Antonio D’ATENA, Il territorio regionale come problema di diritto costituzionale (Dicembre 2008)
AVVERTENZA: Relazione al Convegno internazionale dal titolo “Le variazioni territoriali nello Stato composto”, Università di Padova – Sede di Rovigo, 23-24.4.2007
Sommario:
Introdurrò il tema, ricorrendo ad una figura retorica: l’antifrasi. Infatti, per parlare del regionalismo prenderò le mosse dal modello istituzionale che ad esso viene comunemente contrapposto: quello dello Stato unitario centralizzato.
Si tratta – com’è noto – di un modello istituzionale affermatosi, in Europa, all’indomani della rivoluzione francese. Il quale trovava il proprio centro gravitazionale nel principio dell’unità ed indivisibilità dello Stato: un principio, che, enunciato per la prima volta dalla Costituzione del 1791, ha attraversato, come un filo rosso, tutto il costituzionalismo francese successivo. Nella sua formulazione originaria, esso presentava il seguente tenore letterale: “Le Royaume est un et indivisible” (art. 1 del tit. II ).
È, peraltro, altrettanto noto che un’enunciazione non dissimile figura anche nell’art. 5 della vigente costituzione italiana, nella parte in cui qualifica la Repubblica “una e indivisibile”. Rispetto al modello originario, tuttavia, la formulazione italiana presenta una differenza decisiva. Nel cit. art. 5, infatti, il riferimento all’unità ed indivisibilità è bilanciato da quello alla promozione delle autonomie locali (“La Repubblica, una e indivisibile – vi si legge –, riconosce e promuove le autonomie locali”). Soluzione, questa – sia consentito aggiungere –, che non merita le ironie di cui è stata fatta oggetto. Mi riferisco ad un sarcastico giudizio di Denis de Rougemont, il quale in essa ravvisava una testimonianza della capacità di mettere d’accordo il diavolo e l’acqua santa: il federalismo dei girondini ed il centralismo dei giacobini. Il giudizio – come ho avuto occasione di rilevare in altra sede – è brillante, ma ingeneroso. La formula italiana, infatti, scolpisce plasticamente la tensione che informa di sé tutte le costituzioni che conoscono entità sub-statali dotate di autonomia politica: la tensione tra il principio unitario ed il principio autonomistico, entrambi essenziali alla sussistenza degli ordinamenti di questo tipo. Senza il primo, infatti, lo Stato si disintegrerebbe, mentre, senza il secondo, corrisponderebbe al modello francese di cui s’è detto in apertura.
Non è, d’altra parte, privo di significato che tale formulazione abbia fatto scuola. Analoghe enunciazioni si rinvengono, infatti, nelle costituzioni dei due Stati europei la cui transizione alla democrazia è coincisa con l’avvio di processi di – più o meno estesa – regionalizzazione: la Costituzione portoghese del 1976 e la Costituzione spagnola del 1978. Senza contare che, per una sorta di singolare nemesi storica, nella stessa costituzione francese, per effetto di una riforma costituzionale del 2003, al tradizionale principio unitario si è affiancato un principio rivolto a mitigarne la portata (ancorché in termini di non agevole interpretazione): il principio del decentramento. Questo, conseguentemente, l’attuale tenore dell’art. 1, comma 1: “La France est une République indivisible, laïque, démocratique et sociale. [...] Son organisation est décentralisée".
Ma torniamo al modello dello Stato unitario centralizzato, nella sua versione originaria e più rigorosa. Alla sua stregua, lo Stato si configura come un organismo monolitico, il cui cervello è nella capitale: un organismo, il quale ignora ogni spazio di autonomia ed in cui le articolazioni territoriali sono gerarchicamente subordinate al centro.
Nella Francia rivoluzionaria, l’idea era così forte che in suo nome si negavano quelle che, ai nostri occhi, si presentano come evidenze. Noi oggi diamo – ad esempio – per scontato che, attraverso l’elezione, si stabilisca un rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti. Ebbene, nella citata costituzione del 1791, ciò era espressamente negato. In essa, infatti, si affermava che i titolari di organi elettivi locali non avessero “carattere rappresentativo”, ma fossero “agenti eletti a tempo determinato dal popolo, per esercitare, sotto la sorveglianza e l’autorità del Re, le funzioni amministrative” (tit. III, cap. IV, sez. II, art. 1).
