Carlo DESIDERI, I regionalismi in Italia e la nuova riforma costituzionale (novembre 2016)
Relazione presentata al Convegno ISSiRFA "IL PERCHÉ DELLE REGIONI OGGI. La Repubblica tra Stato unitario e Stato regionale", Roma, 27 ottobre 2016.
2. Il regionalismo della Assemblea Costituente
3. Il regionalismo ai tempi dei partiti ‘di massa’
4. Le regioni dopo la crisi dei partiti. Verso un nuovo regionalismo?
5. La nuova riforma costituzionale
La mia relazione è dedicata ai regionalismi in Italia a partire dal periodo costituente ad oggi. Tuttavia, per spiegare perché un tema del genere possa essere qui di qualche utilità penso si debba partire, sia pure brevemente, dall’attualità, vale a dire dal dibattito in corso sulla riforma costituzionale.
Lasciando perdere gli argomenti pro e contro la riforma che appaiono soprattutto strumentali alla lotta politica, possiamo dire che i due fondamentali argomenti che si confrontano ― vale a dire da un lato la necessità di superare il carattere consociativo e compromissorio del nostro sistema politico e di accrescere la capacità decisionale della nostra democrazia, dall’altro l’insistenza sulla necessità di mantenere forti garanzie in una democrazia quale quella italiana che si ritiene avere basi deboli e soggetta a rischi nuovi di una deriva verticista e oligarchica ― sono fondati su una valutazione storica della esperienza politica italiana nel passato più lontano fino a quello più recente, o comunque ci spingono a fare i conti con la nostra storia.
Mi sembra tuttavia che, con qualche eccezione, nel confronto tra quei due argomenti si finisca per dare alle regioni uno spazio e un peso secondario. Chi è contrario alla riforma insiste sull’accentramento che la riforma produrrebbe a danno delle regioni come una sorta di aggravante per dimostrare l’intento verticistico, se non autoritario, della riforma. Ma anche da parte dei sostenitori della riforma mi pare molto timida e riduttiva l’argomentazione che insiste quasi solo sulla razionalizzazione del riparto delle competenze dello stato e delle regioni che la riforma introdurrebbe rispetto agli errori e alle avventatezze della riforma del 2001, favorendo così la semplificazione e il rafforzamento della capacità decisionale del sistema politico complessivo.
Cercando di andare oltre questi tipi di approcci riduttivi, penso sia importante dedicare al tema regionale una considerazione meno secondaria e volta, invece, a valutare la riforma alla luce della vicenda regionale per come si è presentata e sviluppata nella storia del nostro Paese. E forse proprio partendo da qui, dal passato, sia pure ripercorso in questa sede in grandi linee [1], credo che si potrà vedere meglio come nella riforma quello delle regioni non sia un tema accessorio, di serie b, ma sia invece centrale.
2. Il regionalismo della Assemblea Costituente
Nel regionalismo dei Costituenti confluirono più istanze ― di tipo garantistico, di democratizzazione della organizzazione statale ed altre ancora ― ma soprattutto si affermò, in contrasto con le concezioni organicistiche e totalizzanti di nazione che fino allora avevano prevalso, un’idea nuova di comunità nazionale, pluralistica, vale a dire una visione che certo non rinnegava l’unità, ma la concepiva insieme al riconoscimento delle regioni come entità reali, o almeno entità che verosimilmente rispecchiavano le varietà territoriali, geografiche, storiche e culturali del Paese.
Ed era su questa base che poggiava la scelta di costruire le regioni come enti politici dotati di poteri legislativi in materie definite e elencate dalla Costituzione e di trasformare, quindi, la struttura dello stato, da centralistica e uniforme, in regionale.
Il riconoscimento nella Carta delle regioni come entità territoriali reali ― individuate, nominate e enumerate dall’articolo 131 ― non era dunque un optional, ma un elemento sostanziale e fondante, centrale, del regionalismo costituzionale. Sta di fatto che, quando le forze contrarie alle regioni tentarono di far eliminare quell’articolo e di rinviare ad una legge ordinaria il compito di identificare ed elencare le regioni, Moro, Togliatti e altri si opposero, dicendo che questa scelta era un punto fermo ormai indiscutibile, a pena di rimettere in discussione l’intero impianto costituzionale.
