(Contributo al Seminario L'impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni. La prospettiva italiana, spagnola ed europea, organizzato dall’ISSiRFA-CNR, dalla LUMSA e dall’Università di Macerata e svoltosi a Roma, presso il Dipartimento di Giurisprudenza della LUMSA, il 13 novembre 2014).
 
  
1. Introduzione
2. La situazione anteriore al 2001: evoluzione delle funzioni regionali in materia di istruzione per via legislativa
3. La riforma costituzionale del 2001
4. L’attuazione della riforma costituzionale: resistenze statali e timide fughe regionali
 
1. Introduzione
Il tema dell’istruzione e del sistema pubblico di insegnamento è più che mai al centro del dibattito politico attuale [1]. Nelle strategie del governo in carica la riforma del sistema scolastico è divenuta il preludio di modifiche più profonde del nostro sistema di welfare[2]. L’intervento sulla scuola costituisce il primo passo verso una sistemazione di quei fattori inconciliabili che da sempre frenano la crescita italiana: tradizione e innovazione, contenimento dei costi e investimento, centralizzazione e garanzia dell’autonomia[3].
L’esigenza di adeguare il sistema italiano di istruzione ai cambiamenti socio economici mondiali può considerarsi un fatto antico. Mai come oggi però se ne avverte l’urgenza. L’investimento nelle strutture educative, la valorizzazione del capitale umano, la riflessione continua circa la natura delle competenze e delle conoscenze necessarie alla crescita, assieme al ripensamento stesso delle politiche sull’istruzione sono un fattore indispensabile per lasciarsi indietro la crisi economica e per governare la fase di profonda trasformazione che stiamo attraversando[4].
Nella riforma del sistema nazionale di istruzione in atto non si discute, se non marginalmente, del ruolo regionale. Dietro questa scelta stanno due problemi: da un lato, le difficoltà che emergono quando si tenta di descrivere il fragile quadro delle competenze legislative nel settore istruzione; dall’altro, l’idea che questa materia muterà a seguito della riforma costituzionale in discussione[5].
Se sul destino della riforma nessuno in questo momento è in grado di dare una risposta certa, più utile in questa sede, anche per comprendere come questo assetto si strutturerà in futuro, è ricostruire le vicende che hanno interessato la materia “istruzione” negli ultimi venti anni. Intendere questa evoluzione è doppiamente importante: da un lato, perché il mero cambiamento di una materia-etichetta non è da solo capace di cambiare la realtà interessata[6]; dall’altro, perché i problemi dell’istruzione non sono tutti interni alla materia, ma derivano anche da opacità dell’intero sistema regionale.
Entro questo quadro concettuale l’articolo si svilupperà nel seguente modo. Dopo aver descritto la situazione della materia istruzione nei provvedimenti di decentramento della seconda metà degli anni novanta si passerà all’esame della riforma del 2001 e della sua difficile attuazione. Il lavoro si chiuderà con un’analisi critica della situazione attuale e con un esame dei tentativi di riforma della scuola.
 
2. La situazione anteriore al 2001: evoluzione delle funzioni regionali in materia di istruzione per via legislativa
A metà degli anni ottanta l’Italia si trovava in una posizione del tutto anomala e marginale, estranea agli indirizzi e alle tendenze dominanti nel mondo: il nostro sistema dell’istruzione era ancora “asfissiantemente centralizzato”[7].
Da alcuni anni, infatti, quasi tutti i paesi europei più sviluppati avevano iniziato a mettere in discussione le strutture dei loro sistemi di istruzione, e in particolare la capacità di questi ultimi di rispondere alle profonde trasformazioni del lavoro che si stavano verificando[8]. Se negli anni sessanta e settanta la scuola era stata vista come uno strumento per realizzare una maggiore eguaglianza di opportunità (cioè per costruire la cd. “classe media”), successivamente, nel periodo che va dalla fine degli anni ottanta alla metà degli anni novanta, venne posto l’accento soprattutto sull’efficacia ed efficienza dei sistemi di istruzione, sulla loro produttività e capacità di adattarsi alle riforme del mercato del lavoro[9].
In quel frangente emerse lentamente la consapevolezza che un sistema scolastico accentrato non fosse più in grado di rispondere ai bisogni della produzione oltre che alle nuove domande socio-culturali[10]. Le linee di tendenza generali di questa evoluzione riguardarono due aspetti: a) il decentramento delle strutture amministrative ministeriali, il ruolo più forte delle entità territoriali e il riconoscimento di nuovi spazi di autonomia per le unità scolastiche; b) la riscoperta della necessità di un coordinamento nazionale per garantire un livello adeguato della qualità degli studi.
Nel nostro Paese tali cambiamenti potevano contare su un’ulteriore spinta[11]. La riforma della scuola viaggiava nella scia dei cambiamenti generali riguardanti l’intera amministrazione statale, e dominati dalla logica della “autonomia”[12]. La riforma della scuola era considerata, quindi, come il terreno privilegiato dove comprendere i vantaggi derivanti dal passaggio del monopolio statale dei diritti sociali a una maggiore responsabilizzazione dei livelli territoriali minori.
