Intervento per l’anniversario dello statuto siciliano, 16 maggio 2017.

 

1. Lo statuto siciliano del 1946 è stato un precursore del regionalismo in Italia, ed in un certo senso è stato giusto che la prima istituzione dell’impianto regionale sia avvenuta in Sicilia, proprio in quella parte del Paese da cui aveva preso inizio l’attività politica di Luigi Sturzo. Come è noto, infatti, al fondatore del Partito popolare si deve già nel 1921 la proposta di istituire regioni dotate di competenze legislative in varie materie. All’epoca in cui fu avanzata, la previsione di una legge regionale era quanto di più ardito si potesse immaginare: non solo si rompeva la tradizione accentratrice dello Stato risorgimentale ancora “giovane” (l’unità d’Italia era stata sancita nel 1861; la conquista di Roma era avvenuta nel 1870), ma si contraddiceva anche l’idea di derivazione rousseiana che aveva animato il pensiero politico moderno della legge uguale per tutti, giacché l’istituzione delle regioni avrebbe comportato anche l’ammissione di leggi diversificate sul territorio nazionale, cioè una nuova considerazione del principio di eguaglianza.

La proposta di Sturzo muoveva da due presupposti ideali: la prima premessa era l’abbandono della concezione statalista per la quale lo Stato era ed è la misura di tutte le cose; al contrario, si valorizzavano le realtà o società intermedie che muovono dalla considerazione dell’attività della persona e delle formazioni cui essa dà origine. La regione, per l’appunto, sarebbe nel novero delle formazioni sociali, proiezione del naturale aggregarsi di uomini e donne in gruppi più vasti. A distanza di anni, in considerazione del fatto che anche le regioni esercitano poteri pubblici e si pongono quindi in rapporto di autorità con i singoli individui, la nozione di regione quale società naturale intermedia abbisogna di tante precisazioni e può risultare difficile da accettare; associazioni culturali, sindacali, religiose e politiche sono diverse dagli enti pubblici e non può applicarsi alle une ed agli altri lo stesso regime. Ma nel momento in cui fu formulata la proposta era volta a contestare la derivazione di ogni potere dallo Stato e di sostituire tale tesi con quella secondo la quale bisognava partire dall’uomo e dai suoi bisogni, di modo che ogni struttura intermedia e persino i livelli istituzionali di governo traggono ragion d’essere dal servizio reso e dalle risposte offerte alle concrete necessità che esprimono i singoli ed i gruppi stanziati su un territorio. Insomma, si profilava il principio di sussidiarietà concepito a partire dal basso ed in base al quale il livello di governo più vicino al territorio è quello naturalmente competente ad occuparsi di tutti gli interessi manifestati dalla popolazione ed i livelli superiori di governo debbono intervenire in ausilio allorquando il primo risulti nell’impossibilità di provvedere.

Il secondo presupposto sturziano era costituito dal rilievo dato all’amministrazione piuttosto che alla legislazione, cioè a dire all’attenzione prestata ai servizi da rendere ai cittadini piuttosto che alla normazione astratta. Una volta che si avverte la necessità che gli enti pubblici intervengano nei rapporti sociali per tutelare i lavoratori, gestire l’assistenza sanitaria, assicurare l’istruzione, assicurare i trasporti, ecc., l’amministrazione non è più quella che “fa ordine” in nome ed in applicazione di una normazione generale ed astratta, ma è quella che presta servizi per migliorare la qualità della vita. L’istituzione delle regioni va di pari passo con la trasformazione dell’ordinamento e con la conformazione del Welfare, cioè dello Stato che si preoccupa del benessere dei cittadini e pone in essere una complessa serie di attività a tale scopo. All’esito di tale storica trasformazione la generalità delle regole ha un senso laddove si tratta di garantire l’eguaglianza in senso forte dei cittadini (ad esempio nel settore penale ed in quello dei c.d. diritti di cittadinanza); ma negli altri campi la tensione all’uguaglianza ben può consentire normazioni diversificate sul territorio nazionale, adottate da organi eletti in maniera democratica dai residenti nelle varie parti del Paese.