Certamente quello dei Costituenti non era il federalismo, perché le regioni non erano anche entità politiche già esistenti, ma non era nemmeno un semplice decentramento organizzativo e funzionale dello stato. Se le regioni erano entità storiche preesistenti componenti della comunità nazionale, potevano essere anche componenti politiche costitutive di un nuovo tipo di stato: lo stato repubblicano regionale.
3. Il regionalismo ai tempi dei partiti ‘di massa’
Negli anni che seguirono, il senso della profonda novità introdotta dai Costituenti verrà dimenticato.
Quanto importante fosse quella novità è rimasto, comunque, sempre ben chiaro ad alcuni studiosi. Tra questi vorrei ricordare, in particolare, Massimo Severo Giannini fondatore dell’Istituto del quale stiamo qui celebrando i 45 anni di vita. Giannini, come molti ricorderanno, era ben critico verso la scrittura della Costituzione. Tuttavia, sottolineò in più occasioni che la Carta delineava le regioni come enti politici “esponenziali di gruppi regionali già culturalmente esistenti” o “esponenziali di gruppi storico culturali” [2]. E, pur rilevando la presenza di molti aspetti critici nel testo della Carta, affermò risolutamente che gli storici riconosceranno “tra mille anni… importante la decisione cosciente e consapevole, in una carta costituzionale, di regionalizzare lo stato” [3]. Insomma, pur non risparmiando le critiche, Giannini aveva ben chiara la forza innovativa profonda della scelta regionalista fatta dai Costituenti.
Come già dicevo, tuttavia, a parte le riflessioni lucide di Giannini e di altri studiosi [4], quanto avvenne in pratica dopo la Costituzione si è svolto lungo vie del tutto diverse da quelle immaginate dai Costituenti.
Di fatto, a partire dagli anni della ricostruzione post bellica, gli architravi della Repubblica sono diventati i grandi partiti così detti ‘di massa’. Come ha sottolineato un autorevole storico [5], questi partiti, che allora erano soggetti con una influenza determinante anche nella vita ideale, sociale e culturale del Paese prima ancora che in quella politica, finirono per prendere il posto della nazione. Inoltre, in particolare per quanto riguarda la vita pubblica e gli assetti istituzionali, si affermò un sistema di governo egemonizzato dal più ampio partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, basato fondamentalmente sulle amministrazioni centrali e periferiche dello stato, sugli enti funzionali e sulle imprese pubbliche e partecipate. In questo quadro delle regioni non se ne sentì più bisogno e per venti anni finirono dimenticate.
Più tardi, il tema regionale tornò di attualità a partire dalla metà degli anni ’60 del secolo scorso e poco dopo prese avvio la regionalizzazione. Questo non vuol dire, però, anche che sia stata ripresa la visione sostanziale originaria del regionalismo costituzionale.
Certamente ci fu continuità nel senso che, se furono i partiti i protagonisti delle scelte in sede di Assemblea Costituente, sono stati sempre i partiti, gli stessi per altro, i protagonisti della riscoperta delle regioni. Non ci fu, però, continuità nella visione del regionalismo.
Purtroppo manca ancora una ricostruzione in termini storici puntuali del processo di regionalizzazione. Tuttavia, difficilmente può negarsi che, se ci fu un aspetto delle regioni che allora venne del tutto rimosso, fu proprio la loro natura di entità territoriali.
Anzi, andando a rileggere testi e dibattiti del tempo, si può scoprire che non pochi degli stessi sostenitori della regionalizzazione condividevano l’opinione che le regioni fossero figure artificiali, inventate, senza alcun sostrato territoriale, storico e culturale. Le regioni erano insomma guardate solo come enti politici (mettendo particolarmente in rilievo il ruolo delle assemblee regionali) e amministrativi, restando in secondo piano o del tutto ignorato il fatto che fossero innanzitutto dei territori e, dunque, delle comunità, almeno in potenza.
Questo può sembrare un paradosso, ma nella realtà di quel periodo storico non lo era. La regionalizzazione, infatti, avvenne in un contesto che era ancora caratterizzato da un ruolo predominante dei partiti, in vista di finalità e esigenze che provenivano fondamentalmente dal mondo politico-partitico. Insomma le regioni non interessavano in quanto tali, ma come regioni per, cioè per realizzare finalità politiche generali, fossero queste il tentativo di trovare un terreno di dialogo tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, l’allentamento delle tensioni sociali e politiche dopo il 1968, la volontà politica di espandere il welfare dando però al contempo ai politici un ruolo più ampio nel suo governo e gestione. In un quadro del genere, allora, diventava irrilevante che le regioni avessero un fondamento territoriale e che da questo traessero la loro legittimazione. Quello che contava erano le finalità generali delle quali le regioni dovevano essere strumento ed era da tali finalità, e da ultimo dai partiti che le dettavano, che le regioni traevano la loro legittimazione.