In questo campo, dopo una prima legislazione che ha riguardato i principi dell’azione, del personale e della finanza, sono stati realizzati una serie di cambiamenti strutturali riguardanti anzitutto i processi organizzativi e le modalità di allocazione delle funzioni. In piena linea con quanto avvenuto in altri paesi europei, il cuore di queste riforme ha riguardato due aspetti tra di loro collegati: da un lato, l’autonomia delle istituzioni scolastiche, intesa come elemento fondamentale per realizzare l’autonomia e la riorganizzazione dell’intero sistema organizzativo secondo una logica pluralistica (ed è quanto è avvenuto grazie alla l. n. 59 del 1997); dall’altro, il superamento del monopolio statale nel campo dell’istruzione, con l’assegnazione alle regioni e agli enti locali di alcune competenze sulla programmazione del sistema scolastico, in modo da conferire al nuovo modello di distribuzione delle competenze anche una veste policentrica (realizzato con il d.lgs. n. 112/1998)[13].
Sebbene contenesse innovazioni capitali, anche questa riforma non andava esente da ambiguità. Se il passaggio segnato dai due intervenuti riformatori aveva portato a riconoscere l’ampliamento delle funzioni amministrative delle regioni e degli enti locali, una serie di altri elementi spingevano in senso oppositivo verso quello che è stato definito un “centralismo di ritorno”[14], il quale rimetteva in discussione la distribuzione dei poteri tra stato, regioni ed enti locali[15]. Le funzioni di programmazione e di gestione del servizio scolastico da parte delle regioni erano state fortemente condizionate – se non, addirittura, ostacolate – dalla permanenza di una fitta rete di uffici scolastici territoriali, ai quali negli anni erano stati attribuiti diversi compiti fondamentali per il sistema scolastico (assegnare le risorse finanziarie e di personale alle istituzioni scolastiche), e dalla presenza di una serie di organi collegiali, a composizione mista, operanti presso gli uffici territoriali stessi, destinati a sovrapporsi alle funzioni regionali[16]. A ciò si aggiungevano pure i problemi legati al rapporto tra le regioni e gli enti locali e, in particolare, agli schemi decisionali che governano i rapporti tra questi enti. La mancanza di chiarezza riguardo ai ruoli di questi enti rendeva, ad esempio, molto complesso l’esercizio della funzione di “organizzazione del sistema scolastico”, dando vita a un contenzioso e a problemi notevoli di natura amministrativa[17].
Le ambiguità della normativa di riforma non si limitavano a questi aspetti. L’art. 21 della legge n. 59/1997 continuava a prevedere il mantenimento di una relazione privilegiata tra la struttura ministeriale centrale e le istituzioni scolastiche e ad attribuire ai livelli territoriali inferiori una posizione alquanto secondaria[18]. In più, tale disposizione configurava un modello a “doppia velocità”, teso a “privilegiare la preventiva determinazione degli equilibri tra stato e istituzioni scolastiche, e, soltanto in una fase successiva, quelli tra stato-enti politici sub-nazionali-istituzioni scolastiche, con la conseguente insorgenza di un problema, per così dire, di coesistenza e di competizione tra autonomie territoriali e funzionali[19]”.
Le ragioni di questa confusione sono da far risalire alla stessa inconciliabilità degli obiettivo di fondo perseguiti dal legislatore nazionale: valorizzare l’autonomia scolastica attraverso la relazione diretta legge statale-autonomia scolastica e, contemporaneamente, conservare allo stato un ruolo strategico nella realizzazione del sistema di istruzione a garanzia dell’eguaglianza sostanziale e l’inclusione di tutti i cittadini[20]. Anche l’introduzione, grazie alla riforma Berlinguer (l. n. 62/2000) della nozione di “sistema nazionale di istruzione” – che rimpiazzava l’idea antica di “scuola di stato”[21] – a poco valeva in un contesto in cui alla devoluzione delle funzioni e alla creazione di una “rete” non corrispondeva il decentramento della organizzazione territoriale del settore[22].
 
3. La riforma costituzionale del 2001
Sull’assetto descritto ha cercato di incidere la riforma del Titolo V della Costituzione. La debolezza del punto di partenza, tuttavia, ha limitato fortemente l’interpretazione e l’attuazione della nuova competenza regionale sull’istruzione.
Rispetto al quadro costituzionale precedente, che non prevedeva alcuna competenza regionale in materia di istruzione scolastica e una competenza solo di tipo concorrente in materia di istruzione artigiana e professionale nonché di assistenza scolastica[23], la riforma introduce alcune significative novità.
La materia “istruzione” viene scomposta attraverso la previsione di quattro diversi profili di competenza[24]. Anzitutto, essa compare come materia di competenza statale sotto forma di “norme generali sull’istruzione” (art. 117, comma 2, lett. n). Dal punto di vista regionale, poi, si presenta articolata in tre differenti modalità: come competenza concorrente e come competenze residuali-esclusive in materia di “istruzione e formazione professionale” e di “assistenza scolastica”[25].