La combinazione di questi elementi ha portato a riconoscere l’autonomia locale come naturale modo d’essere dell’ordinamento politico. Non è un caso che la Costituzione repubblicana del 1947 adotti lo stesso termine “riconoscere” per indicare sia i diritti fondamentali della persona e dei gruppi sociali (art. 2), sia le autonomie locali (art. 5), ad ammettere così che diritti dei singoli e degli enti locali preesistono al medesimo Stato, che non li crea (non ne è, quindi, affatto la misura), ma si limita a dichiararli antecedenti alla sua stessa formazione. Gli enti locali, in particolar modo, non sono per natura diversi dallo Stato, in quanto tutti gli enti territoriali sono serventi rispetto ai bisogni delle popolazioni insediate sul territorio: sono tutti politici nel duplice senso che si occupano di tutti gli interessi manifestati dalle popolazioni e sono guidati da soggetti eletti e politicamente responsabili, appunto, per quanto fanno. 

 

2. Lo statuto siciliano del 1946 è frutto di questa cultura. La storia italiana tra gli anni 1943-1948 ne ha fatto un modello che è servito come punto di riferimento per la stessa Costituzione del 1947. Purtroppo, a distanza di anni l’idea iniziale è quasi diventata una trappola per gli stessi siciliani, come avviene tutte le volte che di uno strumento segnato inevitabilmente dal tempo se ne fa un mito dal quale, poi, si è incapaci di prendere le distanze.

Accanto alla legge elettorale per l’assemblea costituente, lo statuto siciliano è il primo documento costituzionale del dopoguerra: lo statuto introduceva già l’idea della regione come modello di organizzazione dell’intero ordinamento uscito dalla guerra; fissava la forma di governo regionale; prevedeva che la regione si occupasse non solo di amministrazione (come da sempre comuni e province), ma potesse fare leggi; allo scopo di definire i rispettivi confini delle leggi statali e regionali istituiva per la prima volta nella storia italiana un giudice costituzionale, l’Alta Corte formata da componenti eletti in maniera paritetica da Stato e regione; prefigurava che a livello nazionale sarebbero state fatte riforme incisive nel campo agricolo ed industriale, ma anche che il governo statale avrebbe visto un consiglio dei ministri al quale il presidente della regione avrebbe partecipato; si poneva il problema del raccordo tra la regione e gli enti locali minori; si occupava dei beni da trasferire alla regione e del modo di finanziare le sue attività. Insomma, lo statuto del 15 maggio 1946 era un documento assai evoluto ed ha adottato una serie di scelte che, poi, di fatto, l’Assemblea costituente non poteva non fare proprie ed estendere.

Così, già dal nome adoperato “regione” si pregiudicava la scelta dell’Assemblea costituente a favore della creazione di un ente sovraprovinciale dotato di competenze forti e di necessità “sottratte” allo stato centrale. Oggi troviamo il termine del tutto naturale, ma è ovvio che in quegli anni potevano immaginarsi ed utilizzarsi altri nomi (la Spagna del 1977 inventerà le comunità autonome), e questa fu forse la prima scelta adottata nello statuto siciliano.

Ma le soluzioni innovative non furono solo terminologiche, bensì anche sostanziali: soprattutto, si configurò la presenza della legge regionale contenente una disciplina, allora, di necessità divergente da quella statale; anzi, si pensò che la stessa legge regionale potesse conformarsi diversamente a seconda delle materie coinvolte, che cioè la regolazione di fonte regionale potesse essere più intensa, addirittura esclusiva, in taluni settori (ad esempio agricoltura, industria, enti locali, ecc.) ed applicare, invece, le scelte fondamentali della disciplina statale in altri (così l’assistenza sanitaria). Questo è un punto sul quale talvolta si sorvola: lo statuto siciliano del 1946 non contiene certo statuizioni in ordine ai diritti dei cittadini (non lo poteva e non lo può fare per tanti motivi di ordine storico e non si pensava neppure che lo si dovesse fare); epperò, esso individua tutta una serie di settori nei quali sono coinvolti gli interessi diretti dei cittadini residenti in Sicilia e per i quali, allora, si prefigurava l’intervento riformatore della regione: incremento della produzione agricola ed industriale; valorizzazione, distribuzione, difesa dei prodotti agricoli ed industriali e delle attività commerciali; turismo; tutela del paesaggio; conservazione delle antichità e delle opere artistiche; istruzione elementare (art. 14 statuto); comunicazioni e trasporti regionali di qualsiasi genere; sanità pubblica; assistenza sanitaria; istruzione media e universitaria; disciplina del credito, delle assicurazioni e del risparmio; legislazione sociale, assunzioni di pubblici servizi (art. 17 statuto). Alcune competenze indicavano già funzioni da considerare in prospettiva dinamica e non solamente quali settori materiali. Insomma, lo statuto preannunciava già un intenso programma di riforme affidato alla stessa regione, che è poi lo scopo medesima di creazione dell’autonomia regionale.