Indicativo del clima politico e culturale del tempo è il fatto che ― tranne qualche voce isolata ― inizialmente non ci fu alcuna riflessione sul rapporto tra regionalismo e sistema dei partiti e, come sappiamo, bisognerà attendere gli anni ’80 per vedere le prime ricerche in merito, come quella di Robert Putnam e i suoi collaboratori [6] e quella, specificamente dedicata al rapporto tra partiti e regioni, sviluppata per iniziativa di Temistocle Martines dall’allora Istituto di Studi sulle Regioni [7].
Su quanto, poi, di fatto è avvenuto alle regioni negli anni ’70 e ’80, anche se le (per la verità non numerose) ricerche esistenti invitano a non dare giudizi affrettati e troppo unilaterali, credo ci siano pochi dubbi che sia stata prevalente la tendenza a realizzare le regioni in maniera del tutto riduttiva rispetto al disegno costituzionale e ad inserirle sempre all’interno di rapporti di dipendenza politica dai partiti e di dipendenza amministrativa e finanziaria dallo stato e persino dalle singole amministrazioni centrali.
In sintesi, le tendenze prevalenti di quel periodo andavano nel senso di fare delle regioni da un lato una sorta di prolungamento dei partiti, che conservavano organizzazioni centralizzate di dimensione nazionale, dall’altro di ridurle nella figura di enti di decentramento amministrativo, strumenti del governo centrale e dei singoli ministeri.
Naturalmente, come si sa, la realtà è sempre più varia e imprevedibile degli intenti di chi immagina di sottometterla ai suoi piani e finalità. Sta di fatto che le regioni (o almeno parte di loro) una volta istituite si sono, almeno per certi aspetti e in certe circostanze, comportate e sviluppate secondo percorsi non sempre riconducibili agli intenti dei partiti che le hanno volute e ― pur oppresse da non poche limitazioni ― hanno saputo in alcuni campi sviluppare politiche e legislazioni significative e originali.
4. Le regioni dopo la crisi dei partiti. Verso un nuovo regionalismo?
A partire dai primi anni ’90 dello scorso secolo il contesto politico-partitico che aveva avviato e gestito la regionalizzazione entrò in una profonda crisi e finì addirittura per sgretolarsi.
Da quel momento si aprì un periodo quanto mai complicato. Sulla base degli elementi disponibili [8], mi limito qui ad alcune considerazioni generali sulla questione se in quel periodo si sia sviluppato o no un nuovo tipo di regionalismo, diverso da quello costituzionale e da quello dei partiti.
Come molti si ricorderanno, quegli anni hanno visto un dibattito animato, anzi un vero e proprio scontro, tra diverse tendenze e spinte, che in alcuni momenti finì per assumere toni persino drammatici. Si discusse molto di federalismo, fino a che questo ad un certo punto sembrò diventare una bandiera condivisa o forse solo uno slogan condiviso, ma si parlò anche di cose ben diverse dal federalismo: di secessione e di devolution in forma leghista. Fu messa in discussione persino l’unità nazionale e la Costituzione (tutta, anche la prima parte); ci furono spinte da parti diverse per la convocazione di una nuova assemblea costituente.
Tuttavia, considerando i comportamenti dei protagonisti di quelle vicende e le riforme che vennero realizzate, credo che oggi, guardando le cose a distanza con più serenità e disincanto, si deve prendere atto che, al di là della retorica federalista, quanto avvenuto negli anni ’90 e seguenti, ancora una volta, è stato fortemente condizionato da strategie e finalità delle forze politiche nazionali.
In breve, penso che difficilmente possa negarsi che da alcune di quelle forze le regioni siano state usate per cercare di arginare la Lega e le sue dirompenti parole d’ordine. Così è stato per le varie proposte di riforma avanzate nel corso degli anni ’90. Così è stato, poi, per la riforma costituzionale del 2001, quando per cercare il consenso della Lega si attribuirono alle regioni compiti esagerati e improbabili (poi, di fatto, da esse per niente o scarsamente esercitati). Anche nel caso della riforma costituzionale del 1999, che introdusse l’elezione diretta del presidente regionale, sulla sua approvazione con una larghissima maggioranza di voti da parte di tutti gli schieramenti politici pesò non poco un obiettivo che andava al di là dello specifico regionale: l’intento delle forze politiche di aprire la strada a forme di rappresentanza politica dirette e personalizzate, mettendo in primo piano la figura del leader.
