Eduardo GIANFRANCESCO, La ‘scomparsa’ della competenza ripartita e l’introduzione della clausola di supremazia (settembre 2014)
La ‘scomparsa’ della competenza ripartita e l’introduzione della clausola di supremazia
Eduardo Gianfrancesco
Eduardo Gianfrancesco
Relazione al Seminario “La riforma dello Stato regionale in Italia. A proposito del parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali sul disegno di legge costituzionale S. 1429”, tenutosi a Roma il 10 luglio 2014.
1. Premessa: l’importanza della connessione tra i due temi
2. Uno spettro si aggira nella riforma: la competenza ripartita
3. Per un ‘giusto processo’ alla competenza ripartita
4. Alcuni elementi per un bilancio ragionato dell’esperienza della competenza ripartita sin qui trascorsa: tribuere unicuique suum
5. Alcuni spunti di diritto comparato
6. L’opportunità di ripensare la competenza ripartita italiana
6.1. I difetti contingenti da correggere
7. La costruzione della ‘clausola di supremazia’
8. Lo stato dell’arte nel procedimento di revisione costituzionale in corso
1. Premessa: l’importanza della connessione tra i due temi
In apertura della presente riflessione è opportuno sottolineare l’importanza della trattazione congiunta del tema della competenza ripartita[1] e di quello della clausola di supremazia[2]. Come si cercherà di evidenziare nelle pagine che seguono, al legislatore di revisione costituzionale (ed all’interprete che cerca di accompagnare il percorso di questo) si aprono preziose opportunità di razionalizzazione del riparto delle competenze di Stato e Regioni, in ragione di una rimodulazione della potestà legislativa (e, specialmente, per quel che qui interessa, della competenza ripartita) alla luce della presenza della clausola di supremazia. Allo stesso modo, appare essenziale per una reale funzionalità ed, in ultima analisi, il buon successo della clausola di supremazia che essa si inserisca senza calare dall’alto come un corpo estraneo in grado di vanificare l’impianto costituzionale che la accoglie, ma orientandone l’evoluzione, in modo consono ai caratteri fondamentali del sistema costituzionale stesso.
2. Uno spettro si aggira nella riforma: la competenza ripartita
La potestà legislativa ripartita sembra essere un bersaglio predestinato e privilegiato dell’intervento riformatore della Costituzione in itinere. Contribuiscono a ciò una serie di fattori concomitanti, che spesso si richiamano e rafforzano tra loro, con un inevitabile effetto sinergico.
In primo luogo, un modello di riparto di competenza imperniato su di un discrimine che - nonostante tutte le precisazioni e relativizzazioni che si possono fare[3] - si pone, in ultima analisi, come tendenzialmente rigido, quale è quello della distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio, appare facilmente destinato a collocarsi in controtendenza rispetto all’obiettivo di “rendere più fluidi i rapporti tra i poteri legislativi e più flessibili i criteri di riparto delle competenze legislative”[4].
Il secondo “testimone a carico” della potestà ripartita è rappresentato dalla performance non brillante di tale tipologia di competenza legislativa. Si tratta di un giudizio che, avanzato già all’epoca della formulazione originaria dell’art. 117 Cost., non ha subito la smentita, anzi il ribaltamento necessario, successivamente alla riforma costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione del 2001. Al contrario, come si cercherà di evidenziare nelle pagine che seguono, ciò a cui si è assistito è una sorta di “trascinamento” di non pochi aspetti problematici dell’esperienza della potestà ripartita ante 2001 anche nelle vicende successive alla riforma.
Una terza testimonianza sfavorevole nei confronti della potestà ripartita viene dalla comparazione ed in particolare dalla soppressione di tale tipologia competenziale in una delle esperienze paradigmatiche del federalismo: il riferimento è alla eliminazione della Rahmengesetzgebung dell’art. 75 GG, ad opera della Föderalismusreform I del 2006[5], per dar vita – ma questo aspetto non viene sempre richiamato con la stessa evidenza – ad una diversa e molto articolata tipologia di rapporti tra leggi del Bund e leggi dei Länder.
L’azione congiunta di una scarsa congenialità della potestà ripartita rispetto al mainstream della riforma; l’esito insoddisfacente di un (non particolarmente approfondito dal punto di vista causale) test di efficienza storica; l’esito altrettanto negativo di un (parziale, sia con riferimento all’esperienza tedesca, sia rispetto ad altre esperienze federali) test di comparazione sembrano convergere tutti in modo univoco verso la definitiva condanna di un arnese costituzionale qualificato come sostanzialmente fallimentare[6].
Eppure qualcosa non quadra in questa ricostruzione. A leggere il testo dell’AS 1429, sia nella formulazione originaria, sia in quella approvata in prima lettura il giorno 8 agosto 2014 dall’Aula del Senato[7], uno “spettro” di competenza ripartita continua ad aleggiare sul progetto di riforma, camuffandosi all’interno di non poche materie contenute nei nuovi secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost., come è stato ben presto evidenziato dai commentatori del disegno di legge di riforma[8] e si tornerà ad evidenziare in seguito nel presente lavoro.
Sembra insomma che alcune esigenze sottese al modello di competenza ripartita manifestino una resistenza superiore al prevedibile, riuscendo a mimetizzarsi anche in formulazioni linguistiche diverse da quelle tradizionalmente utilizzate per tale tipologia competenziale. Che questo sia avvenuto nella consapevolezza o meno degli autori del disegno di riforma e delle disposizioni approvate nel corso dell’esame da parte del Senato è difficile da provare e, dopotutto, interessa fino ad un certo punto, in sede di interpretazione sistematica dell’articolato di riforma.
Pienamente consapevole della delicatezza del problema - ovvero della difficoltà di cancellare radicalmente la competenza ripartita dalla disciplina costituzionale dei rapporti tra Stato e Regioni, “per la forte compressione dell’autonomia normativa delle regioni stesse” che ne deriverebbe - è stata, invece, la Commissione parlamentare per le Questioni regionali, la quale nel suo parere sul disegno di legge di revisione costituzionale[9] ha, anzi, invitato a valutare “l’opportunità di mantenere il modulo della legislazione concorrente”, salvi gli inevitabili aggiustamenti a tale elenco.
Meno univoca era stata, invece, la considerazione del problema in seno alla Commissione per le Riforme costituzionali istituita dal Presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta che, nella sua relazione finale, dà conto di due posizioni, una favorevole al superamento della competenza ripartita ed un’altra favorevole al suo mantenimento in relazione ad uno spettro limitato di materie[10]. In questa seconda linea, peraltro, si era mosso in precedenza anche il Gruppo di Lavoro sulle riforme istituzionali istituito in apertura della XVII Legislatura dal Presidente della Repubblica, con la proposta di sfoltire radicalmente (ma non sopprimere) l’elenco delle materie di competenza ripartita[11].
3. Per un “giusto processo” alla competenza ripartita
L’invito alla riflessione ed alla prudenza della Commissione parlamentare per le Questioni regionali induce a porsi esplicitamente il problema di quale dovrebbe essere l’iter più corretto per giungere ad un giudizio plausibile sull’opportunità o meno di sopprimere la competenza ripartita dal quadro costituzionale.
Da quello che si è accennato sopra, non ci si può sottrarre all’impressione che il giudizio sull’inadeguatezza di tale modello presenti alcuni caratteri di sommarietà, in particolare allorché si addossano alla competenza ripartita le prevalenti responsabilità dei picchi di contenzioso tra Stato e Regioni innanzi alla Corte costituzionale nei giudizi in via d’azione. Come è stato opportunamente segnalato[12], non pare, in verità, sia stato l’art. 117, terzo comma, la principale materia del contendere innanzi alla Corte (se si esclude la peculiare materia del “coordinamento della finanza pubblica”), quanto le non poche materie trasversali ad amplissima capacità di espansione del secondo comma del medesimo art. 117 Cost.[13].
Più in generale, in occasione di un processo di eccezionale rilevanza politica e giuridica come è per sua natura una revisione costituzionale, la decisione sul mantenimento ovvero la rimodulazione od ancora la soppressione di un istituto dovrebbe costituire l’esito di un bilancio ragionato ed approfondito dell’esperienza precedente. In particolare, con riferimento all’istituto in questione, si dovrebbe cercare di separare i difetti contingenti, legati magari all’operare di concause esterne, dai vizi strutturali, in grado di denunciare l’inadeguatezza dell’istituto stesso.
Nel caso che ci interessa, occorrerebbe interrogarsi su quanto della cattiva performance passata della competenza ripartita sia addebitabile al modello in sé e quanto, invece, ad orientamenti del legislatore, della Corte costituzionale, degli studiosi che hanno valorizzato un’interpretazione non lungimirante della competenza stessa.
Ogni istituto inciso dalla riforma andrebbe, inoltre, visto in collegamento con altri punti ed istituti della riforma. Per quanto riguarda la competenza ripartita, il giudizio su di essa non dovrebbe prescindere dalla introduzione e presenza nel disegno di revisione del titolo V di meccanismi destinati ad incidere profondamente su di essa ed in grado di farle assumere contorni nuovi rispetto al passato. E’ il caso, appunto, della clausola di supremazia.
Ad una visione critica di sintesi – quale vorrebbe essere quella sin qui proposta – dovrebbe infine accompagnarsi, in sede di riforma costituzionale, una visione analitica, volta ad esaminare dall’interno le modalità di funzionamento delle diverse componenti dell’istituto in discussione. Per la competenza ripartita, andrebbe operata una ricognizione della performance delle singole materie ricomprese nel terzo comma dell’art. 117 Cost., delle loro funzionalità o dei difetti da esse presentate[14], al fine di verificare se taluni dei problemi della competenza ripartita ex se considerata non siano, in realtà, problemi concentrati su talune materie inserite nell’elenco costituzionale.
Sulla base di tali considerazioni ci si può chiedere se tale schema di un ideale “giusto processo” alla competenza ripartita sia stato seguito nell’iter parlamentare sin qui seguito dall’AS 1429.
4. Alcuni elementi per un bilancio ragionato dell’esperienza della competenza ripartita sin qui trascorsa: tribuere unicuique suum
Un bilancio ragionato della competenza ripartita non può tacere gli indubbi vizi strutturali che essa presenta e che devono addebitarsi, non senza circostanze attenuanti, ai costituenti del 1948.
Se le circostanze attenuanti sono rappresentate dal carattere assolutamente innovativo e di cesura rispetto alla tradizione centralistica dello Stato post-unitario della configurazione di una competenza legislativa costituzionalmente garantita alle Regioni e, quindi, di un policentrismo legislativo, sicché non può essere disconosciuto il coraggio e la lungimiranza dell’Assemblea costituente, il limite strutturale è quello di aver fatto della competenza ripartita il baricentro della potestà legislativa regionale. Di aver, in altri termini, configurato il modello della competenza ripartita come potestà legislativa generale per le Regioni ordinarie (essendo la potestà integrativa collocata in posizione di secondario rilievo). Tale conclusione sembra estensibile, in buona parte, anche all’esperienza delle Regioni ad autonomia differenziata, per il noto fenomeno dell’affievolimento della competenza piena in competenza ripartita per l’operare dei limiti costituzionali specificamente previsti per la prima[15].
Ciò che i costituenti del 1948 non avevano previsto è che una competenza inevitabilmente caratterizzata da elementi di rigidità non poteva costituire l’archetipo della potestà legislativa regionale. Essa non poteva, in particolare, reggere il peso e la pressione degli interessi unitari sempre più spesso affioranti nella legislazione statale, tanto più in considerazione del fallimento dello strumento del giudizio di merito da parte del Parlamento previsto dall’art. 127 Cost. sulla sussistenza o meno dell’interesse nazionale e la ben nota trasposizione del limite di merito in limite di legittimità.
Di qui, un processo di mutazione genetica dei caratteri della competenza ripartita che viene qui dato per scontato e che ha come esito estremo il quadro analizzato da Andrea Paoletti nel suo volume sulle leggi cornice[16] e l’affermazione di Livio Paladin sulla “patetica idea” che le leggi regionali possano dirsi equiparate a quelle statali[17].
Il limite di rigidità del primo regionalismo italiano non viene superato dalla riforma del 2001 che conosce sì una maggiore articolazione delle potestà legislative regionali ma che, come è noto, continua a difettare di strumenti di flessibilizzazione del riparto costituzionale delle competenze[18].
Se a questo si aggiungono alcune infelici scelte nella compilazione dell’elenco del vigente terzo comma dell’art. 117 Cost.[19], emerge un quadro nel quale la competenza ripartita, nella sua ineliminabile rigidità di fondo, continua a presentare elementi di “sofferenza” che la fanno apparire, complessivamente intesa, inadeguata alle esigenze di governance del sistema di relazioni centro-periferia.
Essa viene così a subire - non meno della competenza residuale del comma quarto dell’art. 117, ma forse in modo più eclatante, alla luce del carattere nominato delle voci che la compongono e della enunciazione costituzionale formale dell’impossibilità per lo Stato di oltrepassare il confine dei principi fondamentali – il condizionamento e l’interferenza di materie di competenza esclusiva statale a valenza trasversale[20], ovvero di una – non nuova – lettura delle leggi cornice quali leggi in grado di assumere contenuti ulteriori rispetto alla mera fissazione di principi.
Con riferimento a questo ultimo aspetto, vanno segnalati alcuni elementi di continuità tra l’esperienza anteriore al 2001 e quella successiva alla riforma che non era necessario confermare ed il cui mantenimento si deve principalmente all’interpretazione (ed alla responsabilità) della Corte costituzionale. Con riserva di soffermarsi meglio sul punto in seguito, vanno menzionati l’assenza di ogni onere in capo al legislatore statale di autoqualificare i principi fondamentali; la possibilità per gli atti con forza di legge (soprattutto, secondo chi scrive, i decreti legislativi) di porre principi fondamentali ex art. 117, terzo comma, Cost.; la perpetuazione della giurisprudenza costituzionale sul nesso di coessenzialità ed integrazione tra principi e norme di dettaglio.
Anche dopo la riforma del 2001, in ultima analisi, la sorte della competenza ripartita è stata ben difficile, stretta tra due competenze apparentemente entrambe esclusive, ma di cui una soltanto – quella statale - lo era realmente, mentre l’altra è apparsa ben presto nella sua natura di competenza “residuale” ed anzi sempre meno in grado di opporre significative forme di resistenza alle incursioni delle competenze trasversali statali[21].
Quali sono gli spunti principali per un “bilancio ragionato” della competenza ripartita che si possono trarre da questi schematici richiami all’esperienza sin qui trascorsa ?
Il primo e fondamentale monito che mi sembra di poter formulare è che la competenza ripartita non può costituire il modello generale di potestà legislativa regionale, ovvero la tipologia di competenza legislativa sulla quale riporre in modo esclusivo, e probabilmente neanche principale, l’affermazione del principio di autodeterminazione legislativa regionale. Questo è il risultato evidente dell’esperienza del primo regionalismo, ma anche la stagione del secondo regionalismo italiano, successiva al 2001, conduce a considerazioni simili.
L’altro elemento che emerge abbastanza chiaramente dall’intera storia costituzionale repubblicana è che, in assenza di clausole di oculata flessibilizzazione delle competenze, sulla potestà legislativa ripartita vengono a gravare esigenze unitarie insostenibili per lo statuto epistemologico prima che prescrittivo, verrebbe da dire, di questa. Nel secondo regionalismo, tali esigenze hanno spesso portato le materie trasversali del secondo comma dell’art. 117 Cost. a resecare le stesse voci di competenza concorrente.
Rovesciando l’approccio al tema e passando da una prospettiva ricostruttiva ad una propositiva, da quanto appena rilevato emerge che un uso circoscritto e non ampio della competenza ripartita all’interno di un sistema di potestà legislative caratterizzato dalla presenza di una clausola di supremazia accuratamente calibrata costituisce un’opzione che il legislatore di revisione costituzionale potrebbe utilmente considerare. Si tratterebbe, in altri termini, di evitare di riprodurre il difetto strutturale dell’esperienza sin qui trascorsa, costruendo ipotesi limitate e ragionate di ricorso a tale tipologia di riparto.
A questo proposito, le risultanze di un esame analitico delle singole materie e della loro idoneità a prestarsi a tale tipo di riparto dovrebbero guidare la scelta, così come la consapevolezza dei difetti contingenti dell’esperienza passata, introducendo, se del caso, dispositivi idonei ad evitare il loro ripetersi.
5. Alcuni spunti di diritto comparato
Anche una sommaria analisi di alcune esperienze federali e regionali a noi vicine dimostra come il riconoscimento di puntuali e limitate competenze ripartite sia una soluzione da esaminare con attenzione.
E’ il caso dell’art. 12 della Costituzione austriaca e della precisa delimitazione delle voci in essa contenute[22]. In particolare, merita di essere ricordata l’estrapolazione dalla materia sanità - evidentemente troppo ampia e ricca di esigenze unitarie per poter essere affidata alla competenza ripartita – delle sub-materie “case di cura e di ricovero” e “requisiti dal punto di vista sanitario per luoghi, enti ed istituti di cura”[23]. In entrambi i casi merita di essere segnalata la rilevanza organizzativa delle due materie in questione, individuandosi evidentemente in tale dimensione l’ambito preferenziale per l’uso della tipologia ripartita all’interno del “macrosettore” della sanità[24].
L’art. 12 della Costituzione austriaca merita comunque una particolare menzione per il suo quarto comma, che imponendo al legislatore statale l’autoqualificazione espressa dei principi fondamentali da esso posti, si pone come modello per chiunque ritenga di utilizzare tale modello competenziale.
Anche la costituzione federale elvetica, nella sua articolata tipologia di competenze legislative[25], conosce, per alcune specifiche ipotesi, la competenza ripartita, prevedendola, si badi, per una materia di indubbia rilevanza quale è la “pianificazione del territorio”[26].
Allargando l’indagine al di là degli ordinamenti federali tradizionali, è inevitabile il riferimento all’ampia utilizzazione della ripartizione fondata sulla distinzione legislación básica/di desarrollo prevista dall’art. 149 della Costituzione spagnola[27], in un sistema che affida, peraltro, alle libere scelte dei legislatori statutari l’attivazione di tale competenza.
E’ peraltro il caso di sottolineare come la nozione di “base giuridica” nell’ordinamento spagnolo si caratterizzi per una connotazione spiccatamente sostanziale, di “mínimo común a todo el territorio, dirigido a asegurar los interes generales”, ovvero un “común denominador normativo”[28], in grado di assumere, se del caso, un contenuto dettagliato, anche se comunque tale da lasciare alle Comunità autonome un margine autonomo nella materia regolata. Sembra insomma una definizione che si accosta maggiormente a quella delle “norme generali” regolatrici della materia dell’esperienza italiana attuale piuttosto che a quella di principio fondamentale in senso proprio.