A tali poteri si aggiunge, ai sensi dell’art. 116, comma 2, la possibilità per le regioni di concordare con lo Stato forme ulteriori di autonomia legislativa in tema di “norme generali sull’istruzione”. Una competenza della quale in questa sede non parleremo.
Oltre alle materie statali menzionate, l’assetto delle competenze regionali ha due ulteriori limiti. Il primo attiene alla competenza concorrente in materia di istruzione, la quale non può toccare l’autonomia delle istituzioni scolastiche che viene fatta oggetto di una preclusione di disciplina regionale (art. 117, comma 3). Il secondo limite deriva dalle altre previsioni costituzionali e riguarda in generale l’esercizio delle competenze regionali che hanno a che fare con i diritti sociali. Nell’esercizio delle sue competenze, infatti, il legislatore regionale è tenuto al rispetto di alcuni e stringenti limiti: il rispetto delle previsioni contenute nel primo comma dell’art. 117 Cost. in tema di vincoli europei e norme internazionali[26] e, poi, della competenza esclusiva statale a disciplinare i “livelli essenziali delle prestazioni” (art. 117, comma 2, lett. m)[27].
Le novità della riforma sono, dunque, notevoli. Nel settore dell’istruzione la riforma ha introdotto una innovazione decisiva rispetto al d.lgs. n. 112/1998[28]. Le nuove norme costituzionali lasciavano ragionevolmente intendere che la competenza identificata nel decreto del 1998 sulla “programmazione e gestione amministrativa della rete scolastica” sarebbe dovuta essere concepita in senso estensivo, ossia non semplicemente come razionalizzazione dell’apparato dell’istruzione ma, soprattutto, come “spazio e occasione di realizzazione di un’autentica politica del servizio pubblico sul territorio, in grado di interpretarne i bisogni e prefigurarne le prospettive di sviluppo[29]”. In tale competenza sarebbero dovute essere comprese, perciò, le funzioni necessarie al conseguimento di tale politica, prima fra tutte la provvista di risorse umane e finanziarie e, quindi, sia la gestione del personale docente sia le misure di valutazione e monitoraggio del servizio pubblico di istruzione, secondo un’interpretazione in senso estensivo dei trasferimenti operati in precedenza.
Non è un caso, dunque, che già nel 2004, nella prima sentenza in cui si è trovata di fronte alla necessità di definire il contenuto della nuova competenza concorrente in materia di “istruzione”, la Corte costituzionale si fosse pronunciata nel senso di ricondurre a tale materia la definizione delle dotazioni organiche del personale docente e, perciò, di far transitare dall’amministrazione statale all’amministrazione regionale la gestione delle risorse umane oltre che materiali (infrastrutture) della scuola[30], in quanto ambedue riconducibili alla politica del servizio pubblico sul territorio[31].
La sentenza, come noto, si chiudeva con una dichiarazione di incostituzionalità accertata ma non dichiarata, alla stregua della quale le norme statali viziate rimanevano in vigore fino a che le previsioni costituzionali non fossero state attuate[32]. Per esigenze legate alla necessaria continuità del servizio pubblico di istruzione e alla garanzia del diritto all’istruzione, la Corte decideva nel senso di posticipare l’operatività della dichiarazione di incostituzionalità al momento in cui le regioni avrebbero con legge attribuito a propri organi tale potere. Un evento mai avvenuto, sia per mancanza della delimitazione delle competenze statali e regionali e del trasferimento a queste ultime delle funzioni relative sia – a mio avviso – per la timidezza dimostrata da una parte del sistema regionale verso l’esercizio di un ruolo politico effettivo in questo settore.
Nonostante la riforma costituzionale avesse posto le basi per un nuovo modo di intendere le competenze in materia di istruzione, all’atto pratico il quadro delle competenze regionali in materia si dimostrava assolutamente indeciso e di non facile comprensione[33]. Rispetto a questa difficoltà, tuttavia, pensare che la materia “istruzione” fosse un mero “inquadramento topografico” di un conferimento operato negli anni passati, con riguardo a una specifica e limitata porzione delle funzioni, era evidentemente uno dei profili più problematici da risolvere, rispetto al quale l’interpretazione della giurisprudenza costituzionale non poteva ragionevolmente spingersi più avanti di quanto avesse fatto [34].
 
4. L’attuazione della riforma costituzionale: resistenze statali e timide fughe regionali
Dal 2001 fino a oggi la legislazione statale e regionale in materia di istruzione non sembra essersi preoccupata dell’attuazione del Titolo V. La revisione della Costituzione in questo settore non ha avuto un grande seguito. Gli indirizzi sono rimasti fondamentalmente legati alle logiche e alle impostazioni introdotte alla fine degli anni novanta[35]. Lo stato ha continuato a fare leggi ritenendole coperte dalla propria competenza in materia di “norme generali” o come “principi fondamentali” della materia concorrente; mentre le regioni hanno cominciato in modo saltuario ad approvare leggi in materia di istruzione per le quali si è verificato più volte il passaggio al vaglio di legittimità costituzionale.
