AVVERTENZA: Rielaborazione dell'intervento svolto al Senato della Repubblica il 26 febbraio 2007, nel quadro dell'indagine conoscitiva sul Titolo V Cost. effettuata dalle Commisssioni Affari costituzionali della Camera e del Senato.
 
Sommario:

1. Premessa

2. Il caso Catalogna e l’art. 116 u.c. Cost. it

3. Bundesrat tedesco e riforma del bicameralismo italiano

 
1. Premessa
              Premetto, anzitutto, che trovo particolarmente felice la scelta di dedicare una seduta alle esperienze spagnola e tedesca.
            Si tratta, infatti, delle due esperienze che hanno maggiormente influenzato l’elaborazione del titolo V da parte della nostra Assemblea costituente.
             Mentre al modello spagnolo della II Repubblica risalgono l’enumerazione “regionale” delle competenze e la previsione di Regioni ad autonomia speciale, al modello tedesco weimariano (oltre che a quello risultante dalla Costituzione austriaca del 1920-29) sono riconducibili l’autonomia ordinaria (uguale per tutte le Regioni che ne sono dotate) ed il “tipo” di competenza legislativa che ha maggiormente goduto dei favori del costituente italiano: la competenza concorrente su riparto verticale.
            Entrambi i modelli hanno, inoltre, ispirato gli artefici della riforma del titolo V della XIII Legislatura.
            Spagnola è l’ispirazione dell’art. 116 u.c., che, prevedendo l’accesso delle Regioni di diritto comune a “forme e condizioni particolari di autonomia”, introduce nel sistema elementi di flessibilità e di asimmetria non dissimili da quelli che connotano strutturalmente il regionalismo iberico.
           D’impronta tedesca, per converso, è il rovesciamento dell’enumerazione delle competenze legislative. Alla medesima matrice possono, inoltre, ricondursi le competenze finalistiche dello Stato. Le quali presentano significativi punti di contatto con la konkurrierende Gesetzgebung di cui all’art. 72 della legge fondamentale.
            È, quindi, chiaro perché, nel momento in cui, in Italia, si approfondiscono i temi della revisione e dell’attuazione del regionalismo, le esperienze più recenti maturate nei due Paesi costituiscano termini di riferimento pressoché obbligati. Tanto più se si considera che in entrambi si sono sviluppati, negli ultimi anni, processi di riforma dei rispettivi modelli di distribuzione territoriale del potere politico. Mi riferisco alla recentissima riforma del federalismo tedesco ed al processo di riscrittura degli statuti d’autonomia in atto in Spagna.
 
