AVVERTENZA: Relazione al Convegno dal titolo "Beni pubblici e servizi sociali in tempi di sussidiarietà" (Urbino 9-10 novembre 2006).
 
Sommario:
 
 
1.         Il problema dell’ambiguità della nozione di sussidiarietà. – È sempre gradito l’invito a parlare di un tema, come quello della sussidiarietà, al quale ci si accosta ogni volta con grande difficoltà e attenzione. I temi difficili rappresentano una sfida per la capacità di comprensione dell’uomo e la complessità della sussidiarietà risiede nella sua intrinseca ambiguità, da cui sono sorti una ampia serie di equivoci.
La sussidiarietà, come regola di condotta dell’etica sociale, è piana nella sua formulazione tradizionale, anche se sarebbe più corretto utilizzare il plurale e cioè: nelle sue formulazioni tradizionali, ma ardua nella sua applicazione concreta, soprattutto quando assume veste giuridica.
Di qui la circostanza che l’utilizzazione della nozione di sussidiarietà avvenga spesso in una chiave ideologica che, a conti fatti, pare proprio non essere la chiave di lettura giusta per una siffatta problematica.
Nella sintesi di Cantaro con cui ha posto le problematiche della sussidiarietà emergono le due domande del convegno.
La prima è: perchè oggi, proprio oggi, il principio di sussidiarietà suscita tante attenzioni, speranze e talvolta preoccupazioni? Perchè, insomma, viviamo in tempi di sussidiarietà verticale e di sussidiarietà orizzontale?
La seconda domanda è: che implicazione ha il vivere in tempi di sussidiarietà sul regime o sullo statuto dei beni pubblici e dei servizi sociali? Cosa cambia, cosa può o deve cambiare per il pubblico, per il privato e per i fruitori di questi beni e servizi?
Ecco, già il fatto che il convegno partiva con due domande pone chi interviene di fronte ad una alternativa: se trattare di più il tema di ordine – diciamo così – teorico, del perchè viviamo in tempi di sussidiarietà; o se saltare tutta la problematica concettuale e andare direttamente a vedere i prodotti della sussidiarietà nel nostro ordinamento.
Ora, in questa sede, piuttosto che affrontare entrambe le questioni, così come si potrebbe essere spinti dalle suggestioni del tema, occorre procedere ad una scelta e, da questo punto di vista, si opta per la seconda prospettiva, anziché per la prima, per una ragione molto semplice: perchè parlando anche della concretizzazione della sussidiarietà si potranno affrontare questioni teoriche sul tema considerato, che può non essere inutile sottolineare.
Occorre premettere che il tema della sussidiarietà in Italia ha una vicenda molto anomala, basti considerare che la letteratura giuridica italiana ha prodotto, sul tema della sussidiarietà, un solo articolo del 1956-57 di Egidio Tosato, dopo di che vi è un silenzio assoluto sul principio di sussidiarietà, sino all’indomani del Trattato di Maastricht, allorquando la dottrina italiana la scopre come una novità (sulle vicende della sussidiarietà nel nostro ordinamento v. ora A. D’Atena, Il principio di sussidiarietà, in Lezioni di Diritto costituzionale, 2. ed., Torino 2006, 81 ss.).
Non è che fossero mancati studiosi che conoscessero il significato etico della nozione, o che questa in una qualche misura non fosse stata in grado di agire in sede legislativa. Tutti ricorderanno che Dossetti, senza successo, ne aveva propugnato la costituzionalizzazione in sede di Assemblea costituente e che, per quanto con modalità del tutto peculiare, l’intero istituto regionale, dovuto in Costituente alla scrittura di Costantino Mortati, è intriso di meccanismi di sussidiarietà, o che in questa chiave si prestavano da subito ad essere letti.
Chi ha avuto la ventura di incontrare il tema della sussidiarietà, studiando il diritto comparato, però, sa che la nozione appartiene a quella categoria di concetti che più di altre hanno avuto un peso nelle elaborazioni della teoria dello Stato e per almeno due versanti: in primo luogo, la sussidiarietà ha trovato il suo campo di applicazione nella teoria dello Stato federale, dove, a partire dal saggio del 1934 di Adolf Merkl, sul contenuto costituzionale dell’enciclica “quadragesimo Anno” (Der staatsrechtliche Gehalt der Enzyklika »Quadragesimo Anno«, in Zeitschrift für öffentliches Recht 1934, 208 ss.), è diventato un parametro per la valutazione del riparto delle competenze all’interno degli Stati federali, in modo particolare di quelli di tradizione continentale; analogo contenuto si rinviene, peraltro, nel canone che valuta il riparto delle funzioni sulla base degli effetti territoriali degli atti di esercizio della competenza, dovuto alla teoria dell’analisi economica del diritto (v., in particolare, R. A. Poster, Economic analysis of law, Boston Toronto, 2nd ed., 1977, 489 ss.), che ha fatto da sponda anche alle necessità concrete di superare il federalismo duale nell’esperienza americana.