Sul versante dell’attuazione concreta del Titolo V lo stato e le regioni hanno cercato più volte di raggiungere un accordo in Conferenza unificata sul punto. Le diverse versioni dell’accordo, riguardanti sia aspetti normativi, come la delimitazione della materia, sia aspetti pratici, come la transizione del personale dalle strutture statali alle regioni, non hanno mai visto la luce[36]. Su tutto pesava sia il mancato il trasferimento delle risorse derivante dall’attuazione dell’art. 119 Cost. (e dal federalismo fiscale) attraverso il quale le regioni avrebbero potuto sostenere l’onere della gestione organizzata del sistema scolastico sia la situazione di crisi economica e l’incremento delle misure di cd. spending review
Dal canto suo, anche la Corte costituzionale, dopo un tenue riconoscimento dell’autonomia regionale nella sentenza prima citata, ha poi confermato l’impianto delle funzioni deciso negli anni novanta, mostrandosi così più aderente a una lettura più regressiva che innovativa delle competenze legislative in materia di istruzione[37].
In questa ottica, prima di riprendere la giurisprudenza costituzionale, occorre dare un quadro degli interventi legislativi più significativi messi in campo dallo stato e dalle regioni sul punto.
 
4.1 La legislazione statale: dalla riforma Moratti alla spending review
A livello nazionale gli anni immediatamente successivi alla riforma non contengono novità significative. Il bilancio di questi interventi vede le regioni nettamente in perdita: dal 2003 il legislatore statale ha profondamente modificato gli ordinamenti della scuola e, sulla spinta della logica di contrarre la spesa pubblica, è intervenuto più volte sulla distribuzione del personale della scuola, senza considerare, se non raramente, i legislatori regionali come dotati di competenze che interessano questo settore.
Con la legge Moratti il Governo è stato delegato ad adottare decreti legislativi in tema di “norme generali sull’istruzione”[38]. Alla delega sono seguiti ben sei decreti legislativi e un ampio numero di provvedimenti di attuazione[39]. È opportuno rilevare che seppure adottata per divenire un’ampia riforma dell’istruzione, la legge Moratti non ha esaurito né la categoria delle norme generali né quella dei principi fondamentali previsti sulla base dell’art. 117, comma 2, lett. n). Si pensi, per rimanere nell’ambito dei problemi già segnalati, alle norme sul reclutamento del personale docente e alle connesse previsioni sulla programmazione, le quali rimangono ferme a quelle vigenti prima della riforma del 2001[40].
Alla riforma del 2003 ha fatto seguito nel 2008 la legge n. 133 (di conversione del decreto-legge n. 112/2008) che prevede l’adozione di regolamenti di delegificazione per modificare di nuovo gli ordinamenti dei cicli di istruzione[41]. Le norme di riforma del 2008 hanno accentuato l’impianto marcatamente centralistico del sistema scolastico per esigenze di razionalizzazione complessiva del sistema educativo[42]. Le previsione del decreto-legge, salvo rari casi, non lasciano spazi all’autonomia regionale. In particolare, la dipendenza del personale docente dallo Stato e la stessa attribuzione del personale alle scuole da parte degli uffici scolastici regionali (USR) ha continuato a impedire qualunque possibilità di programmazione dell’offerta formativa da parte delle regioni.
Nel 2012, poi, il decreto-legge n. 95, in forza dell’introduzione dei meccanismi di spending review, ha mantenuto il blocco del processo di attribuzione delle competenze regionali quanto alla distribuzione del personale[43]. Le disposizioni contenute in questo decreto-legge non solo riaffermavano il ruolo degli USR ma ne regolavano anche in modo analitico il procedimento di assegnazione e di mobilità. Si trattava, quindi, di una conferma e di un nuovo consolidamento dell’impostazione seguita che intendeva mantenere l’articolazione ministeriale secondo una logica di “continuità” con la situazione precedente[44].
Per effetto di questi interventi l’Italia è divenuta uno dei paesi europei che ha operato la diminuzione più consistente delle risorse destinate alla scuola. Come evidenziano le stime compiute dalla stessa Commissione europea, mentre complessivamente la tendenza all’investimento pubblico in educazione è aumentata mediamente di circa il 10% nel contesto dei 28 paesi dell’UE, l’Italia ha mantenuto stabile il suo livello di finanziamento dal 2000 al 2007 e lo ha ridotto significativamente dal 2008 sino al 2010 [45].