Questa impostazione aveva dietro di sé una politica ed una teoria.
La politica era quella dello smantellamento di tutti i residui pluralistici di ascendenza medioevale. Essa trovava il proprio coerente corollario nell’avversione per le comunità parziali e per le libertà associative, che percorreva la legislazione dell’epoca: dagli atti ai quali, nel 1791, si deve il divieto delle corporazioni e delle associazioni economiche (decreto d’Allarde e legge Le Chapellier), alla Costituzione dell’anno III, contenente numerose norme restrittive, soprattutto in materia di associazioni politiche (artt. 360 ss.), sino al codice penale del 1810, il cui art. 291 ha praticamente cancellato quanto restava della libertà d’associazione.
La teoria era rappresentata dalla concezione che ravvisava nel popolo un’entità unitaria: l’unica entità tecnicamente rappresentabile. Tale concezione era così profondamente radicata che, in Francia, ancora agli inizi del ‘900, quando un parlamentare pretendeva di parlare anche a nome di colleghi, veniva ammonito dal Presidente dell’assemblea, il quale, ricordandogli la sua qualità di rappresentante dell’intera nazione, lo invitava a rendersi interprete di un punto di vista elaborato in modo autonomo (per il riconoscimento dei gruppi parlamentari dovrà, infatti, attendersi il 1910 per la Camera ed il 1921 per il Senato).
2. La tensione tra lo Stato in senso giuridico e lo Stato in senso sociologico: la crisi dello Stato e le aperture pluralistiche del costituzionalismo novecentesco.
Ebbene, oggi sappiamo che la concezione del popolo come grandezza unitaria non aveva (né ha) alcuna consistenza sociologica.
L’autore che, con maggiore nettezza, ha portato alla luce questo aspetto è Hans Kelsen.
Ad un suo scritto del 1922 – “Il concetto sociologico e il concetto giuridico di Stato” – si deve la più compiuta dimostrazione che la configurazione del popolo come entità unitaria sia una creazione del diritto. In esso si evidenzia che il popolo, in quanto tale, non esiste in natura: la collettività sottostante allo Stato risultando composta da una pluralità di gruppi eterogenei, tenuti insieme da diversi fattori aggreganti (culturali, economici, confessionali, etc…).
L’acquisizione è fondamentale. Per la ragione che la tensione tra lo Stato in senso sociologico e lo Stato in senso giuridico è una tensione reale (la quale, quindi, non appartiene soltanto al mondo dei concetti). È, infatti, evidente che, se lo Stato costruisce il proprio ordinamento ignorando le formazioni sociali che ne innervano il “popolo”, finisce fatalmente per essere sottoposto alla pressione di queste ultime, che reclamano riconoscimento.
Com’è noto, nel continente europeo tale tensione è storicamente divenuta ineludibile agli inizi del ‘900, quando lo Stato costruito sull’ideologia del carattere monolitico del suo elemento personale è entrato in aperto conflitto con la struttura plurale del suo substrato sociale.
È il tema della crisi dello Stato, posto vigorosamente sul tappeto da un altro grande del ‘900 – Santi Romano –, che, nella prolusione pisana del 1911, significativamente intitolata “Lo Stato moderno e la sua crisi” (quella prolusione – può per inciso aggiungersi – da cui è stata anticipata e preparata la teorizzazione che sarebbe stata magistralmente sviluppata nell’ordinamento giuridico), metteva in evidenza l’inadeguatezza delle strutture dello Stato liberale-censitario a rappresentare una società sempre più articolata, in cui si sviluppava tumultuosamente un pluralismo spontaneo, che trovava espressione in entità come i sindacati, le società cooperative, le istituzioni di mutualità, i primi partiti di massa…
Com’è noto, buona parte del costituzionalismo europeo del novecento può essere letta come il tentativo di comporre questa tensione, lungo un percorso, peraltro, non continuo, ma segnato da arresti e tragiche degenerazioni.
Due, le principali direzioni di marcia: l’allargamento del suffragio e l’apertura del diritto costituzionale positivo alle istanze pluralistiche.