Certamente l’argomento comparativo si presta anche ad una sua utilizzazione in senso avverso alla competenza ripartita: è il ben noto e già ricordato caso tedesco dell’abrogazione dell’art. 75 GG e, quindi, della scomparsa della Rahmengesetzgebung. Tale soppressione va però contestualizzata all’interno di un quadro di riforma estremamente articolato, quale è quello che dal 1994 va realizzandosi nell’ordinamento federale tedesco, e che in modo piuttosto rozzo ed impreciso può essere riassunto all’insegna del motto Bundesrecht bricht Landesrecht.
L’affinamento della clausola di supremazia del 1994; la distinzione tra ipotesi in cui la decisione assunta sulla base di tale clausola non può essere sindacata ed ipotesi in cui essa è sindacabile e, soprattutto, l’introduzione di competenze derogatorie (Abweichungenkompetenzen) nelle quali il Land può tornare ad esercitare le proprie competenze legislative in una serie di materie per le quali è intervenuta la clausola di supremazia compensano ampiamente la scomparsa della competenza ripartita dell’art. 75 GG[29].
6. L’opportunità di ripensare la competenza ripartita italiana
Al legislatore di revisione costituzionale italiano che voglia esercitare un bilancio critico non condizionato da pregiudizi si apre un’opportunità interessante di ripensamento e proporzionamento della competenza ripartita. L’intervento sui difetti strutturali e sui limiti contingenti dell’esperienza precedente, affiancati dall’introduzione della clausola di supremazia consentono – solo che lo si voglia – di sgravare la potestà legislativa qui considerata di una serie di condizionamenti esterni a salvaguardia di interessi unitari e di considerare la stessa, per la prima volta, per quello che essa dovrebbe essere realmente: una tecnica di composizione di esigenze unitarie e di differenziazione, basata su di una distinzione giuridica alla quale è possibile dare tratti sufficientemente precisi, quale è quella tra disposizione di principio e disposizione di dettaglio[30].
Non vi è dubbio che, a questo proposito, è sicuramente necessario un approccio non eccessivamente dogmatico e rigido, per non esporsi alla critica di coloro che ritengono la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio “metafisica e non giuridica”[31]. Nondimeno è possibile identificare uno statuto minimamente definito dei principi fondamentali, partendo dalla loro derivazione legislativa[32] e valorizzando soprattutto la circostanza in base alla quale il principio, definito spesso dalla Corte costituzionale quale “criterio od obiettivo” che spetta al legislatore regionale realizzare, individuando “gli strumenti” idonei[33], non dovrebbe arrivare mai ad esaurire l’intera materia[34], lasciando, anzi, al legislatore regionale l’esplicazione di una potestà di autodeterminazione la quale, essendo rivestita di forma legislativa, dovrebbe avere una consistenza apprezzabile di scelta tra diverse opzioni, ognuna delle quali politicamente significativa[35]. Tale operazione verrebbe poi rimessa per aspetti non secondari alla definizione transattiva dei soggetti interessati attraverso la decisione sull’attivazione o meno del giudizio in via principale[36].
Questa metodologia pragmatica - consentendo di tener conto dell’esigenza di “proporzionare” la dimensione dei principi alle peculiarità della materia di volta in volta interessata[37] ed, in ultima analisi, di verificare la ragionevolezza della scelta del legislatore statale[38] - se certo non si presenta in grado di conferire alla potestà ripartita statura “colossale” varrebbe forse ad evitare che essa poggi sui malfermi “piedi d’argilla”[39] dell’esperienza sin qui trascorsa.
E’ il caso di aggiungere, a questo punto del discorso, che, a parere di chi scrive, la legge cornice che definisce, in termini comunque giustiziabili, il punto di equilibrio tra le ragioni dell’uniformità e quelle della differenziazione, operando una scelta ed una decisione sulla concreta individuazione di tale punto non potrebbe essere completamente estraniata dall’indirizzo politico (e dalla connessa responsabilità) del Governo e della maggioranza che lo sostiene. In altri termini, il punto di equilibrio, pur non essendo sottratto alla dimensione giuridica come evidenzia la sua giustiziabilità, resta espressione di una scelta politica “unificante”. Di qui, a voler considerare l’ipotesi del mantenimento della potestà ripartita ad opera della riforma, l’opportunità di escludere per tale categoria di leggi il regime della legge bicamerale necessaria per ricomprenderla nel novero delle leggi per le quali la volontà della Camera dei Deputati appare “prevalente”[40].
L’analisi puntuale delle materie “di elezione” per l’operatività della potestà ripartita porterebbe via molto spazio. Essa richiederebbe, come si è già accennato, uno screening accurato innanzitutto delle voci dell’elenco del terzo comma dell’art. 117 Cost. vigente[41], per poi passare ad un non meno impegnativo tentativo di estrarre dal “contenitore” del quarto comma del medesimo articolo materie che si prestino non solo a divenire “nominate”, ma anche ad essere meglio valorizzate dal concorso di competenze tipico della potestà ripartita[42]. Nonostante possa apparire vagamente provocatorio nella situazione attuale del regionalismo italiano, non dovrebbe mancare un’indagine volta ad appurare se taluna delle materie di competenza esclusiva statale di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost. si prestino ad una riconfigurazione in termini di competenza ripartita[43].
Alcune tra le materie che sono probabilmente in grado di superare il test di efficienza della configurazione in termini di potestà ripartita meritano comunque di essere sommariamente richiamate. E’ il caso del “governo del territorio”, per il quale negare all’ente esponenziale della comunità regionale una significativa capacità di autodeterminazione politica (e, quindi, di scelta legislativa) significa minare il collegamento profondo tra la politicità e la dimensione territoriale dell’ente regionale[44], oltre che arrecare un vulnus facilmente percepibile al principio di sussidiarietà verticale. Non bisogna dimenticare, inoltre, che nella materia in questione – come in altre di potestà ripartita – le Regioni italiane hanno sperimentato soluzioni normative poi recepite dallo stesso legislatore statale[45]. La circostanza per cui la materia in questione è, come l’esperienza maturata negli anni successivi al 2001 dimostra, fortemente condizionata da vincoli unitari finalizzati alla “tutela dell’ambiente”[46] dovrebbe indurre a mantenere una previsione garantista in capo alle Regioni e non a svuotarla, in modo da poter far leva su di un elemento limitativo e di contenimento rispetto alla competenza esclusiva statale, altrimenti destinata a fagocitare anche minuti aspetti di disciplina di assetto del territorio[47].
Riprendendo uno spunto dall’esperienza del federalismo austriaco sopra richiamata, all’interno della macro-materia “tutela della salute” - indubbiamente attraversata da rilevanti esigenze unitarie, come la tematica dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 117 secondo comma lett. m) Cost. dimostra – è possibile scorporare gli aspetti relativi all’ “organizzazione del Servizio sanitario nazionale nella Regione”, per affidare queste fattispecie a valenza prevalentemente organizzativa ad una significativa, anche se ovviamente non esclusiva, autodeterminazione regionale. Si tratta del resto del settore nel quale non poche Regioni italiane hanno raggiunto risultati di rilievo adottando – e questo è l’aspetto più interessante – modelli organizzativi tra loro diversificati ed inverando, così, il significato dell’autonomia regionale[48].
Più in generale, la sussistenza della Regione come ente politico richiede implica e richiede, da parte di questa, una capacità di conformare il proprio apparato servente, assumendosene, come è naturale, le responsabilità finanziarie. Di qui, come si è avuto modo già di sostenere[49], l’esigenza della salvaguardia di un apprezzabile margine di autodeterminazione in ordine alla “disciplina del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione regionale”, per la quale il modulo della competenza ripartita si presenta congeniale, consentendo il mantenimento dei legami unitari fondamentali tra pubblica amministrazione regionale e pubblica amministrazione nazionale[50].
Da ultimo, se l’esperienza del titolo V riformato conferma la presenza di forti esigenze unificanti in tema di disciplina dell’istruzione[51], è con riferimento ad una materia definibile come “servizi di supporto all’istruzione” che spazi di differenziazione possono effettivamente farsi apprezzare, fermo restando che l’autonomia costituzionalmente garantita che resta in attesa della dovuta valorizzazione è soprattutto quella delle istituzioni scolastiche.
6.1. I difetti contingenti da correggere
La storia della potestà legislativa regionale italiana – e, quindi, per un segmento certo non secondario, del regionalismo italiano – avrebbe potuto essere diversa se taluni snodi problematici dell’interpretazione dell’art. 117 Cost., prima e dopo la riforma del 2001, fossero stati risolti in modo differente da quanto storicamente accaduto.
Per quanto interessa la presente trattazione, vengono in rilievo una serie di difetti contingenti dell’esperienza regionale italiana: difetti, cioè, che come si è già anticipato non derivano strutturalmente dal modello della potestà ripartita ma dalla declinazione ad essa data dalla prassi legislativa e sopratutto, attesa l’intrinseca problematicità di tali questioni, dalla Corte costituzionale che tali prassi ha avallato.
Stupisce non poco, a questo proposito, che la Corte non abbia colto l’occasione della ristrutturazione del 2001 della potestà ripartita all’interno delle potestà legislative regionali e statali per segnare una linea di discontinuità rispetto alla precedente giurisprudenza su alcune nodali questioni ed abbia condannato, così operando, tale potestà a seguire le anguste vie del passato.
E’ il caso della questione del carattere di limite necessario od eventuale dei principi fondamentali, in assenza di legislazione di cornice statale. Una rottura rispetto al passato, sulla base anche della diversa formulazione testuale dell’art. 117 Cost., limitando l’operatività dei principi fondamentali al caso in cui la legge cornice li avesse realmente posti, avrebbe aperto nuove prospettive di sviluppo della legislazione regionale[52]. Soprattutto, dal punto di vista pratico, avrebbe spinto il legislatore statale ad adottare le leggi cornice per contenere eventuali “fughe in avanti” dei legislatori regionali, senza inibire le Regioni dall’ “esplorare” materie nuove tracciate dalle riforma[53]. Si sarebbe trattato di una soluzione ben più chiara e diretta di quella, nella pratica fallimentare, della delega ricognitiva dei principi fondamentali contenuta nell’art. 1, comma 4, della legge n. 131 del 2003.
Più in generale, l’idea che i principi fondamentali della disciplina possano essere posti con decreti legislativi, come la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile anche dopo la riforma del 2001[54], costituisce una soluzione che inevitabilmente avvia i principi verso un grado di specificazione eccessivamente vicino al dettaglio. Non richiede particolari argomentazioni, infatti, la circostanza che l’essere i principi del decreto legislativo attuativi e specificativi dei “principi e criteri direttivi” della legge di delegazione finisce per restringere ad ambiti poco più che regolamentari l’ampiezza delle scelte del legislatore regionale ed, a cascata, a natura provvedimentale i regolamenti regionali di esecuzione od attuazione della legge regionale. Oltre a ciò, è da rimarcare la sostanziale estraniazione del Parlamento dal processo di definizione dei principi fondamentali nel momento in cui si ammette la loro definizione da parte del decreto legislativo[55]. Si tratta di una soluzione, si può aggiungere, che, dissonante con la ratio dell’art. 117 Cost. prima e dopo la riforma del 2001[56], diventerebbe assolutamente incompatibile con il ruolo del Senato nel procedimento legislativo delineato dall’AS 1429.
Chi scrive non ritiene estensibile le considerazioni appena svolte ai decreti-legge, non potendosi escludere che possano sussistere casi straordinari di necessità e di urgenza che richiedano la fissazione di principi fondamentali nei confronti dei Consigli regionali e costituendo il termine costituzionale di sessanta giorni per la conversione in legge da parte del Parlamento uno spazio di tempo ragionevole nel quale, con ogni probabilità, la Regione sospenderà l’eventuale iter legislativo in corso, in attesa della decisione sulla conversione delle Camere[57]. E’ appena il caso di aggiungere che tale soluzione, rispondente al carattere della decretazione d’urgenza, si riferisce ad ipotesi di utilizzazione dello strumento conforme a Costituzione e non ai decreti legge monstre (od “omnibus” secondo una definizione più pudica) che ormai sembrano caratterizzare la scena italiana, benché contrastati in modo crescente dalla Corte costituzionale[58].
Un confronto con le esperienze straniere di configurazione della potestà ripartita ed in particolare con il già ricordato art. 12, comma 4, della Costituzione austriaca avrebbe dovuto da tempo rendere il giudice costituzionale italiano edotto dell’importanza di vincolare il legislatore statale a dichiarare espressamente la qualità di “principi fondamentali” delle disposizioni da esso poste. Si tratta di una soluzione che potrebbe apparire superflua solo se le leggi-cornice risultassero composte esclusivamente dalla sequenza dei principi fondamentali, risultando spostata l’auto-qualificazione sulla denominazione di “legge cornice”. Ma, come è noto, l’esperienza italiana non si è mossa in questa (illuministica ?) direzione, sicché, nel coacervo delle disposizioni contenute nelle leggi (e, come si è visto, degli atti con forza di legge) statali si imporrebbe l’onere di chiarire quali siano da intendere come espressive di principi. Si tratterebbe di una auto-limitazione che escluderebbe la possibilità per lo Stato di qualificare, in sede di contenzioso costituzionale, disposizioni diverse da quelle auto-qualificate come principi in grado di vincolare la legislazione regionale, fermo restando ovviamente, sulla base di un criterio sostanziale, la valutazione della Corte sull’effettiva rispondenza dell’auto-qualificazione alla reale natura di principio della norma[59].
E’ facilmente intuibile il vantaggio in termini di trasparenza e chiarezza nei rapporti reciproci tra Stato e Regione che deriverebbe da questo orientamento, oltre alla circostanza che l’onere di auto-qualificazione rappresenterebbe uno stimolo alla riflessione ed all’approfondimento da parte delle Camere del Parlamento, nel momento in cui la disposizione venisse sottoposta ad approvazione.
E’ il caso di aggiungere che la soluzione qui caldeggiata sembra imporsi con caratteri di necessità, nel momento in cui dovesse entrare in vigore il disegno di legge di revisione costituzionale (e si ritenesse di conservare la potestà ripartita). Sia che in questa ipotesi venisse conservata la posizione paritaria tra le due Camere del Parlamento, sia che le leggi cornice rientrassero tra i casi per i quali l’art. 70, quarto comma, Cost. introdotto dall’art. 10 del disegno di legge costituzionale, richiede la riapprovazione a maggioranza assoluta da parte della Camera per respingere le modificazioni introdotte dal Senato, in entrambi i casi le leggi recanti principi fondamentali dovrebbero essere riconoscibili in quanto tali.
L’ultimo difetto contingente dell’esperienza italiana il cui superamento non potrebbe che giovare alla ristrutturazione della potestà ripartita è il superamento della giurisprudenza costituzionale che ritiene legittime norme di dettaglio statali nelle materie dell’attuale terzo comma dell’art. 117 Cost.. Si tratta di una tipologia al suo interno abbastanza variegata[60], tra le quali spicca nell’esperienza attuativa recente del titolo V, ancorché già nota anteriormente alla riforma del 2001, quella delle norme di dettaglio legate ai principi fondamentali “da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione”[61].
Solo per alcune delle fattispecie di norme di dettaglio statali incidenti nelle materie dell’art. 117, terzo comma, si è potuto relativizzare il problema facendo riferimento a problemi di transizione dal “vecchio” al “nuovo” titolo V , attraverso il riferimento al principio di continuità istituzionale[62]. Per la gran parte di tali norme di dettaglio statali resta difficilmente superabile la considerazione che si tratta di discipline che vanno ben oltre i pur esistenti margini di indeterminatezza e flessibilità dei principi fondamentali, giungendo a negare la consistenza minima necessaria a tale nozione.
La riforma del titolo V costituisce l’occasione per il superamento di tali esperienze non poco distorcenti il rapporto tra Stato e Regioni. Per le disposizioni dettagliate alle quali è sotteso un interesse unitario insuscettibile di frazionamento, l’introduzione della clausola di supremazia costituisce un’innovazione risolutiva, convogliando in uno strumento istituzionale apposito la soluzione dei problemi che esse intendevano affrontare. Per avere un’efficacia migliorativa rispetto al quadro attuale non si dovrebbe trattare, peraltro, di un’innovazione soltanto formale, che si limita ad una copertura costituzionale “esplicita” delle norme di dettaglio inderogabili. Anche per le disposizioni di dettaglio introdotte in forza della suddetta clausola dovrebbe valere un onere di esplicitazione ed autoqualificazione da parte del legislatore, se non addirittura di motivazione dell’atto legislativo[63].
Le norme di dettaglio derogabili e cedevoli, dietro un’apparenza mite, hanno prodotto guasti non indifferenti al sistema regionale italiano. Oltre ad un impervia – a parere di chi scrive - riconducibilità alla logica dell’art. 117 Cost. (prima e dopo il 2001), la quale non sembra ammettere flessioni della propria logica alternativa, esse hanno avuto un effetto deresponsabilizzante nei confronti del legislatore statale, disincentivato a modificare il proprio modo di legiferare distinguendo principi da dettagli (ed autoqualificando i primi), così come nei confronti del legislatore regionale, che, di fronte ad una disciplina completa ed autoapplicativa (nella quale ricade sulla Regione discernere ciò che è principio da ciò che è dettaglio, ora inderogabile, ora derogabile) può facilmente essere indotto a rinviare sine die il proprio intervento.