Per altro, è molto dubbio che tali riforme abbiano avuto un impatto politico sulle strategie della Lega, che era poco interessata alle regioni e, piuttosto, con la devolution cercava di aprire la strada al riconoscimento dell’indipendenza della Padania. Quanto alle strategie delle altre forze politiche della destra, qui l’attenzione più che sulle regioni si concentrava sulla forma di governo, che si voleva modificare rafforzando i poteri del premier o in senso presidenzialista.
Sulla base di quanto finora detto, si potrebbe dire che il regionalismo degli anni ’90 e seguenti non si presenta, dunque, molto diverso dal regionalismo partitico del periodo precedente.
Tuttavia, non fu solo quella appena ricordata la realtà di quegli anni. Infatti, proprio allora, forse grazie al quadro politico confuso e alle incertezze delle forze politiche, si sono accentuate spinte e tendenze innovative portate avanti dalle stesse regioni
Queste, innanzitutto, si fecero portatrici con forza e vivacità di istanze e proposte di riforma, mostrando per altro tra loro, malgrado i colori politici diversi, una unità e solidarietà che si è riproposta persino nei momenti di scontro più acuto e drammatico delle forze politiche a livello nazionale (come nel caso della riforma costituzionale del 2001).
In secondo luogo, in modo più deciso ed evidente di quanto era avvenuto in precedenza, le regioni hanno continuato a sviluppare politiche e legislazioni che sempre più fanno emergere la figura della regione intesa innanzitutto come comunità territoriale, della quale l’ente politico-amministrativo regionale è chiamato a prendersi cura [9].
Sotto questo profilo potremmo dire allora che, nel periodo che stiamo considerando, non ci fu solo l’uso delle regioni da parte dei partiti nazionali, ma si è andato manifestando anche un tipo di regionalismo che mi pare si collochi nel percorso del regionalismo costituzionale.
A riprova di come abbia operato in quegli anni una dinamica in tal senso, elementi che vanno nella stessa direzione potremmo trovarli anche nelle riforme costituzionali, amministrative e finanziarie che allora vennero adottate: si pensi, ad esempio, all’indicazione secondo la quale il nuovo conferimento di compiti amministrativi, avviato nel 1997, doveva avvenire in connessione alle esigenze di cura e sviluppo delle comunità territoriali; alla previsione della potestà legislativa residuale delle regioni nella riforma costituzionale del 2001.
Tuttavia, dobbiamo anche ricordare che, in particolare dopo la riforma del 2001, per via dei limiti ed errori di quel testo, sui quali dovette intervenire profondamente la Corte costituzionale, ma anche per le tendenze prevalenti nel quadro politico del tempo, si è verificato un accentramento di poteri in capo allo stato, mentre le regioni sono state ricondotte ancora una volta all’interno di rapporti di dipendenza dallo stato, anche se accompagnati dallo sviluppo di continue negoziazioni tra il governo (o sue parti o settori) e le regioni, ma di tipo informale e per niente trasparenti, anche se in grado in certi casi di condizionare persino le scelte legislative del Parlamento.
Come si sa, la situazione delle regioni è, poi, divenuta sempre più difficile a seguito della crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008 e di alcune poco felici vicende interne alle stesse regioni. Così che, ad un certo punto, le regioni sono diventate impopolari e si è persino cominciato a richiederne il ridimensionamento e addirittura l’abolizione.
In conclusione, nel periodo che segue la crisi politica-partitica dei primi anni ’90, non sembra emergere una precisa e chiara prospettiva regionalista, né tantomeno un nuovo tipo di regionalismo. Sono emerse, invece, qui e là tendenze diverse, tra loro anche fortemente contraddittorie, riconducibili in parte a nuovi tentativi di usare le regioni da parte dei partiti per loro finalità politiche generali, in parte a schemi di centralismo contrattato e di decentramento esecutivo simili a quelli già sviluppati negli anni ’70 e ’80, in parte al filone del regionalismo costituzionale.
5. La nuova riforma costituzionale
Arrivando alla riforma attuale, possiamo ora chiederci come questa si ponga rispetto ai regionalismi che l’hanno preceduta.
