non sono mancate forti critiche all’operato del legislatore di revisione costituzionale, e così sono state denunciate aporie e limiti delle nuove formulazioni costituzionali.
Sta di fatto che, nonostante le eventuali manchevolezze rilevate, le innovazioni apportate al Titolo V avrebbero permesso di allineare l’assetto della Repubblica alle esigenze derivate dalla situazione internazionale ed europea.
La revisione del Titolo V, avvenuta alla fine della XIII legislatura e promulgata quando già si erano tenute le elezioni politiche e una nuova maggioranza si era formata, avrebbe dovuto comportare, più di quanto non era accaduto nel 1970, in occasione del varo del regionalismo ordinario italiano, una messa in discussione dell’assetto dei poteri dello stato e dell’organizzazione della amministrazione pubblica statale, per rendere pienamente efficaci le nuove disposizioni introdotte.
Invece, nel corso della XIV legislatura non si concluderà pressoché nulla e l’attuazione costituzionale segnerà il passo in modo considerevole. La ragione di ciò risiede essenzialmente nella posizione della maggioranza e del governo del tempo, che espressero con chiarezza una distanza politica dalla revisione costituzionale del 2001. Così, dopo l’approvazione della legge n. 131 del 2003, per il vero poco efficace in termini di attuazione del dettato costituzionale, la maggioranza parlamentare si dedicò ad una riforma costituzionale più estesa che praticamente impegnò l’intera legislatura, trascurando di adottare ulteriori atti d’attuazione del regionalismo; in particolare, con riferimento all’art. 119 Cost, relativo all’autonomia finanziaria o, secondo una terminologia ormai invalsa, al c.d. “federalismo fiscale”. Peraltro, l’esito finale di questo sforzo riformatore, anche per la sua modesta qualità dei contenuti, fallì, in quanto la revisione costituzionale della parte seconda della Carta, votata in Parlamento, non trovò conferma nel referendum costituzionale che si tenne il 25 e il 26 giugno del 2006.
La logica conseguenza di questa vicenda fu una stasi di fatto da parte del legislatore statale, che privò il regionalismo italiano di una realizzazione concreta, e l’abbandono dello stesso alle miopi visioni dell’apparato burocratico statale, che sarà la causa effettiva dell’incremento del contenzioso innanzi alla Corte costituzionale.
Non serve recriminare sulla conflittualità costituzionale tra lo stato e le regioni. Infatti, la sua crescita è stata conseguenza diretta dell’inversione dei ruoli tra il legislatore statale e la Corte costituzionale, in quanto il primo, resistendo all’applicazione delle nuove disposizioni costituzionali, ha di fatto demandato al giudice costituzionale il compito di attuare in forma giudiziale il nuovo Titolo V.
La Corte, d’altra parte, non si è limitata a dare concretezza alle disposizioni costituzionali, come pure poteva attendersi da un simile consesso, realizzando così il senso della riforma, ma, di fronte alle regioni che chiedevano l’applicazione delle nuove disposizioni del Titolo V, ha proceduto attraverso una evidente manipolazione del riparto costituzionale delle competenze che ha di fatto riproposto nel nuovo regionalismo tutti i limiti di ordine giuridico che la giurisprudenza costituzionale aveva costruito nel primo regionalismo.
Allorquando il legislatore statale licenzierà la legge n. 131 del 2003, contenente “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”, con la quale sarà messo in atto il tentativo di bloccare e limitare la competenza concorrente delle regioni, attraverso l’ipotesi tecnicamente poco convincente della ricognizione dei principi fondamentali, la Corte, con la sentenza n. 282 del 2002, aveva già affermato che “la legislazione regionale concorrente (dovesse) svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore”, rendendo inutile ogni eventuale ricognizione degli stessi.
Subito dopo, la sentenza n. 303 del 2003 darà vita alla c.d. “chiamata in sussidiarietà”, quale strumento volto a rendere più flessibile il disegno costituzionale delle competenze “che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia articolazione delle competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principî giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica”. La chiamata in sussidiarietà, peraltro, avrà un effetto dirompente non solo per la legislazione, ma anche per il riordino delle funzioni ammnistrative che, di fatto, diventa impossibile; tant’è che per ben tre legislature i governi che si sono succeduti non sono stati in grado di definire meccanismi istituzionali adeguati per la determinazione delle funzioni fondamentali di comuni e province e per attribuire tutte le funzioni inerenti alle materie dei commi 3 e 4 dell’art. 117 Cost.
Infine, con la sentenza n. 370 del 2003, il giudice costituzionale depotenzierà la competenza esclusiva delle regioni (“In via generale, occorre inoltre affermare l'impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all'ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni ai sensi del comma quarto del medesimo art. 117, per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell'art. 117 della Costituzione”), senza considerazione alcuna della circostanza per cui proprio la polemica con l’esperienza del primo regionalismo aveva portato ad una scrittura del comma 4 dell’art. 117 Cost., attraverso l’inserimento delle parole: “non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”, tale da escludere persino ogni ipotesi di poteri impliciti statali.
Già alla fine del 2003, perciò, diventa impossibile leggere i commi 2, 3 e 4, dell’art. 117 Cost., così come scritti, e il riparto della legislazione diventa, per ampi settori, indeterminato e subordinato alla volontà del solo legislatore statale e alla discrezionalità del giudice delle leggi, così come era già accaduto nel primo regionalismo, con la decostituzionalizzazione delle materie e l’uso giurisprudenziale del limite degli interessi nazionali.
Accanto a questo déjà vu,che la chiamata in sussidiarietà evoca, si pongono in una logica unidirezionale, a favore dello stato e in modo da limitare qualsivoglia pretesa avanzata dalle regioni, sia il criterio di prevalenza, sia il carattere trasversale di alcune materie di competenza statale (ambiente, concorrenza, ordinamento civile, ecc.), sottraendosi così ulteriori fattispecie alle materie di competenza regionale.
Ma non è tutto. Anche l’autonomia organizzativa, che con il nuovo art. 123 Cost., avrebbe dovuto realizzare una forma vera di autogoverno, ha subito un forte ridimensionamento.
La nuova formulazione del citato articolo della Costituzione rimetteva in via esclusiva alla regione la determinazione della forma di governo e dei principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. La dottrina ha a lungo discusso se in tema di forma di governo le regioni avrebbero potuto sperimentare tutte le varianti conosciute o soltanto alcune, come quella del presidente direttamente eletto, oppure quella classica parlamentare, con forme ulteriori di diversificazioni, come quella assembleare o quella con il meccanismo della sfiducia costruttiva. In ogni caso, per quante limitazioni potessero ammettersi, la decisione sul punto sarebbe stata rimessa in esclusiva alle regioni e, in particolare, ai consigli chiamati a deliberare lo statuto, i quali si sarebbero accontentati di ridurre la portata arbitraria della formula simul stabunt, simul cadent, soprattutto nei casi di morte, dimissioni volontarie, impedimento permanente o rimozione del presidente della giunta, per i quali trovavano ingiusto il meccanismo sanzionatorio dello scioglimento contestuale del consiglio.
La Corte costituzionale in occasione della sentenza (n. 2 del 2004) sullo statuto della regione Calabria, che proponeva la figura del presidente indicato, anziché direttamente eletto, ridusse la discrezionalità della regione in materia di forma di governo, affermando che la “possibilità di optare per uno dei tanti possibili modelli diversi di forme di governo regionali non fondate sull’elezione diretta del Presidente della Giunta (troverebbe) un limite del tutto evidente nella volontà del legislatore di revisione costituzionale di prevedere ipotesi di elezione diretta nel solo caso del Presidente della Giunta”.
La preferenza della Corte costituzionale, per una delle opzioni costituzionali possibili per il legislatore statutario regionale, si salda, poi, con una ulteriore previsione di limiti rispetto a quanto previsto dall’art. 123 Cost.; già con la sentenza n. 304 del 2002 il giudice costituzionale, estendendo il limite dell’«armonia con la Costituzione», aveva detto che questa “rinsalda l’esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione, poiché mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito”. Con la sentenza n. 12 del 2006, sullo statuto della regione Abruzzo, la Corte definisce l’armonia con la Costituzione in modo ancora più ampio ricomprendendo “nel sistema costituzionale complessivo”, non solo i “principî contenuti nelle singole norme della Carta fondamentale”, ma anche le “leggi ordinarie di diretta attuazione”, che rappresenterebbero “pertanto il contesto, all'interno del quale si deve procedere alla lettura ed all'interpretazione delle norme statutarie, che in quel sistema vivono ed operano”. In questo modo, la Corte interpreta la nuova disposizione dell’art. 123 Cost. come se non fosse stata modificata, e cioè facendo riferimento, insieme al limite dell’armonia con la Costituzione, a quello delle “leggi della Repubblica”.