Soffermando l’attenzione sul secondo filone – che è quello che maggiormente interessa in questa sede – può ricordarsi che le aperture pluralistiche hanno trovato le loro prime espressioni nel riconoscimento costituzionale delle libertà associative, ignorate (quando non avversate) dalle costituzioni dell’800. Particolarmente significativa è, a questo riguardo, la Costituzione di Weimar del 1919, la quale dotava di riconoscimento espresso la libertà di associazione (art. 124), garantiva i sindacati (art. 159), nominava – non regolava – i partiti politici (art. 130) (per una compiuta disciplina costituzionale dei quali, dovendosi attendere le Costituzioni del secondo dopoguerra, e, soprattutto, la Costituzione italiana del 1947).
3. Il regionalismo ed il tema dell’identificazione territoriale delle Regioni: la risposta spagnola e la risposta italiana.
In questa linea evolutiva si colloca il regionalismo, che storicamente si innesta sul tronco dello Stato unitario centralizzato, di cui costituisce uno sviluppo.
Il copyright del modello, se si prescinde da una parziale (e, in ultima analisi, simbolica) anticipazione peruviana (dovuta alla Costituzione del 1920), va riconosciuto alla Costituzione spagnola del 1931: la Costituzione della seconda Repubblica. La quale, mediante la creazione delle Regioni, intendeva dotare di una proiezione istituzionale e di spazi di autonomia collettività territoriali caratterizzate da identità linguistico-culturali molto forti. Si pensi alla Catalogna, al Paese Basco, alla Galizia …
Le tecniche giuridiche di cui quella costituzione faceva uso erano, in parte, mutuate dal costituzionalismo federale. V’era, tuttavia, una questione centrale, che – attesa la diversa direzione del processo di regionalizzazione rispetto ai classici processi federativi – non poteva essere attinta da quel repertorio. Era la questione dell’identificazione territoriale delle nuove entità.
Infatti, mentre negli Stati federali classici gli enti sub-statali preesistono alla nascita della Federazione (che tengono a battesimo), configurandosi come un a priori rispetto ad essa, negli Stati regionali debbono essere creati dallo Stato, nel momento in cui si regionalizza.
La Costituzione del 1931 – anticipando la soluzione che sarebbe stata accolta dalla Costituzione che, dopo il franchismo, ha riesumato il regionalismo: la Costituzione del 1978 – affrontava il problema, mediante una disciplina di tipo strumentale. Essa non individuava direttamente le Regioni ed i rispettivi territori, ma prevedeva il modo in cui tali enti potevano essere istituiti, prefigurando un processo di autoidentificazione dal basso. Essa, in particolare, riconosceva ad enti territoriali preesistenti – le province – la facoltà di aggregarsi in Regioni, ove ritenessero sussistenti i presupposti costituzionalmente richiesti: la presenza di “caratteristiche storiche, culturali ed economiche comuni” (per riprendere la formulazione accolta dall’art. 11 della Costituzione del 1931 e letteralmente riprodotta dall’art. 143 della Costituzione vigente).
In questa sede non è il caso di soffermarsi sulla maggiore implicazione della soluzione prescelta. La quale è alla radice dell’asimmetria del regionalismo spagnolo: asimmetria, non solo, quanto alle competenze, ma anche – almeno in teoria – quanto alla stessa regionalizzazione: all’an della regionalizzazione. In base ad essa, infatti, il processo di regionalizzazione avrebbe potuto interessare solo parte del territorio nazionale.
Quello che preme sottolineare è la felicità della soluzione. L’autoidentificazione dal basso, infatti, scongiura il maggior pericolo cui i processi di regionalizzazione sono esposti: il pericolo della costituzione di entità artificiali, prive di un substrato sociale omogeneo dal punto di vista antropologico-culturale.
Completamente diversa – com’è noto – la via battuta dal nostro Paese: quella della scelta giacobina. Le Regioni, infatti, sono state calate dall’alto, per effetto di un atto di volontà del legislatore costituente. Il quale, elencando, all’art. 131, i nuovi enti, ha reso Regioni delle circoscrizioni territoriali costruite ad altro fine: i vecchi compartimenti statistici, disegnati nel 1863 dall’allora direttore dell’Istituto di Statistica – Pietro Maestri – e battezzati ufficialmente con il nome di “regioni” nel 1913.
