Lo studio trae origine dalla relazione tenuta il 24.5.2006, presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, al Convegno su “Giustizia costituzionale ed evoluzione dell’ordinamento italiano”, organizzato dalla Corte costituzionale e dall’Accademia predetta, per i 50 anni di attività della Corte. Esso è in corso di pubblicazione, con corredo di note, in A. PACE (a cura di), Corte costituzionale e processo costituzionale nell’esperienza della rivista Giurisprudenza costituzionale, ed. Giuffrè.
 
 
Sommario:
 
 
1. Dal principio della prevalenza gerarchica del diritto federale alla giustiziabilità dei riparti di competenze.
         Oggi, dove esistono forme di decentramento politico a base territoriale, esistono dei giudici – si tratta in genere di giurisdizioni costituzionali – chiamati a dirimere le controversie circa la ripartizione delle competenze tra centro e periferia.
         E’ una situazione talmente diffusa che qualcuno arriva addirittura a considerarla una necessità logica assoluta. C’è chi sostiene che non sia pensabile un ordinamento federale in cui manchi un organo giurisdizionale chiamato a dirimere conflitti di competenza. E, quindi, ad interpretare le norme da cui le competenze sono ripartite.
         E’ peraltro noto che, da un punto di vista storico, le cose non stanno esattamente così.
         Infatti, quando il federalismo ha fatto le sue prime apparizioni nel continente europeo, la logica che informava il sistema era una logica completamente diversa: compendiata in maniera icastica in una formula che si legge nell’art. 13 della Costituzione di Weimar: la formula secondo cui il diritto della Federazione – o dell’Impero, come allora si diceva – “rompe” il diritto degli Stati membri.
         Si tratta – come si vede – del criterio della prevalenza gerarchica del diritto federale, risalente alle Costituzioni del Norddeutscher Bund (1866) e del Reich bismarckiano (1871): una prevalenza gerarchica, postulante la disponibilità del riparto delle competenze da parte del legislatore federale e fondata su una robustissima costruzione teorica, dovuta soprattuto a Paul Laband. Il quale deduceva la prevalenza delle leggi della Federazione rispetto a quelle dei Länder dalla circostanza che la prima, a differenza dei secondi, avrebbe vantato l’attributo della sovranità.
         Un’eco di tale impostazione si rinviene ancora oggi nella Costituzione svizzera, che, anche nella sua ultima versione – quale risulta dalla revisione totale del 1999 –, pur riconoscendo al Tribunale federale il potere di annullare le leggi cantonali lesive delle competenze federali, non riconosce ad esso analogo potere nei confronti delle leggi della Federazione che invadano competenze costituzionalmente riservate ai Cantoni. Il che – sia aggiunto di passaggio – costringe quel giudice ad autentiche acrobazie, per mitigare la drasticità di tale asimmetria.
         Ebbene, se si considera che, in Europa, questo è stato il punto di partenza, ci si rende agevolmente conto che quanto oggi appare naturale, se non scontato – ci si riferisce all’esistenza di strumenti di tutela giurisdizionale dei riparti di competenza tra centro e periferia – è stato il frutto di una radicale svolta storica: una svolta storica, la cui paternità va riconosciuta a Hans Kelsen. A Kelsen si deve, infatti, la più conseguente enunciazione dell’assunto che, in un sistema federale, il riparto delle competenze deve essere indisponibile dai soggetti ai quali si riferisce. E deve essere, quindi, dettato da una costituzione rigida. Onde il corollario che la legge destinata a prevalere non sia la legge di questo o quel soggetto, in funzione di caratteristiche del soggetto stesso, ma la legge conforme a Costituzione.
         Non è casuale che tale modello culturale abbia trovato la sua prima traduzione di diritto positivo nella Costituzione austriaca del 1920/1929: una costituzione d’ispirazione kelseniana, la quale, rispetto al costituzionalismo tedesco, presentava alcune novità di grandissimo rilievo.