In secondo luogo, il principio di sussidiarietà ha trovato una concreta applicazione nella crisi dello Stato sociale, dovuta ai processi di integrazione sopranazionale e di internazionalizzazione dell’economia, come risposta alle ricostruzioni delle teorie neoliberiste, in quanto la teoria dello “Stato sociale sussidiario” si pone certamente al di là dei modelli di “Stato-Moloc” realizzatisi con il paralizzante assistenzialismo statuale, ma non affida la dinamica sociale e i principi che la governano, come la valorizzazione del merito e della competizione, ad una deregolamentazione generalizzata del mercato, ed anzi richiede strumenti di controllo dell’economia più sofisticati che consentano di trarre tutti i benefici delle intraprese private senza, tuttavia, dimenticare i compiti di solidarietà e di promozione della persona umana che presiedono alla stessa formazione dello Stato moderno e del costituzionalismo (v. in proposito il nostro Appunti sullo Stato sociale sussidiario, in Teoria del Diritto e dello Stato, n. 2, 2002, 235).
 
 
2.         Lo sviluppo normativo e la prassi del principio di sussidiarietà nell’ordinamento italiano: la sussidiarietà verticale e i rapporti tra i diversi livelli di governo. – Queste due prospettive della sussidiarietà (quella verticale che attiene al riparto dei compiti tra i diversi livelli di governo dell’ordinamento e quella orizzontale che fa riferimento alla distinzione dei compiti tra lo Stato e la società) finiscono con l’intrecciarsi continuamente e proprio il tema dei beni pubblici e dei servizi sociali, per le questioni che implicano, ne sono la dimostrazione più evidente.
Ne è testimonianza la riforma del Titolo V, in cui la sussidiarietà diventa un elemento di relazione, per l’allocazione e l’esercizio delle funzioni amministrative (art. 118, comma 1, e art. 120, comma 2, Cost.) e per i rapporti tra gli apparati pubblici e i singoli cittadini, gli utenti dei servizi, ecc. (art. 118, comma 4, Cost.), che alle sue spalle aveva una prima formulazione del principio contenuta nell’art. 4, comma 3, lett. a, della legge n. 59 del 1997; questa disposizione, infatti, tra i principi fondamentali, relativi al conferimento delle funzioni amministrative, includeva “il principio di sussidiarietà, con l’attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”.
Già il processo storico mostra una certa concatenazione nella discussione sul principio di sussidiarietà tra la trasformazione dello Stato sociale e il tentativo di accentuazione del decentramento istituzionale.
Ma questa osservazione è tutt’altro che esaustiva e, soprattutto, non deve trarre in inganno sulla reale portata del principio in discorso. Infatti, anche se le dichiarazioni normative di accoglimento del principio di sussidiarietà si sono diffuse nell’ordinamento, soprattutto per effetto degli statuti regionali approvati sulla base del nuovo art. 123 Cost., non solo la prassi nell’esercizio delle competenze, da parte dello Stato e delle Regioni, non ha dato luogo sinora ad alcuna prossimità ai cittadini e, tanto meno, a forme di favore “per l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”, ma soprattutto si sono realizzate, negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della riforma costituzionale, delle vere e proprie forme di ricentralizzazione delle competenze e l’arresto confuso dei procedimenti di privatizzazione dei servizi nazionali e locali con un duplice nocumento per gli utenti, chiamati a sopportare gli effetti di una amministrazione dissestata, non in grado di erogare servizi di qualità, e a pagarne i costi con tariffe sopra la media europea e un prelievo fiscale così alto da essere avvertito sempre più come ingiusto dalla generalità dei cittadini.
In particolare, è stata seguita quella interpretazione della sussidiarietà verticale, già sperimentata in ambito europeo, che consente ai livelli di governo centrali di esercitare competenze che le disposizioni costituzionali avevano espressamente affidato alla cura dei livelli locali. Dopo la riforma del Titolo V, per opera della giurisprudenza della Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza 303 del 2003, la sussidiarietà è diventata una parola magica che consente allo Stato e al legislatore statale di appropriarsi delle competenze legislative delle regioni e delle funzioni amministrative anche locali; l’istituto della cosiddetta “chiamata in sussidiarietà”, inventato dalla Corte Costituzionale, serve a derogare in modo ascendente il riparto di competenza scritto nella Costituzione nel 2001, analogamente al principio di sussidiarietà dell’art. 5 TCE, come introdotto con il Trattato di Maastricht. Quel principio veniva inserito nel Trattato dopo un lungo processo di centralizzazione di compiti in capo alla Comunità e a discapito degli Stati membri, protetto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che aveva consentito sempre alla Comunità di dichiararsi competente per oggetti per i quali nel Trattato mancavano fondamenti normativi chiari. Con la previsione espressa della sussidiarietà europea la sfera di competenza della Comunità finiva con il coincidere con quella degli stati membri. Questa, infatti, veniva prevista in connessione con la competenza concorrente con gli Stati membri (“nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”).