 
2. Il caso Catalogna e l’art. 116 u.c. Cost. it.
          Iniziando con la Spagna, può rilevarsi che, nell’odierna fase italiana, il confronto s’impone soprattutto in relazione al dispositivo di cui all’art. 116 u.c. Cost.
            Un dispositivo, che sta vivendo un momento di grande attualità. In quanto, bocciata in via referendaria la riforma costituzionale della scorsa legislatura, che ne prevedeva la soppressione, ad esso fanno appello alcune Regioni (Veneto e Lombardia) per soddisfare le loro esigenze di maggiore autonomia.
            Si tratta, peraltro, di un dispositivo problematico, per due ragioni.
            In primo luogo, perché consente alle Regioni di acquisire un’enorme massa di competenze quasi-esclusive in materie che involgono profili d’incontestabile rilevanza nazionale, come: l’istruzione, la tutela della salute, l’ambiente, l’energia, le grandi reti di trasporto, la ricerca … Per misurare la portata di questo possibile spostamento di poteri, è sufficiente rilevare che, salvo che per la polizia amministrativa regionale e locale, esso è più esteso di quello che era previsto dalla c.d. devolution. (Ho parlato di competenze quasi-esclusive, perché da tali materie lo Stato non sarebbe del tutto tagliato fuori, essendo in condizione di penetrarvi, grazie alle sue competenze finalistiche ed ovviamente nei limiti in cui queste lo consentano)
            Il secondo elemento di problematicità riguarda il delicatissimo tema della finanza. L’art. 116, infatti, prevedendo che l’accesso delle Regioni ordinarie alla specialità avvenga “nel rispetto dei principi di cui all’art. 119”, detta una disciplina notevolmente indeterminata, che lascia ampio spazio ai decisori politici ed al negoziato tra lo Stato e la Regione, di volta in volta, interessata.
            È vero, che in base all’art. 116 u.c., ogni dotazione di competenze e risorse richiede la legge dello Stato (ancorché d’intesa con la Regione). Il che mette il Parlamento nazionale in condizione di porre un freno alle rivendicazioni regionali.
            Si tratta, però, di un correttivo tutto politico. Che, in quanto tale, dipende dai numeri parlamentari.
             È, pertanto, evidente che, se determinanti ai fini della maggioranza politica nazionale sono forze politiche autonomistiche (o dal forte radicamento locale), l’efficacia del correttivo parlamentare rischia di essere soltanto teorica
             Ed è esattamente questa la situazione che si dà attualmente in Spagna. Poiché la maggioranza parlamentare che sostiene il Governo Zapatero è tale solo grazie ai voti di partiti nazionalisti e dipende, in modo determinante, dal sostegno di due partiti catalani. Basti considerare che, dei 12 voti che mancano al PSOE per godere della maggioranza assoluta nel Congresso dei Deputati, ben 10 voti sono assicurati dai parlamentari dell’ERC (Esquerra Republicana de Catalunya) e dell’IC-V (Iniciativa per Catalunya-Verds).
             Se si tiene conto di ciò, non sorprende l’appoggio promesso – ed assicurato, in sede di approvazione parlamentare – dal Presidente Zapatero alla riforma dello statuto d’autonomia per la Catalogna.
           Una riforma, che ha notevolmente accresciuto le prerogative della Comunità autonoma ed ha decisamente migliorato il suo trattamento finanziario, Per quanto riguarda il secondo aspetto, è da ricordare che essa ha innalzato al 50% la quota del gettito tributario spettante alla Regione sull’IRPF e sull’IVA, ed al 58% quella ad essa attribuita sulle imposte speciali.
             Non è ovviamente questa la sede per valutare le innovazioni da cui lo Statuto è stato interessato.
            Quello che preme sottolineare è l’intreccio tra il tema della revisione dello Statuto e dinamiche politiche che si svolgono per intero a livello nazionale: nella partita che si gioca – senza esclusione di colpi – tra la maggioranza e l’opposizione parlamentare.
             Una partita, che, sul tema dello Statuto, ha assunto toni particolarmente aspri, se non drammatici.
              Questa la cronologia essenziale:
  • 20 luglio 2006: pubblicazione nel Bollettino ufficiale dello Stato (BOE) della legge organica n. 6/2006, contenente lo Statuto per la Catalogna;
  • 31 luglio 2006: impugnazione dello Statuto, innanzi al Tribunale costituzionale, da parte dei deputati del gruppo parlamentare del Partito popolare (cui si sono successivamente aggiunti, con propri ricorsi, il Defensor del Pueblo ed alcune Comunità autonome);
  • 31 luglio 2006: ricusazione, sempre da parte dei deputati popolari, di un distinto costituzionalista, membro di quel collegio – il prof. Pablo Pérez Tremps –, a causa di uno studio da lui redatto, per conto della Catalogna, anteriormente all’assunzione della carica;
  • 5 febbraio 2007: accoglimento, a stretta maggioranza, dell’istanza di ricusazione, da parte del Tribunale costituzionale
  • 6 febbraio 2007: aut-aut al Governo del Partito socialista catalano, espresso da una deputata, in termini così sintetizzati nel quotidiano El Mundo del giorno dopo: “si cae el Estatuto cae el Gobierno”.
          In questo momento non sappiamo come il Tribunale deciderà, né se l’eventuale accoglimento dei ricorsi determinerà la crisi di Governo.
          Comunque, al di là dell’esito, è incontestabile l’interesse per noi italiani delle vicende brevemente ricordate. Il caso Catalogna, infatti, dimostra, in modo assolutamente paradigmatico, che, se si danno certe condizioni politiche, la capacità di resistenza del Parlamento nazionale nei confronti di rivendicazioni autonomistiche è soltanto teorica. In questo quadro, una norma aperta, la quale, con riferimento ad un’enorme massa di competenze, rimette la fissazione del confine al negoziato centro-periferia, si rivela una mina vagante dall’impatto imprevedibile.
         Con questo non dico che l’art. 116 u.c. Cost. vada cancellato. Non dimentico, infatti, che, atteso il mantenimento delle Regioni ad autonomia speciale, esso assolve ad un’utile funzione riequilibratrice.
        Ritengo, tuttavia, che occorrerebbe rivederne il contenuto, sulla base di un’attenta valutazione d’impatto: di quella valutazione di impatto che, nella XIII legislatura, è mancata.
 