Mi sembra estraneo alla logica di un sistema che accoglie al suo interno la clausola di supremazia, la quale dovrebbe avere valore esclusivo, dover ancora ricorrere alle norme di dettaglio derogabili che resterebbero così ancor più prive di copertura costituzionale di quanto non lo siano ora. Se la preoccupazione - comprensibile – è quella di non lasciare i principi fondamentali privi di una loro implementazione[64], la soluzione più congrua (che richiederebbe, però un’esplicitazione in Costituzione) pare quella di prevedere un’illegittimità costituzionale sopravvenuta della legislazione regionale non adeguata ai nuovi principi, sul modello ben noto delle norme di attuazione dello statuto del Trentino Alto Adige/Südtirol. Solo all’esito della pronuncia di incostituzionalità, perdurando un’assenza di intervento regionale legislativo in grado di ledere primari interessi sottesi ai principi fondamentali, si potrebbe ammettere – ed è cosa ben diversa dalla norma di dettaglio derogabile “incorporata” ai principi della legge cornice – un intervento sostitutivo statale ex art. 120, secondo comma, Cost.[65]
Di tutti i cedimenti rispetto all’interpretazione più rigorosa della competenza ripartita quello che merita forse un giudizio meno aspro è la frequente integrazione dei principi fondamentali ad opera di atti di natura non legislativa, spesso di carattere non normativo, frutto di un richiamo da parte delle stesse disposizioni di principio. Si tratta, infatti, di una soluzione resa necessaria dalla tecnicità di talune discipline, ad esempio in materia di “governo del territorio” e/o “protezione civile”[66] o di “energia”[67]. In questi termini, il fenomeno, che ricorda quello delle norme tecniche[68] appare destinato a reggere il confronto con i processi di riforma, in quanto sostanzialmente inevitabile. Ciò a condizione che la tecnicità delle soluzioni sia effettivamente tale, spettando alla Corte costituzionale la verifica del rispetto di tale requisito[69].
Più problematico, perché la tecnicità delle opzioni si confronta con la facilmente intuibile rilevanza politica delle stesse, si presenta il caso della fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni incidenti nella materia “tutela della salute”[70], anche se un notevole contributo a disinnescare la questione in questo caso può venire dal coinvolgimento delle Regioni nella determinazione di tali standards[71].
Ben altro e più severo giudizio merita invece il tentativo di restaurare il già noto fenomeno della delegificazione delle norme di principio[72], volto a trasferire ad atti di natura regolamentare o, peggio, a decreti asseritamente di natura non regolamentare[73] la definizione (nonché, facilmente, l’integrazione) dei principi fondamentali. Anche in questo caso, la violazione della riserva di legge parlamentare diverrebbe ancora più grave, in ragione della nuova configurazione delle Camere del Parlamento e del procedimento legislativo delineato dalla riforma.
7. La costruzione della “clausola di supremazia”.
Per le ragioni che si è cercato di illustrare sino ad ora, l’introduzione della clausola di supremazia giova alla causa della competenza ripartita e giustifica un diverso atteggiamento nei suoi confronti, rispetto a quello negativo, se non liquidatorio, sino ad oggi prevalente.
Essa, liberando la competenza ripartita di pesi ed oneri impropri, di assicurazione di esigenze unitarie insuscettibili di frazionamento permetterebbe ai principi fondamentali di recuperare uno statuto più consono a quella che dovrebbe essere la loro natura.
A questo punto, vanno aggiunte due considerazioni sul regime auspicabile per tale clausola nella Costituzione riformata.
La prima osservazione porta a considerare che, essendo la clausola in esame espressione del principio unitario, essa dovrebbe trovare il suo radicamento ultimo nella Camera dei Deputati. Pur dovendo lasciare spazio, nel suo procedimento di concretizzazione, alla posizione del Senato di rappresentanza territoriale, alla fine la decisione sulla sua attivazione è decisione politica di salvaguardia di un interesse unitario. Anche in questo caso, come in quello precedentemente considerato delle leggi cornice, è naturale ed opportuno che essa si colleghi ad un indirizzo politico e, soprattutto, ad un’assunzione di responsabilità politica. Anzi, in questo caso, operandosi una “deroga” all’ordinario esercizio della potestà legislativa, l’individuazione del soggetto politicamente responsabile si pone con maggior rilievo.
Per queste ragioni, chi scrive ritiene che la volontà della Camera dei deputati debba essere in ultima analisi prevalente nella decisione sulla sua attivazione e che non sia consigliabile la previsione di un “consenso necessario” del Senato o di maggioranze “supermaggioritarie” della Camera per superare l’opposizione del Senato.
La seconda considerazione tempera quella che potrebbe apparire la crudezza un pò schmittiana della prima. Se la decisione sulla clausola di supremazia è decisione politica nell’an, può esserlo molto di meno sul quid della decisione, ovvero sulle ragioni poste a fondamento dell’intervento statale in un’area eccedente la disciplina di principio. Sul punto non si può che richiamare l’esperienza tedesca di ricerca di un punto di equilibrio tra salvaguardia del principio di unità e del principio di differenziazione che parte dalla Bedürfnisklausel, passa attraverso la Erforderlickeitsklausel per giungere alle articolate soluzioni dell’art. 72 GG vigente che, come si è detto in precedenza, distingue tra ipotesi in cui la clausola opera in termini vincolati e sindacabili ed altre in cui la decisione si pone in termini ampiamente discrezionali.
Purtroppo il quarto comma dell’art. 117 Cost. così come riformulato dall’art. 30 del disegno di legge di revisione costituzionale non sembra tenere adeguatamente conto di tale dimensione problematica: il testo approvato dall’Aula del Senato richiama sì la nozione di “tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica”, pienamente compatibile con tale nozione evoluta di clausola di supremazia[74], ma subito dopo indica anche la “tutela dell’interesse nazionale” quale parametro generale per l’attivazione della clausola. Si tratta di una nozione, quest’ultima, che rischia di vanificare gli sforzi fatti con la formula precedente e di porre l’esperienza italiana in controtendenza rispetto al processo evolutivo di uno dei più maturi federalismi europei. Come da tempo è stato evidenziato, infatti, ad intenderlo seriamente l’interesse nazionale si definisce attraverso gli atti che lo fanno valere[75], risultando estremamente evanescente ogni sua cristallizzazione in concetti astratti ovvero l’applicazione ad esso di test di proporzionalità[76]. Se l’interesse nazionale è allora ciò che il Parlamento decide che sia svaniscono le possibilità di una sua giustiziabilità innanzi alla Corte e la clausola di supremazia assume le inquietanti sembianze di una clausola di mera decisione maggioritaria di flessibilizzazione estrema del riparto di competenze tra Stato e Regioni.
8. Lo stato dell’arte nel procedimento di revisione costituzionale in corso
In apertura del presente lavoro si è accennato alla probabile sopravvivenza, sotto dissimulate spoglie, della competenza ripartita nell’attuale disegno di riforma del Titolo V. A venire in rilievo, sotto questo punto di vista, e ad attirare l’attenzione degli interpreti è stato il frequente ricorso, nel testo licenziato dal Governo, dell’espressione “norme generali” per esprimere la misura della competenza statale in una serie di materie.
Come è noto e senza che occorra ritornare approfonditamente sul punto[77], se l’intenzione dei redattori del testo del disegno di legge costituzionale era quello di far riferimento ad una clausola improntata a flessibilità che desse allo Stato il potere di calibrare senza eccessivi vincoli che non fossero quelli di un sindacato di ragionevolezza-proporzionalità la profondità del proprio intervento regolatore, il risultato rischiava di essere molto diverso. L’utilizzazione della nozione di “norme generali” regolatrici della materia rimandava all’elaborazione della giurisprudenza costituzionale a proposito della competenza esclusiva statale in materia di istruzione ed, in particolare, ai limiti di intensità di regolazione che soprattutto la sent. n. 200 del 2009 della Corte costituzionale ha posto a carico della fonte statale; fonte che, anche se non vincolata a porre norme di principio ma anche, se del caso, disposizioni di dettaglio, è comunque limitata, secondo la Corte, a definire la “struttura portante” od “essenziale” della disciplina.
Sembra, quindi, che una ripartizione tendenzialmente rigida, anche se non basata sulla coppia concettuale tradizionale “principio/dettaglio” fosse destinata a permanere, alimentando dubbi interpretativi che difficilmente potevano essere integralmente “assorbiti” dal procedimento legislativo riconfigurato dalla riforma, mediante l’intervento del Senato rappresentativo del sistema delle autonomie. Bastava infatti una sola Regione “dissenziente” ed il giudizio costituzionale restava l’esito inevitabile del contrasto interpretativo sui limiti di ampiezza delle “norme generali”.
La soluzione appena illustrata - nonostante i suoi margini di indeterminatezza, tali da rendere lecito il dubbio se il progresso rispetto alla competenza ripartita tradizionale fosse reale – aveva comunque il pregio di far riferimento ad una nozione (le “norme generali”) appunto dotata di una ormai significativa elaborazione giurisprudenziale e dottrinale. La sostituzione dell’espressione “norme generali” con quella, inedita nel testo costituzionale” di “disposizioni generali e comuni”, ad opera di un emendamento presentato dai relatori del disegno di legge costituzionale[78], nel corso della discussione in 1a Commissione permanente del Senato e poi confermato dall’Aula, rigetta l’interprete nel mare aperto dei dubbi e delle ipotesi.
Ad un mutamento di espressione linguistica dovrebbe corrispondere un mutamento di significato prescrittivo, considerato che il sostantivo (“disposizioni”, al posto di “norme”, ma questo non sembra un cambiamento di rilievo) è ora qualificato da due aggettivi, “generali” e “comuni”, e non più da uno soltanto. Si potrebbe pensare che l’intento dell’emendamento, conformemente allo spirito che anima la riforma nel suo complesso, sia quello di flessibilizzare il riparto per tali materie, superando le strettoie della giurisprudenza costituzionale sopra ricordata in materia di istruzione. Sennonché, a parte un riferimento in senso opposto a questa illazione che proviene dall’intervento di uno dei due relatori nel corso della discussione in Aula della riforma[79], resta la circostanza che il requisito della “generalità” delle disposizioni di competenza statale, oltre che il loro essere “comuni”, è confermato nella formula costituzionale. Sarebbe piuttosto strano, in altri termini, che una doppia qualificazione delle disposizioni statali si traducesse in requisiti meno stringenti rispetto alla situazione in cui era presente il solo ed identico requisito della “generalità”. Il risultato potrebbe essere quindi non molto lontano (anzi, molto vicino) al punto di partenza, ovvero alla ripartizione per “norme generali/non generali” già conosciuta alla presente esperienza.
Se la formulazione dovesse essere mantenuta e la riforma entrare in vigore, sarà probabilmente la Corte costituzionale a dipanare l’enigma e ricadrà su di essa, quindi, l’onere di mantenere elementi garantistici di separazione di competenze tra Stato o Regioni ovvero valorizzare anche in questo caso la flessibilità del riparto competenziale, con una ulteriore perdita di identità costituzionale degli enti regionali.
Come se non bastasse, l’emendamento dei relatori accolto in 1a Commissione permanente ha introdotto due ulteriori novità rilevanti ai fini della nostra trattazione.
La prima è l’introduzione di una competenza ripartita in senso tecnico, prevedendo una competenza “esclusiva” dello Stato a porre “disposizioni di principio” sulle forme associative dei Comuni[80]. Ebbene, può destare qualche perplessità l’introduzione di una tipologia di competenza che sembra a tutti gli effetti presentarsi come competenza ripartita, nel momento in cui si intende smantellare la stessa nel testo della Costituzione, sulla base di una sua valutazione negativa.
Si badi, peraltro, che tale ipotesi si aggiunge a quella, non toccata dal legislatore di revisione costituzionale, in materia elettorale regionale di cui all’art. 122 Cost. Anche in questo caso, ci si trova di fronte a qualcosa di paradossale: resta intatta, infatti, una previsione che si riferisce ad una competenza per la quale da tempo è stata evidenziata la difficile riconducibilità all’archetipo della competenza ripartita[81], perdendosi l’occasione di una sua riformulazione in termini più aderenti alle reali dinamiche di funzionamento del sistema.
La seconda e più rilevante novità emersa in sede di discussione parlamentare è l’introduzione di talune “competenze nominate” delle Regioni all’interno del terzo (precedentemente quarto) comma dell’art. 117 Cost. La scelta, in via di principio, può essere anche apprezzabile, in quanto da tempo è stato evidenziato come una delle vie preferibili per arrestare (o almeno limitare) i processi di erosione interpretativa delle materie di competenza regionale è rappresentato dal passaggio dallo status di competenza residuale anonima a quella di competenza nominata[82]. Sennonché i vantaggi di tale tecnica vengono perdendosi allorché tale elenco si arricchisce eccessivamente e soprattutto – e questo è l’aspetto che qui interessa – allorché talune di queste materie si sovrappongono parzialmente con materie di competenza statale. Torna così a manifestarsi una sovrapposizione ed un concorso di competenze, foriero di possibili dubbi interpretativi in grado di scaricarsi sul Giudice di costituzionalità delle leggi.
I dubbi interpretativi si presentano raddoppiati allorché alcune delle materie in sovrapposizione vengono individuate attraverso tecniche che fanno riferimento alle “disposizioni generali e comuni”. Si pensi, per citare un esempio della massima rilevanza, alla macro-materia del “governo del territorio”, sulla quale insistono le “disposizioni generali e comuni sul governo del territorio” di competenza esclusiva statale[83], alle quali si contrappongono sicuramente le materie nominate di competenza regionale “pianificazione del territorio regionale” nonché “dotazione infrastrutturale”, alla stessa macro-materia facilmente riconducibili, oltre forse, a non volerla ritenere ricompresa nelle due competenze nominate appena richiamate (come forse è consigliabile con sana applicazione dell’argomento del rasoio di Okham...), la materia residuale rappresentata da ciò che non si fa rientrare nelle “disposizioni generali e comuni sul governo del territorio” .
A margini di sovrapposizione si espone anche la materia esclusiva statale “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”, rispetto alla competenza nominata regionale “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali”[84]. Anche se può essere utilmente tentata un’interpretazione volta a salvaguardare in capo alle Regioni i profili più strettamente attinenti all’amministrazione della sanità ed ai modelli di servizio sanitario, come nel caso austriaco in precedenza ricordato, resta, anche in questo caso, il problema di quale collocazione dare alla “tutela della salute” tout court, ovvero per la porzione di questa non occupata dalle disposizioni generali e comuni statali appena richiamate. Anche in questo caso l’alternativa è tra il riconoscimento dell’operatività di una competenza residuale regionale, preferibile dal punto di vista sistematico e di valorizzazione delle competenze regionali ma foriera di sovrapposizioni competenziali, oppure l’applicazione del “rasoio di Okham”, in grado di semplificare la vita di legislatori, Corte costituzionale ed interpreti. Non bisogna dimenticare, poi, la perdurante incidenza sulla macro-materia “tutela della salute” della ulteriore competenza esclusiva statale in tema di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, rimasta intatta, come si è detto, nella lett. m) del secondo comma dell’art. 117 Cost. Ed è noto che tale competenza trova nella tutela della salute un campo precipuo di applicazione attraverso i “Livelli Essenziali di Assistenza” (Lea).
Sempre più affollata appare, ancora, la macro-materia dell’istruzione la quale conta vecchie e nuove competenze esclusive statali: le “disposizioni generali e comuni sull’istruzione” (le quali, si badi, prendono il posto delle “norme generali sull’istruzione” ponendo problemi in ordine al mantenimento ovvero alla messa in discussione dell’acquìs giurisprudenziale su tale materia richiamato in precedenza) e le nuove competenze statali in tema di “ordinamento scolastico” ed “istruzione universitaria”, a fronte delle competenze nominate regionali in tema di “servizi scolastici”, “istruzione e formazione professionale”, “promozione del diritto allo studio, anche universitario” (e salva, sempre, l’autonomia delle istituzioni scolastiche). Se si considera lo scorporo dell’ “ordinamento scolastico” come creazione di una materia statale esclusiva a sé, c’è da chiedersi se le “disposizioni generali e comuni sull’istruzione” non siano chiamate ad incidere per forza di cose sui “servizi scolastici” e sulla “promozione del diritto allo studio” di competenza regionale, rendendo meno significativa di quel che potrebbe sembrare l’esplicitazione di queste in Costituzione.
Anche la “valorizzazione e organizzazione regionale del turismo”, di competenza nominata regionale, dovrà fare i conti con l’attribuzione allo Stato di “disposizioni generali e comuni sul turismo”, mentre occorrerà elaborare criteri distintivi tra “valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici” (di competenza esclusiva statale) e “promozione” dei medesimi beni (oltre che di quelli ambientali), di competenza nominata regionale...
C’è ovviamente da sperare che il Parlamento nell’esame ulteriore del d.d.l. di revisione costituzionale torni a sciogliere almeno alcuni di questi grovigli interpretativi, considerando, tra le possibili opzioni, anche quella di ricorrere, in taluni casi, al modello della competenza ripartita, la quale, se depurata dai difetti strutturali e contingenti che si è cercato di evidenziare in precedenza, si presenta più lineare e chiara di alcune delle soluzioni appena esposte.
Tutto ciò, ovviamente, a condizione che la linearità e la coerenza - e, quindi la possibilità di salvaguardare ambiti competenziali minimamente predeterminati – sia ciò che si vuole dal testo costituzionale.
Nel ricordo incancellabile di Andrea Paoletti, a quattordici anni dalla sua scomparsa.
1. Premessa: l’importanza della connessione tra i due temi
2. Uno spettro si aggira nella riforma: la competenza ripartita
3. Per un ‘giusto processo’ alla competenza ripartita
4. Alcuni elementi per un bilancio ragionato dell’esperienza della competenza ripartita sin qui trascorsa: tribuere unicuique suum
5. Alcuni spunti di diritto comparato
6. L’opportunità di ripensare la competenza ripartita italiana
6.1. I difetti contingenti da correggere
7. La costruzione della ‘clausola di supremazia’
8. Lo stato dell’arte nel procedimento di revisione costituzionale in corso
1. Premessa: l’importanza della connessione tra i due temi
In apertura della presente riflessione è opportuno sottolineare l’importanza della trattazione congiunta del tema della competenza ripartita[1] e di quello della clausola di supremazia[2]. Come si cercherà di evidenziare nelle pagine che seguono, al legislatore di revisione costituzionale (ed all’interprete che cerca di accompagnare il percorso di questo) si aprono preziose opportunità di razionalizzazione del riparto delle competenze di Stato e Regioni, in ragione di una rimodulazione della potestà legislativa (e, specialmente, per quel che qui interessa, della competenza ripartita) alla luce della presenza della clausola di supremazia. Allo stesso modo, appare essenziale per una reale funzionalità ed, in ultima analisi, il buon successo della clausola di supremazia che essa si inserisca senza calare dall’alto come un corpo estraneo in grado di vanificare l’impianto costituzionale che la accoglie, ma orientandone l’evoluzione, in modo consono ai caratteri fondamentali del sistema costituzionale stesso.
2. Uno spettro si aggira nella riforma: la competenza ripartita
La potestà legislativa ripartita sembra essere un bersaglio predestinato e privilegiato dell’intervento riformatore della Costituzione in itinere. Contribuiscono a ciò una serie di fattori concomitanti, che spesso si richiamano e rafforzano tra loro, con un inevitabile effetto sinergico.