Infine, una vicenda alquanto singolare è quella dell’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, la cui mancata attuazione ha messo in difficoltà persino la stessa Corte costituzionale la quale a più riprese, a partire dalla sentenza n. 6 del 2004, ha avuto modo di rilevare la “perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione)”.
Mancata attuazione dei disposti costituzionali e mancate riforme costituzionali di adeguamento della forma di stato ai principi del regionalismo, come nel caso della richiesta riforma del Senato, hanno contraddistinto questo decennio che ci separa dall’approvazione della legge n. 3 del 2001; ed ora, che siamo quasi alla fine della XVI Legislatura, ci ritroviamo con una situazione costituzionale alquanto problematica, in cui la contestazione verso il regionalismo è latente e senza una indicazione istituzionale risolutiva. Il tutto nel momento in cui è necessario anche rispondere concretamente ai colpi che la crisi economico-finanziaria sta infliggendo al Paese e dare risposte soddisfacenti ai mercati e all’Europa.
La situazione, come si è osservato in premessa, si presenta in maniera estremamente critica e, pur nella sua problematicità, continua a porre la “questione regionale” come nodo del riordino organizzativo della Repubblica. In modo ragionevole si deve ritenere che la scelta da compiere tra la continua svalutazione delle disposizioni costituzionali del Titolo V e la realizzazione compiuta del regionalismo dovrebbe essere a favore della seconda, piuttosto che della prima.
Tuttavia, nonostante la ragionevolezza della prospettiva regionale, che servirebbe a evitare i guasti della centralizzazione delle funzioni pubbliche e ad assicurare l’articolazione dei poteri sulla base della prossimità e della sussidiarietà, sinora i parlamenti e i governi che si sono succeduti hanno disatteso l’attuazione delle disposizioni del Titolo V.
Anche gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale hanno contribuito a mantenere questa situazione di disagio istituzionale. Né può considerarsi sufficiente il solo principio di leale collaborazione – unico rimedio proposto dal giudice costituzionale – a risolvere i problemi di attuazione delle disposizioni sul riparo delle competenze e sul riordino delle funzioni amministrative; anzi, questo ha reso uniforme la legislazione per opera del legislatore statale e ha disarticolato il riparto costituzionale delle competenze, cercando di impedire in ogni modo lo sviluppo della differenziazione regionale.
Eppure tutti gli elementi, per compiere analisi corrette e individuare possibili soluzioni ai problemi posti, sembrano essere a portata di mano.
Prima di giungere a formulare una sintesi in questa direzione, occorre ancora esaminare due aspetti: le incertezze della forma di stato, soprattutto dinanzi alla realizzazione del federalismo fiscale e al contenimento della spesa pubblica, e la condizione reale delle regioni italiane.
È noto che una congiuntura di crisi, determinando una contrazione delle risorse pubbliche disponibili, richiede una più puntuale gestione della spesa pubblica. Ciò determina, quasi naturalmente, una maggiore centralizzazione del potere di public spending. Nel caso italiano, perciò, l’idea di avviare un processo di realizzazione del federalismo fiscale proprio nel momento in cui la crisi finanziaria stava diventando sociale è parsa a non pochi commentatori una vera e propria curiosità.
Non è che fossero mancati richiami anche autorevoli alla necessità di attuazione dell’art. 119 Cost. Anzi, la stessa Corte costituzionale aveva da qualche tempo avvertito che “la attuazione dell’art. 119 Cost. (era) urgente al fine di concretizzare davvero quanto previsto nel nuovo Titolo V della Costituzione, poiché altrimenti si verrebbe a contraddire il diverso riparto di competenze configurato dalle nuove disposizioni; inoltre, la permanenza o addirittura la istituzione di forme di finanziamento delle Regioni e degli enti locali contraddittorie con l’art. 119 della Costituzione (avrebbe esposto) a rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di interi ambiti settoriali”.
La difficoltà di dialogo all’interno della composita maggioranza che ha caratterizzato la XV Legislatura impedì di dare un’adeguata prospettiva al tema del federalismo fiscale. Così, con la prematura fine della legislatura medesima, la questione del federalismo fiscale diventò un tema della campagna elettorale del 2008, agitato da entrambi gli schieramenti politici concorrenti.
La scrittura di una legge sul federalismo fiscale fu assunta così come un impegno politico, quale che fosse stata la coalizione che avesse vinto le elezioni; da rispettare, a prescindere dallo stato della congiuntura economica. Toccò al governo di centro-destra – com’è noto – proporre il disegno di legge sul federalismo fiscale, ma la condivisione del tema fu tale che per la prima volta in Parlamento si realizzò una convergenza di entrambi i poli con un’approvazione quasi unanime della legge n. 42 del 2009.
Questa legge, pur così bene accolta politicamente, inutile dirlo, presenta forti limiti dovuti essenzialmente agli effetti che la crisi economica stava già producendo in termini anche di legislazione di emergenza. Essa è, in primo luogo, una legge di delega senza effetti diretti sulla finanza pubblica; perciò, la sua approvazione, al momento, non causava nessun cambiamento e, di qui, la sua sopportabilità nella situazione di crisi.
Tuttavia, la legge sul federalismo fiscale ha sortito anche un altro effetto, quello di mantenere in una condizione di sospensione l’attuazione ordinata del Titolo V. Infatti, per un verso, l’attenzione del Parlamento e del Governo, per ben due anni (2010-2011), si è concentrata sulla scrittura dei decreti legislativi di cui alla legge n. 42 del 2009, che ha coinvolto anche l’opposizione, grazie alla particolare commissione bicamerale prevista dall’art. 3 della legge n. 42; per l’altro, il riassetto delle funzioni amministrative, con l’approvazione della Carta delle autonomie, e con esso anche la precisazione degli ambiti legislativi, che avrebbe dovuto correre in parallelo, si è arenato al Senato, dopo l’approvazione da parte della Camera dei Deputati.
I decreti legislativi attuativi della delega della legge n. 42, peraltro, non hanno messo in condizione le regioni e neppure le autonomie locali, di potere operare direttamente su basi imponibili loro attribuite: i decreti legislativi richiedono, infatti, a loro volta atti di attuazione che il governo in carica non considera prioritario adottare nell’attuale congiuntura politica ed economica. La situazione dal punto di vista della finanza pubblica è ancora limitata a quanto regioni ed enti locali potevano fare prima dell’adozione della stessa legge n. 42 e, in qualche caso, come con l’IMU, le innovazioni legislative non sono andate in direzione di una maggiore autonomia finanziaria dei comuni.
Ne discende, ancora una volta, un quadro, tra stato e regioni, sostanzialmente immobile, rispetto alla necessità di attuare i precetti costituzionali, e disarticolato nel concreto esercizio delle funzioni pubbliche: dalla legislazione, alle funzioni amministrative, alla finanza pubblica, si avverte la mancanza di coordinamento e l’assenza di un sistema fondato su decisioni politiche coerenti. Il tutto mentre i provvedimenti adottati per fronteggiare la crisi economica hanno inciso sul modello regionale e autonomista, attraverso la decurtazione di importanti somme e modifiche istituzionali non in armonia con i principi costituzionali e con il Titolo V.
Si deve sottolineare che tutta la legislazione dell’emergenza, anche e – forse – soprattutto dopo il cambio di governo nel novembre del 2011, appare caratterizzata da un particolare imprinting, e cioè: dalla visione che le regioni e le autonomie locali sono un problema della politica fiscale e di bilancio, da ridurre al minimo, se non è proprio possibile azzerarle.
Così, le misure anticrisi, adottate a partire dalla Legge finanziaria 2008, possono così classificarsi: a) disposizioni che agiscono direttamente sull’assetto istituzionale delle regioni e delle autonomie locali; e b) disposizioni che impongono dei tagli di natura economica ai finanziamenti da parte dello stato alle regioni e alle autonomie locali.