         La prima novità era una novità di ordine formale. La costituzione austriaca del 1920 era, infatti, una costituzione autenticamente rigida, modificabile da leggi, anche nel nomen, distinte dalle leggi ordinarie. La novità è di enorme rilievo. Basti pensare che in Germania, nonostante la previsione di aggravi procedimentali per modificare la Costituzione, non sussisteva questa percezione. Si tendeva, infatti, a ritenere che la legge modificativa della Costituzione fosse comunque una “legge”, anche se tenuta al rispetto di uno speciale procedimento. Tra essa e le altre leggi si percepiva una differenza analoga a quella che oggi viene avvertita in Italia tra le leggi che l’art. 72 u.c. Cost. riserva all’assemblea e le altre (deliberabili – com’è noto – in commissione).
         La seconda novità era di tipo sostanziale. La Costituzione austriaca, infatti, da un lato, non ha accolto la regola della rottura del diritto locale da parte del diritto centrale, d’altro lato, ha previsto una clausola residuale, rivolta ad attribuire ai Länder una competenza generale, destinata ad abbracciare tutti gli oggetti non riservati dalla Costituzione alla Federazione.
         La terza novità – logicamente connessa alle prime due – va ravvisata nella grande invenzione austriaca del sindacato accentrato di costituzionalità: affidato ad una Corte costituzionale, competente – tra l’altro – ad occuparsi della distribuzione dei poteri tra centro e periferia ed a restaurare la legalità violata, su impulso del livello di governo leso.
         Non è esagerato dire che il successo arriso al modello è stato strepitoso. Esso ha fatto scuola in tutto il mondo ed ha ispirato gli artefici della costituzione italiana del 1947 (nonché – ancor prima – quelli dello Statuto siciliano, al quale si deve la prima introduzione nel nostro paese del sindacato accentrato di costituzionalità).
 
2. Il calco dello Stato di diritto e la specifica qualità – in questa materia – della legalità costituzionale
         La funzione storico-costituzionale del modello è trasparente. Grazie ad esso, il sistema dei rapporti tra centro e periferia, negli ordinamenti che conoscono forme di decentramento politico a base territoriale, viene assoggettato alla logica garantistica dello Stato di diritto. I cui capisaldi fondamentali sono rappresentati – com’è noto – dal principio di legalità e dalla tutela giurisdizionale nei confronti degli atti che lo violino.
         Ciò premesso, è subito da sottolineare che la trasposizione del calco dello Stato di diritto sul terreno dei rapporti centro-periferia, come regolati dalle Costituzioni di questo tipo, presenta aspetti di problematicità, a causa della natura che in tale ambito presenta la legalità costituzionale.
         Per evitare equivoci, è il caso di chiarire che, in questa sede, non s’intende prendere posizione sulla più generale questione se la legalità costituzionale sia, per suoi caratteri intrinseci, cosa diversa dalla legalità legislativa: se – per esempio – secondo tesi largamente sostenute, essendo la Costituzione un testo normativo intriso, impregnato, di valori, essa richieda all’interprete soprattutto operazioni di bilanciamento tra i valori.
         Nell’economia della presente riflessione, la questione da affrontare è diversa. E si lega agli estesi margini d’indeterminatezza che, in materia di rapporti centro-periferia, la disciplina costituzionale normalmente presenta.
         In via assolutamente esemplificativa può, anzitutto, rilevarsi che particolarmente conflittuale è il tessuto di principi a tale disciplina sotteso. Si pensi alla tensione fondamentale su cui sono costruite tutte le costituzioni degli ordinamenti federali e regionali: la tensione tra le ragioni dell’unità e le ragioni dell’autonomia. Il problema fondamentale affrontato da esse è, infatti, quello di realizzare un soddisfacente equilibrio tra le esigenze unitarie – senza le quali lo Stato si disintegrerebbe – e le aperture autonomistiche, in cui difetto lo Stato corrisponderebbe al modello monolitico che ha celebrato i suoi trionfi all’indomani della rivoluzione francese.