In tal modo, l’Assemblea costituente è riuscita a rompere la spirale localistica in cui si avvolgeva il dibattito, la quale rischiava – come taluno, peraltro, auspicava – di trasformare in Regioni le preesistenti Province. I limiti della soluzione, tuttavia, non sfuggono. Infatti, mentre alcune delle entità così individuate risultavano provviste di un substrato sociale sufficientemente omogeneo, ad altre tale requisito faceva difetto.
Il dato non va, però, eccessivamente drammatizzato. È, infatti, difficile negare che, a quasi 40 anni dalla completa regionalizzazione del Paese, le nuove istituzioni si siano, in qualche modo, radicate, creando, con le collettività sottostanti, il legame di cui erano inizialmente prive. E, quindi, almeno in parte, emancipandosi dal loro peccato originale.
D’altra parte, che l’illazione non sia arbitraria è confermato dal fatto che le ipotesi di radicale riarticolazione dell’impianto regionale avanzate in sede politica nazionale (mi riferisco soprattutto all’idea di sostituire le Regioni esistenti con macroregioni) non abbiano, sino ad ora, trovato seguito in iniziative dei comuni (secondo quanto richiede l’art. 132, comma 1, Cost., che subordina l’avvio del procedimento a richieste di un numero di consigli comunali corrispondente ad almeno un terzo delle popolazioni interessate). Le sole iniziative sono – come vedremo – iniziative molto circoscritte, le quali trovano, soprattutto, espressione nelle richieste di aggregazione a Regioni ad autonomia speciale di comuni ubicati in Regioni ad autonomia ordinaria.
Come risulta da questi ultimi accenni, il tema del territorio non pone solo il problema dell’originaria identificazione delle entità sub-statali; pone anche un altro problema: quello della loro riarticolazione territoriale.
Questo problema – a differenza di quello prima considerato – si presenta anche negli ordinamenti federali di tipo classico. Per l’evidente ragione che, da un punto di vista teorico, nulla impedisce che le entità originarie (o almeno le rispettive estensioni territoriali) subiscano variazioni nel tempo. Tra l’altro, ciò accade con una certa frequenza. Si pensi, ad esempio, al caso della Germania, in cui si è registrata la scomparsa di Länder storici, anche di prima grandezza (come la Prussia), e l’avvento di Länder risultanti dalla fusione di entità originariamente distinte (o di loro parti), talora resa manifesta dalla doppia denominazione (si tratta dei c.d. Bindestrich-Länder – i Länder con il trattino – come il Baden-Württemberg, il Nordrhein-Westfalen, il Mecklemburg-Vorpommern od il Rheinland-Pfalz).
In relazione a questo tema, il diritto comparato esibisce garanzie di varia intensità.
La garanzia massima è rappresentata dal principio del consenso, risalente alla Costituzione federale archetipica: quella degli Stati uniti d’America (art. IV, sez. 3). Tale principio trova applicazione tutte le volte che la Costituzione subordina la variazione territoriale all’assenso dell’ente che ne sia interessato (e, talora, del gruppo sociale sottostante).
Particolarmente netta al riguardo la disciplina posta dalla vigente Costituzione svizzera. La quale, non solo, considera necessario l’assenso dei Cantoni toccati dalle variazioni territoriali, ma – ad esclusione che per le rettifiche di confine – esige anche quello delle popolazioni sottostanti, nonché, laddove la modifica comporti variazione del numero dei cantoni, quello del popolo svizzero (art. 53).
Diversa è la soluzione austriaca. È, infatti, vero che la Costituzione prevede – salvo che per le modifiche territoriali previste dai trattati di pace – il necessario assenso dei Länder interessati. La garanzia ulteriore da essa richiesta non è, tuttavia, rappresentata dall’intervento referendario delle popolazioni, ma dalla forma costituzionale degli atti. In base all’art. 3, in particolare, le variazioni territoriali debbono essere disposte da convergenti leggi costituzionali della Federazione e dei Länder che ne siano toccati .