Dall’attribuzione alla Sicilia della potestà di fare leggi discendeva pressoché di conseguenza l’istituzione di un giudice apposito per dirimere i problemi di competenza tra lo stato e la regione. Lo statuto ha previsto, perciò, l’Alta Corte per la Regione Siciliana, che è stata il primo giudice costituzionale nella storia italiana (artt. 24-30 statuto). Sino ad allora, infatti, l’idea della preminenza della legge quale espressione di volontà statale aveva comportato – tranne rari e lontani episodi - la negazione della competenza del giudice a sindacare e persino ad annullare atti aventi forza di legge. Con lo statuto, invece, si introduceva l’idea che le leggi statali e regionali debbono rispettare i reciproci confini: ne derivava che allo stesso statuto era conferita natura di legge superiore, una vera e propria legge costituzionale, imposta al rispetto degli atti subordinati.

Queste due innovazioni – che le regioni possano fare leggi e che ci debba essere un giudice apposito chiamato ad assicurare rispetto alla sovraordinata Costituzione – sono entrate quasi di peso nella Costituzione italiana del 1947: l’Assemblea costituente lavorò piuttosto a lungo su questi temi, gli istituti configurati vennero modificati prima di essere generalizzati nell’intero ordinamento, ma era piuttosto scontato che quelle scelte statutarie non potevano non esercitare tutta la loro influenza. I principi stabiliti, insomma, segnarono un punto di non ritorno nella storia istituzionale italiana.

Lo stesso è da dire per altre soluzioni anticipate nello statuto: così, l’elezione del presidente della regione ad opera dell’assemblea non solo fu estesa a quel tempo a tutte le regioni (art. 9 statuto; art. 121 Cost.), ma in coerenza con la storia istituzionale prefascista rappresentò un precedente anche in ordine alla forma di governo statale, imperniata sul rapporto di fiducia tra parlamento e governo (art. 94 Cost.). Così, ancora, la necessità di dotare la regione di beni e tributi propri (artt. 32-40 statuto; art. 119 Cost.); così la delega di funzioni statali alla regione (art. 20 statuto; art. 118 Cost.).   

 

3. Laddove lo statuto siciliano ha mostrato la sua debolezza è stato, però, negli sviluppi storici successivi. Lo statuto del 15 maggio 1946 era per esplicita definizione provvisorio e doveva essere coordinato con la Costituzione che l’Assemblea eletta il successivo 2 giugno avrebbe adottato. Ma dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione l’1 gennaio 1948, in fretta e in furia si fece la legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, che per l’intanto convertì lo statuto in norma costituzionale anche dal punto di vista formale, ma rimandò ancora il coordinamento. Qui si posero le premesse per il “blocco” statutario che nei decenni successivi si è manifestato tanto infruttuoso.

Per un verso, lo statuto regionale siciliano poteva avere senso nel contesto di una compiuta regionalizzazione dell’impianto ordinamentale, ma in quegli anni segnati dalla dura contrapposizione tra i partiti protagonisti della lotta di liberazione dal fascismo si istituirono solo quattro delle cinque regioni speciali e non si istituirono le regioni ad autonomia ordinaria – cioè a dire non si realizzò l’orizzonte di sistema. Queste ultime saranno fatte solo nel 1970. Le regioni speciali apparvero così isolate di fronte allo Stato centrale ed ai suoi apparati. Non solo: in occasione del trasferimento delle funzioni dallo stato alle regioni speciali il primo mantenne tutta una serie di compiti che potessero avere a che fare con l’interesse nazionale. Una Sicilia – armata sì di statuto, ma isolata nel rapporto con lo Stato centrale – è divenuta alla fine piuttosto debole nella difesa di competenze in astratto assegnatale.

Per altro verso, presso la classe politica siciliana in quegli anni si è affermata una sorta di mito dello statuto come se questo fosse del tutto autosufficiente e non bisognasse, pertanto, di alcun adeguamento o coordinamento. Strenuo difensore di questa impostazione fu il primo presidente della regione, Giuseppe Alessi, che vinse la battaglia per far annullare dall’Alta Corte la previsione della suddetta legge costituzionale del 1948 in ordine alla possibilità di modifica dello statuto con legge ordinaria. Ma si deve ricordare che quella di Alessi è stata anche la lotta volta ad utilizzare al massimo le potenzialità riformatrici dello statuto: la prima legislatura siciliana è stata non a caso quella che ha continuato la spinta progressista con il varo di leggi che hanno anticipato quelle statali, come nella riforma del latifondo agrario. La difesa a tutto campo dello statuto era strumentale a questo scopo.