         Ma l’elevato grado di apertura di tali discipline non dipende solo da ciò. Esso dipende anche dalle tecniche di cui esse fanno uso per distribuire le competenze tra il livello centrale ed i livelli periferici.
         Si pensi – ad esempio – al riparto verticale delle competenze legislative, per intero giocato sulla contrapposizione tra due entità, come i principi, da un lato, e le norme di dettaglio, dall’altro, tra le quali è pressoché impossibile tracciare una netta linea di demarcazione.
         Si consideri ancora – e soprattutto – che forti elementi di problematicità sono riscontrabili nello stesso elemento-base dei riparti di competenza. Ci si riferisce alle “materie” (alle voci, cioè, che individuano l’ambito d’incidenza delle competenze). E’, infatti, sufficiente scorrere la giurisprudenza più recente della nostra Corte costituzionale per constatare quanto frequenti siano i casi di oggetti ad imputazione plurima: di oggetti, cioè, contemporaneamente riferibili a materie diverse, magari a materie sottoposte a diversi regimi competenziali. A volte ciò dipende dalla natura dell’oggetto, altre volte dal profilo regolativo che si prende, specificamente, in considerazione.
    Si pensi: agli asili-nido, riconducibili sia alla materia della tutela del lavoro che alla materia istruzione (C.cost. 370/2003); al mobbing, che la sent. 359 del 2003 riconduce tanto all’ordinamento civile quanto alla tutela e sicurezza del lavoro; al servizio civile, riferibile all’assistenza sociale, alla tutela ambientale ed alla protezione civile (C.cost. 228/2004). E si potrebbe continuare, ricordando, ad esempio: i contratti di lavoro a contenuto formativo (comprendenti profili rientranti nell’ordinamento civile, nella tutela e sicurezza del lavoro, nell’istruzione [C.cost. 50/2005]); l’influenza catarrale dei ruminanti, riferibile alla profilassi internazionale ed alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (C.cost. 12/2004); la bonifica, riconducibile, oltre che all’agricoltura, alla tutela dell’ambiente, alla difesa del suolo, all’ordinamento civile (C.cost. 282/2004).
         Mettendo insieme tutti questi elementi, potrebbe addirittura dubitarsi che una disciplina con queste caratteristiche sia governabile in sede giurisdizionale.
            In particolare, potrebbe giungersi a sostenere – come, sia pure ad altro riguardo, si è sostenuto – che in presenza di un complesso normativo di questa natura il giudice si trovi, in ultima analisi, di fronte a questo dilemma: o assumere un atteggiamento di deferenza nei confronti del legislatore (astenendosi, quindi, dal giudicare), oppure decidere, sovrapponendo propri apprezzamenti di carattere politico agli apprezzamenti politici compiuti dagli attori politici (ed, in primis, dal legislatore). Nel primo caso, esso abdicherebbe alla sua funzione, nel secondo, usurperebbe una funzione altrui, operando – per dirla con Carl Schmitt – come legislatore: gesetzgeberisch.
 
 
3. I problemi posti dalla riforma del titolo V Cost.
         Ebbene, l’esame della più recente giurisprudenza italiana in materia di rapporti tra Stato e Regioni sembra dimostrare che l’alternativa non si ponga sempre e necessariamente in termini così drastici.
         Ciò non significa che nella giurisprudenza costituzionale italiana in materia di Regioni siano mancati casi di deferenza nei confronti del legislatore dello Stato. Lo scrivente resta – ad esempio –convinto che la vecchia giurisprudenza sugli interessi nazionali presentasse questa caratteristica. La Corte costituzionale, infatti, ricavava sintomaticamente la sussistenza dell’interesse nazionale dal fatto che esistesse una legge dello Stato adottata in suo nome. Con il che si determinava una singolare inversione logica: la legge nazionale sottoposta dalla Regione al giudizio della Corte costituzionale finiva per essere la prova principale della propria legittimità costituzionale.
         In casi del genere, la deferenza è manifesta.
         Ma – come si è detto – non si riduce a ciò la storia della giurisprudenza costituzionale, soprattutto la storia più recente.