Le misure di tipo istituzionale, in questo contesto, vengono assunte, non per ubbidire ad un riordino dei livelli di governo, ma in vista di effetti di tipo finanziario, in questo modo subordinando gli aspetti costituzionali dell’autonomia alle necessità contingenti, le quali – e questo è un effetto ormai consolidato della legislazione considerata – sono assunte come permanenti. Infatti, il dato che emerge dalla normativa statale adottata per fronteggiare la crisi è che dalla crisi sembra non potersi uscire, almeno nel medio periodo, per cui non resta che effettuare una politica di bilancio estremamente rigorosa, anche a discapito dei principi costituzionali, come l’autonomia e la democrazia, e dei diritti la cui tutela è costituzionalmente prevista, come la salute.
Non è necessario entrare nel dettaglio delle singole misure, in questa sede, ma certamente, vanno in direzione dei tagli ai trasferimenti disposizioni come l’art. 14, comma 1, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 133 del 2010 [5].
Misure queste che sono state calcolate in 25 miliardi di euro posti a carico del sistema territoriale e che, peraltro, sono state ulteriormente inasprite con provvedimenti successivi, che hanno modificato ripetutamente il patto di stabilità interno, aggiungendosi così altri 4,75 miliardi di euro a carico delle regioni ordinarie e speciali [6].
Sull’assetto istituzionale delle regioni e delle autonomie locali hanno operato le disposizioni del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2, convertito in legge 26 marzo 2010, n. 42, per l’appunto, recante: «Interventi urgenti concernenti enti locali e regioni». Con questo atto vengono corrette alcune disposizioni già inserite nella legge finanziaria 2010 (legge n. 191 del 2009) e le misure contemplate, benché istituzionali, costituiscono “interventi urgenti sul contenimento delle spese negli enti locali”. Si tratta di misure che incidono direttamente anche sul sistema democratico, in quanto agiscono attraverso una riduzione delle rappresentanze presenti nei consigli locali, così come sulle forme di tutela, dal momento che modificano la difesa civica e sull’autonomia organizzativa degli enti locali, con misure di vario tipo comprese le limitazioni riguardanti le indennità dei consiglieri regionali.
Tuttavia, neppure queste misure sono state ritenute sufficienti. Nello stesso quadro, infatti, vanno inserite, oltre ai commi 26-31 dell’art. 14 del decreto legge n. 78, cit., alcune disposizioni del decreto legge n. 139 del 2011, convertito in legge n. 149 del 2011, e alcune del decreto legge n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011, che aggravano ed estendono la portata delle misure già prese.
In particolare, si tratta di disposizioni che appaiono poco meditate, frutto più delle difficoltà d’immagine che il governo italiano doveva affrontare sulla scena europea – come testimoniato dalla lettera di agosto 2011 dei due Presidenti della BCE – che non della serena meditazione della crisi e del modo migliore attraverso cui affrontarla [7].
In tal senso, francamente preoccupanti anche sul piano costituzionale appaiono le disposizioni dell’art. 15 e dell’art. 16 del decreto legge n. 138, cit., sulla continua riduzione delle rappresentanze locali nei consigli comunali e provinciali. Anche l’art. 14 del decreto da ultimo richiamato, rivolto alle Regioni, lascia perplessi, nonostante la recente sentenza (n. 198 del 2012) del giudice costituzionale non ne abbia dichiarato l’incostituzionalità. Sotto le mentite spoglie della virtuosità, infatti, si vuole menomare l’autonomia organizzativa delle Regioni, imponendo loro il restringimento della rappresentanza politica a livelli francamente non ragionevoli con il principio democratico.
Molte disposizioni di carattere istituzionale sono state qualificate di coordinamento della finanza pubblica; anche se è lecito dubitare che di vere misure di coordinamento si sia trattato.
Le manovre del 2011 già ricordate, di fatto, hanno inasprito ancor di più tagli e vincoli nei confronti di regioni, province e comuni, nella vana illusione che questo modo di legiferare potesse sortire utili effetti, sia dal punto di vista istituzionale, sia da quello del contenimento della finanza pubblica.
Questo scenario è stato ancora una volta fortemente rimaneggiato con la decretazione d’urgenza adottata nel 2012.
Per un verso, il Titolo IV (articoli 16-20) del decreto legge n. 95 del 2012, statuisce un nuovo consistente taglio sulle “risorse a qualunque titolo dovute dallo Stato alle regioni ordinarie”, un nuovo cospicuo contributo, a titolo di “concorso alla finanza pubblica”, da parte delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano, nonché un forte alleggerimento dei fondi perequativi (sia quello sperimentale, che ordinario) per comuni e province, con regole di recupero delle somme medesime direttamente da eventuali altri cespiti di finanziamento delle attività comunali e provinciali [8].
Per un altro verso, il Titolo in questione del decreto legge n. 95 del 2012 rivisita la disciplina di carattere istituzionale sulle province, sulle città metropolitane, sulle funzioni fondamentali dei comuni e sulle modalità di esercizio associato di funzioni e servizi comunali, nonché in tema di piccoli comuni e di fusione dei comuni. Sono così emendate diverse disposizioni della legge n. 42 del 2009 e dei relativi decreti legislativi di attuazione della delega in materia di federalismo fiscale; diversi articoli del TUEL (decreto legislativo n. 267 del 2000); dell’art. 14 del decreto legge n. 78 del 2010 e dell’art. 23 del decreto legge n. 201 del 2011.
Da quanto sin qui esposto, appare evidente che il trattamento delle regioni e delle autonomie locali come un problema della politica fiscale e di bilancio non sia la soluzione migliore per affrontare la crisi. Infatti, questa impostazione, non solo va commisurata, sul piano dei costi, ai problemi di bilancio e finanziari che pone l’amministrazione statale, compresi gli organi costituzionali, non affrontati nel decennio successivo alla revisione del Titolo V, con la conclusione che la spesa statale non è diminuita, come pure ci si doveva attendere, con il trasferimento di funzioni alle regioni e agli enti locali; ma soprattutto va considerata in relazione alle possibili politiche pubbliche necessarie a promuovere un ciclo economico di crescita.
Tuttavia, prima di considerare questo aspetto, resta da vagliare la condizione reale delle regioni italiane e il ruolo che esse hanno assolto nel corso di questi anni durante l’emergere della crisi economica.
La posizione delle regioni in questi anni, dopo la revisione del Titolo V, ma già con la legge n. 59 del 1997, si è comunque rafforzata, non fosse altro, proprio per il ritrarsi dello stato da molti ambiti. Questa circostanza, per un verso, rende necessaria la loro presenza nello svolgimento delle politiche pubbliche; per l’altro, non attenua le polemiche sui costi eccessivi che causano. In realtà, si tratta di guardare con una certa obiettività alla loro posizione concreta, realizzando una valutazione sul funzionamento dell’istituto regionale che possa essere utile anche ad avviare un percorso di riforme costituzionali e legislative, tali da permettere di migliorare la struttura istituzionale della Repubblica e di battere la crisi che sta logorando i cittadini, le famiglie e i loro diritti.
Da questo punto di vista il sistema regionale sembra vivere una profonda contraddizione interna: le regioni italiane non sono affatto omogenee, alcune sono competitive con le migliori aree europee, in termini di sviluppo e crescita, altre invece appaiono fortemente in ritardo e incapaci di sviluppare in autonomia delle politiche di crescita. È il c.d. divario territoriale che ci portiamo dietro dall’Unità d’Italia e che la crisi sta acuendo.
Ciò nonostante, se si esamina concretamente quello che le regioni hanno fatto nel decennio trascorso e, soprattutto, negli anni della crisi, ci si avvede che la loro presenza, senza enfasi federalistica, è stata particolarmente utile sul piano dell’organizzazione e della resa funzionale.
Ovviamente, tutto questo non si è realizzato senza contraddizioni e senza problemi, soprattutto a fronte delle scelte compiute con la legislazione di emergenza, ma appare sufficiente per considerare in modo diverso le eventuali prospettive di riforma e le strategie per affrontare i mercati e l’Europa.
Un argomento particolare, fortemente trascurato in questi ultimi anni, è la questione del divario territoriale. Sul punto le posizioni politiche e le ricostruzioni teoriche sono alquanto silenti. Ciò è dovuto, in parte, alla mancanza di risorse in grado di assicurare una redistribuzione a favore delle regioni del sud; per cui la questione meridionale non è più appetibile per i centralisti, in quanto non sono possibili dal centro politiche territoriali a favore del sud.
In parte il disinteresse per la mancanza di omogeneità territoriale è dovuto alle spinte competitive tra le diverse regioni, alimentate soprattutto dalle regioni del nord, le quali hanno dominato la politica nazionale, rivendicando una forte autonomia dei territori che anche le regioni meridionali hanno finito con sottoscrivere, nonostante la loro condizione di disagio.