In una linea, in parte, analoga si colloca anche la legge fondamentale tedesca, che, in deroga alla meno garantistica disciplina generale, prevede, per le “minori” variazioni territoriali – quelle che abbiano ad oggetto territori con non più di 50.000 abitanti –, l’accordo tra i Länder interessati (surrogabile, tuttavia, da una legge federale sottoposta all’approvazione del Bundesrat [art. 29, comma 7]).
Ciò detto, deve aggiungersi che, anche negli ordinamenti in cui la garanzia non è così incisiva, le comunità interessate non sono estromesse dal processo di decisione, nel quale sono, a vario titolo, coinvolti sia gli enti in cui trovano la propria proiezione istituzionale, sia i sottostanti corpi elettorali. Si tratta di coinvolgimenti di ordine procedimentale, che, per gli enti, trovano alternativamente espressione in atti d’iniziativa od in pareri, mentre, per gli elettorati, in referendum confermativi.
Al primo tipo possono ricondursi l’iniziativa dei comuni e delle province ed i pareri dei Consigli regionali, richiesti in Italia per tutte le variazioni territoriali delle Regioni (art. 132 Cost.), od i pareri dei Länder interessati, previsti in Germania (art. 29, comma 2, GG) per i processi di riarticolazione territoriale che ne modifichino i confini (ad eccezione, ovviamente, di quelli di cui s’è detto sopra: direttamente disponibili, mediante accordo, dai Länder stessi).
Quanto ai referendum delle popolazioni, va precisato che essi possono avere ad oggetto l’atto introduttivo del procedimento od il provvedimento finale. La prima ipotesi si riscontra in Italia, per la fusione di Regioni esistenti e per la creazione di nuove Regioni (art. 132, comma 1), nonché – con l’avallo di una giurisprudenza costituzionale non particolarmente attenta al tenore letterale dell’art. 132, comma 2, Cost. – per lo spostamento di comuni o province da una Regione ad una Regione diversa. La seconda ricorre in Germania. La Legge fondamentale, infatti, all’art. 29, comma 2, cit., riserva a leggi federali confermate in via referendaria dalle popolazioni interessate, le riarticolazioni del territorio federale diverse da quelle direttamente disponibili dai Länder in via di accordo (di cui s’è detto sopra).
Qui si può prescindere dalla considerazione dei delicatisimi problemi che la partecipazione popolare ai processi di riassetto territoriale pone sul tappeto. Il più rilevante dei quali attiene all’identificazione delle popolazioni interessate. Ci si domanda – ad esempio – se, nei casi di spostamento di un comune da una Regione ad una Regione diversa, sia solo la popolazione del comune migrante a dover essere consultata (secondo la soluzione attualmente accolta in Italia), od anche quella dei comuni della Regione di destinazione, se non pure quella dei restanti comuni della Regione d’origine.
Ciò che deve, comunque, sottolinearsi è che la partecipazione delle popolazioni interessate tende, ormai, a configurarsi come un autentico principio generale. I cui punti di emersione sono costituiti dalle norme costituzionali che la prevedono e dalla Carta europea dell’autonomia locale. Il cui art. 5 letteralmente dispone che “per ogni modifica dei limiti locali territoriali, le collettività locali interessate dovranno essere preliminarmente consultate, eventualmente mediante referendum, qualora ciò sia consentito dalla legge”.
Per completare il quadro con riferimento all’attualità italiana, deve sottolinearsi che il tema delle variazioni territoriali ha assunto una connotazione verosimilmente non prevista dai nostri padri costituenti. Aggiungo che questa declinazione del tema si presenta ormai in termini molto pressanti.
L’origine del problema è costituita dall’esistenza di un doppio circuito di autonomie regionali, le autonomie ordinarie e le autonomie speciali, le quali si differenziano in termini di competenze e sul piano del trattamento economico. Com’è noto, rispetto alle Regioni ordinarie, le Regioni speciali dispongono di più ampie (e rispettivamente differenziate) competenze e – soprattuto – di un più favorevole regime finanziario.
Ciò determina un’oggettiva condizione di disagio nelle popolazioni ubicate nelle Regioni ordinarie più ricche, le quali, con il proprio gettito fiscale, concorrono a determinare il maggior benessere di cui godono i territori regionali speciali.