Allorché quella spinta si è esaurita e la lotta politica in Sicilia è divenuta solo ricerca del consenso elettorale e finanche “laboratorio politico” per inventare formule di consociativismo tra i partiti, in qualche maniera in posizione di distanza dai bisogni reali dei cittadini, anche il mito “statuto” si è esaurito e si è quasi trasformato in una trappola dalla quale non si riesce a trarsi fuori. La frase del tipo “se lo statuto fosse attuato per intero, allora sì la Sicilia farebbe un salto avanti” è una di quelle che si sente più spesso ripetere. Allo statuto ci si riferisce come ad una sorta di “terapia” utile ad assicurare alla regione siciliana le occasioni di sviluppo che non riesce a cogliere. È in un certo senso paradossale che ci si affidi alle soluzioni statutarie le quali sono di necessità formule di ingegneria costituzionale, come se esse fossero da sole idonee e sufficienti a permettere la ricerca e la conquista di investimenti interni ed esterni.

Eppure, bisogna ammettere che in più di sessanta anni lo statuto siciliano non ha saputo far sviluppare ciò che si chiama patriottismo (costituzionale e nella specie) statutario, capace di alimentare forti passioni a livello sociale e comunitario. Alcune parti dello statuto sono nate “vecchie” e di impossibile attuazione. Oggi, poi, lo statuto del 1946 rischia di non intercettare le trasformazioni che occupano ogni ordinamento federale, per definizione in divenire o in progress.

L’autonomia regionale – di ogni sistema regionale - appare sempre sul crinale dell’equilibrio tra tendenze all’omogeneizzazione e spinte alla differenziazione. Se l’ispirazione autonomistica è che le situazioni locali siano disciplinate in maniera particolare rispetto alla regola comune dettata dallo stato, siffatta pretesa va predicata a favore dell’intero sistema delle autonomie e non di una sola regione. È l’articolazione complessiva dell’ordinamento che va costruita in modo da valorizzare le autonomie, mentre non è pensabile che si possano adottare soluzioni esclusive solo per taluno: soluzioni che sarebbero “stonate” rispetto al sistema e che sarebbero allora espunte. 

 

4. La prima notazione critica riguarda l’idea che lo statuto siciliano sia una sorta di patto tra lo stato e la regione Sicilia, ossia che si tratti di un vero e proprio contratto. L’eco di tale tesi si ritrova anche nella giurisprudenza costituzionale, che a proposito della configurazione originaria del commissario dello stato nella regione siciliana è giunta a parlare di «garante imparziale del “patto di autonomia” tra l’ordinamento siciliano e l’ordinamento statale» (sentenza n. 545/1989, ripresa poi dalla decisione 314/2003). Oltre il riconoscimento formale non si è però andati: di fatto, le modifiche dello statuto sono state adottate dal parlamento nazionale al di là delle proposte avanzate in sede regionale. In sostanza, bisogna guardare agli svolgimenti in concreto del rapporto stato-regione in ordine alla modificazione dello statuto. La più importante revisione è stata quella del 2001 che ha introdotto anche in Sicilia l’elezione diretta del presidente della regione (ma anche il referendum sulle leggi regionali), ma che è stata decisa a livello statale sull’onda delle trasformazioni che hanno riguardato tutte le regioni (quelle ordinarie e di conseguenza anche quelle) speciali e, quindi, senza alcuna attenzione particolare per la Sicilia. Con la stessa riforma del 2001 è ora stabilito che la revisione dello statuto si faccia con legge costituzionale approvata, quindi, dalle due camere. L’assemblea regionale può fare certo proposte di modifica e se l’iniziativa è assunta direttamente dal governo statale o da qualche parlamentare nazionale, l’assemblea regionale deve essere sentita (art. 41-ter statuto). Ma ciò non importa affatto che si sia di fronte ad un contratto tra stato e regione Sicilia, tanto è vero che analoga disciplina è stata stabilita per le altre regioni speciali.

Soprattutto, è paradossale che dopo la riforma del titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001, la regione siciliana abbia varato solo un progetto di revisione del proprio statuto nel 2003, redatto dalla commissione presieduta dall’on. Leanza, e cui il parlamento nazionale non ha dato seguito. La riforma del titolo V ha dato e dà grossi problemi di coordinamento tra le potestà normative e le competenze amministrative: l’occasione era più che opportuna per riscrivere ex novo lo statuto e per delineare il nuovo volto della Sicilia. Eppure, ad oggi non sembra che la definizione delle regole istituzionali sia tra le priorità della politica regionale.