Il divario territoriale ha dato vita ad una contrapposizione interna al Paese tra una posizione più favorevole al federalismo, da parte delle popolazioni del nord e di alcune parti del centro Italia, fautrici di una dinamica territoriale con forti differenziazioni e l’atteggiamento di avversione, persino a un serio regionalismo, da parte delle popolazioni meridionali, soprattutto se le loro regioni sono state sottoposte a piani di rientro per la spesa sanitaria, convinte, anche per la povertà delle loro classi dirigenti, che non avrebbero potuto mantenere quel po’ di benessere raggiunto senza una presenza dello Stato centrale in ogni ambito della vita pubblica e per ogni policy.
Nel mezzo del divario territoriale si situa proprio lo Stato centrale, invasivo per le regioni del nord, assente per quelle del sud, che avrebbe dovuto realizzare la perequazione territoriale, come prescrive l’art. 119, comma 3, Cost., e interventi specifici per la promozione di “determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni” (art. 119, comma 5, Cost.).
Oggidì, la tensione territoriale è resa impalpabile, sul piano politico, dalla crisi, ma essa potrebbe determinare (e, in parte, ha già determinato) una distorsione nella realizzazione del regionalismo italiano. Anche perché accentua la spaccatura storica tra nord e sud dell’Italia.
La politica statale per il mezzogiorno già da tempo si è fermata, sia in termini di assistenza, e sia come progetti e sostegno allo sviluppo. Dalla crisi del 1992, prima, e dall’inizio della crisi nel 2008, dopo, i dati mostrano una condizione meridionale sostanzialmente peggiorata, nella quale stanno venendo progressivamente meno le aspettative verso le prospettive future. La legislazione anti-crisi, ad oggi, ha aggravato di più la condizione delle regioni meridionali, come mostrano i comportamenti che le diverse regioni vanno tenendo nei confronti delle misure finanziarie. La legislazione richiamata, come si è visto, appare priva di una reale prospettiva istituzionale di vero cambiamento ed è protesa verso tagli (lineari) e aumento dell’imposizione, senza vere misure a favore della crescita.
Si consideri, inoltre, che, nel sud, il reddito, l’occupazione, i servizi pubblici, la qualità amministrativa e la formazione, la scuola e la ricerca hanno standard più bassi che al nord. Questa condizione è dipesa storicamente dal modo in cui è stato realizzato lo sviluppo del capitalismo italiano dopo l’unità dell’Italia.
In realtà, anche in questo ambito, l’opinione pubblica meridionale che richiede una maggiore presenza nel territorio dello stato centrale – per attenuare il divario territoriale – esprime una pretesa per molti versi non più realizzabile e non considera con sufficiente attenzione che oggi, per via delle opportunità offerte dalla globalizzazione, sarebbe possibile affrontare in modo nuovo e positivo la spaccatura nord-sud e che una struttura federale dell’ordinamento appare la forma di stato più adatta a tale scopo, capace di generare responsabilità e consapevolezza politica.
In questo senso, per il sud il federalismo e la stessa crisi economica rappresentano una opportunità e, semmai, è la mancanza di una pianificazione strategica, sorretta culturalmente, che impedisce alle regioni del sud di affrontare adeguatamente la mancanza di sviluppo che le affligge. Ma si tratta di una condizione storica che tocca anche le regioni del nord, restie a una visione nazionale e condivisa che porti, se non al superamento, almeno all’attenuazione del divario territoriale. Infatti, con una politica regionale autoreferenziale, come quella praticata sinora dalle regioni del nord, le possibilità di crescita e di competizione nel mercato globale sono assai limitate. Diversamente, le regioni italiane, del nord, come del sud, potrebbero oggi, con una assunzione diretta di responsabilità sul piano nazionale, con forme di autentica perequazione orizzontale e soprattutto con il monitoraggio e il trasferimento delle best practices, rappresentare l’elemento di svolta istituzionale che il governo centrale non riesce ancora a vedere nel sistema regionale.
Dal punto di vista delle best practices regionali e nonostante la persistenza del divario territoriale, appare opportuno considerare le tendenze nei comportamenti concreti delle regioni italiane, in questi ultimi anni e alla luce della crisi economica.
Le Regioni hanno affinato sensibilmente il loro intervento nel sistema istituzionale, manifestando pienamente il loro carattere di “laboratori del federalismo”, secondo la celebre espressione di Louis Brandeis. Di qui la necessità di mantenere desta la ricerca e lo studio del regionalismo italiano, come ordinamento più consono ad una comunità politica organizzata nell’ambito di un processo di integrazione europea e di un sistema di economia internazionalizzata, nel quale i compiti dello Stato crescono sul versante esterno (delle negoziazioni internazionali ed europee) e si riducono su quello interno (prevalentemente volti alla funzione perequativa e promozionale dei territori).
Negli ultimi anni, le Regioni hanno dimostrato un uso accorto della loro legislazione, diminuendo il numero delle leggi approvate e adeguando le legislazioni dei diversi settori di loro competenza attraverso leggi di “manutenzione”. La loro legislazione, inoltre, appare particolarmente sensibile a quei settori che caratterizzano l’identità regionale stessa o che possono concorrere a determinare un migliore e diretto utilizzo del territorio; mentre, anche per materie importanti dell’art. 117, comma 3, Cost., hanno mostrato scarsa attenzione, in quanto queste di fatto sono risultate fuori dal contesto dei loro interessi.
Alla luce di ciò non trovano giustificazioni apprezzabili il comportamento del legislatore statale che tende a coprire con la legge statale interi ambiti materiali di competenza e interesse regionale e che esclude anche forme di coordinamento con il legislatore regionale, come nel caso delle materie di competenza concorrente, nelle quali il suo intervento dovrebbe limitarsi alla sola fissazione dei principi fondamentali, o come in quello della competenza di cui all’art. 117, comma 4, Cost., nella quale non dovrebbe darsi intervento statale alcuno, rientrando la materia nella competenza esclusiva regionale.
Infine, le Regioni, nonostante i tagli ai finanziamenti subiti in questi anni, sono state ancora in grado di produrre politiche molto avanzate in settori nei quali da tempo la legislazione statale non riesce ad andare oltre la previsione di principi, quasi sempre ripresi dagli atti normativi europei, come nel caso dell’agricoltura, in quello del turismo, in quello dell’ambiente, all’interno del quale si rinviene anche una disciplina di beni pubblici come le risorse idriche e i beni culturali, e, infine, nella materia dell’energia rinnovabile.
Il riparto delle competenze tracciato dall’art. 117, commi 2, 3 e 4, Cost., perciò, ha svolto una funzione accrescitiva del compito legislativo delle regioni, nonostante la ricentralizzazione della legislazione compiuta dalla Corte costituzionale. Infatti, le regioni più evolute hanno saputo sfruttare al meglio le possibilità loro offerte dalla revisione del Titolo V, tenendo conto che i limiti che caratterizzano i diversi tipi di competenza sono diventati più elastici.
Proprio osservando l’ordinamento concreto delle competenze legislative regionali, poi, si riscontra che, accanto all’ampliamento dei poteri legislativi verso materie prima precluse, le regioni hanno ulteriormente consolidato la loro presenza in ambiti già loro attribuiti, come i servizi alla persona e alla comunità.
Inoltre, al rafforzamento delle policies pubbliche svolte dalle regioni, corrisponde anche una politica istituzionale regionale diversa dal passato, sia verso le autonomie locali, sia verso l’Europa; per cui le regioni rappresentano un livello di governo che ha assunto il ruolo di snodo, verso l’alto, compreso lo Stato e verso il territorio.
Ciò è dimostrato anche dalla circostanza che, nonostante la presenza di una caotica legislazione istituzionale, rivestita della maglia del “coordinamento della finanza pubblica”, la legislazione regionale in materia di enti locali si sia consolidata, a un punto tale da potersi parlare oggi di una concreta regionalizzazione del sistema di autonomia locale. Peraltro, il disegno originario di proteggere gli enti locali dalle regioni, attraverso la riserva della lettera p), del comma 2, dell’art. 117 Cost., sembra ormai svanito, soprattutto con la legislazione della crisi che attacca l’ossatura del sistema autonomistico, con la soppressione delle province, la fusione dei comuni e la riduzione della libertà e della democrazia locale.