 
4.2 Gli interventi regionali: una situazione a due velocità
Non è semplice ricostruire il ruolo delle regioni nel quadro di un sistema che ha mantenuto una unitarietà così forte. Malgrado vi sia stata una sostanziale in-attuazione delle competenze, alcune regioni sono intervenute con leggi che hanno tentato qualche innovazione nel settore dell’istruzione[46]. Dall’analisi degli interventi regionali emerge una situazione a diverse velocità[47]. Mentre alcune regioni hanno tentato di esercitare i poteri derivanti dalle competenze a esse attribuite, altre hanno preferito interpretare in modo riduttivo il proprio ruolo, considerandolo confinato alle vecchie materie dell’assistenza scolastica e della garanzia del diritto allo studio[48].
Limitando l’analisi a quelle regioni che hanno sicuramente cercato di sfruttare a pieno le proprie competenze vengono in rilievo anzitutto gli interventi dell’Emilia-Romagna e della Toscana[49], due regioni le cui leggi si configurano ad “alto tasso di innovazione” rispetto alle competenze regionali sull’istruzione. L’Emilia-Romagna, a partire dalla legge 30 giugno 2003, n. 12 ha inteso creare un sistema integrato tra istruzione e formazione[50]. L’intervento è ispirato a una visione organica delle competenze in materia di istruzione e alla necessità di integrazione di questa con i settori della formazione, del lavoro e dell’assistenza sociale. La regione dichiara di far propri i livelli essenziali delle prestazioni e di assumere il sistema nazionale di istruzione come orizzonte di riferimento della sua azione, promuovendone lo sviluppo anche a livello regionale, ed estendendo tutti i diritti menzionati anche agli stranieri immigrati soprattutto mediante forme di mediazione culturale. Tale legge è stata oggetto, con riguardo a varie disposizioni, di impugnative di fronte alla Corte costituzionale da parte del Governo, con censure espressive di una concezione assai riduttiva del ruolo delle Regioni. Censure dichiarate tutte non fondate dai giudici costituzionali, nonostante la complessiva giurisprudenza in materia abbia dimostrato timidezza e ritrosia ad una piena attuazione del Titolo V[51]. La decisione della Consulta muove dal presupposto che tale legge si limita a non innovare norme già contenute nella legislazione statale.
Anche la Toscana, a partire dalla legge 26 luglio 2002, n. 32[52], si è mossa sulla strada della “progressiva costruzione di un sistema integrato regionale per il diritto all’apprendimento”, prevedendo interventi diretti e indiretti di attuazione delle politiche integrate dell’educazione, dell’istruzione, dell’orientamento e della formazione professionale. La legge è stata modificata in varie occasioni. La più significativa è stata operata con la legge n. 5/2005. Tale legge si muove – con una innovazione significativa per il contesto regionale – nell’ottica della “programmazione concordata”, prevedendo un coinvolgimento di tutti gli enti territoriali e le stesse istituzioni scolastiche sia nelle procedure programmatorie sia nella definizione dei criteri e delle modalità di distribuzione delle risorse umane e finanziarie. Anche la legge toscana è stata sottoposta al vaglio dei giudici costituzionali[53]. In un caso, pur dichiarando infondate le censure sollevate dal Governo, la Corte ha interpretato le funzioni programmatorie della regione come attinenti meramente all’“assetto organizzativo e gestorio”, e in tal modo dequalificando lo stesso concetto di standard che nella legge assume più l’idea della definizione di un sistema pubblico di istruzione che di esercizio di competenze organizzative[54].
La scelta di fondo di queste regioni è stata quella della regolazione integrata di tutti i settori legati all’istruzione che fino a ora erano rimasti sempre distinti nella legislazione pregressa. L’integrazione è fondata sulla piena realizzazione della persona e in particolare del “diritto all’apprendimento per tutta la vita”, e non ha solo caratteristiche di “intersettorialità orizzontale” ma soprattutto “verticale” lungo l’arco del percorso scolastico[55].
Nelle due leggi il potenziamento delle autonomie territoriali non va inteso come un ostacolo all’esercizio delle competenze statali o all’autonomia delle istituzioni scolastiche. I due provvedimenti normativi valorizzano l’autonomia dei soggetti che operano nel sistema formativo e di istruzione, promuovendo forme di collaborazione istituzionale, di integrazione tra proposte formative, di interazione tra diverse competenze professionali.
Il potenziamento dell’autonomia regionale è riscontrabile anche in alcune, significative leggi della regione Lombardia tese a un rafforzamento del ruolo programmatorio regionale nel settore dell’istruzione. In uno dei primi interventi di questa regione[56] sono affidati agli uffici regionali funzioni di “vigilanza, controllo e verifica del sistema di istruzione e formazione professionale”, secondo l’ottica della valorizzazione del principio di sussidiarietà in senso orizzontale attraverso l’accreditamento di istituzioni formative private. Anche in questo caso è stato posto a base del sistema di istruzione l’idea della integrazione verticale, ma con una più spiccata valorizzazione della dimensione europea del sistema di istruzione locale.