La disposizione dello Statuto siciliano circa la competenza del Presidente in materia di ordine pubblico (art. 31 statuto) si è rivelata inapplicabile, pressoché da subito considerata un corpo estraneo all’ordinamento, un qualcosa di troppo originale in un sistema che non prevede l’assegnazione a nessun soggetto locale di attribuzioni in materia di ordine pubblico, per i noti riflessi che ciò avrebbe sul monopolio statale della forza e – non da ultimo – sul principio di eguaglianza. Non è configurabile, infatti, un sistema in cui il governo nazionale risulti espropriato della responsabilità a garantire l’ordine pubblico sull’intero territorio: si pensi solo ai fatti di delinquenza organizzata, alle ramificazioni di quest’ultima nelle diverse parti del Paese, alla tendenza ad accentrare, anzi, le indagini di polizia e coordinare le medesime funzioni inquirenti con l’istituzione a partire dagli anni ’80 della DIA e della DDA. La previsione statutaria, poi, mal si collega con quella costituzionale che assegna all’autorità giudiziaria di disporre direttamente della polizia giudiziaria (art. 109), atteso che la regione non alcuna competenza sull’organizzazione giurisdizionale e le sue funzioni.

Si mostra inadeguata anche la norma che assegna al presidente della regione siciliana di partecipare al consiglio dei ministri con voto deliberativo e con il pomposo rango di ministro (art. 21 statuto). La previsione ha dato occasione ad un qualche significativo contenzioso perché la corte costituzionale ha avuto più occasioni per ribadire tale potere. Eppure, dovrebbe risultare evidente che la presenza del presidente della regione a qualche seduta del consiglio dei ministri è estranea alla logica del governo parlamentare ed ai meccanismi dell’art. 94 Cost.; inserisce nel consiglio un soggetto dotato di legittimazione politica assai diversa rispetto agli altri componenti, se non di diversa estrazione politica; non assicura affatto la regione circa l’esito della partecipazione; non ha motivo di essere nelle ipotesi in cui si trattino questioni di carattere generale e non solo interessi differenziati, propri e peculiari della singola regione, malgrado l’impatto delle decisioni c.d. generali sull’ambito regionale. Nei fatti, poi, l’accordo politico si realizza spesso in sedi diverse dal consiglio dei ministri (si pensi alle riunioni informali tra i leader dei partiti politici, ma anche agli incontri governo – parti sociali per la definizione di importanti politiche economiche) cui il presidente della regione non partecipa affatto.

Appare di retroguardia la rivendicazione del giudice costituzionale particolare per la Sicilia, come era l’Alta Corte. Una volta che fu istituita la Corte costituzionale nel 1956, l'Alta Corte siciliana cessò di funzionare, anzi la sua previsione fu ritenuta illegittima nel 1970, in base al principio che all'interno dell'unico Stato non possa esistere che un unico giudice costituzionale. Infatti, le competenze dell'Alta Corte sono state assorbite in quelle della Corte costituzionale. Solo una volta, nel 1989, il commissario dello stato ha impugnato una legge dello stato per violazione dello statuto, sulla base del modello originario che ne faceva un organo di snodo nei rapporti tra stato e regioni. Ma ciò è stato ritenuto impossibile nel mutato assetto: un organo dello Stato, qual è il commissario, non può agire contro quest'ultimo.