         Confrontandosi con il nuovo titolo V, infatti, la Corte non si sottrae al tentativo di governare un parametro notevolmente indeterminato, cercando di non sovrapporre il proprio ruolo a quello del decisore politico, del legislatore.
         Per apprezzare l’entità dello sforzo da essa dispiegato, è il caso di ricordare che la riforma poneva una sfida enormemente impegnativa. Anzitutto, per la sua novità radicale, che rompeva una serie di schemi culturalmente metabolizzati e consolidati; inoltre, per un buon numero di nodi non sciolti.
         Si consideri, ad esempio, cosa significa, in una tradizione giuridica come la tradizione giuridica italiana, il rovesciamento dell’enumerazione delle competenze. Al quale consegue: da un lato, che lo Stato, quando interviene, deve invocare un titolo competenziale che giustifichi il suo intervento; d’altro lato, che la potestà legislativa generale spetta ormai alle Regioni, titolari di una competenza che, per certi aspetti – se si prescinde dalla considerazione delle competenze finalistiche dello Stato (di cui si dirà) – si atteggia come esclusiva.
         Il tutto – può aggiungersi – aggravato dalla drasticità della clausola residuale. Il IV comma dell’art.117, infatti, non assegna alla legislazione regionale la competenza in ogni materia non riservata alla legislazione dello Stato, ma in ogni materia non riservata espressamente alla legislazione dello Stato. Esso, quindi, fa uso di un avverbio impegnativo – deliberatamente bandito dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America, mentre figurava negli articoli di Confederazione –, il quale, se preso sul serio, pone qualche problema a proposito dei poteri impliciti che possono riconoscersi al legislatore centrale.
         Un secondo elemento di criticità della riforma è costituito dalle materie. Non ci si riferisce soltanto ai casi di oggetti ad imputazione plurima, su cui ci si è già soffermati. Il fatto è che alla stesura dei due elenchi di cui all’art. 117 si è proceduto senza lo scrupolo necessario. Il che grava evidentemente l’interprete di un carico particolarmente impegnativo. Si consideri – ad esempio – che, per effetto della nuova disciplina, il legislatore ordinario dello Stato è chiamato ad adottare, a titolo di competenza esclusiva, norme generali in materia di istruzione, e, a titolo di competenza concorrente, principi fondamentali in materia di istruzione. Ebbene, benché, da un punto di vista strettamente teorico, sia possibile distinguere i due ambiti, non può non restare oscura la strategia perseguita dagli artefici della riforma, mediante tale distinta previsione di competenze.
         Non mancano, inoltre, omissioni, alle quali cerca di ovviare, maieuticamente e con una buona dose di coraggio, la Corte Costituzionale. Si ricordi – ad esempio – l’omissione che si registra in materia di circolazione stradale: una voce che normalmente figura negli elenchi federali, ma che è stata dimenticata dalla novella costituzionale italiana del 2001. Il che ha costretto la Corte ad estrarla da una serie di materie diverse, con uno sforzo che ne ha spinto l’ortopedia al suo limite estremo (C.cost. 428/2004).
         È inoltre largamente noto il caso di collocazioni estremamente problematiche. Il rilievo vale per l’inserimento, tra le voci di legislazione concorrente, di materie come l’energia e le grandi reti di trasporto, che più ragionevolmente sarebbero dovute figurare nell’elenco stabilito per la legislazione esclusiva dello Stato. Un inserimento, dal quale si dovrebbe logicamente dedurre che, in ambiti dal manifesto rilievo nazionale, come questi, la disciplina legislativa si componga di un corpus unitario di principi statali e di 20 diverse legislazioni regionali.
         C’è, infine, il tema delicatissimo, che verrà ripreso più avanti, delle materie dette trasversali. Ci si riferisce alle voci che non individuano oggetti di competenza, ma identificano degli scopi, mettendo, quindi, il legislatore ordinario dello Stato in condizione di evadere dalla rigida gabbia dell’enumerazione.