In primo luogo, un modello di riparto di competenza imperniato su di un discrimine che - nonostante tutte le precisazioni e relativizzazioni che si possono fare[3] - si pone, in ultima analisi, come tendenzialmente rigido, quale è quello della distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio, appare facilmente destinato a collocarsi in controtendenza rispetto all’obiettivo di “rendere più fluidi i rapporti tra i poteri legislativi e più flessibili i criteri di riparto delle competenze legislative”[4].
Il secondo “testimone a carico” della potestà ripartita è rappresentato dalla performance non brillante di tale tipologia di competenza legislativa. Si tratta di un giudizio che, avanzato già all’epoca della formulazione originaria dell’art. 117 Cost., non ha subito la smentita, anzi il ribaltamento necessario, successivamente alla riforma costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione del 2001. Al contrario, come si cercherà di evidenziare nelle pagine che seguono, ciò a cui si è assistito è una sorta di “trascinamento” di non pochi aspetti problematici dell’esperienza della potestà ripartita ante 2001 anche nelle vicende successive alla riforma.
Una terza testimonianza sfavorevole nei confronti della potestà ripartita viene dalla comparazione ed in particolare dalla soppressione di tale tipologia competenziale in una delle esperienze paradigmatiche del federalismo: il riferimento è alla eliminazione della Rahmengesetzgebung dell’art. 75 GG, ad opera della Föderalismusreform I del 2006[5], per dar vita – ma questo aspetto non viene sempre richiamato con la stessa evidenza – ad una diversa e molto articolata tipologia di rapporti tra leggi del Bund e leggi dei Länder.
L’azione congiunta di una scarsa congenialità della potestà ripartita rispetto al mainstream della riforma; l’esito insoddisfacente di un (non particolarmente approfondito dal punto di vista causale) test di efficienza storica; l’esito altrettanto negativo di un (parziale, sia con riferimento all’esperienza tedesca, sia rispetto ad altre esperienze federali) test di comparazione sembrano convergere tutti in modo univoco verso la definitiva condanna di un arnese costituzionale qualificato come sostanzialmente fallimentare[6].
Eppure qualcosa non quadra in questa ricostruzione. A leggere il testo dell’AS 1429, sia nella formulazione originaria, sia in quella approvata in prima lettura il giorno 8 agosto 2014 dall’Aula del Senato[7], uno “spettro” di competenza ripartita continua ad aleggiare sul progetto di riforma, camuffandosi all’interno di non poche materie contenute nei nuovi secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost., come è stato ben presto evidenziato dai commentatori del disegno di legge di riforma[8] e si tornerà ad evidenziare in seguito nel presente lavoro.
Sembra insomma che alcune esigenze sottese al modello di competenza ripartita manifestino una resistenza superiore al prevedibile, riuscendo a mimetizzarsi anche in formulazioni linguistiche diverse da quelle tradizionalmente utilizzate per tale tipologia competenziale. Che questo sia avvenuto nella consapevolezza o meno degli autori del disegno di riforma e delle disposizioni approvate nel corso dell’esame da parte del Senato è difficile da provare e, dopotutto, interessa fino ad un certo punto, in sede di interpretazione sistematica dell’articolato di riforma.
Pienamente consapevole della delicatezza del problema - ovvero della difficoltà di cancellare radicalmente la competenza ripartita dalla disciplina costituzionale dei rapporti tra Stato e Regioni, “per la forte compressione dell’autonomia normativa delle regioni stesse” che ne deriverebbe - è stata, invece, la Commissione parlamentare per le Questioni regionali, la quale nel suo parere sul disegno di legge di revisione costituzionale[9] ha, anzi, invitato a valutare “l’opportunità di mantenere il modulo della legislazione concorrente”, salvi gli inevitabili aggiustamenti a tale elenco.
Meno univoca era stata, invece, la considerazione del problema in seno alla Commissione per le Riforme costituzionali istituita dal Presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta che, nella sua relazione finale, dà conto di due posizioni, una favorevole al superamento della competenza ripartita ed un’altra favorevole al suo mantenimento in relazione ad uno spettro limitato di materie[10]. In questa seconda linea, peraltro, si era mosso in precedenza anche il Gruppo di Lavoro sulle riforme istituzionali istituito in apertura della XVII Legislatura dal Presidente della Repubblica, con la proposta di sfoltire radicalmente (ma non sopprimere) l’elenco delle materie di competenza ripartita[11].
3. Per un “giusto processo” alla competenza ripartita
L’invito alla riflessione ed alla prudenza della Commissione parlamentare per le Questioni regionali induce a porsi esplicitamente il problema di quale dovrebbe essere l’iter più corretto per giungere ad un giudizio plausibile sull’opportunità o meno di sopprimere la competenza ripartita dal quadro costituzionale.
Da quello che si è accennato sopra, non ci si può sottrarre all’impressione che il giudizio sull’inadeguatezza di tale modello presenti alcuni caratteri di sommarietà, in particolare allorché si addossano alla competenza ripartita le prevalenti responsabilità dei picchi di contenzioso tra Stato e Regioni innanzi alla Corte costituzionale nei giudizi in via d’azione. Come è stato opportunamente segnalato[12], non pare, in verità, sia stato l’art. 117, terzo comma, la principale materia del contendere innanzi alla Corte (se si esclude la peculiare materia del “coordinamento della finanza pubblica”), quanto le non poche materie trasversali ad amplissima capacità di espansione del secondo comma del medesimo art. 117 Cost.[13].
Più in generale, in occasione di un processo di eccezionale rilevanza politica e giuridica come è per sua natura una revisione costituzionale, la decisione sul mantenimento ovvero la rimodulazione od ancora la soppressione di un istituto dovrebbe costituire l’esito di un bilancio ragionato ed approfondito dell’esperienza precedente. In particolare, con riferimento all’istituto in questione, si dovrebbe cercare di separare i difetti contingenti, legati magari all’operare di concause esterne, dai vizi strutturali, in grado di denunciare l’inadeguatezza dell’istituto stesso.
Nel caso che ci interessa, occorrerebbe interrogarsi su quanto della cattiva performance passata della competenza ripartita sia addebitabile al modello in sé e quanto, invece, ad orientamenti del legislatore, della Corte costituzionale, degli studiosi che hanno valorizzato un’interpretazione non lungimirante della competenza stessa.
Ogni istituto inciso dalla riforma andrebbe, inoltre, visto in collegamento con altri punti ed istituti della riforma. Per quanto riguarda la competenza ripartita, il giudizio su di essa non dovrebbe prescindere dalla introduzione e presenza nel disegno di revisione del titolo V di meccanismi destinati ad incidere profondamente su di essa ed in grado di farle assumere contorni nuovi rispetto al passato. E’ il caso, appunto, della clausola di supremazia.
Ad una visione critica di sintesi – quale vorrebbe essere quella sin qui proposta – dovrebbe infine accompagnarsi, in sede di riforma costituzionale, una visione analitica, volta ad esaminare dall’interno le modalità di funzionamento delle diverse componenti dell’istituto in discussione. Per la competenza ripartita, andrebbe operata una ricognizione della performance delle singole materie ricomprese nel terzo comma dell’art. 117 Cost., delle loro funzionalità o dei difetti da esse presentate[14], al fine di verificare se taluni dei problemi della competenza ripartita ex se considerata non siano, in realtà, problemi concentrati su talune materie inserite nell’elenco costituzionale.
Sulla base di tali considerazioni ci si può chiedere se tale schema di un ideale “giusto processo” alla competenza ripartita sia stato seguito nell’iter parlamentare sin qui seguito dall’AS 1429.
4. Alcuni elementi per un bilancio ragionato dell’esperienza della competenza ripartita sin qui trascorsa: tribuere unicuique suum
Un bilancio ragionato della competenza ripartita non può tacere gli indubbi vizi strutturali che essa presenta e che devono addebitarsi, non senza circostanze attenuanti, ai costituenti del 1948.
Se le circostanze attenuanti sono rappresentate dal carattere assolutamente innovativo e di cesura rispetto alla tradizione centralistica dello Stato post-unitario della configurazione di una competenza legislativa costituzionalmente garantita alle Regioni e, quindi, di un policentrismo legislativo, sicché non può essere disconosciuto il coraggio e la lungimiranza dell’Assemblea costituente, il limite strutturale è quello di aver fatto della competenza ripartita il baricentro della potestà legislativa regionale. Di aver, in altri termini, configurato il modello della competenza ripartita come potestà legislativa generale per le Regioni ordinarie (essendo la potestà integrativa collocata in posizione di secondario rilievo). Tale conclusione sembra estensibile, in buona parte, anche all’esperienza delle Regioni ad autonomia differenziata, per il noto fenomeno dell’affievolimento della competenza piena in competenza ripartita per l’operare dei limiti costituzionali specificamente previsti per la prima[15].
Ciò che i costituenti del 1948 non avevano previsto è che una competenza inevitabilmente caratterizzata da elementi di rigidità non poteva costituire l’archetipo della potestà legislativa regionale. Essa non poteva, in particolare, reggere il peso e la pressione degli interessi unitari sempre più spesso affioranti nella legislazione statale, tanto più in considerazione del fallimento dello strumento del giudizio di merito da parte del Parlamento previsto dall’art. 127 Cost. sulla sussistenza o meno dell’interesse nazionale e la ben nota trasposizione del limite di merito in limite di legittimità.
Di qui, un processo di mutazione genetica dei caratteri della competenza ripartita che viene qui dato per scontato e che ha come esito estremo il quadro analizzato da Andrea Paoletti nel suo volume sulle leggi cornice[16] e l’affermazione di Livio Paladin sulla “patetica idea” che le leggi regionali possano dirsi equiparate a quelle statali[17].
Il limite di rigidità del primo regionalismo italiano non viene superato dalla riforma del 2001 che conosce sì una maggiore articolazione delle potestà legislative regionali ma che, come è noto, continua a difettare di strumenti di flessibilizzazione del riparto costituzionale delle competenze[18].
Se a questo si aggiungono alcune infelici scelte nella compilazione dell’elenco del vigente terzo comma dell’art. 117 Cost.[19], emerge un quadro nel quale la competenza ripartita, nella sua ineliminabile rigidità di fondo, continua a presentare elementi di “sofferenza” che la fanno apparire, complessivamente intesa, inadeguata alle esigenze di governance del sistema di relazioni centro-periferia.
Essa viene così a subire - non meno della competenza residuale del comma quarto dell’art. 117, ma forse in modo più eclatante, alla luce del carattere nominato delle voci che la compongono e della enunciazione costituzionale formale dell’impossibilità per lo Stato di oltrepassare il confine dei principi fondamentali – il condizionamento e l’interferenza di materie di competenza esclusiva statale a valenza trasversale[20], ovvero di una – non nuova – lettura delle leggi cornice quali leggi in grado di assumere contenuti ulteriori rispetto alla mera fissazione di principi.
Con riferimento a questo ultimo aspetto, vanno segnalati alcuni elementi di continuità tra l’esperienza anteriore al 2001 e quella successiva alla riforma che non era necessario confermare ed il cui mantenimento si deve principalmente all’interpretazione (ed alla responsabilità) della Corte costituzionale. Con riserva di soffermarsi meglio sul punto in seguito, vanno menzionati l’assenza di ogni onere in capo al legislatore statale di autoqualificare i principi fondamentali; la possibilità per gli atti con forza di legge (soprattutto, secondo chi scrive, i decreti legislativi) di porre principi fondamentali ex art. 117, terzo comma, Cost.; la perpetuazione della giurisprudenza costituzionale sul nesso di coessenzialità ed integrazione tra principi e norme di dettaglio.
Anche dopo la riforma del 2001, in ultima analisi, la sorte della competenza ripartita è stata ben difficile, stretta tra due competenze apparentemente entrambe esclusive, ma di cui una soltanto – quella statale - lo era realmente, mentre l’altra è apparsa ben presto nella sua natura di competenza “residuale” ed anzi sempre meno in grado di opporre significative forme di resistenza alle incursioni delle competenze trasversali statali[21].
Quali sono gli spunti principali per un “bilancio ragionato” della competenza ripartita che si possono trarre da questi schematici richiami all’esperienza sin qui trascorsa ?
Il primo e fondamentale monito che mi sembra di poter formulare è che la competenza ripartita non può costituire il modello generale di potestà legislativa regionale, ovvero la tipologia di competenza legislativa sulla quale riporre in modo esclusivo, e probabilmente neanche principale, l’affermazione del principio di autodeterminazione legislativa regionale. Questo è il risultato evidente dell’esperienza del primo regionalismo, ma anche la stagione del secondo regionalismo italiano, successiva al 2001, conduce a considerazioni simili.
L’altro elemento che emerge abbastanza chiaramente dall’intera storia costituzionale repubblicana è che, in assenza di clausole di oculata flessibilizzazione delle competenze, sulla potestà legislativa ripartita vengono a gravare esigenze unitarie insostenibili per lo statuto epistemologico prima che prescrittivo, verrebbe da dire, di questa. Nel secondo regionalismo, tali esigenze hanno spesso portato le materie trasversali del secondo comma dell’art. 117 Cost. a resecare le stesse voci di competenza concorrente.
Rovesciando l’approccio al tema e passando da una prospettiva ricostruttiva ad una propositiva, da quanto appena rilevato emerge che un uso circoscritto e non ampio della competenza ripartita all’interno di un sistema di potestà legislative caratterizzato dalla presenza di una clausola di supremazia accuratamente calibrata costituisce un’opzione che il legislatore di revisione costituzionale potrebbe utilmente considerare. Si tratterebbe, in altri termini, di evitare di riprodurre il difetto strutturale dell’esperienza sin qui trascorsa, costruendo ipotesi limitate e ragionate di ricorso a tale tipologia di riparto.
A questo proposito, le risultanze di un esame analitico delle singole materie e della loro idoneità a prestarsi a tale tipo di riparto dovrebbero guidare la scelta, così come la consapevolezza dei difetti contingenti dell’esperienza passata, introducendo, se del caso, dispositivi idonei ad evitare il loro ripetersi.
5. Alcuni spunti di diritto comparato
Anche una sommaria analisi di alcune esperienze federali e regionali a noi vicine dimostra come il riconoscimento di puntuali e limitate competenze ripartite sia una soluzione da esaminare con attenzione.
E’ il caso dell’art. 12 della Costituzione austriaca e della precisa delimitazione delle voci in essa contenute[22]. In particolare, merita di essere ricordata l’estrapolazione dalla materia sanità - evidentemente troppo ampia e ricca di esigenze unitarie per poter essere affidata alla competenza ripartita – delle sub-materie “case di cura e di ricovero” e “requisiti dal punto di vista sanitario per luoghi, enti ed istituti di cura”[23]. In entrambi i casi merita di essere segnalata la rilevanza organizzativa delle due materie in questione, individuandosi evidentemente in tale dimensione l’ambito preferenziale per l’uso della tipologia ripartita all’interno del “macrosettore” della sanità[24].
L’art. 12 della Costituzione austriaca merita comunque una particolare menzione per il suo quarto comma, che imponendo al legislatore statale l’autoqualificazione espressa dei principi fondamentali da esso posti, si pone come modello per chiunque ritenga di utilizzare tale modello competenziale.
Anche la costituzione federale elvetica, nella sua articolata tipologia di competenze legislative[25], conosce, per alcune specifiche ipotesi, la competenza ripartita, prevedendola, si badi, per una materia di indubbia rilevanza quale è la “pianificazione del territorio”[26].
Allargando l’indagine al di là degli ordinamenti federali tradizionali, è inevitabile il riferimento all’ampia utilizzazione della ripartizione fondata sulla distinzione legislación básica/di desarrollo prevista dall’art. 149 della Costituzione spagnola[27], in un sistema che affida, peraltro, alle libere scelte dei legislatori statutari l’attivazione di tale competenza.
E’ peraltro il caso di sottolineare come la nozione di “base giuridica” nell’ordinamento spagnolo si caratterizzi per una connotazione spiccatamente sostanziale, di “mínimo común a todo el territorio, dirigido a asegurar los interes generales”, ovvero un “común denominador normativo”[28], in grado di assumere, se del caso, un contenuto dettagliato, anche se comunque tale da lasciare alle Comunità autonome un margine autonomo nella materia regolata. Sembra insomma una definizione che si accosta maggiormente a quella delle “norme generali” regolatrici della materia dell’esperienza italiana attuale piuttosto che a quella di principio fondamentale in senso proprio.
Certamente l’argomento comparativo si presta anche ad una sua utilizzazione in senso avverso alla competenza ripartita: è il ben noto e già ricordato caso tedesco dell’abrogazione dell’art. 75 GG e, quindi, della scomparsa della Rahmengesetzgebung. Tale soppressione va però contestualizzata all’interno di un quadro di riforma estremamente articolato, quale è quello che dal 1994 va realizzandosi nell’ordinamento federale tedesco, e che in modo piuttosto rozzo ed impreciso può essere riassunto all’insegna del motto Bundesrecht bricht Landesrecht.
L’affinamento della clausola di supremazia del 1994; la distinzione tra ipotesi in cui la decisione assunta sulla base di tale clausola non può essere sindacata ed ipotesi in cui essa è sindacabile e, soprattutto, l’introduzione di competenze derogatorie (Abweichungenkompetenzen) nelle quali il Land può tornare ad esercitare le proprie competenze legislative in una serie di materie per le quali è intervenuta la clausola di supremazia compensano ampiamente la scomparsa della competenza ripartita dell’art. 75 GG[29].
6. L’opportunità di ripensare la competenza ripartita italiana
Al legislatore di revisione costituzionale italiano che voglia esercitare un bilancio critico non condizionato da pregiudizi si apre un’opportunità interessante di ripensamento e proporzionamento della competenza ripartita. L’intervento sui difetti strutturali e sui limiti contingenti dell’esperienza precedente, affiancati dall’introduzione della clausola di supremazia consentono – solo che lo si voglia – di sgravare la potestà legislativa qui considerata di una serie di condizionamenti esterni a salvaguardia di interessi unitari e di considerare la stessa, per la prima volta, per quello che essa dovrebbe essere realmente: una tecnica di composizione di esigenze unitarie e di differenziazione, basata su di una distinzione giuridica alla quale è possibile dare tratti sufficientemente precisi, quale è quella tra disposizione di principio e disposizione di dettaglio[30].