Per tentare una risposta mi soffermo brevemente su due aspetti della riforma: il nuovo senato, il riparto delle competenze. Brevemente, perché sono previste specifiche relazioni su questi aspetti e forse una risposta più ampia noi tutti partecipanti a questo convegno potremo trovarla dopo aver sentito e valutato tutto. Però non posso e non voglio sottrarmi, e proverò a esprimere alcune opinioni generali in merito.
Cominciando dal senato, penso che questa sia la vera novità della riforma. Novità che, tuttavia, ha dietro di sé una lunga elaborazione della cultura regionalista, visto che l’idea di una camera o senato di rappresentanza dei territori era già nata in seno alla Assemblea Costituente, è stata poi portata avanti a gran voce dalle regioni stesse a partire dai primi anni ’90, è stata ripresa innumerevoli volte in svariate proposte politiche e culturali (fra le quali ci fu anche quella elaborata dall’Istituto di Studi sulle Regioni nel marzo del 1994: Per un nuovo regionalismo) [10].
Mi soffermo solo su tre punti di riflessione. Il primo punto è che con il nuovo senato le regioni, contribuendo alla formazione e al lavoro di organi costituzionali (senato e parlamento), non solo vengono riconosciute come parti costitutive della Repubblica, riprendendo la sceltaQustaQ QQ in realtà già fatta dalla Costituzione, ma vengono messe finalmente nella condizione concreta di operare come tali. Si tratta di una novità che, di per sé, rappresenta un passo avanti fondamentale, almeno per chi è ancora convinto dell’importanza e necessità delle regioni, perché pone le regioni su un piano completamente nuovo e diverso rispetto a quanto avvenuto negli anni ’70, e in qualche modo le ricolloca nel solco del regionalismo costituzionale. Infatti: come potrebbero le regioni partecipare ad un organo costituzionale parlamentare se non fossero intese come enti politici corrispondenti ad entità territoriali reali, a comunità territoriali?
In questo senso non è trascurabile il fatto che la riforma torna a dare un ruolo di rilievo ai consigli regionali, finiti in ombra a partire dalla riforma presidenzialista del ’99 e chiamati ora ad eleggere i consiglieri senatori.
Naturalmente quanto appena detto ha un senso sempre che le modalità previste dalla riforma per la formazione del senato siano in grado di dare espressione ad effettive ed adeguate rappresentanze regionali. Su questi aspetti non mancano dubbi e interrogativi e dei rilievi critici sono stati fatti già da Antonio D’Atena [11].
Mi limito qui ad osservare che la scelta della riforma sembra essere quella di una rappresentanza regionale che è insieme territoriale e politica. Mi pare che, dunque, correttamente nel testo si dice che il Senato rappresenta le istituzioni territoriali (e non si dice che i senatori rappresentano la nazione, come i deputati), alle quali è perciò riconosciuta una specifica rilevanza e dignità giuridica e politica. Al contempo, però, i senatori consiglieri sono delineati come figure politiche, come per altro risulta dall’assenza del vincolo di mandato, dall’immunità e da altri aspetti [12].
Ora è evidente l’importanza, ai fini di avere una effettiva camera rappresentativa delle regioni, di dare risalto al profilo della rappresentanza territoriale, anche se credo vada tenuto conto che, come ha sottolineato D’Atena [13], questo è probabilmente un risultato perseguibile solo in termini tendenziali,
Se le cose stanno così, appare fondamentale assicurare un equilibrio tra rappresentanza territoriale e politica, ed è chiaro a questo punto che la partita si sposta sulla legge elettorale per il senato: a questa infatti spetterà, come ha spiegato di recente Mangiameli [14], di mantenere ferma innanzitutto la prerogativa costituzionale dei consigli regionali di eleggere i consiglieri senatori, evitando che al contrario finisca per prevalere la logica partitica.
QustaQ QQIl secondo punto riguarda l’indicazione del senato come organo che “esercita funzioni di raccordo tra lo stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”, con la quale i rapporti tra stato e regioni vengono messi su un piano completamente nuovo rispetto al passato.
Innanzitutto, la sede principale dei raccordi è individuata in un organo costituzionale, per di più formato da rappresentanze istituzionali territoriali, e questo è un vero e proprio ribaltamento rispetto alla situazione attuale nella quale i raccordi avvengono in un organismo, la Conferenza Stato-regioni, che è nato come organo paragovernativo e ne mantiene le caratteristiche [15].