La legislazione della Lombardia non si limita solo a questi due ambiti. In tempi più recenti questa regione ha inteso in modo ancora più forte il proprio ruolo in tema di programmazione e organizzazione del sistema scolastico, aprendo alle scuole statali la possibilità di organizzare meccanismi di “reclutamento” differenziati a seconda del ciclo di studi, al fine di assumere il personale docente con incarico annuale. La norma come si può ben intendere aveva una caratterizzazione molto forte, tale da farne oggetto di una censura di legittimità costituzionale. Nonostante l’attivazione di questo potere fosse stato subordinata a un’intesa con lo stato, la Corte l’ha dichiarata incostituzionale con una sentenza che interpreta in maniera molto restrittiva il potere regionale nel settore dell’istruzione [57].
 
5. L’istruzione nella giurisprudenza costituzionale successiva al 2001
Nel momento in cui ha aiutato a dirimere i problemi interpretativi connessi con l’attuazione dei nuovi titoli di competenza in materia di istruzione, la Corte costituzionale non ha mostrato di saper tenere in debito conto le novità della riforma costituzionale.
Gli indirizzi della Corte sono stati influenzati da due circostanze: a) la mancata implementazione della riforma del 2001 e il mancato completamento del federalismo fiscale, che avrebbe dovuto garantire il passaggio delle risorse alle regioni; b) il fatto che la riforma abbia reso notevolmente confuso il quadro legislativo attraverso un ritaglio di competenze poco chiaro.
All’atto pratico i giudici costituzionali hanno assecondato il processo di neo-centralizzazione ministeriale delle competenze in materia di programmazione e gestione finanziaria delle scuole realizzato sulla base della logica della spending review. La Corte, come è avvenuto in altri settori, si è mostrata in linea con la necessità di contenere le spese impedendo qualsiasi innovazione che potesse comportare aumenti delle uscite correnti delle amministrazioni pubbliche[58].
Questo scenario ha influenzato sensibilmente la definizione e l’implementazione delle politiche sull’istruzione. Le regioni, da un lato, hanno rivendicato sempre il trasferimento delle risorse al fine di esercitare la funzione amministrativa e organizzativa in materia. Allo stato attuale per l’erogazione e gestione del servizio di istruzione occorre il coinvolgimento di diversi soggetti che dialoghino secondo un paradigma di partecipazione e co-decisione. Questa trasformazione, tuttavia, non ha eliminato le tracce pesanti del modello gerarchico precedente.
Allo scopo di individuare lo sviluppo dei problemi in materia di istruzione affrontati dalla Consulta, in questa fase si ripercorrerà in termini evolutivi il percorso interpretativo costituzionale sulla materia istruzione. La descrizione è limitata a tre decisive sentenze che costituiscono l’ossatura principale della giurisprudenza sul tema. All’analisi della giurisprudenza costituzionale segue una brevissima descrizione di alcuni problemi esaminati dai giudici amministrativi.
 
5.1 Il peso della “continuità”
Le questioni risolte dalla giurisprudenza costituzionale in questi anni hanno riguardato numerosi aspetti della materia istruzione. Già si è detto della sentenza n. 13/2004, delle successive sulle leggi della Toscana e dell’Emilia-Romagna[59] e, infine, della giurisprudenza sulla legislazione della Lombardia. Negli anni la Corte si è anche addentrata nella definizione del rapporto scuola statale-scuola paritaria[60] e sulla differenziazione tra livelli essenziali e standard strutturali e organizzativi che non necessariamente determinano un livello di prestazione collegato alla fruizione di un diritto, ma sono invece indirizzati a incidere sull’assetto organizzativo delle strutture demandate alla potestà legislativa delle regioni[61]. Inoltre, l’atteggiamento tenuto dalla Corte ha portato a ricondurre nella materia organizzazione amministrativa dello stato rilevanti aspetti attinenti alla organizzazione del servizio, con particolare riguardo al personale[62].
Un ragionamento che può apparire fuorviante, se guardato dal punto di vista della distribuzione dei poteri prevista in Costituzione. Tali profili sarebbero ricompresi, semmai, nelle norme generali sull’istruzione, dal momento che riguardano l’esercizio della libertà dell’insegnamento o l’organizzazione del sistema scolastico[63].
L’altro nodo interpretativo che la Consulta ha dovuto risolvere concerne il potere di disciplinare in via esclusiva le norme generali sull’istruzione e la definizione dei principi fondamentali della materia previsti nell’art. 117, terzo comma, Cost. Tale differenza è stata presa in considerazione per la prima volta in modo approfondito all’interno della sentenza n. 279/2005, secondo la quale le prime “sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale[64]”, mentre i secondi “pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose[65]”. Come si può immaginare, l’opzione interpretativa di quest’ultima sentenza è stata oggetto di numerose critiche da parte di chi ha sottolineato la natura a posteriori e fondamentalmente sterile, in quanto priva di parametri sostanziali di riferimento, della decisione. Essa, oltretutto, rimette alla discrezionalità del legislatore la concreta distinzione tra norme generali – contenute in atti normativi che così le qualificano – e principi fondamentali, i quali, come noto, possono anche essere desunti a partire dalla legislazione vigente[66].