 
 
3. Bundesrat tedesco e riforma del bicameralismo italiano
            Per quanto riguarda la Germania, l’esperienza degli ultimi anni e la riforma costituzionale del 2006 offrono utili elementi di riflessione con riferimento al bicameralismo ed alla sua riforma.
            Ciò che rende particolarmente significativa l’esperienza del bicameralismo tedesco è la specifica qualità rappresentativa del Bundesrat. Il quale – secondo un giudizio molto diffuso – costituirebbe la seconda Camera più “federale” (per usare la terminologia affermatasi in Italia) del mondo. È, infatti, l’unica che, accogliendo nel proprio seno le entità sub-statali in quanto istituzioni, offre ad esse una sede per concorrere ai processi di decisione politica che si svolgono a livello centrale.
            È, in particolare, noto che, in tale organo:
a)     i membri sono componenti dei Governi dei Länder,
b)     non vale il principio della libertà del mandato,
c)     i voti del Land debbono essere dati unitariamente
           Ciò dovrebbe consentire (ed ha consentito) ad esso di immettere nei processi legislativi federali una logica non partitica ma territoriale. Si pensi alle possibili alleanze tra Länder con medesime caratteristiche e con interessi comuni, come i Länder costieri o quelli produttori di vino.
            Ciononostante, in progresso di tempo, il ruolo e l’uso partitico del Bundesrat sono cresciuti a dismisura.
            Lo strumento che meglio si è prestato a questo sviluppo è costituito dalle leggi federali bisognose del suo assenso (zustimmungsbedürftige Gesetze), il cui numero è venuto aumentando parallelamente alla lievitazione delle competenze del legislatore federale.
            Si è verificato, infatti, con una certa frequenza, che, in presenza di maggioranze politiche diverse nella Dieta federale (Bundestag) e nel Bundesrat, quest’ultimo, bloccando leggi approvate dalla Dieta, sia venuto surrettiziamente ad assumere – come si è felicemente detto (Hans Meyer) – il ruolo di un’efficace opposizione di rango inferiore.
            Con evidenti costi, non solo per la governabilità (limitata dal potere d’interdizione del Bundesrat), ma anche – si badi – per la democrazia: la camera politica rispondendo al corpo elettorale di decisioni di cui non aveva per intero il controllo.
             In considerazione di ciò, è pienamente comprensibile la centralità che, nell’economia della riforma costituzionale del 2006, hanno assunto il ridimensionamento del ruolo del Bundesrat ed il drastico abbattimento del numero delle leggi federali che ne richiedono il necessario assenso. Un numero praticamente dimezzato: essendo passato – secondo le stime più accreditate – dal 60% al 35-40% del totale delle leggi federali.
            L’interesse della vicenda si lega al fatto che questo ruolo politico-partitico sia stato giocato dalla seconda camera strutturalmente più distante da una camera politica. Tanto che – com’è noto – non manca chi dubita che essa possa essere considerata un’autentica istituzione parlamentare.
            Personalmente sono molto scettico sulla possibilità che il Senato italiano venga trasformato in una camera rappresentativa delle istituzioni federate e non delle popolazioni. Ciò richiederebbe nell’organo una propensione al suicidio istituzionale, che considero francamente (e comprensibilmente) improbabile.
            Ritengo, in particolare, improbabile che vengano messe in discussione le due regole che andrebbero – a tal fine – modificate: quella dell’elezione diretta e la regola della rappresentanza (fondamentalmente) proporzionale alla consistenza demografica delle Regioni.
        Stando così le cose, è facile profezia che, nell’ipotesi di una riforma, il Senato seguiterebbe ad obbedire alla logica di una camera politica. E, quindi, ad operare su base partitica e non territoriale. Ciò moltiplicherebbe a dismisura gli inconvenienti che si sono registrati in Germania. Tanto più, se – com’è avvenuto nella scorsa legislatura – si pensasse di dotarlo di una competenza praticamente esclusiva in materia di leggi-cornice: assicurandogli, così, il monopolio della decisione in ambiti nevralgici per l’intera collettività nazionale.
            Di qui, l’esigenza di un’attenzione estrema. Per evitare che l’eventuale riforma del nostro bicameralismo crei più problemi di quanti non ne risolva.

Menu

Contenuti