         Ma non è tutto. Anche per quanto riguarda le funzioni amministrative la disciplina dettata dalla novella del 2001 è estremamente aperta, se non indeterminata. Manca, infatti, la diretta allocazione delle funzioni. Poiché il nuovo art. 118 si limita a porre una disciplina di tipo strumentale: non dice a chi le funzioni spettino, ma dice come esse vadano allocate. E lo dice – tra l’altro – in maniera non chiara, affidandosi largamente alle risorse di un principio, come il principio di sussidiarietà, che, come testimonia l’esperienza dell’Unione Europea, pone grossi problemi proprio sul terreno della giustiziabilità.
         E’ inutile sottolineare che si potrebbe proseguire nell’esemplificazione. I cenni che precedono sono comunque sufficienti a constatare quanto aperta questa disciplina sia e quanto impegnativa sia stata la sfida da essa lanciata al giudice delle leggi. Tanto più se si considera la mancanza di un apparato di norme transitorie, rivolto a regolare il passaggio dal vecchio al nuovo assetto.
 
  
 
4. La Corte costituzionale di fronte alla sfida.
         Come si è anticipato, la Corte non si è tirata indietro, ma ha raccolto la sfida, rivelandosi – tra l’altro – il maggiore fattore di attuazione della nuova disciplina costituzionale.
         Questo giudizio appare suffragato da alcune rilevantissime opzioni strategiche ricavabili dalla sua giurisprudenza.
 
 
4.1. Il riconoscimento di efficacia “immediata” alla nuova disciplina costituzionale.
         La prima opzione può essere ravvisata nella circostanza che la Corte riconosca alla riforma del tit. V un’efficacia immediata (o, più esattamente, il più possibile, immediata), in quanto non subordinata agli interventi attuativi del legislatore.
         E’ significativa, ad esempio, a questo riguardo la posizione da essa assunta sulla competenza legislativa concorrente.
         Nel quadro del rovesciamento dell’enumerazione delle competenze, si era sostenuto – con argomento molto forte – il superamento della piena fungibilità tra i principi espressi ed i principi impliciti. Infatti, essendo ormai la legge dello Stato legittimata a regolare per intero le sole materie di legislazione esclusiva statale, essa non dovrebbe essere – per definizione – in grado di esprimere principi impliciti suscettibili di applicarsi a materie diverse, quali le materie di competenza concorrente.
         A tale stregua, il limite dei principi potrebbe valere, solo se i principi stessi fossero contenuti in atti teleologicamente rivolti a porli: le leggi cornice.
         L’altra tesi, che in genere non si collega a questa – ma che, a parere dello scrivente, può essere letta in rapporto con essa – è che, senza legge cornice, la Regione non possa legiferare: solo in tal modo potendosi scongiurare che la funzione di un limite previsto in Costituzione – il limite dei principi – sia vanificata.
         La Corte – com’è noto – respinge entrambe le tesi: riconosce l’immediata competenza delle Regioni a legiferare, precisando che, in difetto di leggi-cornice, esse siano tenute al rispetto dei principi impliciti ricavabili induttivamente dal corpus della legislazione nazionale (C.cost. 282/2002 e, da ultimo, 153/2006). In tal modo, essa, da un lato, considera la nuova disciplina costituzionale immediatamente applicabile, d’altro lato, non sacrifica l’esigenza di cornice unitaria di cui la stessa si dà carico.
         E si potrebbe continuare. Il discorso non è – ad esempio – molto dissimile in materia di potere estero delle Regioni.
         In proposito, parte della dottrina – ed anche l’autore di queste pagine – aveva sostenuto che, atteso l’ampio rinvio alla legislazione dello Stato, chiamata ad indicare casi e forme di esercizio del potere predetto, fin quando tale legislazione non fosse intervenuta, l’art. 117, comma 9, non sarebbe stato in condizione di produrre effetti. Ma la Corte Costituzionale non accoglie fino in fondo questa tesi; e nella sentenza 242 del 2003 afferma letteralmente: “non può ritenersi, come richiesto nel ricorso, che sia necessario attendere una legge statale ordinaria di attuazione dell’art. 117, nono comma, Cost.”. Conseguentemente, considera legittima una legge della Regione Friuli Venezia Giulia, in materia di treaty-making power regionale.