Non vi è dubbio che, a questo proposito, è sicuramente necessario un approccio non eccessivamente dogmatico e rigido, per non esporsi alla critica di coloro che ritengono la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio “metafisica e non giuridica”[31]. Nondimeno è possibile identificare uno statuto minimamente definito dei principi fondamentali, partendo dalla loro derivazione legislativa[32] e valorizzando soprattutto la circostanza in base alla quale il principio, definito spesso dalla Corte costituzionale quale “criterio od obiettivo” che spetta al legislatore regionale realizzare, individuando “gli strumenti” idonei[33], non dovrebbe arrivare mai ad esaurire l’intera materia[34], lasciando, anzi, al legislatore regionale l’esplicazione di una potestà di autodeterminazione la quale, essendo rivestita di forma legislativa, dovrebbe avere una consistenza apprezzabile di scelta tra diverse opzioni, ognuna delle quali politicamente significativa[35]. Tale operazione verrebbe poi rimessa per aspetti non secondari alla definizione transattiva dei soggetti interessati attraverso la decisione sull’attivazione o meno del giudizio in via principale[36].
Questa metodologia pragmatica - consentendo di tener conto dell’esigenza di “proporzionare” la dimensione dei principi alle peculiarità della materia di volta in volta interessata[37] ed, in ultima analisi, di verificare la ragionevolezza della scelta del legislatore statale[38] - se certo non si presenta in grado di conferire alla potestà ripartita statura “colossale” varrebbe forse ad evitare che essa poggi sui malfermi “piedi d’argilla”[39] dell’esperienza sin qui trascorsa.
E’ il caso di aggiungere, a questo punto del discorso, che, a parere di chi scrive, la legge cornice che definisce, in termini comunque giustiziabili, il punto di equilibrio tra le ragioni dell’uniformità e quelle della differenziazione, operando una scelta ed una decisione sulla concreta individuazione di tale punto non potrebbe essere completamente estraniata dall’indirizzo politico (e dalla connessa responsabilità) del Governo e della maggioranza che lo sostiene. In altri termini, il punto di equilibrio, pur non essendo sottratto alla dimensione giuridica come evidenzia la sua giustiziabilità, resta espressione di una scelta politica “unificante”. Di qui, a voler considerare l’ipotesi del mantenimento della potestà ripartita ad opera della riforma, l’opportunità di escludere per tale categoria di leggi il regime della legge bicamerale necessaria per ricomprenderla nel novero delle leggi per le quali la volontà della Camera dei Deputati appare “prevalente”[40].
L’analisi puntuale delle materie “di elezione” per l’operatività della potestà ripartita porterebbe via molto spazio. Essa richiederebbe, come si è già accennato, uno screening accurato innanzitutto delle voci dell’elenco del terzo comma dell’art. 117 Cost. vigente[41], per poi passare ad un non meno impegnativo tentativo di estrarre dal “contenitore” del quarto comma del medesimo articolo materie che si prestino non solo a divenire “nominate”, ma anche ad essere meglio valorizzate dal concorso di competenze tipico della potestà ripartita[42]. Nonostante possa apparire vagamente provocatorio nella situazione attuale del regionalismo italiano, non dovrebbe mancare un’indagine volta ad appurare se taluna delle materie di competenza esclusiva statale di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost. si prestino ad una riconfigurazione in termini di competenza ripartita[43].
Alcune tra le materie che sono probabilmente in grado di superare il test di efficienza della configurazione in termini di potestà ripartita meritano comunque di essere sommariamente richiamate. E’ il caso del “governo del territorio”, per il quale negare all’ente esponenziale della comunità regionale una significativa capacità di autodeterminazione politica (e, quindi, di scelta legislativa) significa minare il collegamento profondo tra la politicità e la dimensione territoriale dell’ente regionale[44], oltre che arrecare un vulnus facilmente percepibile al principio di sussidiarietà verticale. Non bisogna dimenticare, inoltre, che nella materia in questione – come in altre di potestà ripartita – le Regioni italiane hanno sperimentato soluzioni normative poi recepite dallo stesso legislatore statale[45]. La circostanza per cui la materia in questione è, come l’esperienza maturata negli anni successivi al 2001 dimostra, fortemente condizionata da vincoli unitari finalizzati alla “tutela dell’ambiente”[46] dovrebbe indurre a mantenere una previsione garantista in capo alle Regioni e non a svuotarla, in modo da poter far leva su di un elemento limitativo e di contenimento rispetto alla competenza esclusiva statale, altrimenti destinata a fagocitare anche minuti aspetti di disciplina di assetto del territorio[47].
Riprendendo uno spunto dall’esperienza del federalismo austriaco sopra richiamata, all’interno della macro-materia “tutela della salute” - indubbiamente attraversata da rilevanti esigenze unitarie, come la tematica dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 117 secondo comma lett. m) Cost. dimostra – è possibile scorporare gli aspetti relativi all’ “organizzazione del Servizio sanitario nazionale nella Regione”, per affidare queste fattispecie a valenza prevalentemente organizzativa ad una significativa, anche se ovviamente non esclusiva, autodeterminazione regionale. Si tratta del resto del settore nel quale non poche Regioni italiane hanno raggiunto risultati di rilievo adottando – e questo è l’aspetto più interessante – modelli organizzativi tra loro diversificati ed inverando, così, il significato dell’autonomia regionale[48].
Più in generale, la sussistenza della Regione come ente politico richiede implica e richiede, da parte di questa, una capacità di conformare il proprio apparato servente, assumendosene, come è naturale, le responsabilità finanziarie. Di qui, come si è avuto modo già di sostenere[49], l’esigenza della salvaguardia di un apprezzabile margine di autodeterminazione in ordine alla “disciplina del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione regionale”, per la quale il modulo della competenza ripartita si presenta congeniale, consentendo il mantenimento dei legami unitari fondamentali tra pubblica amministrazione regionale e pubblica amministrazione nazionale[50].
Da ultimo, se l’esperienza del titolo V riformato conferma la presenza di forti esigenze unificanti in tema di disciplina dell’istruzione[51], è con riferimento ad una materia definibile come “servizi di supporto all’istruzione” che spazi di differenziazione possono effettivamente farsi apprezzare, fermo restando che l’autonomia costituzionalmente garantita che resta in attesa della dovuta valorizzazione è soprattutto quella delle istituzioni scolastiche.
6.1. I difetti contingenti da correggere
La storia della potestà legislativa regionale italiana – e, quindi, per un segmento certo non secondario, del regionalismo italiano – avrebbe potuto essere diversa se taluni snodi problematici dell’interpretazione dell’art. 117 Cost., prima e dopo la riforma del 2001, fossero stati risolti in modo differente da quanto storicamente accaduto.
Per quanto interessa la presente trattazione, vengono in rilievo una serie di difetti contingenti dell’esperienza regionale italiana: difetti, cioè, che come si è già anticipato non derivano strutturalmente dal modello della potestà ripartita ma dalla declinazione ad essa data dalla prassi legislativa e sopratutto, attesa l’intrinseca problematicità di tali questioni, dalla Corte costituzionale che tali prassi ha avallato.
Stupisce non poco, a questo proposito, che la Corte non abbia colto l’occasione della ristrutturazione del 2001 della potestà ripartita all’interno delle potestà legislative regionali e statali per segnare una linea di discontinuità rispetto alla precedente giurisprudenza su alcune nodali questioni ed abbia condannato, così operando, tale potestà a seguire le anguste vie del passato.
E’ il caso della questione del carattere di limite necessario od eventuale dei principi fondamentali, in assenza di legislazione di cornice statale. Una rottura rispetto al passato, sulla base anche della diversa formulazione testuale dell’art. 117 Cost., limitando l’operatività dei principi fondamentali al caso in cui la legge cornice li avesse realmente posti, avrebbe aperto nuove prospettive di sviluppo della legislazione regionale[52]. Soprattutto, dal punto di vista pratico, avrebbe spinto il legislatore statale ad adottare le leggi cornice per contenere eventuali “fughe in avanti” dei legislatori regionali, senza inibire le Regioni dall’ “esplorare” materie nuove tracciate dalle riforma[53]. Si sarebbe trattato di una soluzione ben più chiara e diretta di quella, nella pratica fallimentare, della delega ricognitiva dei principi fondamentali contenuta nell’art. 1, comma 4, della legge n. 131 del 2003.
Più in generale, l’idea che i principi fondamentali della disciplina possano essere posti con decreti legislativi, come la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile anche dopo la riforma del 2001[54], costituisce una soluzione che inevitabilmente avvia i principi verso un grado di specificazione eccessivamente vicino al dettaglio. Non richiede particolari argomentazioni, infatti, la circostanza che l’essere i principi del decreto legislativo attuativi e specificativi dei “principi e criteri direttivi” della legge di delegazione finisce per restringere ad ambiti poco più che regolamentari l’ampiezza delle scelte del legislatore regionale ed, a cascata, a natura provvedimentale i regolamenti regionali di esecuzione od attuazione della legge regionale. Oltre a ciò, è da rimarcare la sostanziale estraniazione del Parlamento dal processo di definizione dei principi fondamentali nel momento in cui si ammette la loro definizione da parte del decreto legislativo[55]. Si tratta di una soluzione, si può aggiungere, che, dissonante con la ratio dell’art. 117 Cost. prima e dopo la riforma del 2001[56], diventerebbe assolutamente incompatibile con il ruolo del Senato nel procedimento legislativo delineato dall’AS 1429.
Chi scrive non ritiene estensibile le considerazioni appena svolte ai decreti-legge, non potendosi escludere che possano sussistere casi straordinari di necessità e di urgenza che richiedano la fissazione di principi fondamentali nei confronti dei Consigli regionali e costituendo il termine costituzionale di sessanta giorni per la conversione in legge da parte del Parlamento uno spazio di tempo ragionevole nel quale, con ogni probabilità, la Regione sospenderà l’eventuale iter legislativo in corso, in attesa della decisione sulla conversione delle Camere[57]. E’ appena il caso di aggiungere che tale soluzione, rispondente al carattere della decretazione d’urgenza, si riferisce ad ipotesi di utilizzazione dello strumento conforme a Costituzione e non ai decreti legge monstre (od “omnibus” secondo una definizione più pudica) che ormai sembrano caratterizzare la scena italiana, benché contrastati in modo crescente dalla Corte costituzionale[58].
Un confronto con le esperienze straniere di configurazione della potestà ripartita ed in particolare con il già ricordato art. 12, comma 4, della Costituzione austriaca avrebbe dovuto da tempo rendere il giudice costituzionale italiano edotto dell’importanza di vincolare il legislatore statale a dichiarare espressamente la qualità di “principi fondamentali” delle disposizioni da esso poste. Si tratta di una soluzione che potrebbe apparire superflua solo se le leggi-cornice risultassero composte esclusivamente dalla sequenza dei principi fondamentali, risultando spostata l’auto-qualificazione sulla denominazione di “legge cornice”. Ma, come è noto, l’esperienza italiana non si è mossa in questa (illuministica ?) direzione, sicché, nel coacervo delle disposizioni contenute nelle leggi (e, come si è visto, degli atti con forza di legge) statali si imporrebbe l’onere di chiarire quali siano da intendere come espressive di principi. Si tratterebbe di una auto-limitazione che escluderebbe la possibilità per lo Stato di qualificare, in sede di contenzioso costituzionale, disposizioni diverse da quelle auto-qualificate come principi in grado di vincolare la legislazione regionale, fermo restando ovviamente, sulla base di un criterio sostanziale, la valutazione della Corte sull’effettiva rispondenza dell’auto-qualificazione alla reale natura di principio della norma[59].
E’ facilmente intuibile il vantaggio in termini di trasparenza e chiarezza nei rapporti reciproci tra Stato e Regione che deriverebbe da questo orientamento, oltre alla circostanza che l’onere di auto-qualificazione rappresenterebbe uno stimolo alla riflessione ed all’approfondimento da parte delle Camere del Parlamento, nel momento in cui la disposizione venisse sottoposta ad approvazione.
E’ il caso di aggiungere che la soluzione qui caldeggiata sembra imporsi con caratteri di necessità, nel momento in cui dovesse entrare in vigore il disegno di legge di revisione costituzionale (e si ritenesse di conservare la potestà ripartita). Sia che in questa ipotesi venisse conservata la posizione paritaria tra le due Camere del Parlamento, sia che le leggi cornice rientrassero tra i casi per i quali l’art. 70, quarto comma, Cost. introdotto dall’art. 10 del disegno di legge costituzionale, richiede la riapprovazione a maggioranza assoluta da parte della Camera per respingere le modificazioni introdotte dal Senato, in entrambi i casi le leggi recanti principi fondamentali dovrebbero essere riconoscibili in quanto tali.
L’ultimo difetto contingente dell’esperienza italiana il cui superamento non potrebbe che giovare alla ristrutturazione della potestà ripartita è il superamento della giurisprudenza costituzionale che ritiene legittime norme di dettaglio statali nelle materie dell’attuale terzo comma dell’art. 117 Cost.. Si tratta di una tipologia al suo interno abbastanza variegata[60], tra le quali spicca nell’esperienza attuativa recente del titolo V, ancorché già nota anteriormente alla riforma del 2001, quella delle norme di dettaglio legate ai principi fondamentali “da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione”[61].
Solo per alcune delle fattispecie di norme di dettaglio statali incidenti nelle materie dell’art. 117, terzo comma, si è potuto relativizzare il problema facendo riferimento a problemi di transizione dal “vecchio” al “nuovo” titolo V , attraverso il riferimento al principio di continuità istituzionale[62]. Per la gran parte di tali norme di dettaglio statali resta difficilmente superabile la considerazione che si tratta di discipline che vanno ben oltre i pur esistenti margini di indeterminatezza e flessibilità dei principi fondamentali, giungendo a negare la consistenza minima necessaria a tale nozione.
La riforma del titolo V costituisce l’occasione per il superamento di tali esperienze non poco distorcenti il rapporto tra Stato e Regioni. Per le disposizioni dettagliate alle quali è sotteso un interesse unitario insuscettibile di frazionamento, l’introduzione della clausola di supremazia costituisce un’innovazione risolutiva, convogliando in uno strumento istituzionale apposito la soluzione dei problemi che esse intendevano affrontare. Per avere un’efficacia migliorativa rispetto al quadro attuale non si dovrebbe trattare, peraltro, di un’innovazione soltanto formale, che si limita ad una copertura costituzionale “esplicita” delle norme di dettaglio inderogabili. Anche per le disposizioni di dettaglio introdotte in forza della suddetta clausola dovrebbe valere un onere di esplicitazione ed autoqualificazione da parte del legislatore, se non addirittura di motivazione dell’atto legislativo[63].
Le norme di dettaglio derogabili e cedevoli, dietro un’apparenza mite, hanno prodotto guasti non indifferenti al sistema regionale italiano. Oltre ad un impervia – a parere di chi scrive - riconducibilità alla logica dell’art. 117 Cost. (prima e dopo il 2001), la quale non sembra ammettere flessioni della propria logica alternativa, esse hanno avuto un effetto deresponsabilizzante nei confronti del legislatore statale, disincentivato a modificare il proprio modo di legiferare distinguendo principi da dettagli (ed autoqualificando i primi), così come nei confronti del legislatore regionale, che, di fronte ad una disciplina completa ed autoapplicativa (nella quale ricade sulla Regione discernere ciò che è principio da ciò che è dettaglio, ora inderogabile, ora derogabile) può facilmente essere indotto a rinviare sine die il proprio intervento.
Mi sembra estraneo alla logica di un sistema che accoglie al suo interno la clausola di supremazia, la quale dovrebbe avere valore esclusivo, dover ancora ricorrere alle norme di dettaglio derogabili che resterebbero così ancor più prive di copertura costituzionale di quanto non lo siano ora. Se la preoccupazione - comprensibile – è quella di non lasciare i principi fondamentali privi di una loro implementazione[64], la soluzione più congrua (che richiederebbe, però un’esplicitazione in Costituzione) pare quella di prevedere un’illegittimità costituzionale sopravvenuta della legislazione regionale non adeguata ai nuovi principi, sul modello ben noto delle norme di attuazione dello statuto del Trentino Alto Adige/Südtirol. Solo all’esito della pronuncia di incostituzionalità, perdurando un’assenza di intervento regionale legislativo in grado di ledere primari interessi sottesi ai principi fondamentali, si potrebbe ammettere – ed è cosa ben diversa dalla norma di dettaglio derogabile “incorporata” ai principi della legge cornice – un intervento sostitutivo statale ex art. 120, secondo comma, Cost.[65]
Di tutti i cedimenti rispetto all’interpretazione più rigorosa della competenza ripartita quello che merita forse un giudizio meno aspro è la frequente integrazione dei principi fondamentali ad opera di atti di natura non legislativa, spesso di carattere non normativo, frutto di un richiamo da parte delle stesse disposizioni di principio. Si tratta, infatti, di una soluzione resa necessaria dalla tecnicità di talune discipline, ad esempio in materia di “governo del territorio” e/o “protezione civile”[66] o di “energia”[67]. In questi termini, il fenomeno, che ricorda quello delle norme tecniche[68] appare destinato a reggere il confronto con i processi di riforma, in quanto sostanzialmente inevitabile. Ciò a condizione che la tecnicità delle soluzioni sia effettivamente tale, spettando alla Corte costituzionale la verifica del rispetto di tale requisito[69].
Più problematico, perché la tecnicità delle opzioni si confronta con la facilmente intuibile rilevanza politica delle stesse, si presenta il caso della fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni incidenti nella materia “tutela della salute”[70], anche se un notevole contributo a disinnescare la questione in questo caso può venire dal coinvolgimento delle Regioni nella determinazione di tali standards[71].
Ben altro e più severo giudizio merita invece il tentativo di restaurare il già noto fenomeno della delegificazione delle norme di principio[72], volto a trasferire ad atti di natura regolamentare o, peggio, a decreti asseritamente di natura non regolamentare[73] la definizione (nonché, facilmente, l’integrazione) dei principi fondamentali. Anche in questo caso, la violazione della riserva di legge parlamentare diverrebbe ancora più grave, in ragione della nuova configurazione delle Camere del Parlamento e del procedimento legislativo delineato dalla riforma.
7. La costruzione della “clausola di supremazia”.
Per le ragioni che si è cercato di illustrare sino ad ora, l’introduzione della clausola di supremazia giova alla causa della competenza ripartita e giustifica un diverso atteggiamento nei suoi confronti, rispetto a quello negativo, se non liquidatorio, sino ad oggi prevalente.
Essa, liberando la competenza ripartita di pesi ed oneri impropri, di assicurazione di esigenze unitarie insuscettibili di frazionamento permetterebbe ai principi fondamentali di recuperare uno statuto più consono a quella che dovrebbe essere la loro natura.
A questo punto, vanno aggiunte due considerazioni sul regime auspicabile per tale clausola nella Costituzione riformata.