Questo modello di sussidiarietà, ovviamente, destava subito molteplici preoccupazioni, riassunte successivamente nelle dichiarazioni sull’avvenire dell’Europa. In ragione di ciò, si è cercato da subito di porre rimedio ad una formulazione così dilatata della sussidiarietà: già con il Trattato di Amsterdam, con il protocollo aggiuntivo, si è cercato di procedimentalizzare la sussidiarietà europea nel tentativo, attraverso il principio di prossimità, di contenere l’effetto traslativo verso l’alto delle competenze, che destabilizzava il rapporto tra Stati membri e Comunità europea; successivamente, la disciplina della Costituzione europea ripercorre interamente il modello pregresso della sussidiarietà (art. I-11.3 TC), aggiungendovi un peculiare (e farraginoso) controllo dei parlamenti nazionali sull’applicazione del principio, in grado – in determinate condizione – di giungere sino alla paralisi dell’azione sussidiaria europea.
Nell’ambito statale, diversamente dalle previsioni europee, non sussiste la possibilità, per i poteri regionali e locali, di arrestare la c.d. “chiamata in sussidiarietà”, limitandosi le garanzie apprestate dalla giurisprudenza costituzionale a forme di partecipazione in sedi collegiali, ispirate al principio della leale collaborazione, che tuttavia non assicurano una giusta compensazione tra i diversi livelli di governo nell’esercizio delle competenze.
In ragione di ciò, la stessa riforma del Titolo V della Costituzione, che contiene alcuni principi particolarmente significativi dal punto di vista della prossimità, prima ancora che della sussidiarietà, come il rovesciamento dell’enumerazione delle materie, la clausola di asimmetria a favore delle Regioni, la generalità dei compiti affidati ai Comuni, il riconoscimento ai Comuni e alle Province di funzioni proprie, la riserva di regolamento locale per la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni attribuite a Comuni e Province, i principi dell’art. 119 sull’autonomia finanziaria dei diversi livelli di governo e sul compito perequativo e promozionale dello Stato, sembra non solo inattuata, ma ormai ampiamente inefficace.
 
 
3.         Segue: la sussidiarietà orizzontale e la vicenda dei servizi pubblici. – Se si guarda alla sussidiarietà sul versante dei rapporti tra apparati pubblici e cittadini - utenti, cioè a quella che viene definita la sussidiarietà orizzontale, i risultati cui sembra essere pervenuto l’ordinamento, anche in questo caso, non sono (ancora) quelli auspicati, anzi le difficoltà che sono nate dalle c.d. privatizzazioni e liberalizzazioni, mettono in evidenza come queste in molti casi sono state trasformazioni fittizie e che in realtà non hanno comportato una situazione di maggiore efficienza, di minor costo, di prossimità del servizio o di socializzazione dei beni di interesse pubblico.
Le formulazioni della sussidiarietà, nella legislazione e nel Titolo V revisionato, venivano scritte all’indomani di una stagione in cui il processo delle privatizzazioni e della ristrutturazione dei grandi complessi industriali in mano pubblica aveva avuto già una certa realizzazione con la legislazione della prima metà degli anni ’90.
Accanto alle trasformazioni dell’intervento dello Stato nell’economia, poi, si era posta anche la problematica dei servizi pubblici locali, per la cui gestione il legislatore del 1990 (art. 22 della legge n. 142 del 1990) aveva adottato una soluzione tradizionale, entrata senza modifiche nell’art. 113 del Testo Unico dell’ordinamento sugli enti locali (D. Lgs. n. 267 del 2000), che aveva fatto sorgere alcune questioni, prima in ambito europeo (con una procedura d’infrazione nei confronti dello Stato italiano), poi in ambito nazionale (per via del nuovo riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni) e di qui la modifica della disposizione una prima volta con l’art. 35, comma 1, della legge n. 448 del 2001 (finanziaria 2002) e successivamente con D.L. n. 269 del 2003, conv. in Legge n. 326 del 2003, cui si è aggiunta – per il versante interno – la pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 272 del 2004).