Di conseguenza, atteso che la maggior parte delle funzioni locali rientra nella sfera della competenza legislativa regionale, il dialogo diretto tra regioni ed enti locali appare oltremodo necessario, anche per le peculiari conseguenze di tipo finanziario. Infatti, con la regionalizzazione del patto di stabilità e la fiscalizzazione dei trasferimenti regionali a favore degli enti locali, per le funzioni amministrative che questi svolgono nell’ambito delle competenze regionali, i veri interlocutori di comuni e province sono le regioni e, nel prossimo futuro, ove mai le regole del federalismo fiscale dovessero trovare applicazione, il legame delle regioni con le politiche locali è destinato a consolidarsi e ad ampliarsi.
Mentre la legge statale di adeguamento dell’ordinamento al Trattato di Lisbona attende ancora di essere approvata dal parlamento, le regioni italiane, e per esse i consigli regionali, hanno con tempestività adeguato i loro ordinamenti alle nuove prescrizioni europee, soprattutto ai fini della verifica della sussidiarietà, e sono particolarmente attive nelle procedure volte alla partecipazione con lo Stato alla determinazione delle politiche europee, essenzialmente disciplinate al momento da atti di natura convenzionale. Ovviamente persiste un forte gap delle regioni meridionali nell’uso delle risorse europee e nell’attuazione delle politiche europee, ma lo stato in tutti questi anni non ha fornito alcun supporto per riuscire a migliorare lo standard di queste regioni, segno evidente di voler lasciare perdurare la situazione di disagio del meridione.
In definitiva, a dieci anni e più dalla revisione del Titolo V, le regioni hanno consolidato la loro posizione come livello di governo necessario, assolvendo una funzione di sostegno dell’ordinamento nel suo complesso, come mostrano molto bene le politiche svolte.
La ristrutturazione degli ordinamenti regionali negli anni della crisi avviene lungo due versanti: a) attraverso l’efficientamento dell’organizzazione e del funzionamento dell’istituzione regione; b) mediante la revisione della spesa nei diversi settori di competenza.
Nel primo ambito vanno ricomprese tutte le misure che riguardano le riduzioni delle spese generali di funzionamento e quelle che concernono la modifica del trattamento dei consiglieri (i c.d. costi della politica), ma anche le disposizioni che attivano il monitoraggio e la valutazione dell’attività amministrativa.
Nel secondo ambito, dall’analisi delle leggi finanziarie regionali, si realizza che le regioni hanno partecipato attivamente al risanamento della finanza pubblica: tutte le regioni hanno posto in essere politiche di contenimento dei costi (compresi – come si è detto – quelli della politica), ma queste misure non hanno ostacolato, soprattutto nelle regioni finanziariamente meglio attrezzate, la realizzazione di politiche di sostegno allo sviluppo e anche di politiche sociali.
L’esame della legislazione finanziaria mostra, però, anche la crescita del divario nord - sud all’interno del nostro Paese, soprattutto con riferimento alla politica tributaria delle Regioni e alle disponibilità finanziarie per le politiche di sostegno. Infatti, le politiche di limitazione dell’indebitamento hanno imposto alle regioni del sud di spingere al massimo la pressione tributaria, in particolar modo nel caso in cui la Regione sia stata sottoposta al piano di rientro nel settore della sanità. Nelle regioni del nord non solo si consolida la tendenza a contenere la pressione fiscale, ma soprattutto la disponibilità finanziaria consente di prevedere specifici strumenti (in genere, fondi regionali) anticrisi.
Soprattutto in queste regioni, ma anche in quelle del centro con una condizione analoga (in particolare Toscana e Marche), nonostante i tagli alle risorse regionali imposti dallo stato con la legislazione della crisi, il livello di governo regionale resta quello più efficace, in cui il finanziamento delle attività produttive e delle infrastrutture ha consentito di mantenere occupazione e standard di qualità dei servizi pubblici economici e in quelli alla persona, operando così il sistema regionale come un vero e proprio ammortizzatore sociale.
Anche la politica di contenimento della spesa, ad esempio nel settore sanitario, risente ovviamente della differenziazione regionale. Così, accanto alle Regioni che possono permettersi il potenziamento di prestazioni extra-lea e lo screening dell’intera popolazione, si incontrano severe politiche del personale e dell’organizzazione territoriale del servizio sanitario regionale, nel caso di regioni che ancora si trovano in una condizione di difficoltà con il rispetto del piano di rientro.
È tempo di tirare le fila dell’analisi sin qui condotta.
Nel dibattito corrente – come si è detto – nessuno mette più in discussione l’esistenza delle regioni nell’ordinamento italiano. Queste sono diventate un contrassegno della forma di stato italiana anche nell’opinione pubblica europea e dal punto di vista del diritto pubblico comparato. La situazione, perciò, è profondamente diversa da quella del 1947 ed anche dalla condizione di contestazione delle regioni che si avvertiva nel 1992, allorquando l’Italia doveva affrontare la crisi economica del tempo.
La mancata contestazione delle regioni, oggi, deriva dalla circostanza che queste hanno comunque l’attribuzione di una quantità di funzioni che, non essendo più ricentralizzabili – come nel caso della sanità e dei servizi sociali, ma non solo – richiedono il permanere di un ente, diverso dallo stato, titolare di queste funzioni.
Non è un caso che oggi il tentativo di semplificazione territoriale si riversa sul livello provinciale, che pure in Assemblea Costituente era uscito prevalente, rispetto a quello regionale, ma che nel tempo non ha saputo consolidare la propria posizione, diversamente dai Dipartimenti francesi e dai Kreise tedeschi.
Tuttavia, le vicende del regionalismo italiano, con il passaggio dal primo regionalismo, al federalismo a Costituzione invariata e alla revisione del Titolo V, hanno mostrato come questo Istituto, nato dal pensiero delle forze politiche presenti in Assemblea Costituente che promuovevano una costruzione della “comunità” incentrata alla prossimità e alla sussidiarietà, valorizzando i principio di autonomia, di autogoverno, di libertà e di democrazia, non sia stato mai, sino in fondo, accettato; di qui le reazioni dell’amministrazione statale e dei poteri centrali che hanno fatto dell’uniformità legislativa, dell’interesse nazionale e, per un certo periodo, anche dello Stato sociale e della questione meridionale i loro punti di forza per non attuare il Titolo V, prima, e per disattenderlo, dopo.
La contestazione sui costi e sull’utilità delle regioni è tale peraltro, anche nell’opinione pubblica, che continua ad offuscare il tema dei costi dello stato: apparati costituzionali (si pensi al pletorico parlamento), ministeri, magistratura, enti e società pubbliche, in relazione soprattutto alla resa di servizi alla collettività. Non è un caso che la costante discussione sui livelli di autonomia riconosciuti dalla Costituzione, a regioni ed enti locali, risulti di fatto funzionale a evitare la riforma del Parlamento, della giustizia e dell’amministrazione centrale e periferica dello stato, senza considerare che proprio queste strutture della Repubblica determinano una negativa immagine del Paese, anche a livello internazionale, comportando una mancanza di attrazione per gli investitori esteri.
In più il divario territoriale, mai affrontato in modo risolutivo e trascurato nei tempi della crisi, collegato per lunghi periodi nella storia anche alla contestazione del vincolo unitario, rende l’Italia un paese di difficile regionalizzazione, ma anche di problematica unità. Si potrebbe persino dire che la questione nazionale, al pari di quella regionale, è rimasta pressoché irrisolta a distanza di 150 anni.
In questo momento di particolare crisi la scelta che sembra caratterizzare la linea politica del governo in carica e delle forze politiche presenti in parlamento sembra presupporre l’idea che la crisi sia una “questione nazionale”, riguardante i rapporti dell’Italia con l’Europa e le sedi internazionali.
Da questa posizione discendono due atteggiamenti ben visibili: da un lato, la pressoché totale irrilevanza degli effetti interni delle misure con cui la crisi viene affrontata, con una certa crudezza anche dei provvedimenti all’interno del Paese e dei loro effetti sulla vita dei cittadini; dall’altro, la condizione silente alla quale è stato ridotto il sistema regionale e dei poteri locali con i tagli delle loro risorse, la pressione fiscale aumentata e la ristrutturazione istituzionale, posta in essere in nome del “coordinamento della finanza pubblica”.
A rafforzare questa impostazione soccorre soprattutto la circostanza che la crisi coincide con quella della moneta unica e che nell’Europa della politica economica e monetaria il debito pubblico italiano costituisce una minaccia per la stabilità europea.