I limiti di questa pronuncia sono stati superati dalla stessa Corte in una sentenza successiva (n. 200/2009) relativa al dimensionamento della rete scolastica. L’art. 64 della già citata legge n. 133/2008 prevedeva la definizione tramite due regolamenti di delegificazione sia dei (a) criteri, tempi e modalità per la determinazione e l’articolazione dell’azione di dimensionamento della rete scolastica[67], sia delle (b) misure finalizzate alla riduzione del disagio degli utenti nel caso di chiusura o di accorpamento degli istituti scolastici aventi sede nei piccoli Comuni. La Consulta ha ritenuto che i criteri e le misure stabiliti dalla legge per l’adozione dei regolamenti di delegificazione vanno oltre la competenza ad adottare “norme generali sull’istruzione” [68]. L’attuazione di tali criteri porterebbe tali atti a incidere direttamente su situazioni strettamente legate alle varie realtà territoriali e alle connesse esigenze socio-economiche di ciascun territorio che ben devono essere apprezzate in sede regionale. Pertanto, mentre invadono un campo sicuramente riservato alla competenza concorrente delle regioni, tali norme di legge statale esulano anche dalle competenze statali e non legittimano l’adozione di regolamenti governativi.
A differenza della pronuncia precedente[69], in questo caso la Corte ha proceduto preliminarmente a chiarire quali sono gli elementi che consentono di identificare le disposizioni legislative riconducibili alla nozione di norme generali, fornendo un vero e proprio “prontuario” per la loro identificazione[70] composto di un duplice parametro: da un lato, le norme della prima parte della Costituzione relative al diritto all’istruzione e il diritto allo studio[71]; dall’altro, il complesso di disposizioni di rango primario formato dalla legge Moratti, dai decreti delegati di essa attuativi e da tutte le altre norme relative all’autonomia nel settore dell’istruzione così come rilette alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale[72]. Come si può intendere, la Corte ha continuato a interpretare il quadro costituzionale delle competenze in tema di istruzione e formazione attraverso un “processo circolare”, in cui, talvolta dal basso, cioè dall’effettiva interpretazione e attuazione delle disposizioni di rango primario, talvolta dall’alto, cioè dalla interpretazione costituzionale, si può risalire all’effettivo significato delle materie[73].
La sent. n. 200/2009 ha prodotto notevoli cambiamenti per quanto riguarda l’assetto delle fonti in materia di organizzazione del sistema scolastico. In conseguenza della sentenza è divenuto illegittimo il regolamento del 20 marzo 2009 adottato dal MIUR in materia di dimensionamento delle reti scolastiche regionali[74]. Tuttavia, le norme contenute nella legge n. 133/2008 continueranno a determinare soglie e criteri sia per la programmazione dell’offerta formativa sia per lo stesso dimensionamento in termini di accorpamento o riduzione dei plessi scolastici, nonché in termini di riduzione delle classi ovvero di innalzamento del numero di studenti per classe[75]. Il secondo risultato è che in tal modo si è reso inutile l’impianto contenuto nell’art. 64, lettera f)-quinquies, che prevedeva un’intesa sul dimensionamento della rete scolastica in sede regionale da siglare in Conferenza Unificata[76]. In generale sul punto emerge che è l’intero impianto dell’art. 64 della legge del 2008 è divenuto addirittura inutile. Il “piano programmatico” nazionale, a cui si dovrebbero ispirare le programmazioni regionali, contiene criteri in parte sicuramente rientranti nella competenza statale (ridefinizione dei curricoli vigenti nei diversi ordini di scuole, rimodulazione dell’attuale organizzazione didattica della scuola primaria) e altri di più dubbia competenza statale (revisione dei criteri per la formazione delle classi, revisione dei criteri per la determinazione dell’organico del personale ATA).
Anche nei successivi interventi la Corte Costituzionale continua nella sua interpretazione alquanto limitativa delle competenze regionali, pur riconoscendo un certo spazio “amministrativo” alla potestà regionale. È da segnalare, a questo proposito, la sentenza n. 62/2013 che dichiara l’infondatezza del ricorso regionale verso le norme statale in materia di prevenzione del fenomeno del bullismo, di abbandono e contrasto all’insuccesso scolastico e formativo. Secondo la Consulta la disciplina statale deve essere senz’altro qualificata come rientrante nell’ambito delle norme generali sull’istruzione, in quanto emergono “evidenti” ragioni di “necessaria unità ed uniformità” della disciplina, tesa a definire le “caratteristiche basilari” dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico del sistema scolastico.
Un altro gruppo di pronunce recenti ritorna sui problemi legati alla competenza delle regioni in materia di programmazione della rete scolastica e di dimensionamento del personale. Queste sentenze sono importanti perché, sebbene riconoscano alcuni poteri alle regioni, riaffermano che una delle variabili più importanti della programmazione, cioè la gestione del personale, rimane saldamente in capo al legislatore statale[77].