         Analoghe considerazioni possono farsi, infine, per una delle norme la cui mancata attuazione ad opera del legislatore pesa maggiormente sull’equilibrio del sistema costituzionale: l’art.119. Di cui la Corte fa correntemente applicazione per la parte concernente il divieto di finanziamenti vincolati (ad es. C.cost. 370/2003 e 49/2004).
 
4.2. La valorizzazione degli elementi dinamici del sistema
         La seconda scelta strategica della Corte è quella di valorizzare le potenzialità dinamiche del nuovo disegno costituzionale.
         Questa impostazione si coglie sia sul versante delle competenze trasversali, sia con riferimento al principio di sussidiarietà
        Iniziando con le competenze trasversali, può, anzitutto, rilevarsi che la Corte accoglie la tesi secondo cui le voci corrispondenti non evocherebbero oggetti di competenza, ma competenze suscettibili di incidere su oggetti diversi.
         Coerentemente con questa premessa, ammette: da un lato, che, nel loro esercizio, lo Stato possa incidere anche su materie di competenza residuale delle Regioni; d’altro lato, che gli interventi da esse legittimati, pur essendo prioritariamente assegnati allo Stato, non siano sottratti alle Regioni (quando legiferano su materie di propria pertinenza)
         Gli esempi di decisioni del primo tipo sono molto numerosi nel robusto filone giurisprudenziale dedicato alla tutela della concorrenza (che si è rivelata la materia trasversale per eccellenza). Il quale declina in una serie di casi questo paradigma.
         Quanto alla seconda ipotesi, essa ricorre per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, che, pur figurando tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, a giudizio della Corte, non escluderebbe interventi regionali (C.cost. 407/2002, 96/2003, 259/2004).
         Passando al principio di sussidiarietà, il riferimento d’obbligo è alla celeberrima sent. n. 303 del 2003. La quale ha ammesso che, in sussidiarietà, possano essere attratte al centro, non solo le competenze amministrative, secondo quanto letteralmente prevede il comma 1 dell’art.118, ma anche le competenze legislative.
 
4.3. La decisione di “decidere”
         Ma non ci si può fermare a questo punto. Non può, in particolare, dimenticarsi un’altra, fondamentale, scelta strategica. La quale – tra l’altro – offre la chiave di lettura delle opzioni considerate in precedenza. Essa può essere espressa con una formula ad effetto: “la Corte decide di decidere”.
         La Corte, infatti, non si rifugia nel self-restraint, ma, di fronte anche a casi complicati, si avventura sul terreno della decisione, affrontando problemi di notevolissima complessità.
         Un esempio molto significativo è costituito dalle competenze finalistiche. Si tratta – come abbiamo visto – delle competenze definite, anziché attraverso l’indicazione del rispettivo ambito d’incidenza (o – in altri termini – dell’oggetto), mediante la fissazione dello scopo che sono chiamate a perseguire.
         Secondo l’interpretazione che sembra da preferire, si tratta di competenze che presentano molti punti di contatto con una competenza molto diffusa nel federalismo europeo: la competenza concorrente detta alla tedesca (la konkurrierende Gesetzgebung). La quale consente al legislatore federale di intervenire in ambiti assegnati al legislatore locale, condizionando l’esercizio delle attribuzioni di questo e, al limite – per riprendere l’espressione usata in Germania –, scacciandone la competenza.
         Tra la disciplina tedesca e la disciplina italiana sussistono, però, alcune rilevanti differenze.
         Una differenza cruciale si registra, anzitutto, per quanto concerne l’individuazione delle materie. In Germania la konkurrierende Gesetzgebung è abilitata ad incidere su materie determinate, indicate in appositi elenchi costituzionali. In Italia, invece, questo non accade. Ma non è tutto. In Germania, infatti, la costituzione contiene una clausola d’esercizio: indicando i presupposti che giustificano gli interventi del legislatore centrale, in termini derogatori rispetto al normale ordine delle competenze. In Italia – per contro – tale clausola manca.