Il problema non è di facile soluzione. Infatti, nonostante le ricorrenti proposte di abolizione dell’autonomia speciale, i prevedibili costi elettorali di una decisione del genere non fanno considerare l’ipotesi realisticamente percorribile. Come non realistiche sembrano le ipotesi, anch’esse ripetutamente avanzate, di aggiungere all’elenco delle Regioni speciali e delle province autonome altre entità dello stesso tipo, come la Regione Veneto o le province di Belluno, Bergamo e Treviso (per riprendere alcune proposte di legge costituzionale concretamente presentate).
Gli artefici della riforma costituzionale del 2001, consapevoli della difficoltà, hanno cercato di dare una risposta alla condizione di disagio delle Regioni ordinarie (soprattutto, se ad elevato reddito). Essi hanno, in particolare, previsto la possibilità che quelle tra esse che lo concordino con lo Stato possano accedere a “forme e condizioni particolari di autonomia” e ad un diverso trattamento finanziario rispetto alle restanti Regioni del medesimo tipo (art. 116.u.c.). Possibilità, questa, di cui due Regioni tra le più ricche del Paese – la Lombardia ed il Veneto – hanno mostrato di volersi valere, avviando le necessarie procedure.
Il problema viene, tuttavia, affrontato anche per altra via: facendo uso del procedimento costituzionalmente previsto per le variazioni territoriali delle Regioni. Nell’esperienza più recente, in particolare, si registra un processo di dimensioni non trascurabili, che vede impegnati gli enti locali (soprattutto i comuni) ubicati nelle Regioni ordinarie. I quali, con frequenza crescente, chiedono l’aggregazione alla Regione ad autonomia speciale confinante, ripromettendosi, così, di partecipare di una condizione di favore che con il proprio gettito fiscale, concorrono a finanziare. Per avere un’idea dell’estensione del fenomeno, può ricordarsi, che, nel momento in cui si scrive, ben 30 comuni della Regione Veneto hanno avviato il percorso per il passaggio all’ente ad autonomia speciale confinante (la Regione Friuli-Venezia Giulia o le Province autonome di Trento e Bolzano), e sette e due Comuni hanno assunto analoghe iniziative per essere, rispettivamente, aggregati, dalla Regione Piemonte alla Regione Valle d’Aosta e dalla Regione Lombardia alla Regione T.A.A. Vero è che, in qualche caso, la ragione dell’aspirazione non è economica (o, almeno, esclusivamente economica). È, tuttavia, da ritenere che le motivazioni economiche costituiscano l’id quod plerumque accidit.
Sui termini costituzionali della questione si è aperto un dibattito molto vivace, avente ad oggetto il procedimento da seguire.
Ci si domanda, in particolare, se a questa ipotesi debba applicarsi la disciplina dettata dall’art. 132 Cost. per l’aggregazione di comuni e province ad una Regione diversa, oppure il procedimento di revisione degli statuti speciali. Stando alla prima soluzione, il distacco dovrebbe essere disposto da una legge ordinaria adottata al termine di un procedimento in cui siano coinvolti gli enti locali che chiedono il distacco, le rispettive popolazioni ed i Consigli delle Regioni interessate dalla variazione territoriale. Stando alla seconda, invece, occorrerebbero leggi costituzionali di modifica degli Statuti speciali, adottate sulla base del parere della Regione speciale interessata (richiesto dall’atto, che, nel 2001, ha modificato gli statuti speciali: la l.cost. n. 2).
I fautori della prima soluzione fanno leva sulla circostanza che la disciplina posta dall’art. 132 non sia riferita espressamente alle variazioni territoriali che interessino le sole Regioni ordinarie. A loro giudizio, quindi, presenterebbe i caratteri di una disciplina generale, applicabile anche alle Regioni speciali.
I sostenitori della seconda, per contro, invocano le norme statutarie speciali che individuano il territorio della rispettiva Regione, le quali – atteso il loro grado costituzionale – irrigidirebbero i confini regionali, sottraendoli alla possibilità di modifica mediante il procedimento contemplato dall’art. 132, comma 2, che culmina – come si è visto – in un atto legislativo ordinario.