La prima osservazione porta a considerare che, essendo la clausola in esame espressione del principio unitario, essa dovrebbe trovare il suo radicamento ultimo nella Camera dei Deputati. Pur dovendo lasciare spazio, nel suo procedimento di concretizzazione, alla posizione del Senato di rappresentanza territoriale, alla fine la decisione sulla sua attivazione è decisione politica di salvaguardia di un interesse unitario. Anche in questo caso, come in quello precedentemente considerato delle leggi cornice, è naturale ed opportuno che essa si colleghi ad un indirizzo politico e, soprattutto, ad un’assunzione di responsabilità politica. Anzi, in questo caso, operandosi una “deroga” all’ordinario esercizio della potestà legislativa, l’individuazione del soggetto politicamente responsabile si pone con maggior rilievo.
Per queste ragioni, chi scrive ritiene che la volontà della Camera dei deputati debba essere in ultima analisi prevalente nella decisione sulla sua attivazione e che non sia consigliabile la previsione di un “consenso necessario” del Senato o di maggioranze “supermaggioritarie” della Camera per superare l’opposizione del Senato.
La seconda considerazione tempera quella che potrebbe apparire la crudezza un pò schmittiana della prima. Se la decisione sulla clausola di supremazia è decisione politica nell’an, può esserlo molto di meno sul quid della decisione, ovvero sulle ragioni poste a fondamento dell’intervento statale in un’area eccedente la disciplina di principio. Sul punto non si può che richiamare l’esperienza tedesca di ricerca di un punto di equilibrio tra salvaguardia del principio di unità e del principio di differenziazione che parte dalla Bedürfnisklausel, passa attraverso la Erforderlickeitsklausel per giungere alle articolate soluzioni dell’art. 72 GG vigente che, come si è detto in precedenza, distingue tra ipotesi in cui la clausola opera in termini vincolati e sindacabili ed altre in cui la decisione si pone in termini ampiamente discrezionali.
Purtroppo il quarto comma dell’art. 117 Cost. così come riformulato dall’art. 30 del disegno di legge di revisione costituzionale non sembra tenere adeguatamente conto di tale dimensione problematica: il testo approvato dall’Aula del Senato richiama sì la nozione di “tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica”, pienamente compatibile con tale nozione evoluta di clausola di supremazia[74], ma subito dopo indica anche la “tutela dell’interesse nazionale” quale parametro generale per l’attivazione della clausola. Si tratta di una nozione, quest’ultima, che rischia di vanificare gli sforzi fatti con la formula precedente e di porre l’esperienza italiana in controtendenza rispetto al processo evolutivo di uno dei più maturi federalismi europei. Come da tempo è stato evidenziato, infatti, ad intenderlo seriamente l’interesse nazionale si definisce attraverso gli atti che lo fanno valere[75], risultando estremamente evanescente ogni sua cristallizzazione in concetti astratti ovvero l’applicazione ad esso di test di proporzionalità[76]. Se l’interesse nazionale è allora ciò che il Parlamento decide che sia svaniscono le possibilità di una sua giustiziabilità innanzi alla Corte e la clausola di supremazia assume le inquietanti sembianze di una clausola di mera decisione maggioritaria di flessibilizzazione estrema del riparto di competenze tra Stato e Regioni.
8. Lo stato dell’arte nel procedimento di revisione costituzionale in corso
In apertura del presente lavoro si è accennato alla probabile sopravvivenza, sotto dissimulate spoglie, della competenza ripartita nell’attuale disegno di riforma del Titolo V. A venire in rilievo, sotto questo punto di vista, e ad attirare l’attenzione degli interpreti è stato il frequente ricorso, nel testo licenziato dal Governo, dell’espressione “norme generali” per esprimere la misura della competenza statale in una serie di materie.
Come è noto e senza che occorra ritornare approfonditamente sul punto[77], se l’intenzione dei redattori del testo del disegno di legge costituzionale era quello di far riferimento ad una clausola improntata a flessibilità che desse allo Stato il potere di calibrare senza eccessivi vincoli che non fossero quelli di un sindacato di ragionevolezza-proporzionalità la profondità del proprio intervento regolatore, il risultato rischiava di essere molto diverso. L’utilizzazione della nozione di “norme generali” regolatrici della materia rimandava all’elaborazione della giurisprudenza costituzionale a proposito della competenza esclusiva statale in materia di istruzione ed, in particolare, ai limiti di intensità di regolazione che soprattutto la sent. n. 200 del 2009 della Corte costituzionale ha posto a carico della fonte statale; fonte che, anche se non vincolata a porre norme di principio ma anche, se del caso, disposizioni di dettaglio, è comunque limitata, secondo la Corte, a definire la “struttura portante” od “essenziale” della disciplina.
Sembra, quindi, che una ripartizione tendenzialmente rigida, anche se non basata sulla coppia concettuale tradizionale “principio/dettaglio” fosse destinata a permanere, alimentando dubbi interpretativi che difficilmente potevano essere integralmente “assorbiti” dal procedimento legislativo riconfigurato dalla riforma, mediante l’intervento del Senato rappresentativo del sistema delle autonomie. Bastava infatti una sola Regione “dissenziente” ed il giudizio costituzionale restava l’esito inevitabile del contrasto interpretativo sui limiti di ampiezza delle “norme generali”.
La soluzione appena illustrata - nonostante i suoi margini di indeterminatezza, tali da rendere lecito il dubbio se il progresso rispetto alla competenza ripartita tradizionale fosse reale – aveva comunque il pregio di far riferimento ad una nozione (le “norme generali”) appunto dotata di una ormai significativa elaborazione giurisprudenziale e dottrinale. La sostituzione dell’espressione “norme generali” con quella, inedita nel testo costituzionale” di “disposizioni generali e comuni”, ad opera di un emendamento presentato dai relatori del disegno di legge costituzionale[78], nel corso della discussione in 1a Commissione permanente del Senato e poi confermato dall’Aula, rigetta l’interprete nel mare aperto dei dubbi e delle ipotesi.
Ad un mutamento di espressione linguistica dovrebbe corrispondere un mutamento di significato prescrittivo, considerato che il sostantivo (“disposizioni”, al posto di “norme”, ma questo non sembra un cambiamento di rilievo) è ora qualificato da due aggettivi, “generali” e “comuni”, e non più da uno soltanto. Si potrebbe pensare che l’intento dell’emendamento, conformemente allo spirito che anima la riforma nel suo complesso, sia quello di flessibilizzare il riparto per tali materie, superando le strettoie della giurisprudenza costituzionale sopra ricordata in materia di istruzione. Sennonché, a parte un riferimento in senso opposto a questa illazione che proviene dall’intervento di uno dei due relatori nel corso della discussione in Aula della riforma[79], resta la circostanza che il requisito della “generalità” delle disposizioni di competenza statale, oltre che il loro essere “comuni”, è confermato nella formula costituzionale. Sarebbe piuttosto strano, in altri termini, che una doppia qualificazione delle disposizioni statali si traducesse in requisiti meno stringenti rispetto alla situazione in cui era presente il solo ed identico requisito della “generalità”. Il risultato potrebbe essere quindi non molto lontano (anzi, molto vicino) al punto di partenza, ovvero alla ripartizione per “norme generali/non generali” già conosciuta alla presente esperienza.
Se la formulazione dovesse essere mantenuta e la riforma entrare in vigore, sarà probabilmente la Corte costituzionale a dipanare l’enigma e ricadrà su di essa, quindi, l’onere di mantenere elementi garantistici di separazione di competenze tra Stato o Regioni ovvero valorizzare anche in questo caso la flessibilità del riparto competenziale, con una ulteriore perdita di identità costituzionale degli enti regionali.
Come se non bastasse, l’emendamento dei relatori accolto in 1a Commissione permanente ha introdotto due ulteriori novità rilevanti ai fini della nostra trattazione.
La prima è l’introduzione di una competenza ripartita in senso tecnico, prevedendo una competenza “esclusiva” dello Stato a porre “disposizioni di principio” sulle forme associative dei Comuni[80]. Ebbene, può destare qualche perplessità l’introduzione di una tipologia di competenza che sembra a tutti gli effetti presentarsi come competenza ripartita, nel momento in cui si intende smantellare la stessa nel testo della Costituzione, sulla base di una sua valutazione negativa.
Si badi, peraltro, che tale ipotesi si aggiunge a quella, non toccata dal legislatore di revisione costituzionale, in materia elettorale regionale di cui all’art. 122 Cost. Anche in questo caso, ci si trova di fronte a qualcosa di paradossale: resta intatta, infatti, una previsione che si riferisce ad una competenza per la quale da tempo è stata evidenziata la difficile riconducibilità all’archetipo della competenza ripartita[81], perdendosi l’occasione di una sua riformulazione in termini più aderenti alle reali dinamiche di funzionamento del sistema.
La seconda e più rilevante novità emersa in sede di discussione parlamentare è l’introduzione di talune “competenze nominate” delle Regioni all’interno del terzo (precedentemente quarto) comma dell’art. 117 Cost. La scelta, in via di principio, può essere anche apprezzabile, in quanto da tempo è stato evidenziato come una delle vie preferibili per arrestare (o almeno limitare) i processi di erosione interpretativa delle materie di competenza regionale è rappresentato dal passaggio dallo status di competenza residuale anonima a quella di competenza nominata[82]. Sennonché i vantaggi di tale tecnica vengono perdendosi allorché tale elenco si arricchisce eccessivamente e soprattutto – e questo è l’aspetto che qui interessa – allorché talune di queste materie si sovrappongono parzialmente con materie di competenza statale. Torna così a manifestarsi una sovrapposizione ed un concorso di competenze, foriero di possibili dubbi interpretativi in grado di scaricarsi sul Giudice di costituzionalità delle leggi.
I dubbi interpretativi si presentano raddoppiati allorché alcune delle materie in sovrapposizione vengono individuate attraverso tecniche che fanno riferimento alle “disposizioni generali e comuni”. Si pensi, per citare un esempio della massima rilevanza, alla macro-materia del “governo del territorio”, sulla quale insistono le “disposizioni generali e comuni sul governo del territorio” di competenza esclusiva statale[83], alle quali si contrappongono sicuramente le materie nominate di competenza regionale “pianificazione del territorio regionale” nonché “dotazione infrastrutturale”, alla stessa macro-materia facilmente riconducibili, oltre forse, a non volerla ritenere ricompresa nelle due competenze nominate appena richiamate (come forse è consigliabile con sana applicazione dell’argomento del rasoio di Okham...), la materia residuale rappresentata da ciò che non si fa rientrare nelle “disposizioni generali e comuni sul governo del territorio” .
A margini di sovrapposizione si espone anche la materia esclusiva statale “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”, rispetto alla competenza nominata regionale “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali”[84]. Anche se può essere utilmente tentata un’interpretazione volta a salvaguardare in capo alle Regioni i profili più strettamente attinenti all’amministrazione della sanità ed ai modelli di servizio sanitario, come nel caso austriaco in precedenza ricordato, resta, anche in questo caso, il problema di quale collocazione dare alla “tutela della salute” tout court, ovvero per la porzione di questa non occupata dalle disposizioni generali e comuni statali appena richiamate. Anche in questo caso l’alternativa è tra il riconoscimento dell’operatività di una competenza residuale regionale, preferibile dal punto di vista sistematico e di valorizzazione delle competenze regionali ma foriera di sovrapposizioni competenziali, oppure l’applicazione del “rasoio di Okham”, in grado di semplificare la vita di legislatori, Corte costituzionale ed interpreti. Non bisogna dimenticare, poi, la perdurante incidenza sulla macro-materia “tutela della salute” della ulteriore competenza esclusiva statale in tema di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, rimasta intatta, come si è detto, nella lett. m) del secondo comma dell’art. 117 Cost. Ed è noto che tale competenza trova nella tutela della salute un campo precipuo di applicazione attraverso i “Livelli Essenziali di Assistenza” (Lea).
Sempre più affollata appare, ancora, la macro-materia dell’istruzione la quale conta vecchie e nuove competenze esclusive statali: le “disposizioni generali e comuni sull’istruzione” (le quali, si badi, prendono il posto delle “norme generali sull’istruzione” ponendo problemi in ordine al mantenimento ovvero alla messa in discussione dell’acquìs giurisprudenziale su tale materia richiamato in precedenza) e le nuove competenze statali in tema di “ordinamento scolastico” ed “istruzione universitaria”, a fronte delle competenze nominate regionali in tema di “servizi scolastici”, “istruzione e formazione professionale”, “promozione del diritto allo studio, anche universitario” (e salva, sempre, l’autonomia delle istituzioni scolastiche). Se si considera lo scorporo dell’ “ordinamento scolastico” come creazione di una materia statale esclusiva a sé, c’è da chiedersi se le “disposizioni generali e comuni sull’istruzione” non siano chiamate ad incidere per forza di cose sui “servizi scolastici” e sulla “promozione del diritto allo studio” di competenza regionale, rendendo meno significativa di quel che potrebbe sembrare l’esplicitazione di queste in Costituzione.
Anche la “valorizzazione e organizzazione regionale del turismo”, di competenza nominata regionale, dovrà fare i conti con l’attribuzione allo Stato di “disposizioni generali e comuni sul turismo”, mentre occorrerà elaborare criteri distintivi tra “valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici” (di competenza esclusiva statale) e “promozione” dei medesimi beni (oltre che di quelli ambientali), di competenza nominata regionale...
C’è ovviamente da sperare che il Parlamento nell’esame ulteriore del d.d.l. di revisione costituzionale torni a sciogliere almeno alcuni di questi grovigli interpretativi, considerando, tra le possibili opzioni, anche quella di ricorrere, in taluni casi, al modello della competenza ripartita, la quale, se depurata dai difetti strutturali e contingenti che si è cercato di evidenziare in precedenza, si presenta più lineare e chiara di alcune delle soluzioni appena esposte.
Tutto ciò, ovviamente, a condizione che la linearità e la coerenza - e, quindi la possibilità di salvaguardare ambiti competenziali minimamente predeterminati – sia ciò che si vuole dal testo costituzionale.
Nel ricordo incancellabile di Andrea Paoletti, a quattordici anni dalla sua scomparsa.
[1] Come, d’ora in poi, si menzionerà nel testo la competenza legislativa di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. per tenerla distinta dal diverso modello (almeno in astratto) della konkurrierende Gesetzgebung.
[2] Preferisco definire in questo modo il congegno introdotto all’art. 117, quarto comma (nella formulazione licenziata dal Senato), dall’art. 30 del disegno di legge di revisione costituzionale AS 1429. Si tratta della definizione che, infatti, meglio rende l’essenza del problema: una decisione del legislatore statale che porta la disciplina da esso posta ad intervenire, occupandoli, anche in ambiti ordinariamente di competenza regionale, sulla base, comunque, di valutazioni che possono essere (e sarebbe meglio che sia così...) ricondotte a parametri giustiziabili. E’ evidente che nella scelta di tale definizione gioca anche la suggestione del diritto comparato ed, in particolare, il richiamo alla Supremacy Clause dell’art. VI, par. 2 della Costituzione U.S.A., fermo restando che tale assonanza non si deve necessariamente tradurre in identità di struttura dell’istituto.
[3] Alcune delle quali verranno richiamate nel presente lavoro.
[4] In questi termini si esprime la relazione illustrativa al disegno di legge governativo di revisione costituzionale AS 1429, p. 7.
[5] 52a legge di revisione costituzionale del 28 agosto 2006.
[6] Per un severo giudizio sulla potestà ripartita all’interno della manualistica universitaria, cfr. T. Martines – A. Ruggeri – C. Salazar, Lineamenti di Diritto regionale9, Milano, 2012, i quali, riferendosi alla separazione di competenze tipica di essa, la definiscono “assai incerta e praticamente evanescente, poggiando essa sulla distinzione essa pure assai labile e scivolosa tra principi e regole” (p. 186). Anche A. D’Atena, Diritto regionale2, Torino, 2013, p. 151 sottolinea criticamente l’indeterminatezza ed al contempo la rigidità insite nel modello della competenza ripartita. Per la considerazione che ancora oggi la potestà ripartita è alla ricerca di un’identità, cfr. C. Salazar, Dieci anni dopo la riforma del titolo V: il “ruolo” delle fonti regionali, in AA.VV. (a cura di S. Mangiameli), Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma. Vol. I, Milano, 2012, p. 224.
[7] Per le differenze tra queste due formulazioni del disegno di legge costituzionale di riforma, cfr. infra, specialmente il paragrafo finale del presente lavoro.
[8] Per la rilevazione dei margini di problematicità del discrimine norme generali/norme non generali nel disegno di legge costituzionale presentato dal Governo, cfr., tra i molti, C. Fusaro, A proposito del progetto di legge costituzionale del governo Renzi, in Astrid Rassegna, n. 7/2014, p 11 e nota 4; A. Ruggeri, Note minime a prima lettura del disegno Renzi di riforma costituzionale, in Federalismi.it, n. 8/2014, p. 16; A. Ferrara, Osservazioni a prima lettura sul ddl costituzionale Renzi-Boschi, in Federalismi.it., n. 8/2014, p. 5, il quale efficacemente scrive di una “potestà cripto-concorrente”; R. Bin, Coerenze ed incoerenze del disegno di legge di riforma costituzionale: considerazioni e proposte, in Forumcostituzionale.it. (22 aprile 2014) ed in Astrid Rassegna, n. 8/2014, p. 19; E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), in Rivista Aic, n. 2/2014, p. 11 ss.
[9] Parere dell’11 giugno 2014.
[10] Cap. III , parr. 3 e 4 della Relazione finale.
[11] Pag. 17 della Relazione finale del 30 marzo 2013.
[12] M. Luciani, La riforma del bicameralismo, oggi, in Rivista Aic, n. 2/2014, p. 11.