In realtà, quello strumentario processuale era inadeguato nel confronto con il sistema regionale per come si è evoluto. Nel 2001, con la riforma costituzionale che ha riguardato tutte le regioni, è stato soppresso il controllo preventivo delle leggi regionali da parte dello stato: le leggi regionali possono essere sì impugnate davanti la corte costituzionale, ma entrano subito in vigore ed esplicano effetti. Per raggiungere questo risultato in Sicilia si è dovuto attendere sino al novembre 2014, allorquando con la sentenza n. 255 la Corte costituzionale ha esteso alla Sicilia il sistema di controllo delle leggi vigente per le altre regioni. È paradossale che si sia dovuto attendere tanto: subito dopo la riforma del titolo V una delibera dell’Ars ha ritenuto che il controllo esercitato dal commissario fosse consustanziale alla specialità dello statuto: decisione incomprensibile, che è stata però fatta propria dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 314 del 2003. Ne è derivato che per tanto tempo quelle siciliane sono state le uniche leggi regionali a subire un controllo preventivo da parte del commissario, cioè a dire ad opera di un prefetto, ed in concreto della sua struttura priva di ogni legittimazione politica. Deve aggiungersi che il potere di impugnativa del commissario è stato un vero e proprio potere di veto pressoché definitivo: la legge regionale contiene di norma regole diverse; l'impugnativa di una sola di esse costringerebbe la regione ad attendere almeno un anno per la definizione dell'apposito processo davanti la Corte costituzionale (si pensi alla finanziaria che contiene discipline diverse); ed allora a livello politico si è proceduto spesso alla promulgazione parziale di quanto rimaneva a seguito dell'impugnativa del commissario, che a questo punto non veniva più trattata in sede giudiziaria. La promulgazione parziale vale solo per la regione siciliana e di fatto assegnava ad un prefetto il potere di veto assoluto e pressoché insindacabile sulle leggi approvate dall'Ars. L'assemblea stessa ne usciva deresponsabilizzata e delegittimata; non si contano le trattative con il commissario; talvolta alcune norme sono state adottate quale "specchietto" per l’elettorato e per i gruppi di interesse nella previsione consapevole della sicura impugnativa. Insomma, per i residui della disciplina statutaria del 1946 per come nel tempo è stata applicata, il regime particolare siciliano ha finito per spogliare l'Ars del potere tutto politico di valutare gli interessi locali e di darne l'adeguata regolamentazione, assumendosi il merito delle scelte come pure l'eventuale responsabilità per gli sbagli e gli errori.

Epperò, quella prassi non è solo una vicenda storica chiusa nel 2014: rimane l’approccio culturale che segna la classe politica siciliana nell’adozione di soluzioni legislative che poi non difende davanti il giudice costituzionale. Ne è un esempio recente ed assai lampante la riforma delle province regionali: le scelte regionali sono state più volte impugnate dal Governo nazionale che ha imposto la ricezione della cosiddetta legge Delrio, l. n. 56/2014, la quale – sebbene autodefinitasi di grande riforma – è pur sempre legata alla revisione costituzionale poi bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016 ed in ogni caso è di carattere sperimentale. La Sicilia non ha difeso le proprie scelte, né è stata presente nel giudizio nel quale si trattavano i problemi di legittimità costituzionale di quella disciplina, poi definito con la sentenza n. 50 del 2015.  

 

5. In linea generale può chiedersi se l’impianto che individua le competenze statali e regionali sulla base delle materie sia tuttora valido ed efficace a far funzionare un effettivo sistema federale. Tale modello non è mai entrato pienamente in vigore per la necessità di tutelare profili di interesse nazionale in molti settori: agricoltura, sanità, istruzione, trasporti, tutela dell’ambiente, ecc. Il sistema di riparto per materie è in crisi nelle esperienze federali, che prevedono strumenti unitari le volte in cui si profila un interesse non localistico.

In fondo, molte delle materie oggi indicate nei testi di rango costituzionale non sono tanto settori di competenza, ma funzioni trasversali che possono intercettare qualsiasi campo e giustificare una rinnovata presenza statale. Del resto, ogni esperienza federale è per definizione un processo in divenire, con moti costanti di riaccentramento e di diffusione dei compiti da svolgere. E’ noto come, a riforma del titolo V ormai efficace, in occasione del giudizio sulla legge sulle grandi opere nel 2001, che assegnava allo Stato la competenza a decidere su queste ultime, con la sentenza n. 303 del 2003 la Corte costituzionale ha giustificato tale riallocazione sulla base del principio di sussidiarietà:  “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principî nelle materie di potestà concorrente, … significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze ... Anche nel nostro sistema costituzionale sono presenti congegni volti a rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia articolazione delle competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principî giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica. Un elemento di flessibilità è indubbiamente contenuto nell’art. 118, primo comma, Cost., il quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un meccanismo dinamico che finisce col rendere meno rigida … la stessa distribuzione delle competenze legislative, là dove prevede che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne l’esercizio unitario, sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. E’ del resto coerente con la matrice teorica e con il significato pratico della sussidiarietà che essa agisca come subsidium quando un livello di governo sia inadeguato alle finalità che si intenda raggiungere; ma se ne è comprovata un’attitudine ascensionale deve allora concludersi che, quando l’istanza di esercizio unitario trascende anche l’ambito regionale, la funzione amministrativa può essere esercitata dallo Stato. Ciò non può restare senza conseguenze sull’esercizio della funzione legislativa, giacché il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto”.