Le forme seguite, a fronte della salvaguardia della titolarità pubblica delle reti, dei beni e delle risorse pubbliche, sono state essenzialmente due: da un lato, la trasformazione dei soggetti gestori dei servizi pubblici, con l’assunzione della forma della società di capitali e la lenta cessione delle azioni al mercato; dall’altro, la caduta di situazione di monopolio legale e la possibilità, perciò, dell’ingresso di altri operatori (privati) nei diversi settori considerati. Nel caso in cui il numero dei gestori è stato limitato, per particolari condizioni tecniche, o addirittura ricondotto ad una condizione di monopolio o di oligopolio territoriale, la tutela dell’interesse pubblico è stata affidata alla procedura di selezione mediante gara ad evidenza pubblica e, nei confronti delle gestioni medesime sono stati attivati controlli, attribuiti ad appositi organismi posti in posizione di indipendenza dall’esecutivo, composti sulla base di criteri tecnici e chiamati ad agire in modo politicamente neutrale.
Il limite maggiore è stato dovuto alle modalità di realizzazione delle privatizzazione e delle liberalizzazioni, i cui effetti, in genere, non sono stati adeguatamente calcolati, sia per quanto riguarda la necessità, o meno, della trasformazione, e sia per quanto riguarda gli assetti aziendali e di mercato. Si è realizzato, così, sostanzialmente uno stravolgimento dell’agire secondo sussidiarietà.
In modo particolare, a livello nazionale, per i grandi servizi, come poste, comunicazioni, ferrovie, linee aeree, autostrade, energia e gas si è pensato ai beni pubblici e, in particolare, alle reti come a qualcosa da sfruttare, piuttosto che come ad uno strumento posto al servizio dei cittadini che, perciò, richiedeva cure e investimenti. L’idea dello sfruttamento, peraltro, è appartenuta tanto agli apparati pubblici, che ritenevano così di risolvere i problemi di cassa dello Stato, quanto ai privati gestori, che hanno visto nei servizi pubblici, per via del cash flow generato dalle tariffe, un ottimo strumento per accumulare liquidità. Il prezzo di questa operazione di sfruttamento, ovviamente, è stata pagata dagli utenti, il cui livello di tutela si è di molto abbassato.
È noto come l’intera vicenda sia legata alla condizione della finanza pubblica all’indomani della sottoscrizione del Trattato di Maastricht e, in particolare, ai condizionamenti del debito pubblico italiano, che hanno reso non sostenibile, dal punto di vista finanziario e di bilancio, la gestione dei servizi pubblici, caratterizzata da ingenti perdite che obbligavano lo Stato a ripianare i relativi bilanci.
A questo aspetto, di per sé rilevante, se ne aggiunge un secondo, non meno importante: la condizione del patrimonio pubblico e delle reti. Questi, infatti, oltre ad una manutenzione continua, per effetto dell’innovazione tecnologica, richiedevano ingenti investimenti per migliorare la qualità dei servizi e ridurre i costi complessivi della gestione. Di qui la tensione tra la condizione delle reti e del patrimonio pubblico e quella di non sostenibilità della finanza pubblica: la prima che richiedeva imponenti investimenti e la seconda che risultava impossibilitata a fornire i capitali necessari.
La soluzione della questione venne individuata nel processo di privatizzazione, secondo alcune indicazioni provenienti dal diritto europeo, che aveva decretato la caduta dei monopoli legali e la liberalizzazione di determinati settori. Già qui si sono determinati i primi inconvenienti, per via della mancanza di selettività tra i diversi tipi di servizio, per la loro disciplina da parte della Comunità e per le diverse condizioni economiche che lo caratterizzavano.
La privatizzazione veniva identificata, in primo luogo, con la trasformazione della veste giuridica, una attività, tanto inutile, quanto costosa: inutile, perché, dal punto di vista del diritto europeo, la forma giuridica di un soggetto, rispetto alla qualificazione dell’organismo di diritto pubblico, non ha valore e, dal punto di vista del diritto interno, perché giustamente la Corte costituzionale, con la sentenza n. del 1993, decise che con la formale trasformazione del soggetto non venivano meno le esigenze di controllo di tipo pubblicistico esercitate dai magistrati della Corte dei conti; costosa, infine, perché da quella trasformazione dei soggetti si sono generati ulteriori costi, mentre la questione degli investimenti restava insoluta.
Per alcuni settori, come quello delle autostrade, dopo che l’Anas assumeva la veste di società per azioni, conservando la proprietà dei beni, si ritenne di poter risolvere la questione attraverso la concessione della gestione della rete autostradale a privati, selezionati attraverso gare ad evidenza pubblica. L’oggetto della gara non era solo la gestione del servizio, dietro corrispettivo di un canone, ma anche l’implementazione della rete con un piano di investimenti programmati che sarebbero stati ripagati dagli utenti attraverso una politica di aumento delle tariffe; al titolare dei beni spettava il controllo degli investimenti e l’autorizzazione ad effettuare gli aumenti tariffari.