Tra l’altro l’Europa ha reagito a questa condizione di crisi in modo lento e non sempre efficacemente. La prima risposta più determinata si è avuta con la decisione del Consiglio europeo del 25 marzo 2011, attraverso la modifica dell’art. 136 TFUE, il quale ha statuito che «gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità dell'intera zona euro». Su queste basi con il Trattato sul Meccanismo Economico di Stabilità (TMES) adottato il 2 febbraio 2012 ha preso forma «un’istituzione finanziaria internazionale denominata il "meccanismo europeo di stabilità" ("MES")». A questo Accordo europeo ha fatto seguito in data 2 marzo 2012 la stipula del Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell'Unione Economica e Monetaria (TSCG), strettamente connesso al primo per molteplici aspetti e con ricadute non indifferenti sui sistemi costituzionali degli stati membri, prevedendo espressamente, tra l’altro, l’obbligo del pareggio di bilancio, all’art. 3, paragrafo 2, del suddetto Trattato, il quale dispone che le norme del Trattato «producono effetti nel diritto nazionale delle parti contraenti al più tardi un anno dopo l'entrata in vigore del presente trattato tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio». Inoltre, sempre la medesima disposizione prevede che gli stati membri istituiscano a livello nazionale un meccanismo di correzione automatico, in caso di «deviazioni significative dall'obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo» (pari a un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo a prezzi di mercato). Ed infine, prescrive che «tale meccanismo di correzione deve rispettare appieno le prerogative dei parlamenti nazionali».
La risposta da parte delle Istituzioni italiane è stata molto pronta. Già da tempo era in discussione l’inserimento in Costituzione della c.d. “regola aurea” del pareggio di bilancio di derivazione tedesca. Così, prima ancora della ratifica dei due Trattati europei sopra richiamati con la legge costituzionale n. 1 del 2012 si è proceduto a determinare un assetto costituzionale sulla finanza pubblica particolarmente innovativo.
Le disposizioni chiave sono molteplici. In primo luogo, è stato riscritto l’art. 81 Cost., con innovazioni significative, come il principio dell’equilibrio del bilancio, anche in relazione alle fasi del ciclo economico (comma 1). Questo principio è stato esteso pure ai bilanci delle regioni e delle autonomie locali (art. 4 l.c. n. 1 del 2012). In secondo luogo, la previsione dei vincoli all’indebitamento (comma 2), da disciplinare con leggi approvate a maggioranza assoluta (comma 6). In terzo luogo, la previsione normativa inserita all’art. 97 Cost., relativa all’obbligo delle «pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, (di assicurare) l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico». In quarto luogo, la modifica apportata all’art. 117 Cost. che ha trasferito dal terzo al secondo comma la materia “armonizzazione dei bilanci pubblici”.
Tra le innovazioni, particolare rilevanza assume l’art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 2012, che in relazione alla legge di cui all’art. 81, comma 6, Cost., la quale disciplina “il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito”, ha disposto molto concretamente i principi del meccanismo di correzione automatico, anche in relazione alle regione e agli enti locali, prevedendo che la legge in questione sia approvata entro il 28 febbraio 2013, data presumibile entro la quale anche i Trattati europei sul MES e sulla SCG dovrebbero essere stati ratificati da tutti gli stati membri, di modo che per l’esercizio 2014 il sistema italiano risulti allineato agli standard e alla disciplina europea, in una posizione di pareggio di bilancio e di controllo del deficit finanziario pubblico.
Tutto ciò è realmente meritevole e consente all’Italia di avere, sin d’ora, una rinnovata credibilità europea e internazionale.
Il problema che resta in ombra è il modo in cui le misure interne realizzeranno gli obiettivi posti dalla ristrutturazione delle relazioni esterne della Repubblica, giacché le proposte o le soluzioni, in tal senso, possono e devono essere corrispondenti alle prescrizioni della Costituzione e, per quel che riguarda i compiti legislativi e amministrativi, al riparto delle competenze e delle funzioni previste dal Titolo V.
Più in particolare la questione che si pone è se le misure interne devono essere rispettose delle articolazioni interne che costituiscono la Repubblica, secondo l’espressione dell’art. 114, comma 1, Cost., e se il riparto delle competenze e dei poteri tra stato, regioni e autonomie locali previsto dalla Costituzione per la legislazione e le funzioni amministrative, sia il punto di riferimento normativo per strutturare le discipline legislative e la loro esecuzione, così come per realizzare i principi dei Trattati europei; o se il Governo e il Parlamento, sulla base degli obiettivi posti a salvaguardia della stabilità, del coordinamento e della governance monetaria europea, possano agire in deroga alla Costituzione, come la legislazione della crisi, con un crescendo continuo, sta concretamente facendo.
Può, un simile atteggiamento, anche se efficace sul piano internazionale ed europeo, essere considerato dal punto di vista costituzionale la migliore risposta alla crisi sul piano interno?
L’idea non è ovviamente un rilancio del regionalismo sul piano ideologico, come pure era accaduto nelle legislature precedenti e in questa, nella quale si è assistito – in piena crisi economica – all’apertura di sedi ministeriali nel territorio di alcune regioni, a simboleggiare un aumento del decentramento; ma l’accoglimento di un regionalismo temperato, senza implicazioni metafisiche ed efficace come principio organizzativo dello stato, partendo proprio dai condizionamenti che l’apertura delle sovranità e l’internazionalizzazione dell’economia richiedono, rispetto ad uno stato tradizionale organizzato in modo protezionistico, quale custode del proprio mercato.
La risposta alla crisi globale potrebbe partire bene da questo sistema e risultare più condivisa e più efficace rispetto ad una politica di semplici tagli come quella attuale; anche in considerazione della circostanza che non possono essere in discussione solo misure di riduzione della spesa pubblica, che deprimono l’economia nazionale, ma dovrebbe essere affrontata anche la realizzazione di politiche pubbliche di crescita con risorse meglio allocate.
Le disposizioni istituzionali sin qui adottate, a prescindere dai dubbi di costituzionalità, devastano il sistema di governo territoriale, paralizzando le attività delle Regioni e delle autonomie locali, e corrono il rischio – come sta accadendo – di risultare inutili dal punto di vista del contenimento della spesa, per la loro inadeguatezza istituzionale e finanziaria [9].
Solo con il decreto legge n. 95 del 2012 si iniziano a prevedere delle riduzioni di spesa significativa per i Ministeri, con il fine di contenere la spesa pubblica statale. I tagli alle spese sostanziati da queste disposizioni dovrebbero aumentare sensibilmente, e ciò per due ragioni: in primo luogo, per realizzare una efficace riduzione della spesa pubblica; e, in secondo luogo, per arrivare ad una più sensata organizzazione delle funzioni pubbliche.
Il federalismo a costituzione invariata e la riforma del Titolo V hanno oggettivamente comportato un incremento del personale occupato nelle pubbliche amministrazioni delle regioni e della spesa regionale, passata dal 1990 al 2009 (e cioè: prima dell’effetto delle prime misure anticrisi) da 63,9 a 171,9 miliardi di euro, con un incremento sul totale della spesa delle pubbliche amministrazioni di un 5% (dal 17%, al 22%). Entrambi questi due aspetti sono chiaramente legati al travaso delle funzioni amministrative dallo stato alle regioni.
Ciò che sorprende, per contro, è che nel contempo la spesa pubblica statale non è diminuita e che il numero dei dipendenti statali, se si considerano anche quelli a tempo determinato, è rimasto invariato.
Dall’esame della spesa delle pubbliche amministrazioni, poi, si evidenzia che quella statale non ha subito modifiche reali. La distribuzione, infatti, tra il centro (lo stato) e la periferia (le regioni e gli enti locali) tra il 1990 e il 2009 è passata dal 61%, al 52%, per il centro e dal 39%, al 48%, per la periferia.
L’analisi degli andamenti dei flussi del personale e della spesa, perciò, mostra una certa regionalizzazione del sistema italiano, ma a questo non ha corrisposto una effettiva trasformazione dello stato: gli apparati centrali continuano a costare ancora il 30% del PIL, con una diminuzione sensibile della “finanza finale”, che genera beni e servizi per i cittadini, e una crescita della “finanza strumentale”, che costituisce sostanzialmente la spesa per il personale.