In secondo luogo, l’indicazione della riforma vuol dire che i raccordi, avendo per sede un organo parlamentare, dovranno per forza di cose svolgersi in modo pubblico e trasparente, il che non può se non favorire anche il senso di responsabilità delle varie parti e delle stesse regioni. E qui di nuovo c’è un ulteriore ribaltamento rispetto a quanto è accaduto fino ad oggi con la prevalenza di trattative tra stato-regioni e tra regioni in sede di Conferenza Stato-regioni o altre sedi informali, senza che vi sia nessuna trasparenza e pubblicità.
L’istaurarsi di un nuovo sistema di raccordo tra stato e regioni è, infine, insieme ai poteri attribuiti al senato in ordine al processo legislativo, un elemento in più di prevenzione dei conflitti. Sarebbe così possibile superare la situazione attuale, nella quale appare sovradimensionato rispetto alla politica e al parlamento il ruolo della Corte costituzionale [16], che potrebbe persino crescere ulteriormente se non si rafforza la capacità di decisione (e la responsabilità) politica e non si trova una sede nuova di raccordo tra stato e regioni, ferma restando ovviamente la funzione fondamentale di garanzia che spetta alla Corte.
Il terzo punto che vorrei sottolineare è che il nuovo Senato è disegnato come organo ‘permanente’, nel senso che i suoi componenti non si rinnovano con una elezione generale, ma di volta in volta secondo le tornate elettorali delle varie regioni. Questo è un fatto molto interessante, perché così si introduce, a livello alto, anche un elemento di bilanciamento tra poteri e, se si vuole, di garanzia: un rafforzamento e non un indebolimento della democrazia e del pluralismo.
Vorrei dire che anche questa novità non cade dal cielo, ma va vista come il frutto di un processo che dura da anni. Sono decenni, infatti, che le regioni, considerate tutte insieme, hanno dimostrato di saper collaborare tra loro, favorendo così anche l’avvicinamento e una discussione pacata tra le forze politiche, anche in momenti drammatici di forte contrapposizione politica a livello nazionale. Ebbene, mi pare che il nuovo senato rappresenti anche lo sviluppo istituzionale, una sorta di maturazione, di questa qualità del nostro regionalismo, che è preziosa e non dovremmo perdere, perché è la base concreta, come si è storicamente sviluppata, della collaborazione orizzontale e della solidarietà territoriale, la cui importanza fondamentale per il sistema delle autonomie e della rappresentanza territoriale è stata di recente sottolineata da Mangiameli [17].
Se il senato delle regioni è dunque la vera novità della riforma, non mi pare che grandi novità ci siano invece in ordine alle competenze.
Nella riforma sicuramente il pendolo stavolta va verso l’accentramento, che riguarda soprattutto un gruppo di materie che avventurosamente il legislatore del 2001 aveva attribuito alle regioni, ma di fatto da queste per niente o scarsamente esercitate. Ciò detto, però, a guardare bene, l’insieme delle competenze regionali restano quelle solite, come già erano state delineate, se vogliamo con parole antiquate, dai Costituenti e che in seguito vedranno ovviamente vari aggiornamenti (con leggi costituzionali e ordinarie e attraverso le loro interpretazioni), ma in sostanza verranno sempre confermate. Ed è bene qui sottolinearlo: sono state soprattutto confermate da quello che le regioni effettivamente hanno fatto e continuano a fare con le loro leggi e le loro attività.
Si tratta di un insieme di politiche e attività di servizi ai cittadini e alla comunità, di politiche e attività di ‘governo’ del territorio compresa la mobilità di livello regionale, di impegno per lo sviluppo locale compresi i servizi alle imprese e la formazione professionale, di disciplina delle attività culturali e promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici: insomma, un nucleo fondamentale di competenze politico-legislative e amministrative, confermate dalla tradizione costituzionale, legislativa e dai fatti, rivolte alla cura e alla crescita della comunità regionale. Queste competenze ci sono tutte nella riforma costituzionale e non sembrano poco.
Quanto alla novità, in ordine a varie materie regionali, dell’introduzione, al posto dei principi, delle disposizioni generali e comuni di competenza esclusiva statale, non si può escludere che si tratti di una formula in grado di fissare meglio i confini della competenza statale. Inoltre, può pensarsi che quelle disposizioni potranno essere più o meno dettagliate a secondo dei momenti e delle esigenze, consentendo così una certa flessibilità del riparto di competenze che, se ben usata, potrebbe favorire nel tempo il potenziamento delle regioni. Né va dimenticato che per varie materie, in ordine alle quali lo stato ha la competenza di fissare disposizioni generali e comuni, c’è la possibilità di introdurre forme di regionalismo differenziato, ampliando dunque i margini di flessibilità, sia pure in modo diverso da regione a regione.