A questo punto continuare a battersi per un sistema fondato solo sulla ripartizione di competenze a favore della regione non appare affatto in grado di essere realistico. La soluzione va cercata, invece, nel carattere di necessità sempre in divenire dell’impianto autonomistico. Non può pensarsi ad un sistema statico, definito una volta per tutte ovvero valido per tutti. Da tempo si è notato che il federalismo – e lo stesso vale per il regionalismo – è sempre in progress, è un processo che può implicare l’ammissione di stadi o velocità diverse per i vari soggetti coinvolti. In questa prospettiva il regionalismo differenziato trova fondamento e giustificazione, e può divenire, anzi, modalità costante di un regionalismo che non è mai appagato delle soluzioni acquisite. La transitorietà segna per definizione un ordinamento federale e/o regionale, dove omogeneità e differenziazione in continuo reciproco equilibrio sono caratteristiche costanti ed inevitabili. In tale contesto le varietà istituzionali e competenziali attengono all’intero sistema delle autonomie e non solo ad alcuni dei suoi soggetti.

 

6. In questa prospettiva vi è spazio per la riscrittura dello statuto siciliano e l’affermazione di una specialità regionale tutta siciliana. Comunità politiche mature richiedono per se stesse un assetto delle competenze configurato su misura del protagonismo che le caratterizza e tale tendenza sembra essere un orientamento che interessa, in maniera più o meno intensa, i vari modelli autonomistici. A sostegno di tale tendenza all’asimmetria può individuarsi proprio l’idea forte della sussidiarietà che ormai anima la distribuzione delle competenze tra i diversi livelli di governo. La sussidiarietà, infatti, non guarda con sospetto alle differenziazioni ed, in un certo senso, porta a svilupparle all’insegna di un pluralismo assai ricco, ove è l’omogeneizzazione ad essere vista quasi con diffidenza. In fondo, l’idea di poter intervenire qualora sia insufficiente l’azione di qualcuna delle istanze inferiori di governo porta con sé la conseguenza che l’intervento in subsidium possa essere diversificato, ma da qui il passo è breve per ammettere differenziati livelli di competenza.

 

7. Nella prospettiva appena indicata lo statuto siciliano va riscritto, nel senso che l’assemblea regionale dovrebbe dar vita ad un testo completamente nuovo, “carico” certo del passato, ma aperto alle sollecitazioni che provengono dal sistema complessivo delle autonomie e capace di “sfidare” il futuro. Il parlamento siciliano dovrebbe essere in grado di elaborare una proposta seria e di “difenderla” davanti alle camere competenti all’approvazione finale. Dovrebbe essere in grado di ideare soluzioni che valgono per la regione, ma che siano anche generalizzabili. Questo è un punto essenziale: allorché Sturzo proponeva l’istituzione delle regioni, non lo faceva certo solo per la Sicilia, ma per l’intero Paese. Si vuol dire che uno statuto – per quanto speciale – deve pur sempre fare sistema con il complessivo assetto delle autonomie: esito che può avvenire solo se si muove dall’idea che le soluzioni oggi sperimentate non sono affatto destinate ad essere esclusive ovvero a non essere mai cambiate, ma in maniera pratica possono essere mutate, revisionate, abolite, estese e comunque possono essere valide anche per altri.

Ad esempio, l’idea fortemente innovativa dello statuto di considerare ai fini del reddito prodotto nella regione la quota dei proventi che le grandi imprese traggono dagli stabilimenti ed impianti insediati in Sicilia (art. 37 statuto), non si è mai attuata in presenza di un sistema tributario improntato ad altro criterio. Eppure, si comprende che tale soluzione non può valere solo per la Sicilia, ma deve essere di necessità riferita ad ogni regione.

Lo statuto siciliano potrebbe privilegiare la realizzazione di un regionalismo amministrativo, che assegni alla regione di applicare la disciplina stabilita dalla legge statale. Così, per fare un esempio, lo Stato resterebbe competente a disciplinare l’immigrazione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, l’ordinamento civile, ecc. (art. 117, comma 2, Cost.), ma l’attività amministrativa di gestione in concreto di tali interessi sarebbe di spettanza dell’organizzazione regionale. Il punto non è di poca importanza, giacché l’aspetto gestionale è oggi quello che comporta l’acquisizione e la spendita delle risorse.