La considerazione istituzionale più semplice che deriva dall’osservazione di questi dati, è che dal punto di vista organizzativo sussiste nel nostro sistema dei poteri pubblici un overlapping sulle materie regionali; il Parlamento e la Corte costituzionale, perseguendo una linea di ricentralizzazione della legislazione e delle funzioni amministrative, non si sono accorti che hanno generato un enorme gap di funzionamento nella Repubblica. Nella stessa direzione si sono posti anche il mancato adeguamento dei raccordi istituzionali, tra centro e periferia (per intenderci la riforma costituzionale del Parlamento e la creazione del Senato delle regioni e delle autonomie), e la scarsa trasparenza nella formulazione del federalismo fiscale, soprattutto lì dove frantuma le basi imponili, distribuendole tra i diversi livelli di governo, e nei casi in cui, di fatto, sostituisce i trasferimenti con misure pressoché analoghe, quali le compartecipazioni.
Si tratta, per entrambe le ipotesi, di scelte compiute dal Parlamento e dal Governo che hanno ostacolato la realizzazione di un regionalismo più efficace e responsabile.
In queste condizioni, peraltro, le misure interne recentemente adottate, con i decreti legge nn. 138 e 201 del 2011 e n. 95 del 2012, sembrano aggravare i problemi evidenziati dall’analisi dei flussi di spesa pubblica.
L’idea di fondo sembra essere costituita dalla convinzione che le regioni e le autonomie locali rappresentino uno spreco di risorse finanziarie da eliminare, senza alcuna considerazione delle conseguenze sui cittadini e sui territori. Infatti, per un verso, la menomazione della democrazia locale e regionale e i tagli lineari attenuano la capacità di funzionamento degli enti locali e delle regioni e deresponsabilizzano la classe politica locale, che di fronte alla mancanza di risorse finiranno col non erogare più servizi ai cittadini; per l’altro, lo svuotamento di tutti i fondi di perequazione (art. 16 DL n. 95, cit.), non pone più il problema allo stato di assolvere ad un compito importante, per l’appunto: la perequazione territoriale, ma determina di certo l’acuirsi del divario tra le regioni.
Se la risoluzione dei problemi internazionali ed europei dell’Italia passa attraverso un simile processo di ristrutturazione interna, il regionalismo diventa un problema, anziché una soluzione per la ripresa economica, e soprattutto continuano a rimanere impregiudicate i limiti che caratterizzano da 150 anni la questione nazionale.
La condizione ordinamentale della Repubblica è diventata perciò contraddittoria: lo stato non eroga servizi ai cittadini e taglia la spesa degli enti che erogano servizi; non riforma i propri apparati, ma riduce l’organizzazione e la rappresentatività delle regioni e degli enti locali; l’autonomia finanziaria regionale e locale è incisa dallo stato, che prende i gettiti dei tributi regionali e locali e non svolge i compiti di perequazione.
Per rendere meno contraddittorio il nostro ordinamento occorrerebbe ripensare le misure interne, cercando di rispettare il disegno istituzionale previsto dalla Costituzione. Gli stati federali (o regionali) sono uno strumento di governo molto più raffinato, anche culturalmente, degli stati unitari, perché consentono una flessibilità maggiore, oltre che strumenti di controllo più efficaci: perseguono la dimensione nazionale, ma rispettano anche la diversità regionale; conoscono nelle loro storie fasi alterne, a volte con la prevalenza del centro, altre volte con quella della periferia; centralizzano e decentralizzano, secondo le esigenze storiche ed economiche.
Insomma, lo stato federale (o regionale) è uno strumento che può suonare più note di quanto non sia concesso allo stato unitario e, sul piano politico, presenta degli sviluppi positivi che sono in genere negati allo stato centrale, come la prossimità, l’autogoverno e un più diretto coinvolgimento della responsabilità dei cittadini.
Sia consentito su questo terreno, onde trarre alcune conclusioni del nostro percorso, specificare due profili, e cioè: il modo in cui gli ordinamenti di consolidata tradizione federale hanno affrontato le varie crisi; e le linee guida che la finanza pubblica federale segue nell’organizzazione delle politiche pubbliche.
Quanto al primo profilo, si consideri che, allorquando si trattò di reagire alla grande depressione del 1929, gli Stati Uniti passarono attraverso un percorso federale, grazie all’evoluzione segnata dalla giurisprudenza della Corte Suprema: in primo luogo, si comprese che l’era del federalismo liberale, segnato dalla dottrina Lochner (1905), si era conclusa [10] e subito dopo, superate le tentazioni della pura centralizzazione [11], con una varietà di casi si favorì l’esercizio del potere di spesa della Federazione, attraverso una diversa interpretazione della Welfare Clause [12]. Ciò consentì al presidente Roosevelt di dare corso al suo New Deal, sia prevedendo misure federali nel diritto del lavoro, che vincolavano gli stati membri nel dettare la loro disciplina lavoristica [13] e poggiavano sulla Commerce Clause, sia attraverso il complesso meccanismo dei Grants-in-Aid, costituito da incentivi federali per opere pubbliche [14].
Si è trattato di un processo federale veramente ricco di implicazioni teoriche che realizzarono il modello del c.d. “federalismo cooperativo”, da non confondere con il principio di leale collaborazione del regionalismo italiano. Infatti, gli strumenti del primo, il cui utilizzo è andato avanti nel tempo, compresi gli anni del Presidente Ronald Reagan, si fonda su un estremo rispetto del ruolo degli stati membri, come mostra la sentenza South Dakota v. Dole (1987); diversamente il principio di leale collaborazione, sia nel primo, che nel secondo regionalismo, si è rivelato in concreto poco più di una proclamazione di principio, per giustificare pesanti deroghe al riparto costituzionale delle competenze.
In epoca successiva, con il consolidarsi delle tesi del New Federalism (1970), sorte per fronteggiare un altro periodo di forte crisi (determinato dall’acuirsi della guerra nel Vietnam e dallo schock petrolifero), e con l’affermarsi delle teorie reaganiane dell’economia (Reagenomics) negli anni ’80, come noto incentrate sul taglio delle spese federali per creare posti di lavoro e stimolare la crescita, il federalismo americano riscoprì i diritti degli stati membri. In tale contesto la valorizzazione dell’autonomia degli stati membri non compromise il ruolo guida della federazione, cui è restato il compito di realizzare una sana competizione tra gli stati medesimi, fondata sull’attrazione di finanziamenti e popolazione, da un lato, e sulla politica fiscale, dall’altro (c.d. “federalismo competitivo”).
Gli equilibri consolidati del federalismo statunitense risultano da ultimo confermati anche dalla recente decisione della Corte Suprema (NGBI v. Sebelius, 2012) che, chiamata a valutare la costituzionalità del Patient Protection and Affordable Care Act, voluto dal Presidente Obama, si è pronunciata mantenendo un rigoroso equilibrio tra la federazione e gli stati membri. Infatti, da una parte ha considerato ricompreso nel potere di tassazione di questa il c.d. Individual Mandate (l’obbligo di acquisto di una polizza assicurativa) e, dall’altra, ha riconosciuto incostituzionali le modifiche apportate al sistema della Medicaid dalla legge federale, ritenendole una semplice pressure verso gli stati membri, ma una “forma di coercizione” nei confronti di questi, non accettabile dal punto di vista dei canoni che costituzionalmente regolano il federalismo cooperativo.
Analoghe considerazioni potrebbero farsi per il federalismo tedesco, quanto meno relativamente alle seguenti fasi della storia recente, dove pure sono presenti sia l’esperienza cooperativa, che quella competitiva: la realizzazione dei c.d “compiti comuni” (1968); la riunificazione tedesca (1990); il processo di integrazione europeo (1993-94); la rifederalizzazione dell’ordinamento tedesco (2006); la revisione della Costituzione finanziaria (2009), che prevede già i meccanismi per fronteggiare, in collaborazione tra Bund e Länder, i problemi determinati dall’acuirsi della crisi economica e le cui regole di fatto stanno alla base del MES e del Fiscal Compact.
Se si passa al profilo della finanza pubblica negli stati federali – particolarmente rilevanti ai fini delle considerazioni finali sul regionalismo italiano, in quanto su tali profili si dovrebbero modellare anche in Italia i tagli della spending review dovuti alla crisi – ci si accorge che in tali stati la distribuzione delle risorse è ben diversa da quella che si registra nel nostro paese: negli ordinamenti federali la spesa ruota intorno ad una quota del 30% da parte della Federazione ed una quota del 70% da parte degli stati membri o dei Länder; nel nostro paese, invece, pur dopo dopo la riforma del regionalismo, la spesa statale è ancora pari al 52%, mentre quella locale e regionale è ferma al 48%.