A prescindere dai profili penalistici, che qui non rilevano, questo modello ha comportato di fatto la formazione di veri e propri monopoli privati, che hanno consentito – grazie al forte potere espresso dai trusts interessati – di ottenere i vantaggi delle concessioni (gli aumenti tariffari) a fronte di un impegno industriale (gli investimenti sulla rete autostradale) non in linea; la qualcosa si è trasformata in una condizione di privilegio del privato, rispetto al pubblico e agli interessi degli utenti.
È inutile negare questi fatti, né può rappresentare un argomento le difficoltà di trovare dei partner adeguati per queste iniziative. In via di principio, la tendenza è che sotto questa etichetta delle privatizzazione non si è ancora realizzata una sussidiarietà orizzontale.
Questioni in parte analoghe emergono nel caso dei beni e dei servizi pubblici locali (servizi sociali, luce, acqua, gas, rifiuti, trasporti, ecc.). Infatti, anche in questo ambito, in cui le riforme non sono più procrastinabili, si oscilla fortemente tra la tendenza a mantenere gli assetti attuali, con ingenti oneri a carico dei bilanci degli enti locali e una scarsa soddisfazione dell’utenza, e quella, opposta, ad una liberalizzazione totale, senza una preventiva valutazione di merito in ordine alla natura del servizio, alla condizione dei beni e delle reti locali, alle politiche tariffarie e sociali e alla salvaguardia dei diritti degli utenti. Anche in ambito locale il pericolo di dare vita a forme di rendita e di potere privato è molto forte. Di qui l’aspra polemica che tocca il ddl AS/772, presentato dal governo in carica, per il riordino dei servizi pubblici locali, che vede la stessa maggioranza parlamentare profondamente divisa. Anche in questo caso sussiste il concreto pericolo che non si realizzi alcuna forma di sussidiarietà orizzontale.
 
 
4.         Introduzione ai canoni di valutazione dell’agire sussidiario: nell’esercizio delle funzioni tra i diversi livelli di governo. – Allora, qualcuno potrebbe pensare che, di fronte agli effetti concreti prodottisi nel tentativo di decentrare il sistema delle funzioni e di affidare alla società civile dei compiti di interesse generale, la sussidiarietà sia giuridicamente inafferrabile, se non addirittura solo in grado di generare istituti e condotte contrarie alla sue proclamazioni etiche e sociali, in quanto ad essa potrebbero ascriversi una forte tendenza centralistica, nell’ambito dei rapporti tra i diversi livelli di governo, e una minaccia dei diritti di cittadinanza, nei rapporti tra gli apparati pubblici e l’economia di mercato basata sull’azione dei privati.
In realtà così non è per un ovvio motivo, perché le realizzazioni storiche del decentramento istituzionale e sociale italiano ben poco hanno inverato del principio sussidiarietà. Sussiste, perciò, la possibilità che quanto sin qui prodotto dall’ordinamento italiano, in termini di decentramento istituzionale e sociale, possa essere valutato secondo i canoni della sussidiarietà, fornendo una simile considerazione delle questioni la comprensione dei processi e degli strumenti per le correzioni necessarie. L’agire sussidiario è, da questo punto di vista, un canone scientifico che tecnicamente richiede alcune premesse e realizza determinate conseguenze.
La sussidiarietà, quale regola giuridica dei rapporti tra i diversi livelli di governo e tra questi e la società, non è più una questione ideologica, che deve considerarsi risolta dalla decisione assiologia compiuta dal costituente, ma va considerata necessariamente con l’atteggiamento pragmatico proprio delle scienze pratiche. Di conseguenza, il discorso dell’agire sussidiario dello Stato deve rifuggire la logica dello statalismo, che ha connotato la formazione dello Stato-Moloc, e quella dell’individualismo, che ha caratterizzato le spinte neoliberiste; entrambe non si pongono nel contesto della decisione della Costituzione di fare della sussidiarietà un principio di struttura dello Stato.
Per comprendere come bisogna riformare la Repubblica, i suoi apparati pubblici, occorre muovere dalla condizione in cui questi si trovano e comprendere quali sono i compiti che essi disattendono. Da questo punto di vista, appare decisiva la considerazione che lo Stato, inserito in un contesto di integrazione sopranazionale e di internazionalizzazione dell’economia, può tutelare gli interessi nazionali e quelli generali della comunità, rappresentando i primi nelle sedi europee e internazionali dove si assumono le decisioni sulla collocazione degli stati nello scenario della globalizzazione e tutelando i secondi nella realtà nazionale, controllando le azioni individuali e collettive, sanzionando quelle negative e promuovendo quelle positive. Lo Stato deve fare meno di quel che faceva prima, ma soprattutto deve fare diversamente da quel che ha sin qui fatto, in quanto è cambiata la responsabilità che sopporta di fronte alla società; e proprio per questo l’agire sussidiario è diventato rilevante giuridicamente ed è una condizione necessaria, ma non l’unica, dello Stato.