[13] Si considerino, a questo proposito, i dati del contenzioso costituzionale Stato-Regioni per il periodo 2006-2011 riportati nella ricerca dell’Issirfa La giustizia costituzionale e il “nuovo” regionalismo. Vol. II (a cura di N. Viceconte e P. Colasante), Milano, 2013, pp. 83 e 87 (per il periodo 2006-2010) e pp. 302 e 304 (per il 2011). E’ soprattutto il Governo a porre più frequentemente a fondamento dei proprio ricorsi in via principale la violazione delle proprie competenze ex art. 117, secondo comma, Cost. Per il periodo più recente, si vedano le considerazioni di E. Rossi, La giurisprudenza della Corte costituzionale nel giudizio in via principale nel triennio 2011-2013: profili statistici e tendenze più rilevanti, in Giurcost.it. (27 giugno 2014). I dati relativi al contenzioso divengono ancora più significativi se posti a confronto con quelli relativi alla produzione legislativa regionale, per la quale emerge che nell’anno 2012 il 57,7 % della legislazione regionale si è inserita in una delle materie del terzo comma dell’art. 117 Cost. (il 56,6 % nel 2011), mentre il 30,9 % nella legislazione residuale (il 38,0 % nel 2011). Per questi dati, cfr. A.G. Arabia, La produzione normativa delle Regioni, in Issirfa (a cura di S. Mangiameli), Rapporto sulle Regioni in Italia 2013, Milano, 2014, p. 29. Dall’incrocio dei due ordini di dati (contenzioso e produzione legislativa) sembrerebbe che i problemi non vengano dalla tematica principio fondamentale/norma di dettaglio, quanto dall’operatività delle materie di competenza esclusiva statale anche all’interno delle materie di competenza ripartita.
[14] Nella ricerca Issirfa richiamata nella nota precedente i dati relativi al contenzioso sono disaggregati con riferimento alle singole materie. E’ possibile così riscontrare che nel periodo 2006-2010 sono le materie dell’ “energia”, del “governo del territorio”, della “tutela della salute” e delle “professioni” ad essere più spesso investite dai ricorsi statali per le materie del terzo comma dell’art. 117 Cost., mentre il “governo del territorio” e la “tutela della salute” sono di gran lunga i parametri più spesso evocati dalle Regioni ricorrenti. Nell’anno 2011 “energia” e “tutela della salute” primeggiano nei ricorsi statali, “protezione civile”, “governo del territorio”, “energia” e “tutela della salute” in quelli regionali.
[15] L’affievolimento della competenza primaria in competenza ripartita è stato messo in evidenza in particolare con riferimento al limite delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali dello Stato”: cfr., sul punto, A. D’Atena, Legge regionale (e provinciale), in Enc. Dir., vol, XXIII, Milano, 1973, ora in Id. Costituzione e Regioni. Studi, Milano, 1991, 158 s. Per le oscillazioni della giurisprudenza costituzionale sul punto, cfr. L. Paladin, Diritto regionale6, Padova, 1997, p. 91 ss. L’estensione alle Regioni speciali dell’art. 117 Cost., per le materie presenti sia nella disposizione costituzionale che negli statuti, una volta realizzato il decentramento regionale, era stata sostenuta dal punto di vista sistematico da A. D’Atena, L’autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, cap. III.
[16] A. Paoletti, Leggi-cornice e Regioni. Crisi di un modello, Milano, 2001.
[17] L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, p. 336.
[18] Tra gli interpreti maggiormente critici nei confronti della riforma del titolo V del 2001, sul punto, cfr. A. Barbera, da ultimo in La polverizzazione delle materie regionali e la (ormai necessaria) clausola di supremazia, in Le Regioni, 2011, p. 557 ss.
[19] Per le quali, cfr. le incisive osservazioni critiche di A. D’Atena, Diritto regionale2, cit., p. 157 ss.
[20] Per ulteriori considerazioni su questo punto, cfr. infra, nota 47.
[21] Sul punto, cfr. l’analisi di S. Parisi, La competenza residuale, in Le Regioni, 2011, p. 341 ss.
Solo l’elaborazione di uno “statuto di protezione” delle materie residuali da parte della Corte costituzionale avrebbe potuto evitare o limitare il processo di erosione da parte del legislatore statale. Sul punto sia consentito il rinvio a E. Gianfrancesco, Undici anni dopo: le Regioni, la Corte e la crisi, in AA.VV. (a cura di N. Viceconte), La giustizia costituzionale e il “nuovo” regionalismo, vol. I, Milano, 2013, p. 121 ss., ove si evidenzia un rarissimo spunto in questa direzione in C. cost. sent. n. 108 del 2012 e si sottolinea come sia stato solo l’eventuale collegamento di una competenza residuale con la tematica della tutela dei diritti fondamentali a consentire alla Regione di difendere con qualche efficacia le proprie attribuzioni.
Solo l’elaborazione di uno “statuto di protezione” delle materie residuali da parte della Corte costituzionale avrebbe potuto evitare o limitare il processo di erosione da parte del legislatore statale. Sul punto sia consentito il rinvio a E. Gianfrancesco, Undici anni dopo: le Regioni, la Corte e la crisi, in AA.VV. (a cura di N. Viceconte), La giustizia costituzionale e il “nuovo” regionalismo, vol. I, Milano, 2013, p. 121 ss., ove si evidenzia un rarissimo spunto in questa direzione in C. cost. sent. n. 108 del 2012 e si sottolinea come sia stato solo l’eventuale collegamento di una competenza residuale con la tematica della tutela dei diritti fondamentali a consentire alla Regione di difendere con qualche efficacia le proprie attribuzioni.
[22] Per una sintetica esposizione dei criteri di riparto delle funzioni legislative tra Bund e Länder nella Costituzione della Repubblica d’Austria, cfr., nella recente letteratura italiana, R. Manfrellotti, Austria, in AA.VV. (a cura di R. Bifulco, Ordinamenti federali comparati. I. Gli stati federali classici, Torino, 2010, pp. 193-195; 208-211; 217; 224-225 (specificamente dedicate all’art. 12 della Costituzione); 228; 249-252; 260; F. Palermo, Il federalismo austriaco: un cantiere sempre aperto, in AA.VV. (a cura di A. D’Atena), I cantieri del federalismo in Europa, Milano, 2008, p. 15 ss., il quale sottolinea i problemi strutturali del riparto di competenze “contorto, iperdettagliato e totalmente sbilanciato in favore della Federazione”. Ancorché non recente, si segnala il contributo di H. Schäffer, Il federalismo austriaco, in AA.VV. (a cura di A. Pace), Quale, dei tanti federalismi ?, Padova, 1997, p. 153 ss. (per la descrizione della Versteinerungstheorie, seguita, quale criterio principale, dalla Corte costituzionale austriaca nell’interpretazione del riparto delle competenze nonché degli “ulteriori modelli argomentativi” a temperamento della rigidità della stessa) e p. 159 ss. per i problemi posti dalla Rahmengesetzgebung.
[23] Per un caso relativamente recente in cui tale competenza è venuta in questione (ancorché, nel caso di specie, negata), cfr. VfGH 17.3.2007, G 119/06, ricordata da E. D’Orlando, La giurisprudenza della Corte costituzionale austriaca nel biennio 2006-2007, in Giur. cost., 2008, p. 4137 ss. (specificamente par. 3.1). In precedenza, cfr. anche VfGH 28 giugno 2003, G208/02, richiamata da G. Parodi, La giurisprudenza della Corte costituzionale austriaca nel 2003, in Giur. cost., 2004, par. 4.
[24] Per un’accurata analisi del “federalismo sanitario austriaco” e dei suoi caratteri comunque debolmente federali, cfr. M. Cosulich, Il sistema sanitario austriaco: un quadro (fortemente) mutualistico in una cornice (debolmente) federale, in AA.VV. (a cura di R. Balduzzi), Sistemi costituzionali, diritto alla salute e organizzazione sanitaria. Spunti e materiali per l’analisi comparata, Bologna, 2009, p. 109 ss
[25] Per un quadro sul punto, cfr. G. Malinverni, Il federalismo svizzero, in AA.VV. (a cura di A. Pace), Quale, dei tanti federalismi ?, cit., p. 128 ss. Come ricorda M.P. Viviani Schlein, Tradizione e modernità nel federalismo elvetico, in Le Regioni, 2005, p. 1217, “il Costituente del 2000... ha regolato materia per materia, dettagliatamente, l’intreccio tra le competenze federale e cantonali”.
[26] Art. 75 della Costituzione elvetica. La giurisprudenza del Tribunale federale sul riparto di competenze costituzionali tra Confederazione e Cantoni è poco significativa, per la tendenza propria del Federalismo svizzero a raggiungere accordi tra centro e periferia su piani diversi da quello del contenzioso costituzionale (tra l’altro, come è noto, precluso da un punto di vista formale ai Cantoni nei confronti delle leggi della Confederazione). Sul punto si vedano le relazioni di S. Gerotto sulla giurisprudenza costituzionale elvetica pubblicate periodicamente in Giur. cost. e, per questa osservazione, S. Gerotto, La giurisprudenza costituzionale in Svizzera nel biennio 2004-2005, in Giur. cost., 2006, p. 3719.
[27] Per una ricostruzione di tale esperienza, cfr. E. Álvarez Conde – A. García-Moncó – R. Tur Aurisina, Derecho Autonómico, Madrid, 2013, parte III, cap. III.
[28] E. Álvarez Conde – A. García-Moncó – R. Tur Aurisina, Derecho Autonómico, cit.
[29] Su questi temi, cfr., di recente, A. Gragnani, Il nuovo ordine delle competenze legislative e la giurisdizione costituzionale sui titoli di competenza nella riforma del federalismo tedesco, in AA.VV. (a cura di A. D’Atena), I cantieri del federalismo in Europa, cit., p. 169 ss; E. Di Salvatore, La potestà legislativa derogatoria dei Länder tedeschi, in http://www.issirfa-spoglio.cnr.it/7139,908.html ed ora in Id., Germania. Scritti di diritto costituzionale, Galaad Edizioni, Giulianova, 2013, p. 49 ss.; L. Violini, Il bicameralismo italiano: quale futuro ?, in Rivista Aic, n. 3/2013, p. 3 s.
[30] L’indagine recente più approfondita sul concreto volto dei principi fondamentali nella recente esperienza italiana è quella di F. Corvaja, La potestà concorrente, tra conferme e novità, in Le Regioni, 2011, p. 287 ss. il quale ripercorre bene le oscillazioni della giurisprudenza costituzionale in materia. Cfr. anche i capitoli dedicati al tema da S. Calzolaio, Il cammino delle materie nello Stato regionale. La definizione delle competenze legislative nell’ordinamento costituzionale, Torino, 2012, cap. III, par. 8 e M. Carrer, Il legislatore competente. Statica e dinamica della potestà legislativa nel modello regionale italiano, Milano, 2012, cap. IV.
[31] R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, in Le Regioni, 2001, p. 614.
[32] A. D’Atena, Legge regionale (e provinciale), cit., p. 146 ss.
[33] Cfr., nel periodo più recente, Corte cost., sent. n. 272 del 2013, ed ivi richiami alla giurisprudenza precedente. Si noti come questa affermazione si accompagni, nella pronuncia considerata, poche righe dopo, all’affermazione dell’eccezione rappresentata da “prescrizioni dettagliate”, qualora legate al principio da rapporto di coessenzialità ed integrazione. Su tale deviazione dal modello costituzionale, cfr. infra nel testo.
[34] Il rischio di eccessiva analiticità di una disciplina di principio che non si fondi più sull’aspetto strutturale del livello di astrattezza della disciplina è comunque inevitabile: cfr. sul punto A. Anzon, «Legislazione concorrente» o konkurrierende Gesetzgebung, in Giur. cost., 2006, p. 531 (a commento della sentenza n. 59 del 2006 della Corte costituzionale).
[35] A. Paoletti, Leggi-cornice e Regioni, cit., p. 100.
[36] L’aspetto è stato sottolineato da A. D’Atena, Regione (in generale), in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, ora in Id. Costituzione e Regione. Studi, cit., p. 22 ss., ed ivi rinvii ad altri autori.
[37] Tale aspetto è costantemente richiamato dalla giurisprudenza della Corte (cfr. ad esempio, sent. n. 139 del 2009, la quale evidenzia anche come un principio fondamentale possa intervenire ad integrare un principio preesistente), costituendo una relativizzazione del criterio strutturale. Sul punto, cfr. F. Corvaja, La potestà concorrente, tra conferme e novità, cit., p. 296.
[38] Convergono su questo standard di giudizio, inteso come centrale ai fini della valutazione della legge-cornice, S. Calzolaio, Il cammino delle materie nello Stato regionale., cit., p. 217 (insieme alla proporzionalità); M . Carrer, Il legislatore competente, cit., p. 159.
[39] Come contestato da R. Bin, “Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale”. Rileggendo Livio Paladin dopo la riforma del titolo V, in AA.VV., Scritti in memoria di Livio Paladin, vol. I, Napoli, 2004, p. 304.
E’ il caso di precisare come non manchino, dopo la riforma del titolo V, casi in cui la Corte ha effettuato un severo scrutinio sul rispetto dei limiti costituzionali posti a carico dello Stato dal terzo comma dell’art. 117 Cost.: cfr. l’elenco tracciato da A. D’Atena, Diritto regionale2, cit., p. 154, nota 25. Per il periodo più recente, cfr. anche Corte costituzionale, sent. n. 64 del 2014.
E’ il caso di precisare come non manchino, dopo la riforma del titolo V, casi in cui la Corte ha effettuato un severo scrutinio sul rispetto dei limiti costituzionali posti a carico dello Stato dal terzo comma dell’art. 117 Cost.: cfr. l’elenco tracciato da A. D’Atena, Diritto regionale2, cit., p. 154, nota 25. Per il periodo più recente, cfr. anche Corte costituzionale, sent. n. 64 del 2014.
[40] Ho già sostenuto questa posizione in E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), cit., p. 13.
[41] Si veda, ad esempio, l’analisi e la classificazione operata da S. Calzolaio, Il cammino delle materie nello Stato regionale, cit. che si conclude con le “materie di improbabile regolazione regionale”... (p. 228 ss.)
[42] Potrebbe essere il caso del “commercio” che non poco ha sofferto dalle consistenti incursioni al suo interno della materia trasversale “tutela della concorrenza” (cfr. recentemente C. cost., sent. n. 165 del 2014). Il passaggio alla competenza ripartita potrebbe, forse, contenere e limitare questa capacità di penetrazione del titolo di competenza statale, chiamato ad esplicarsi entro e non oltre i caratteri di una disposizione di principio.
[43] Tale appare a chi scrive, in una prospettiva de iure condendo con riferimento al disegno di legge costituzionale in itinere, la materia “ordinamento” dei Comuni e Città metropolitane, inserita nella lett. p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., contribuendo ad accentuare la separatezza delle Regioni dal sistema degli enti locali operanti al loro interno. E’ da segnalare, peraltro, la positiva novità rappresentata dalla scelta della 1a Commissione permanente del Senato, confermata dall’Aula, di attribuire allo Stato la competenza a porre solo “disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni”, superando la competenza integrale prevista nel testo originario del disegno di legge governativo. Sul punto si tornerà infra nel presente lavoro.
[44] Sul naturale nesso tra territorialità e politicità di un gruppo sociale, si rinvia a V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale2. I. Introduzione al diritto costituzionale italiano, Padova, 1970, p. 59 ss. Si badi che i componenti della Commissione per le Riforme costituzionali del Governo Letta favorevoli al mantenimento della competenza ripartita hanno menzionato espressamente la materia “governo del territorio” come caso in cui “non è possibile prescindere da un intreccio di esigenze di regolazione sia statali, per i principi fondamentali, che regionali” (cap. III, par. 5).
[45] Lo ricordano ad esempio, con riferimento all’istituto della Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.), S. Calzolaio – E. Longo, La stretta «VIA» della Corte costituzionale (osservazione a C. cost., sent. n. 93 del 2013), in Giur. cost., 2013, p. 1625 ss., nota 4.
[46] Cfr. ad esempio il caso trattato nella sent. n. 309 del 2011 della Corte costituzionale e le osservazioni di M. Gorlani, Quando è la Corte ad indicare i principi fondamentali di una materia di potestà concorrente, in Giur. cost., 2011, p. 4329 ss. L’incidenza della tutela ambientale sul governo del territorio è comunque frequentemente rilevata dalla Corte costituzionale: cfr., tra le molte, le sentt. n. 196 del 2004 (sul c.d. condono edilizio), n. 182 del 2006, n. 367 e 437 del 2008. Talvolta la perdita di competenza regionale viene “compensata” attraverso forme di coinvolgimento procedimentale necessario della Regione interessata: cfr., in questo senso, le sentt. n. 62 del 2005 e 232 del 2009.
E’ il caso di ricordare che, con senso di realismo, i già ricordati componenti della Commissione per le Riforme costituzionali del Governo Letta favorevoli al mantenimento della competenza ripartita hanno proposto l’assegnazione a tale competenza anche della materia “ambiente”, stante evidentemente l’impossibilità di estromettere le Regioni da questo ambito di valore, prima ancora che di materia (cap. III, par. 5).
E’ il caso di ricordare che, con senso di realismo, i già ricordati componenti della Commissione per le Riforme costituzionali del Governo Letta favorevoli al mantenimento della competenza ripartita hanno proposto l’assegnazione a tale competenza anche della materia “ambiente”, stante evidentemente l’impossibilità di estromettere le Regioni da questo ambito di valore, prima ancora che di materia (cap. III, par. 5).
[47] Il punto è del massimo rilievo, attesa la frequenza dell’intreccio tra competenze esclusive statali, specie di natura trasversale, e competenze ripartite. La circostanza per cui la “materializzazione” della “tutela dell’ambiente” ad opera della riforma del Titolo V del 2001 ha costituito un fattore di potente “ricentralizzazione” delle competenze legislative in capo allo Stato, a scapito delle Regioni e della loro potestà ripartita anche in materia del “governo del territorio” è efficacemente evidenziata da M. Belletti, Percorsi di ricentralizzazione del regionalismo italiano nella giurisprudenza costituzionale. Tra tutela di valori fondamentali, esigenze strategiche e di coordinamento della finanza pubblica, Roma, 2012, cap. II, sottolineando come “i punti di equilibrio” individuati dal legislatore statale finiscano per non poter essere derogati neanche in melius (dal punto di vista delle esigenze ambientali) da parte delle Regioni: cfr. sentt. 307 e 331 del 2003 (p. 86 ss.).