La differenza tra l’Italia e questi stati è perciò considerevole e denota l’alto tasso di devoluzione dei compiti attribuiti alla periferia propria dei sistemi federali, connotati dal c.d. federalismo di esecuzione. In tali ordinamenti, peraltro la devoluzione dei poteri non impedisce al governo federale, dal punto di vista interno, di monitorare i comportamenti degli stati membri, di svolgere delle politiche perequative dei territori più articolate e, soprattutto, esercitate in collaborazione e di agire in via sostitutiva nel caso di inadempimenti che possano pregiudicare lo svolgimento delle politiche federali.
Sulla base dei presupposti sin qui richiamati, si può prospettare in Italia una risposta alla crisi, meno contraddittoria dal punto di vista interno, sia con riferimento alla situazione finanziaria, che a quella costituzionale, mediante il completamento del decentramento funzionale a favore delle regioni e delle autonomie locali. Infatti, sembra doversi dire che ciò che è mancato negli anni 2010-2012 sia la capacità di riforma che, in qualche misura, è stata invece presente negli anni 1997-2001, contribuendo a permettere all’Italia di cogliere il successo della moneta unica.
In quella fase, peraltro, si è puntato proprio alla ripresa e al rafforzamento del regionalismo, mentre in questa si sta mirando alla compressione delle regioni e alla riduzione delle autonomie locali.
Il sistema emerso dalla revisione del Titolo V non era di certo perfetto e completo, né le regioni sono state sempre in grado di utilizzare al meglio la maggiore autonomia loro conferita dalle nuove disposizioni costituzionali; tuttavia, la direzione di marcia della trasformazione della Repubblica era certamente quella giusta. La circostanza che il processo riformatore si sia arrestato, è visibile sia dal punto di vista costituzionale (riforma del parlamento e delle altre istituzioni della Repubblica) e dell’attuazione costituzionale (soprattutto, il federalismo fiscale), che da quello dell’amministrazione statale, rimasta in pratica eguale, per consistenza e spesa, a prima della riforma costituzionale.
Si tratta di una delle principali criticità del paese. La svolta pertanto deve venire da questi elementi e con una ripresa soprattutto culturale animata dall’idea che uno degli interventi che agevolerebbe il superamento della crisi è rappresentato da una seria presa in considerazione del regionalismo e del sistema delle autonomie locali.
In questo senso, la ripresa del federalismo dovrebbe essere avvertita, pur nella diversità che contraddistingue le regioni, tanto al nord, quanto al sud e avere un carattere nazionale.
Appare peraltro indubbio che il vantaggio di un assetto autenticamente regionale, in un paese attraversato dal divario territoriale discenderebbe dalla circostanza che potrebbero realizzarsi attività più confacenti alle condizioni storiche delle regioni meridionali, senza rinunciare agli stessi vantaggi che la globalizzazione offre anche alle regioni più sviluppate del nord. Una diversificazione delle decisioni pubbliche, tra nord e sud, oggi, non pare possibile solo attraverso gli interventi dello stato centrale, per due ragioni. In primo luogo, perché le decisioni di questo tendono alla realizzazione dell’uniformità giuridica, come appare evidente con la legislazione di ricentralizzazione dei poteri e con quella sui contenimenti della spesa pubblica; in secondo luogo, i poteri centrali hanno difficoltà a generare una responsabilità della classe politica locale e una consapevolezza delle problematiche e delle possibili soluzioni nell’opinione pubblica delle diverse regioni.
Per il sud, in particolare, si tratterebbe di affrontare una certa quantità di problemi ancorati essenzialmente al ritardo nella pianificazione strategica territoriale, la quale farebbe crescere culturalmente le regioni meridionali, rendendole consapevoli delle risorse che detengono e del loro migliore utilizzo, per favorirne lo sviluppo.
Per le regioni del nord si tratterebbe, poi, di comprendere che la questione meridionale del ventunesimo secolo può essere il volano per una ripresa dell’intero sistema economico.
Se si vuole considerare comparativamente la situazione del divario italiano odierno, non alle origini della questione meridionale dovrebbe farsi riferimento, quanto all’esempio della riunificazione tedesca, nella quale i Länder occidentale assunsero, insieme alla Federazione, la responsabilità diretta per la crescita dei Länder orientali, non solo per solidarietà patriottica, ma anche e soprattutto perché gli interventi nei territori della ex DDR consentirono un rilancio dell’intera economia tedesca.
La questione del divario territoriale italiano può rappresentare quindi anche per le regioni del nord un terreno di intervento in grado di consentire loro, grazie agli strumenti del regionalismo, di promuovere una ulteriore fase di sviluppo dei loro territori.
In questo ambito viene in discussione, innanzi tutto, la perequazione orizzontale, che permetterebbe alle regioni medesime, e in particolare a quelle in una condizione finanziaria migliore, di rivendicare una maggiore rappresentanza e responsabilità a livello statale, facendosi carico della “tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica”. Inoltre, le regioni potrebbero attivare con le loro politiche una competizione tra i territori, anche attraverso la fiscalità di vantaggio e un migliore utilizzo delle loro risorse naturali e culturali. Infine, non dovrebbe escludersi che le regioni possano attivare forme di “federalismo fiduciario”, con il trasferimento delle best practices, da una regione all’altra.
Ciò non implica peraltro che lo stato centrale possa rimanere inerte rispetto al divario territoriale. Infatti, quanto sin qui detto dovrebbe comportare un riesame dei parametri della spending review, compresi quelli adottati nel decreto legge n. 95 del 2012, al fine di favorire, non la ricentralizzazione della legislazione e dell’amministrazione, ma un riassetto dei poteri legislativi e delle funzioni amministrative, più dinamico e sensatamente basato sul riparto costituzionale delle competenze, possibilmente rivisitato per renderlo quanto più adeguato possibile alla logica del regionalismo e dell’autonomia locale.
Inoltre, non pare accettabile la scomparsa delle politiche statali di perequazione territoriale. Sebbene appaiano auspicabili riforme (costituzionali e legislative) dei meccanismi perequativi, in modo da consentire di realizzare la perequazione in un contesto di autentico federalismo fiscale.
Infine, sembra necessaria una revisione dei meccanismi di raccordo delle funzioni, dal Senato federale, alla riforma del sistema delle Conferenze, intesa a dotare la cooperazione di autentiche forme federali di collegamento tra le funzioni statali e quelle regionali.
La Repubblica italiana potrebbe così realizzare finalmente un regionalismo maturo, nel quale il riconoscimento dei rispettivi ruoli dello stato e delle regioni trovi un giusto equilibrio, il cui punto di chiusura dovrebbe essere rappresentato dall’esercizio efficace dei poteri sostitutivi dello stato.
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[1] v. il ddl costituzionale “Ordinamento federale della Repubblica”, approvato dal Consiglio dei Ministri, nella seduta del 9 marzo 1999, AC 5830, XIII Legislatura
[2] v. Lavori preparatori della legge costituzionale n. 3 del 2001, a cura del Senato della Repubblica, novembre 2001, I, 288.
[5] “Ai fini della tutela dell'unità economica della Repubblica, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2011-2013 nelle misure seguenti in termini di fabbisogno e indebitamento netto: a) le regioni a statuto ordinario per 4.000 milioni di euro per l'anno 2011 e per 4.500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012; b) le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano per 500 milioni di euro per l'anno 2011 e 1.000 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012; c) le province per 300 milioni di euro per l'anno 2011 e per 500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012, attraverso la riduzione di cui al comma 2; d) i comuni per 1.500 milioni di euro per l'anno 2011 e 2.500 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2012, attraverso la riduzione di cui al comma 2”.
[6] art. 20, commi 4 e seguenti, decreto legge n. 98 del 2011, convertito in legge n. 111 del 2011; art. 1 decreto legge n. 138 del 2011, convertito in legge n. 149 del 2011; articoli 30, 31 e 32 legge n. 183 del 2011.
[7] Si pensi, al riguardo, alla previsione sulla soppressione di tutti i comuni fino a mille abitanti, successivamente addolcita con la previsione dell’obbligo di esercizio associato di tutte le funzioni; palesemente incostituzionali, e segnatamente in violazione dell’art. 118 Cost., sono, poi, le disposizioni sul commissariamento delle province, sugli organi di governo provinciali e sul trasferimento delle funzioni provinciali a Comuni e Regioni (art. 23, commi 14-20, del decreto legge n. 201, cit.).
[8] Le prime stime di queste misure portano ad una riduzione di risorse, per le regioni, a prescindere dagli ulteriori tagli alla spesa sanitaria, pari a circa 3,5 miliardi di euro, per il biennio 2012/2013.