In particolare, occorre pensare alla sussidiarietà come ad uno degli strumenti concreti insieme agli altri che caratterizzano l’azione pubblica, giacché esso non esaurisce i modi dell’intervento pubblico necessario per conservare e per tutelare e garantire i diritti fondamentali.
Così, non appare conforme all’agire sussidiario – nei rapporti tra i diversi livelli di governo – la circostanza che si ricorra immediatamente al potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali, senza verificare il grado di realizzazione dell’interesse pubblico attraverso forme associate, e neppure soddisfa il principio di sussidiarietà una partecipazione formale alle decisioni, assunte per effetto del trasferimento di compiti locali in sede nazionale. La teoria dello Stato federale ha storicamente, per prima, metabolizzato i canoni di valutazione nascenti dal principio di sussidiarietà e anche il legislatore di revisione costituzionale del 2001 si è avvalso di questa esperienza, adottando delle disposizioni in tal senso, per quanto non ancora attuate. In particolare, ha considerato l’azione coordinata delle Regioni (“la legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni” - art. 117, comma 8, Cost.) e ha contemplato un particolare sistema di partecipazione di rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali all’esercizio della funzione legislativa, prevedendo che “quando un progetto di legge riguardante le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e all’articolo 119 della Costituzione contenga disposizioni sulle quali la Commissione parlamentare per le questioni regionali, integrata [dai rappresentanti regionali e locali], abbia espresso parere contrario o parere favorevole condizionato all’introduzione di modificazioni specificamente formulate, e la Commissione che ha svolto l’esame in sede referente non vi si sia adeguata, sulle corrispondenti parti del progetto di legge l’Assemblea delibera a maggioranza assoluta dei suoi componenti” (art. 11 Legge cost. n. 3 del 2001).
 
 
5.         Segue: nell’uso dei beni pubblici e nell’attività di servizio pubblico, nei rapporti verticali e in quelli orizzontali. – Da queste premesse discendono anche le considerazioni che servono a comprendere i rapporti verticali nelle gestioni dei servizi e dei beni pubblici che dipendono dai poteri locali.
In primo luogo, la regola secondo cui i servizi pubblici locali non possono essere interamente finanziati con le risorse provenienti da una finanza derivata a favore degli enti locali; uno schema siffatto non ubbidisce al principio di sussidiarietà, nonostante lo spostamento di risorse verso il basso, perchè la finanza derivata genera una spesa non controllabile, l’amministratore locale spende, sapendo che la comunità per la quale spende non individua in lui il percettore di un certo reddito prodotto dalla comunità medesima.
È chiaro che in determinate circostanze alcune comunità non sono in grado di organizzare e gestire dei servizi, per insufficienze di reddito e di sviluppo, anche in questo caso il semplice spostamento delle risorse da un territorio (con maggiore gettito fiscale) ad un altro non rappresenta una condotta di tipo sussidiario.
I servizi, pertanto, tutti i servizi andrebbero finanziati con risorse trasparenti dei quali gli utenti e i gestori hanno contezza e l’uso di queste risorse diventa controllabile, se si crea una attenzione tra il prelievo e la spesa. Pertanto, non basta erogare una qualunque prestazione, ma occorre che nell’erogazione delle prestazioni ci sia questo stretto collegamento tra il prelievo della risorsa e la spesa, così come tra la comunità e il gestore.
La questione, ovviamente, tocca tanto il sistema tariffario, quanto quello fiscale, ma anche quello perequativo. Infatti, anche nei casi di interventi esterni, secondo canoni perequativi e solidali, che possono essere orizzontali, se ad effettuarli sono altre comunità pari ordinate, oppure verticale, se invece vengono demandati allo Stato, la comunità sussidiata (ma analogo discorso vale anche per gli utenti che accedono al servizio sussidiato) deve corrispondere all’intervento ricevuto in modo responsabile, dal momento che l’azione sussidiaria non è una sostituzione di quanto la comunità stessa avrebbe dovuto produrre, che altrimenti sarebbe una forma di assistenzialismo, ma semplicemente un incentivo a promuovere la propria comunità e, perciò, anche il comportamento di chi ha ottenuto un vantaggio dall’agire sussidiario deve sopportare un giudizio, con le sue conseguenze, anche in termini di controlli e, persino, di sostituzione nell’esercizio delle relative funzioni.
Così, peraltro, era in origine, quando il prelievo fiscale locale ha consentito, prima con la legge n. 103 del 1903 e, successivamente, con il regio decreto n. 2578 del 1925, di infrastrutturare il nostro Paese; i comuni e le province organizzavano i servizi generali della comunità e le prestazioni individuali, istituivano scuole, davano vita ad ospedali, a volte anche con il contributo di privati, gestivano la protezione civile, assicuravano condizioni di vita sociale e tutti i servizi che potevano essere finanziati sulla base delle vincoli di bilancio. Ciò, peraltro, non impediva allo Stato di effettuare nel territorio degli interventi di carattere sussidiario.