         Attese queste differenze, sarebbe potuto accadere che, facendo leva sulle voci di tipo finalistico, il legislatore centrale finisse per esercitare una sorta di competenza della competenza, operando con un’ampiezza ed un’incisività molto maggiori di quanto la Legge fondamentale non renda possibile al suo omologo tedesco.
         È evidente che, se la Corte avesse accolto questa configurazione, le competenze finalistiche dello Stato sarebbero state sottratte al sindacato di costituzionalità (almeno, sotto il profilo della competenza).
         Ma la Corte non segue questa strada. Essa sindaca gli atti di esercizio di tali competenze, facendo leva sulla premessa che le competenze finalistiche, abilitando lo Stato ad incidere su materie regionali, rappresentino altrettante deroghe al riparto scritto in Costituzione: deroghe, che, in quanto tali, vanno interpretate restrittivamente.
         Di qui, la possibilità di un duplice sindacato: di un sindacato teleologico (rivolto a verificare la coerenza dell’intervento legislativo statale con il fine assegnato alla competenza); di un sindacato funzionale (per accertare che l’intervento statale sia limitato a quanto necessario al perseguimento del fine stesso). Il secondo tipo di sindacato – come è evidente – si iscrive nella logica della proporzionalità.
         Su queste basi – ad esempio – con la sent. 272/2004, in materia di servizi pubblici locali, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, commi 1, lettera e), e 2, del decreto-legge 269/2003, a causa dell’estremo dettaglio delle previsioni, che – come precisa – vanno “al di là della pur doverosa tutela degli aspetti concorrenziali”. E sempre sulla stessa linea, ma con esito diverso, va ricordata la sent. 345/2004. La quale, accolta la premessa che la competenza di cui all’art. 117, comma 2, lett. e) deve “tener conto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza dei mezzi usati rispetto al fine che si vuol raggiungere della tutela della concorrenza”, riconosce la legittimità della norma statale impugnata – contenuta nella finanziaria 2003 – perché non impone alle Regioni l’osservanza di puntuali modalità, ma, semplicemente, il rispetto dei principi.
 
4.3.1. Indeterminatezza del parametro e principio di leale collaborazione
         Non c’è bisogno di sottolineare che la decisione di decidere della Corte costituzionale suscita problemi di notevolissima complessità Come decidere, infatti, se i parametri usati non sono sempre suscettibili di fornire la premessa maggiore di un sillogismo giudiziario?
         Le scelte compiute, al riguardo, dal nostro giudice delle leggi sono estremamente significative. Esso, in particolare, pur non assumendo un atteggiamento di pedissequa deferenza nei confronti del legislatore nazionale (e, quindi, sindacandone gli atti; il che non era frequentissimo in anni andati), cerca di non usurpare lo spazio che deve essere riservato agli attori politici. I quali vengono da esso chiamati in causa.
         La Corte, in particolare, sembra raggiungere un compromesso tra la consapevolezza di non poter procedere direttamente a certe decisioni (e, quindi, il self-restraint) e la necessità di dare attuazione al disegno costituzionale nell’unico modo che ritiene, allo stato, possibile.
         In questa prospettiva, centrale è il riferimento al principio di leale collaborazione. Che trova una serie di applicazioni. Si pensi alla giurisprudenza in materia di livelli essenziali delle prestazioni (soprattutto di prestazioni sanitarie: i LEA), a quella sugli intrecci di materia, alle decisioni sul principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, comma 1, cost.
          Iniziando dai livelli essenziali delle prestazioni, va sottolineato che, figurando essi in una voce di competenza esclusiva dello Stato, la Corte potrebbe ritenere sufficiente l’intervento unilaterale del legislatore centrale.
         Ma non è questa la strada da essa concretamente battuta.
         La premessa da cui prende le mosse è una premessa già ricordata: trattandosi di competenza trasversale, chiamata ad incidere su materie regionali (conseguentemente alterando le linee del riparto fissato dalla Costituzione), essa va interpretata restrittivamente.