Infine, accanto al sistema di assegnazione delle competenze per materie, può essere ideato un regionalismo procedurale (oltre ancora quello cosiddetto collaborativo) che attribuisca alla Sicilia il potere di partecipare alle decisioni statali normative e, più spesso amministrative, a mezzo di pareri e di intese: cioè un sistema fondato su accordi. Ormai un consistente filone giurisprudenziale della giurisprudenza costituzionale, proprio a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione e della citata sentenza n. 303 del 2003, richiede che la legge statale preveda adeguati strumenti di coinvolgimento della regione, sia allorché si verifichi un’ipotesi di “concorrenza di competenze” con il quasi naturale predominio della potestà statale, sia allorquando la norma statale assegni funzioni amministrative agli organi centrali. Il principio formulato è che “la legislazione statale di questo tipo può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà” (sentenza n. 278 del 2010). Ma se è così, una regione “forte” è quella che ha titolo e riesce a far valere il suo coinvolgimento nella fase della decisione.

Certo, oggi le autonomie locali, specie quelle del sud, non godono di buona fama e non è assolutamente di moda sostenere un regionalismo di tipo forte. L’idea che la regione sia sentita dallo stato le volte in cui vi è da decidere qualcosa (si tratti della realizzazione della rete infrastrutturale o della costruzione di un termovalorizzatore) è divenuta quasi estranea alla cultura generale che in nome dell’efficienza valorizza la capacità di decisione e guarda con sfavore oneri procedurali. Eppure, le vicende amministrative dimostrano che la rete degli interessi non può non integrare i diversi livelli di governo. Allorché sin dalla sentenza n. 196 del 2004 ed in maniera netta con la sentenza n. 298 del 2009 la Corte costituzionale ha affermato la legittimazione della regione ad agire per tutelare le attribuzioni delle autonomie locali «indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale», la regione assume in concreto il ruolo di tutela di tutti gli interessi che afferiscono al territorio e che non possono non rinvenire il soggetto esponenziale. Meglio ancora: tutti gli enti locali esprimono gli interessi generali del territorio ciascuno a loro modo, come se tutti ne manifestassero un aspetto, e tutti sono necessari. Ora, la dimensione regionale non può essere negletta, se non altro perché la stessa è considerata a livello europeo e si fonda sul principio di sussidiarietà che appunto dall’ambito europeo investe la sfera statale e comporta il riconoscimento e la valorizzazione dei livelli infrastatali. Un esempio valga per tutti: l’immigrazione è opportunamente considerata dall’art. 117 Cost. materia di competenza esclusiva dello stato, per i suoi legami con la politica estera e con l’ordine pubblico. Ma l’accoglienza di migliaia di persone nel territorio intercetta da subito competenze regionali e locali: dalla fondamentale assistenza sanitaria, alla domanda di sicurezza che non è solo un problema di polizia, alla fruizione delle reti infrastrutturali e dei servizi pubblici, allo stesso sviluppo economico e sociale dei territori a fronte della presenza massiva di “nuovi” soggetti sociali. E non a caso pressoché da subito la questione immigrazione è stata gestita dallo stesso stato non solo con risposte “di polizia”, ma con l’integrazione dei servizi offerti e richiesti alle popolazioni locali, cioè a dire ai rispettivi enti (purtroppo non a mezzo della predeterminazione di regole e criteri generali, ma con soluzioni del caso per caso, sull’onda dell’emergenza). Lo stesso potrebbe e dovrebbe dirsi per altre vicende, che riguardino la tutela dell’ambiente o la protezione civile.

Ciò conferma che un regionalismo in progress non si fa con la separazione dei settori materiali di competenza, ma con l’integrazione delle medesime e soprattutto con l’integrazione procedimentale. L’idea è che lo statuto più che competenze materiali a favore della regione, stabilisca titoli di partecipazione della Sicilia alle decisioni che la coinvolgono e, quindi, preveda la necessità che la regione esprima pareri e raggiunga intese cd “forti” con lo stato, sino a coordinare le reciproche attività. Sarebbe il momento di prestare maggiore attenzione al versante amministrativo e fare appunto della struttura regionale il soggetto che attua una legislazione statale immediatamente applicabile, riducendo la presenza sul territorio di apparati amministrativi diversificati solo perché riconducibili allo stato o alla regione.

Tutti questi sono profili sui quali nei prossimi anni si dovranno dare risposta per l’esigenza di ripensare il sistema delle autonomie con le opportune regole procedurali ed un nuovo statuto siciliano potrebbe essere il banco di prova di un siffatto modello.

 

29 settembre 2017

 

 

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