Nella gestione dei servizi e dei beni pubblici, che toccano i rapporti verticali tra i diversi livelli di governo, pertanto, la sussidiarietà presuppone l’esistenza di un sistema finanziario (e di finanziamento) correlato ai servizi pubblici, che realizzi una corrispondenza tra il livello della gestione e quello del prelievo e, se sussiste una certa autosufficienza finanziaria, la gestione realizza anche una trasparenza della condotta degli amministratori, necessaria per il giudizio di responsabilità degli utenti e per quello di responsabilità politica dei cittadini; se invece non si versa in una condizione di sufficienza finanziaria ed è necessario un intervento sussidiario la medesima trasparenza si ha aggiungendo al circuito che rende confrontabile la gestione anche un sistema di controlli da parte dell’autorità sussidiarie. In un quadro siffatto, perciò, sicuramente non si richiede più un sistema fiscale centralizzato, il quale – da solo e di per sé – realizzerebbe un divario che comporterebbe una perdita di controllo e un venir meno della responsabilità della classe dirigente locale nei confronti degli amministrati, ma neppure un sistema fiscale che non sia in grado di affrontare con autorevolezza la materia della perequazione.
Più complesso è lo sviluppo dei canoni dell’agire sussidiario nel caso dei rapporti tra gli apparati pubblici (dei diversi livelli) e la società. Anche in questo caso la chiave di lettura deve essere molto concreta, tenendo conto che l’agire sussidiario implica una cessione della gestione a favore dei privati, ma non una rinuncia a realizzare i fini generali della comunità e a salvaguardare i diritti fondamentali.
In tal senso, si deve individuare un agire sussidiario, come una necessità, solo in presenza di determinate condizioni o presupposti, senza che si sovrapponga ad altri modelli di azione pubblica in senso subiettivo (gestione diretta) o in senso oggettivo (concessione a privati).
Sussidiario è da questo punto di vista ciò che rende una distribuzione di risorse pubbliche (beni e servizi), oltre che efficiente ed economica, anche effettivamente controllabile e responsabile, in quanto si tratta di risorse limitate a fronte di una larga richiesta.
In modo particolare, una distribuzione controllabile e responsabile deve servire a soddisfare i bisogni degli individui che si sottendono ai diritti fondamentali; giuridicamente parlando: la distribuzione sussidiaria realizza quelle pretese irrinunciabili per l’integrità della persona, impedendo che la soddisfazione dei bisogni individuali e sociali si inscriva in una relazione di potere (privato) e di dipendenza. Infatti, chi è in condizione di soddisfare un bisogno individuale o sociale è più forte della persona o della comunità assistita; e la capacità di soddisfare questi bisogni, perciò, può creare una situazione, da un lato, di potere e, dall’altro, di dipendenza. Per evitare ciò occorre che si inserisca – ed è qui l’essenza della sussidiarietà orizzontale – l’azione dell’autorità pubblica volta ad assicurare il rispetto delle legittime pretese individuali e sociali e la loro concreta soddisfazione.
Il modello organizzativo concreto dell’agire sussidiario nelle relazioni di tipo orizzontale, perciò, deve ponderare tre elementi: quello dell’efficienza, legato in genere al rispetto delle regole del mercato (all’economicità della gestione); quello del riequilibrio delle condizioni di vita, quanto meno entro una soglia ritenuta irrinunciabile; e quello che consente, sulla base del principio di reciprocità, la promozione dell’individuo, attraverso la realizzazione della c.d. gleiche Chance.
Ne discende che nei rapporti caratterizzati dalla sussidiarietà orizzontale, se la gestione dei servizi pubblici è affidata all’attività privata, in regime di concorrenza, deve essere presente una regolazione, che disciplini e controlli lo svolgimento dell’attività di servizio pubblico, in modo da assicurare la qualità e l’accessibilità del servizio stesso.
Le misure di regolazione, perciò, sarebbero dei limiti necessari al perseguimento degli interessi generali, nel rispetto del principio di proporzionalità, che vuole l’attività privata sottoposta solo a quei limiti strettamente funzionali alla realizzazione dell’interesse pubblico soddisfatto con il servizio.
In questa logica la stessa pubblica amministrazione si configurerebbe come un utente del servizio pubblico. Infatti, se i limiti che vengono apposti all’attività di servizio dovessero configurarsi non come modalità generali, ma come veri e propri obblighi di servizio pubblico, imposti ai gestori privati e tali da impedire la copertura dei costi e l’utile di impresa, al contratto di servizio dovrebbe accompagnarsi anche l’obbligo della corresponsione di un canone di servizio da inscrivere nel bilancio pubblico.