Particolarmente utile, al fine di evitare la fagocitazione ad opera delle competenze statali di quelle regionali, sarebbe l’elaborazione, da parte della giurisprudenza costituzionale, di criteri di interpretazione volti ad imporre al legislatore statale la “presa in considerazione” dell’esistenza delle competenze dell’altro ente, che non possono essere vanificate. Sull’applicazione del verfassungsrechtliches Berücksichtigungsgebot nella giurisprudenza del tribunale costituzionale austriaco a temperamento della tradizionale Versteinerungstheorie, cfr. VfGH 25 giugno 1999, G 256/98 (in materia di rapporto tra competenze ambientali, del Land, e competenze in materia di infrastrutture ferroviarie, del Bund, con applicazione del principio nel caso di specie a favore del Bund), richiamata da G. Parodi, La giurisprudenza della Corte costituzionale austriaca nel biennio 1999-2000, in Giur. cost., 2001, par. 6. Per un riferimento a tale tecnica interpretativa, per la soluzione dei problemi posti da “competenze compenetrate”, cfr., già da prima della riforma del 2001, S. Mangiameli, Le materie di competenza regionale, Milano, 1992, p. 186 s. Di recente, cfr. anche G. Scaccia, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, Napoli, 2009, p. 144 (e nota 130 per riferimenti giurisprudenziali e dottrinali alle esperienze austriache e tedesca) che la richiama a proposito del controllo di ragionevolezza-proporzionalità delle leggi che operano l’attrazione in sussidiarietà legislativa.
Particolarmente utile, al fine di evitare la fagocitazione ad opera delle competenze statali di quelle regionali, sarebbe l’elaborazione, da parte della giurisprudenza costituzionale, di criteri di interpretazione volti ad imporre al legislatore statale la “presa in considerazione” dell’esistenza delle competenze dell’altro ente, che non possono essere vanificate. Sull’applicazione del verfassungsrechtliches Berücksichtigungsgebot nella giurisprudenza del tribunale costituzionale austriaco a temperamento della tradizionale Versteinerungstheorie, cfr. VfGH 25 giugno 1999, G 256/98 (in materia di rapporto tra competenze ambientali, del Land, e competenze in materia di infrastrutture ferroviarie, del Bund, con applicazione del principio nel caso di specie a favore del Bund), richiamata da G. Parodi, La giurisprudenza della Corte costituzionale austriaca nel biennio 1999-2000, in Giur. cost., 2001, par. 6. Per un riferimento a tale tecnica interpretativa, per la soluzione dei problemi posti da “competenze compenetrate”, cfr., già da prima della riforma del 2001, S. Mangiameli, Le materie di competenza regionale, Milano, 1992, p. 186 s. Di recente, cfr. anche G. Scaccia, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, Napoli, 2009, p. 144 (e nota 130 per riferimenti giurisprudenziali e dottrinali alle esperienze austriache e tedesca) che la richiama a proposito del controllo di ragionevolezza-proporzionalità delle leggi che operano l’attrazione in sussidiarietà legislativa.
[48] Per l’inserimento dell’esperienza italiana nel più ampio contesto europeo, cfr. i contributi presenti nel già ricordato volume AA.VV. (a cura di R. Balduzzi), Sistemi costituzionali, diritto alla salute e organizzazione sanitaria, cit.
[49] E. Gianfrancesco, L’amministrazione regionale nei lavori della Commissione per le riforme costituzionali, in Le Regioni, 2013, p. 691 ss.
[50] Il disegno di legge di revisione costituzionale si segnala per soluzioni diverse da quelle sostenute nel testo e di significato sempre meno perspicuo: si passa infatti dalla previsione della competenza esclusiva del legislatore statale in tema di “norme generali.. sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” del testo del d.d.l. alla formulazione “norme... sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale” approvata dalla 1a Commissione permanente e poi dall’Aula (art. 117, secondo comma, lett. g) Cost.).
[51] L’attenzione del legislatore di revisione costituzionale del 2001 per il tema è evidenziato dalla proliferazione di titoli competenziali collegati al tema dell’istruzione. Il baricentro della disciplina costituzionale è comunque rappresentato dalla riserva alla competenza esclusiva allo Stato in tema di “norme generali sull’istruzione”. Su tale competenza si tornerà in seguito nel paragrafo finale del presente lavoro. Per quanto riguarda la tendenza “centripeta” della giurisprudenza costituzionale (in particolare la sent. n. 200 del 2009) sul nucleo centrale della materia (le articolazioni cicliche e le finalità ultime del sistema educativo di istruzione e formazione; il contenuto dei programmi dei vari cicli del sistema ed il nucleo essenziale dei piani scolastici per la quota nazionale; la regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai diversi cicli; il modello di alternanza scuola-lavoro ma anche gran parte della disciplina relativa all’organizzazione didattica) sia consentito il rinvio a E. Gianfrancesco – G. Perniciaro, Le Regioni e la materia dell’istruzione tra uniformità e differenziazione. Una breve analisi di ciò che (non) poteva essere e non è stato, in Astrid Rassegna, n. 22/2011 ed in versione ridotta con il titolo Istruzione, in AA.VV. (a cura di L. Vandelli), Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle Regioni, Bologna, 2012, p. 95 ss. Di recente, l’atteggiamento restrittivo della Corte costituzionale ha toccato anche il tema del personale docente con incarico annuale: cfr. sent. n. 76 del 2013, con osservazione critica di E. Fagnani, La Corte si pronuncia nuovamente sul riparto di competenze in materia di istruzione e boccia l’assunzione dei docenti in Lombardia, in Le Regioni, 2013, p. 844 ss.
[52] Per questa soluzione, all’indomani della riforma del 2001, S. Mangiameli, Il riparto delle competenze normative nella riforma regionale, in Id., La riforma del regionalismo italiano,Torino, 2002, p. 138 ss. Del medesimo A. cfr. la critica alla soluzione del problema data dalla sent. n. 282 del 2002 della Corte costituzionale nel segno della continuità tra primo e secondo regionalismo italiano in Giustizia costituzionale e federalismo: riflessioni sull’esperienza italiana, in S. Mangiameli, Le Regioni italiane tra crisi globale e neocentralismo, Milano, 2013, p. 142 s. Cfr. inoltre S. Mabellini, La legislazione regionale. Tra obblighi esterni e vincoli nazionali, Milano, 2004, p. 196 s.
[53] Esemplare, a questo proposito, la vicenda della disciplina del mobbing, preclusa al legislatore regionale in assenza di intervento del legislatore statale di principio dalla sent. n. 359 del 2003 (finemente annotata in senso critico da G.U. Rescigno, La Corte scambia i principi fondamentali della materia con i principi fondamentali dell’oggetto, in Giur. cost., 2003, p. 3723). Le incongruenze e le conseguenze negative della “riserva di principio fondamentale” enucleata dalla giurisprudenza costituzionale sono acutamente evidenziate da F. Corvaja, La potestà concorrente, tra conferme e novità, cit., p. 334 ss. ed in precedenza da A. Anzon, «Legislazione concorrente» o konkurrierende Gesetzgebung, cit., p. 531.
[54] A partire dalla sent. n. 50 del 2005. Più di recente, cfr. la sent. n. 278 del 2010.
Tra gli studiosi, in senso contrario all’ammissibilità di decreti legislativi recanti principi fondamentali ex art. 117, terzo comma, Cost., anche nella forma di decreti recanti norme cedevoli, cfr. G. Di Cosimo, La delega legislativa dopo la riforma del Titolo V: primi riscontri, in Le Istituzioni del federalismo, 2002, p. 317 ss.
Tra gli studiosi, in senso contrario all’ammissibilità di decreti legislativi recanti principi fondamentali ex art. 117, terzo comma, Cost., anche nella forma di decreti recanti norme cedevoli, cfr. G. Di Cosimo, La delega legislativa dopo la riforma del Titolo V: primi riscontri, in Le Istituzioni del federalismo, 2002, p. 317 ss.
[55] Salva l’eventuale espressione di pareri da parte delle Commissioni competenti per materia e/o della Commissione parlamentare per le Questioni regionali.
[56] Tale dissonanza sarebbe poi divenuta stridente se fosse stata data attuazione alla previsione dell’art. 11 della l. cost. n. 3 del 2001, sull’integrazione della composizione della Commissione parlamentare per le Questioni regionali.
[57] Cfr. il caso deciso dalla Corte costituzionale con la sent. n. 64 del 2013, commentata da G.U. Rescigno, Può un principio fondamentale della materia rimanere inderogabile rispetto alle Regioni e diventare derogabile da parte dello Stato?, in Giur. cost., 2013, p. 995 ss. ed ivi l’ammissibilità dello strumento del decreto legge (ed anche della legge ordinaria, se assistita da necessità ed urgenza) per porre principi derogatori rispetto a principi fondamentali, anche limitati a territori circoscritti per un tempo limitato. Si tratta di osservazioni importanti anche per quanto riguarda la consistenza dei principi fondamentali, qui evidenziata nella sua intrinseca problematicità. Nella sent. n. 91 del 2013, l’ampliamento del campo di applicazione dei principi-deroga sembra prescindere da requisiti di necessità ed urgenza.
Sempre a proposito di questo processo di delimitazione della portata dei principi, va considerata la sent. n. 181 del 2006 (n. 6.2 del Considerato in diritto) sulla limitazione di efficacia di un principio ad opera di un altro successivo mentre la sentenza n. 200 del 2012 (n. 8.2 del Considerato in diritto) sembra invece postulare un limite alla abrogazione di discipline di principio, per esigenze di certezza del diritto.
Sempre a proposito di questo processo di delimitazione della portata dei principi, va considerata la sent. n. 181 del 2006 (n. 6.2 del Considerato in diritto) sulla limitazione di efficacia di un principio ad opera di un altro successivo mentre la sentenza n. 200 del 2012 (n. 8.2 del Considerato in diritto) sembra invece postulare un limite alla abrogazione di discipline di principio, per esigenze di certezza del diritto.
[58] Nel percorso che parte dalla sent. n. 171 del 2007 e giunge, per ora, alla sent. n. 22 del 2012.
[59] Cfr. sul punto le riflessioni di F. Corvaja, La potestà concorrente, tra conferme e novità, cit., p. 292 ss., portato a riconoscere un rilievo giuridico alla qualificazione di un principio come tale da parte del legislatore.
[60] Analizzate, a pochi anni dall’entrata in vigore della riforma, da A. Guzzarotti, La competenza legislativa concorrente nel nuovo Titolo V al banco di prova della giurisprudenza della Corte costituzionale, in Le Regioni, 2004, p. 1099 ss.
[61] Per una recente applicazione, cfr. la sent. 272 del 2013 della Corte costituzionale. Per l’analisi critica di tale figura, già anteriormente alla riforma del 2001, le acute considerazioni critiche di A. Paoletti, La disciplina di dettaglio statale, in materia di competenza concorrente, tra norme derogabili e norme inderogabili, in Giur. cost., 1993, p. 3149 ss.; Id., Leggi-cornice e Regioni, cit., p. 134 ss.
[62] Cfr. la sent. n. 13 del 2004 della Corte costituzionale.
[63] Una condivisibile sottolineatura dell’ausilio rilevante che potrebbe venire al sindacato di legittimità costituzionale dalla motivazione dell’atto legislativo è avanzata da G. Scaccia, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, cit., p. 116 ss., con specifico riferimento alla legge di attrazione in sussidiarietà legislativa.
[64] L’ “horror vacui” che spinge il legislatore statale a riempire l’intero ambito materiale, anche oltrepassando i confini della riserva di principi fondamentali a lui spettanti, è sottolineato da A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle norme. Un percorso costituzionale, Napoli, 2011, p. 51, all’interno di una più ampia trattazione volta a dimostrare l’esistenza nel nostro ordinamento di «sistemi strutturalmente predisposti a favorire l’autoapplicabilità delle norme di scopo o di principio “apicali”».
[65] A ritenere, ovviamente, possibile la sostituzione in via legislativa sulla base di tale previsione. Per l’utilizzabilità dell’art. 77 Cost., in tale ipotesi, cfr. E. Gianfrancesco, Il potere sostitutivo, in AA.VV. (a cura di T. Groppi – M. Olivetti), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V2, Torino, 2003, p. 239. Per una ricostruzione del dibattito in materia, cfr. L. Buffoni, La metamorfosi della funzione di controllo nella Repubblica delle Autonomie. Saggio critico sull’art. 120, comma II, della Costituzione, Torino, 2007, che si esprime comunque in senso contrario all’ammissibilità della sostituzione in via legislativa (p. 277 ss.)
[66] Cfr. C. cost. sent. n. 201 del 2012 ed i precedenti ivi richiamati. Cfr. anche la sent. n. 6 del 2013 in tema di distanze legali tra edifici fissata da un decreto ministeriale, oggetto di problematiche considerazioni da parte di R. Chieppa, Deroga alle norme sulle distanze fra le costruzioni tra ordinamento civile e competenza concorrente in materia di governo del territorio: le insidie di una “giurisprudenza consolidata” relativa ad efficacia di decreto ministeriale datato nel tempo, in Giur. cost., 2013, p. 158 ss.
[67] A questo proposito, cfr. di recente C. cost. sent. n. 307 del 2013, criticamente commentata da A. Moscarini, Linee guida statali e legislazione concorrente, in Giur. cost., 2013, p. 4922, che rileva come le linee guida previste dalla legislazione in materia operino, con l’avallo della Corte, quali norme interposte per l’individuazione dei principi fondamentali in grado di vincolare la Regione, con effetto sostanzialmente autorizzatorio per il legislatore regionale.
[68] V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., p. 13 s.
[69] Dovendo quindi la Corte farsi carico dell’arduo compito di individuare il discrimine tra scelta tecnica e scelta politica. Le oscillazioni della Corte costituzionale al proposito sono evidenziate da A. Iannuzzi, Sull’apparente irrilevanza della tecnica nella giurisprudenza costituzionale più recente, in AA.VV. Studi parlamentari e di politica costituzionale. In onore di Nicola Greco, vol. 2, p. 33 ss. (anche in Federalismi.it., n. 7/2012). La sent. n. 11 del 2014 della Corte costituzionale offre ora elementi di maggiore chiarezza, precisando che le “linee guida” in materia di energia del d.m. 10 settembre 2011 costituiscono atti di normazione secondaria i quali, operando in un ambito esclusivamente tecnico, vengono a costituire “un corpo unico” con la disposizione che li prevede. Per essi si impone una procedura partecipativa, soddisfatta, peraltro, dal (mero) parere obbligatorio della Conferenza Stato Regioni. Cfr., ancor più di recente, per l’esplicito riconoscimento della natura di “principi fondamentali” alle linee guida previste dal d. lgs. n. 387 del 2003, la sent. n. 189 del 2014. In termini analoghi, anche se meno espliciti, cfr. la sent. n. 199 del 2014.
[70] Cfr., a questo proposito, C. cost., sent. n. 134 del 2006 e, prima ancora, la sent. n. 88 del 2003.
[71] Per il rapporto di integrazione tra la legge statale (ex art. 117, secondo comma, lett. m)) che fissa principi e criteri direttivi in tema di Lep e la “normazione secondaria (di natura prevalentemente “tecnica”), anch’essa statale ma concertata con le Regioni, cfr. A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle norme, cit., p. 101 ss., che evidenzia la prudenza della Corte costituzionale a muoversi su di un delicato confine tra diritto, politica (e tecnica, si può aggiungere...). L’A. richiama alcuni casi in cui la Corte ha escluso la necessità della previa concertazione con le Regioni per la fissazione dei Lep (p. 103, nota 32).
[72] Sul quale, nell’esperienza del primo regionalismo, cfr. A. D’Atena, La crisi della legge regionale, ora in Id. Costituzione e Regioni. Studi, cit., p. 232 ss., anche se con principale riferimento alla – ormai scomparsa – funzione di indirizzo e coordinamento. Per una critica alla sua trasferibilità nel sistema successivo alla riforma del 2001, cfr. S. Mabellini, La potestà legislativa regionale, cit., p. 206 ss.
[73] Sul punto, per riferimenti alla recente giurisprudenza costituzionale, si rinvia a F. Corvaja, La potestà concorrente, tra conferme e novità, cit., p. 322 ss.
[74] In questi casi la procedimentalizzazione della clausola di supremazia (meglio ancora se accompagnata da un vero e proprio onere di motivazione legislativa) consente di specificare in modo sufficiente il contenuto delle nozioni di “unità giuridica” ed “unità economica”, rendendone più agevole l’eventuale verifica in sede contenziosa.
[75] A. D’Atena, Legge regionale (e provinciale), cit., p. 173. Sul significato del limite dell’interesse nazionale nell’esperienza del primo regionalismo italiano, cfr., recentemente, F. Giuffrè, Unità della Repubblica e distribuzione delle competenze nell’evoluzione del regionalismo italiano, Milano, 2012, cap. II.
[76] Lo riconosce G. Scaccia, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, cit., p. 95, con specifico riferimento ad una pregnante attuazione del principio di unità (sc. politica) quale è la legge di attrazione in sussidiarietà legislativa. Dietro il principio di unità richiamato dall’A. è difficile non scorgere una declinazione aggiornata dell’interesse nazionale. Più esplicito F. Giuffrè, Unità della Repubblica e distribuzione delle competenze nell’evoluzione del regionalismo italiano, cit., il quale ritiene il limite dell’interesse nazionale operante anche nel titolo V riformato del 2001 e visibile nella competenza ripartita, ancorché “entro la cornice dei principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale collaborazione, allo scopo di non ricadere nella superata visione gerarchica del principio unitario” (p. 109). Per un caso in cui è la stessa Corte costituzionale a collegare il principio fondamentale all’interesse nazionale, cfr. sent. n. 255 del 2013.
[77] Rinvio, al proposito, a quanto già espresso in E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), cit., p.11 ss.
[78] Emendamento n. 26.1000, presentato dai Senatori Calderoli e Finocchiaro.
[79] Cfr. l’intervento della Sen. Finocchiaro nella seduta del 6 agosto 2014 (Resoconto stenografico della seduta, p. 178).
[80] Art. 117, secondo comma, lett. p) Cost.
[81] Rinvio, sul punto, a E. Gianfrancesco, Il sistema elettorale regionale ed i suoi sottosistemi, in AA.VV. (a cura di S. Mangiameli), Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, cit., p. 361 ss. Per una ricognizione aggiornata della materia elettorale regionale e dei problemi riscostruttivi che la caratterizzano, cfr. ora G. Perniciaro, Autonomia politica e legislazione elettorale regionale, Padova, 2013.
[82] Cfr., sul punto, le considerazioni di S. Mangiameli, Prime considerazioni sulla tecnica del riparto delle competenze legislative nel nuovo disegno di legge costituzionale di revisione del Titolo V, in Forumcostituzionale.it. (27 maggio 2003), con riferimento al progetto di revisione costituzionale approvato nella XIV Legislatura e poi bocciato in sede di referendum confermativo ex art. 138 Cost.
[83] Art. 117, secondo comma, lett. u) Cost.
[84] Anche se può essere utilmente tentata un’interpretazione volta a salvaguardare in capo alle Regioni i profili più strettamente attinenti all’amministrazione della sanità ed ai modelli di servizio sanitario, come nel caso austriaco in precedenza ricordato.