Penso che con la riforma, in particolare con la novità del senato, si prendono, o meglio si possono prendere le distanze, dal regionalismo dei partiti e dalle forme di centralismo contrattato e decentramento esecutivo prevalse a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo. Si torna, invece, e questo vale per il senato ma anche per le competenze, ad alcuni elementi fondamentali del regionalismo costituzionale: le regioni concepite come entità-comunità territoriali e la loro partecipazione, ora anche pratica, all’assetto costituzionale della Repubblica.
Se questo è vero, non mi sembra sostenibile la tesi, che pure da alcune parti è stata avanzata, secondo la quale nella riforma ci sarebbe un disegno volto alla depoliticizzazione delle regioni facendone enti funzionali amministrativi.
Tutto sommato, dovrebbero dunque guardare con interesse alla riforma coloro che credono ancora nelle regioni: che cioè considerano importante, nel mondo attuale pur sempre globalizzato ma in preda anche a ritorni nazionalistici, l’esistenza di istituzioni territoriali regionali, enti di cura e crescita di comunità nelle quali i cittadini possano ritrovarsi su questioni rilevanti e determinanti per la loro vita quotidiana e per le loro aspirazioni; e, inoltre, credono che tali comunità e i loro enti siano fondamentali per mantenere e sviluppare il pluralismo, anche con una funzione di equilibrio rispetto ai poteri espressione del corpo elettorale nazionale (Camera e, quindi, Governo).
Forse è retorico dirlo, ma sotto questo profilo mi sembra che non dovremmo dimenticare le riflessioni di alcuni classici, per esempio di Cattaneo al quale l’elemento democratico del suffragio universale appariva insufficiente, essendo a suo parere necessario il federalismo o regionalismo per assicurare e far crescere la libertà politica e il pluralismo [18]. Ma a questo proposito potremmo citare anche la visione di Tocqueville, inspirata al famoso viaggio in America, del federalismo inteso come argine alla sovranità popolare, ricordata da Martines e Silvestri nel loro saggio dedicato ai temi della sovranità e dell’autonomia [19].
Non mi pare, invece, che siano su questa strada le posizioni ― critiche verso la riforma ― che insistono sulla lesione che essa introdurrebbe alla sovranità del popolo, presentando la riforma addirittura come “la codificazione” della “perdita di sovranità” del popolo e affermando che i “soggetti che costituiscono lo stato… negli ordinamenti non federali, come l’Italia, … si riducono al popolo” [20].
A parte il fatto che la riforma non tocca assolutamente l’art.1 della Costituzione, forse è tempo di avere delle visioni più articolate della volontà popolare e della stessa sovranità [21], tra le cui forme di espressione ― per la nostra Costituzione ― ci sono appunto anche le istituzioni territoriali.
Vorrei, a questo proposito, ricordare Giannini, il quale già tanti anni fa, ragionando sull’autonomia, rilevava che “il concetto di autonomia regionale che balza dalla Costituzione è totalmente diverso” (rispetto ― intendeva ― all’autonomia tradizionale degli enti locali), in quanto il legislatore costituente con le regioni “ha voluto introdurre una nuova forma di distribuzione della sovranità”; donde anche l’idea di Giannini che la differenza con gli stati federali sia “solamente di fattispecie genetica” [22].
Al contrario, mi pare che le posizioni sopra ricordate, che insistono sul principio supremo dell’appartenenza al popolo della sovranità, in realtà non prendono sul serio le regioni, che ancora una volta vengono viste come un fenomeno del tutto secondario. Come se il regionalismo non fosse una delle forme in cui la Costituzione organizza la sovranità popolare.
Se i cittadini oggi hanno più appartenenze, a comunità tra loro diverse ma tra loro conviventi, è concepibile e necessario un Parlamento nel quale sia possibile l’incontro e il dialogo tra la rappresentanza di tipo generale, nazionale, e quella ― come si esprime la riforma ― delle istituzioni territoriali. Se questo è vero, ne segue che le regioni non sono un tema accessorio, di serie b, ma sono al centro stesso della riforma che va valutata anche, se non soprattutto, da questo punto di vista.