È evidente, però, che quanto sin qui esposto appare accettabile solo nell’ipotesi che sussista un vero e proprio mercato delle prestazioni erogate con i servizi pubblici, oppure dei beni pubblici, il cui godimento è essenziale alla salvaguardia dei diritti fondamentali; e per mercato si deve intendere l’esistenza di un ambito di organizzazione economica nel quale veramente possono intervenire più operatori in regime di concorrenza, di modo che con la concorrenza si determini una gestione efficiente e in grado di assicurare all’utenza il prezzo più basso del servizio o del bene.
Nel caso peculiare dei servizi a rete, o delle reti per accedere all’acquisto di beni pubblici, che determinano la possibilità di avere una utenza, occorre che la rete consenta l’immissione di una pluralità di produttori (o di intermediari) realmente in concorrenza tra di loro. Non tutte le reti offrono tecnicamente una tale opportunità.
Ove questo non accade, e cioè manchi un mercato o la rete sopporta solo un monopolista (o degli oligopolisti), appare problematico affidarsi alla sussidiarietà orizzontale, per lo svolgimento di attività di interesse generale.
In siffatte condizioni la pubblica amministrazione potrà affidarsi ad altri schemi di azioni che, pur prevedendo la partecipazione dei privati, consentano la salvaguardia degli interessi generali attraverso la pubblicizzazione degli stessi.
Anche se il diritto europeo, in tali casi, considera essenziale per la salvaguardia del mercato e della concorrenza l’espletamento della gara ad evidenza pubblica, per attribuire la titolarità del servizio, questo comportamento non costituisce affatto una esplicazione della sussidiarietà orizzontale. La concorrenza del mercato, nel caso della gara, subisce comunque una alterazione per effetto della presenza pubblica e la gara rappresenterebbe solo la procedura che, per la sua obiettività, giustificherebbe proprio questa interferenza sul mercato e serve a controllare la posizione dominante del privato che si determina con l’aggiudicazione.
Diversamente, nel caso dell’azione sussidiaria la concorrenza del mercato non subisce alcuna alterazione, ma solo i limiti di una regolazione posta a salvaguardia di interessi generali; non si procede ad alcuna gara, perché l’attività medesima è stata già demandata al diritto comune, e non si dovrebbe dare alcun tipo di posizione dominante.
Dove sussiste un mercato anche l’impresa pubblica è soggetta alla concorrenza del mercato e più è grande il mercato, più la sua gestione deve essere efficiente ed economica. Questo è il caso del trasporto aereo, nel quale la liberalizzazione del mercato europeo ha segnato una crisi del vettore nazionale, l’Alitalia, che sembra irreversibile. La ragione di questa crisi deriva dalla circostanza che questa impresa è soggetta ad un regime di effettiva concorrenza e la sua organizzazione aziendale, all’opposto, è ancora strutturata come se per il trasporto aereo vi fosse una situazione di protezionismo nazionale.
Analoga prospettiva sembra aprirsi nel settore dell’energia, anch’esso ormai liberalizzato. In questo produttori e intermediatori operano già in condizioni di concorrenza, ma, per la debolezza dell’apparato di regolazione, non si è raggiunto ancora un livello pienamente efficiente.
Non accade, invece, nel settore del trasporto su rotaia, nel quale – non essendo stato costituito un vero e proprio mercato – la privatizzazione non ha modificato la condizione in cui le Ferrovie dello Stato effettuavano il servizio; a riprova si consideri che le condizioni di questo sono rimaste immutate e la società Trenitalia ha accumulato lo stesso deficit che caratterizzava la gestione dell’azienda delle ferrovie, non è cambiato molto, al di là dell’etichetta.
Detto questo, che tipo di riflessione conclusiva bisogna fare, rispetto al tema della sussidiarietà, su questa problematica dei servizi pubblici erogati e dei beni pubblici dati all’utenza, sia a livello nazionale, che a livello locale?
La considerazione da trarre sembra questa: che la sussidiarietà sicuramente deve determinare un cambiamento di mentalità del pubblico, ci deve essere un atteggiamento diverso da parte dell’amministrazione pubblica verso il mercato, per l’erogazione dei servizi pubblici e la fornitura di beni pubblici. Ma questo cambiamento del modo di pensare non deve precludere all’amministrazione la possibilità di perseguire l’interesse generale in forme diverse dall’agire sussidiario.
Per questo motivo, bisogna guardare alle condizioni dei singoli servizi e dei singoli settori economici, per comprendere se effettivamente – anche con l’azione pubblica – si è creato un mercato che possa agire in modo concorrenziale. Solo in questa ipotesi la scelta della sussidiarietà da parte della pubblica amministrazione si giustifica.
 
 

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