         Tuttavia, a differenza di quanto si è avuto occasione di rilevare per la giurisprudenza sulla tutela della concorrenza, qui la Corte non fa riferimento ai caratteri contenutistici che l’intervento unilaterale dello Stato deve presentare, ma al procedimento che deve mettere capo alla decisione: un procedimento di tipo cooperativo. O, più esattamente: un procedimento che deve assicurare il coinvolgimento delle Regioni
         Su queste basi, con la sent. 88/2003 (emessa su conflitto d’attribuzione tra lo Stato, la Provincia di Trento e la Regione Emilia-Romagna), chiarisce che i livelli essenziali di assistenza (i già menzionati LEA) vadano fissati previa intesa da conseguire in sede di Conferenza Stato-Regioni (lasciando, così, trasparentemente intendere che tale procedura, fissata legislativamente e non rispettata nel caso sottopostole, sia costituzionalmente dovuta).
         Coerentemente con questa impostazione, in decisioni successive – l’ultima delle quali è recentissima: la 134/2006 (sulla finanziaria 2005) –, nega che la previa intesa da raggiungere in sede di Conferenza sia surrogabile dal parere espresso dalla Conferenza stessa.
         Passando agli intrecci di materie, i problemi più delicati si pongono – com’è ovvio – quando un medesimo oggetto sia imputabile a materie, non solo diverse, ma anche sottoposte a diversi regimi competenziali.
         Emblematica è, in proposito, la sent. 219/2005, in tema di lavori socialmente utili.
         In essa, la Corte, riconosciuto che l’oggetto si pone al crocevia tra materie e competenze diverse, rileva che, in casi del genere, la Costituzione “non prevede espressamente un criterio di composizione delle interferenze”, concludendo che ciò rende necessario il ricorso al canone della “leale collaborazione”. Il quale, a quanto si legge nella motivazione, che si richiama ad una decisione di poco precedente – la n. 50/2005 –, “impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni”.
         Su queste basi, viene annullata la norma statale impugnata. La quale, per il finanziamento statale di attività rientranti anche tra le materie regionali, prevedeva convenzioni con i Comuni, e non con le Regioni.
         Venendo, infine, al terzo punto – applicazione del principio di sussidiarietà –, è sufficiente ricordare che la Corte – a far data dalla sent. 303/2003 (ricordata ad altro riguardo) – accoglie una lettura procedimentale del principio, affermando che lo spostamento di competenze legislative in sussidiarietà debba avvenire mediante procedimenti rispettosi del principio di leale collaborazione.
 
5. Osservazioni conclusive
         A scanso di fraintendimenti, è il caso di precisare che non tutti gli indirizzi passati in rassegna sembrano allo scrivente condivisibili. Su alcune soluzioni si giustificano – a suo giudizio – delle riserve. Ad esempio, che la Corte costituzionale, per l’attrazione in sussidiarietà, richieda necessariamente l’accordo tra Stato e Regioni, anziché ritenere sufficiente una procedimentalizzazione più debole, a carattere sintomatico, è cosa che non convince.
         Ciò che preme mettere in luce è il modo in cui la Corte si cimenta con un compito così impegnativo. Essa non intende operare da “legislatore” (gesetzgeberisch, secondo la citata formulazione di Carl Schmitt), ma cerca di sviluppare potenzialità latenti nel nuovo disegno costituzionale, consapevole che, senza questo sviluppo, tale disegno resterebbe lettera morta.
         C’è un passaggio nella sentenza 6 del 2004, in proposito, rivelatore. Il quale può essere opportunamente collocato alla conclusione di queste riflessioni. “Nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari – recita – e più in generale dei procedimenti legislativi, anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art.11 della legge costituzionale 3 del 2001, la legislazione statale di questo tipo – nella specie, si trattava del decreto-legge n. 7/2002, recante “Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale” – supera il vaglio soltanto se adottata sulla base di procedimenti cooperativi”.
        

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