[1] Riprendendo alcune idee e considerazioni più ampiamente sviluppate in Regioni politiche e territori, Per una storia del regionalismo italiano, Giuffrè Editore, Milano, 2015.
[2] M.S. Giannini, rispettivamente in: Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè Editore, Milano, 1981, p.180; Diritto amministrativo, Giuffrè Editore, Milano, 1988, p. 194. In senso analogo già Regioni:rettificazioni e prospettive, in Nord Sud, 1963, pp. 49-50 (ora in Scritti, vol. V, Giuffrè Editore, Milano, 2004, pp. 129-130).
[3] M.S. Giannini, Intervento, in Stato e Costituzione, a cura di F. Livorsi, Marsilio, Venezia, 1977, p. 51 (ora in Scritti, cit., vol. VII, 2005, p. 87).
[4] In merito anche L. Ronchetti, Territorio e spazi politici, in ISSiRFA-CNR, Italian Papers on Federalism, 2014, n. 2, http://italianpapersonfederalism.issirfa.cnr.it
[5] G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 17.
[6] R.D. Putnam, R. Leonardi, R.Y. Nanetti, La pianta e le radici, Bologna, Il Mulino, 1985.
[7] I risultati della ricerca sono raccolti in tre volumi di vari autori prodotti dall’Istituto con il titolo: Autonomia regionale e sistema dei partiti, Giuffrè Editore, Milano, 1988.
[8] Sulle complesse vicende del periodo considerato, sulle proposte allora elaborate e sulle trasformazioni introdotte, si può vedere il volume Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo, a cura di S. Mangiameli, Giuffrè Editore, Milano, 2012.
[9] In merito A.G. Arabia e C. Desideri, Qualità e quantità delle fonti regionali:novità e conferme dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, a cura di S. Mangiameli, Giuffrè Editore, Milano, 2012, pp. 279 e ss.
[10] Pubblicata in Quaderni regionali, 1994, n. 2 e in Le Regioni, 1994, pp. 1337-1387.
[11] A. D’Atena, Luci e ombre della riforma costituzionale Renzi Boschi, in Rivista AIC, 2015, n. 2.
[12] Tuttavia, l’indicazione contenuta nel testo della riforma secondo la quale i consiglieri-senatori vanno scelti in conformità alle scelte degli elettori per i candidati consiglieri appare ridondante, inutile e destinata a creare confusione. Questa integrazione del testo, frutto di un emendamento nato come tentativo di compromesso, è, in realtà, un residuo della proposta di un senato eletto direttamente dai cittadini: in fondo di una concezione che di fatto finiva per svalutare le regioni.QustaQ QQ
[13] A. D’Atena, Finalmente un Senato federale, gennaio 2008, http://www.issirfa-spoglio.cnr.it/4526,908.html (anche in riferimento all’esperienza del Bundesrat in Germania).
[14] S. Mangiameli, Problemi inerenti la formazione e il funzionamento del Senato, ottobre 2016, http://www.issirfa-spoglio.cnr.it/8298,908.html
[15] La riforma non dice nulla delle Conferenze. In ogni caso, se queste dovessero sopravvivere, probabilmente dovrebbero essere completamente ripensate per renderle coerenti con le nuove scelte della riforma.
[16] A. Barbera, Costituzione della Repubblica Italiana, Enciclopedia del Diritto, Annali, VIII, 2015, pp. 264, 339, 358-359.
[17] S. Mangiameli, Problemi inerenti la formazione e il funzionamento del Senato, cit.
[18] C. Cattaneo e N. Bobbio, Stati Uniti d’Italia, Donzelli, Roma, 2010, in particolare, pp. 52-53.
[19] T. Martines e G. Silvestri, Fortuna e declino dei concetti di sovranità e di autonomia, in Economia Istituzioni Territorio, 1990, n. 1 (ora in T. Martines, Opere, Tomo I, Teoria generale, Giuffrè Editore, Milano, 2000, p.587).
[20] G. Zagrebelski con F. Pallante, Loro diranno, noi diciamo, Editore Laterza, Roma-Bari, 2016, pp. 16, 17, 63.
[21] Come già argomentato da T. Martines e G. Silvestri, op. cit. (Opere, cit., in particolare p. 591).
[22] M.S. Giannini, Sostanze e modi delle autonomie nel diritto pubblico, in Studi Sassaresi, III, Autonomia e diritto di resistenza, Giuffrè Editore, Milano, 1973, pp. 79-80 (ora in Scritti, cit., vol VI, 2005, pp. 595-596).