Della questione è stata investita anche la Corte costituzionale, che, nel 2007 (sent. 66), ha aderito alla prima opinione, negando che il procedimento di cui all’art. 132, comma 2, Cost. sia derogato dalle norme statutarie speciali che individuano il territorio delle rispettive Regioni.
La soluzione è, a mio avviso, da condividere.
Che l’art. 132, comma 2, ponga una disciplina generale, destinata ad applicarsi a tutte le Regioni (anche, quindi, a quelle differenziate), sembra suffragato dalla circostanza che la costituzionalizzazione non sia una prerogativa esclusiva dei territori regionali speciali.
Ciò è confermato dall’elenco costituzionale delle Regioni, di cui all’art. 131 Cost. Il quale, in tanto può ritenersi dotato di una comprensibile funzione, in quanto si assuma che i nomina da esso usati non siano altrettante scatole vuote, ma evochino le estensioni territoriali degli enti mediante essi designati. Il fatto che, nonostante tale costituzionalizzazione, l’art. 132, comma 2, demandi le variazioni dei confini regionali ad atti legislativi ordinari (ancorché adottati sulla base di un procedimento che vede l’iniziativa dei comuni [o delle province], la partecipazione referendaria della popolazione interessata al distacco ed il parere delle Regioni da esso toccate) costituisce, quindi, la conferma che, nella prospettiva accolta dal costituente, la individuazione costituzionale dei territori regionali sia parzialmente cedevole, in quanto derogabile a mezzo di atti di tipo legislativo. Il che, se vale per le Regioni ad autonomia ordinaria, non si vede perché, in assenza di difformi discipline statutarie, non debba valere per le Regioni ad autonoma speciale. Si parla di cedevolezza parziale, perché tale possibilità è esclusa, quando la variazione territoriale modifichi il numero delle Regioni (determinando la scomparsa di Regioni esistenti o la creazione di Regioni nuove). Come la Costituzione federale svizzera, infatti, la Costituzione italiana, per questa ipotesi, prevede una disciplina rafforzata. A differenza che in Svizzera, tuttavia, in Italia il rafforzamento non è costituito dal coinvolgimento referendario dell’intero popolo dello Stato, ma dal ricorso alla legge costituzionale (al termine di un procedimento che prevede la partecipazione dei comuni che assumono l’iniziativa, delle popolazioni dell’area del cui distacco si tratti, delle Regioni da esso toccate) (art. 132, comma 1).
Prima di concludere, non può non sottolinearsi che il fenomeno dell’emigrazione comunale nei territori regionali speciali non pone soltanto problemi giuridici. Non sfugge, infatti, che, se esso si sviluppasse senza ostacoli, assisteremmo ad un processo di graduale e progressiva aggregazione, attorno al nucleo territoriale originario, di territori, via via, più ampi. Con conseguenze abbastanza inquietanti. Infatti, l’allargamento a macchia d’olio del territorio regionale speciale, da un lato, comprometterebbe la situazione finanziaria delle Regioni di tipo differenziato, d’altro lato, modificando la composizione delle collettività sottostanti, frustrerebbe le esigenze di tutela linguistico-culturale che hanno storicamente presieduto alla creazione di alcune tra esse. Profilo, questo, potenzialmente aggravato dal fatto che in Italia, diversamente da quanto si registra in altri ordinamenti, la contiguità territoriale non è espressamente elevata a condizione per l’aggregazione di un comune (od una provincia) ad una Regione diversa da quella di appartenenza. Onde, la, almeno astratta, possibilità che il comune di Pizzo Calabro venga aggregato alla Provincia autonoma di Trento, o quello di Minervino Murge alla Valle d’Aosta.
Non deve, d’altra parte, dimenticarsi che la strada delle migrazioni comunali è, bensì, espressione di un disagio, ma non può essere considerata la soluzione del problema. Il problema è, infatti, un problema di perequazione finanziaria. Esso va, pertanto, affrontato nella sede appropriata. Che non è quella delle variazioni territoriali delle Regioni, ma quella dell’attuazione della norma costituzionale sulla finanza regionale e locale: l’art. 119.