La prima sentenza a venire in rilievo è la n. 147/2012 con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma di legge statale in base alla quale[78], a partire dall’anno scolastico 2011-2012, dovevano istituirsi “istituti comprensivi”[79] al fine di garantire un processo di continuità didattica nell’ambito dello stesso ciclo di istruzione. Ad avviso della Corte sono di competenza statale le decisioni sulle modalità di copertura dei costi di dirigente scolastico, tenuto conto che i dirigenti sono dipendenti pubblici statali e non regionali e deve quindi essere considerata prevalente l’attribuzione esclusiva al legislatore statale del loro stato giuridico ex art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. rispetto alla competenza concorrente in materia di istruzione del terzo comma[80].
La seconda sentenza a venire in rilievo è la n. 76/2013 con cui la Corte costituzionale ha annullato una norma contenuta nella già citata legge regione Lombardia n. 7/2012 (cd. Cresci Lombardia). Più nello specifico, la legge lombarda prefigurava un metodo di assunzione diretta dei docenti da parte delle scuole “statali”[81]. Si intendeva così consentire alle singole istituzioni scolastiche di “organizzare concorsi differenziati a seconda del ciclo di studi, per reclutare il personale docente con incarico annuale” al fine di favorire la continuità didattica attraverso un incrocio diretto tra la domanda e l’offerta professionale dei docenti[82]. La Corte costituzionale ha annullato la disposizione impugnata nel presupposto che essa interveniva in una materia di esclusiva competenza statale sulla base dell’art. 117, comma 2, lett. g), Cost., in quanto tutto il personale scolastico è alle dipendenze dello Stato e non delle regioni.
Senza addentrarci in un esame della correttezza e dell’opportunità di questa decisione, occorre rimarcare che la legge regionale lombarda aveva avuto il merito di introdurre una sperimentazione che tentava di affrontare tutta una serie di questioni cruciali in tema di reclutamento del personale, di precariato e di dimensionamento dell’offerta del personale docente sul territorio. L’intervento regionale, infatti, era stato adottato per sensibilizzare il legislatore statale sulla necessità di aderire a modelli di reclutamento più flessibili, che potessero coinvolgere le Regioni e gli stessi istituti scolastici al fine di affrontare l’annosa questione degli incarichi temporanei di insegnamento [83].
 
5.2 Uno sguardo al contenzioso dei tribunali amministrativi regionali
Occorre fare attenzione alle conseguenze di tale giurisprudenza soprattutto nella esplicazione del compito regionale di programmazione e di razionalizzazione della rete. Eseguendo un’indagine sulle pronunce della giurisprudenza amministrativa si scopre, ad esempio, l’esistenza di un significativo contenzioso apertosi sul potere regionale (e provinciale) di accorpare, fondere o chiudere alcuni istituti scolastici sulla base del potere di programmazione. Tali controversie, a volte avviate dal ricorso delle famiglie o degli stessi comuni su cui insistono gli accorpamenti, sono il segno che non si è innescato un processo decisionale virtuoso in presenza di risorse scarse, ma che la conflittualità a livello costituzionale ha avuto considerevoli ricadute nel momento in cui si è trattato di razionalizzare la situazione ritenuta inefficiente.
Anche la giurisprudenza amministrativa conferma il ruolo subalterno delle regioni, e il fatto che ragionevolmente esse si possano considerare come il punto debole della catena relativa alla distribuzione sul territorio delle scuole, con la conseguente perdita di fatto di quel potere programmatorio che pure la legge Bassanini aveva affidato loro. Ed è da notare che i tribunali amministrativi aditi, nelle sentenze rese successivamente alla approvazione della sentenza n. 147/2012[84], hanno sempre dichiarato illegittimi i provvedimenti regionali fondati esclusivamente sul potere definito dall’annullato art. 19 della legge n. 111/2011[85]. Un segno, perciò, che quella giurisprudenza costituzionale sulla continuità normativa, nel momento in cui ha risolto il problema concernente l’aspetto in quel momento sottoposto al giudizio della Corte, ha messo una preclusione al potere regionale di decidere sul dimensionamento della rete scolastica. Dunque, non ha permesso neanche quel “governo” efficiente del servizio scolastico, che pure lo stesso legislatore intendeva realizzare nella disciplina del settore.
 
6. Prima conclusione: una materia senza “governo”
Dopo aver indicato sinteticamente lo sviluppo normativo e giurisprudenziale degli ultimi anni, occorre prendere le distanze dalla descrizione e provare dare un giudizio complessivo dell’intero sviluppo. L’analisi svolta porta diritto alla constatazione che l’istruzione, a differenza di altre materie legate alla realizzazione del welfare (salute), è stata di fatto privata di un indirizzo univoco[86]. Nonostante lo stato abbia sempre considerato e rivendicato la competenza sul sistema nazionale di istruzione, l’intero percorso descritto mostra che il meccanismo di distribuzione delle competenze si è inceppato[87].
Dopo la riforma del 2001, la mancata attuazione delle nuove competenze ha di fatto bloccato il sistema nazionale di istruzione e aumentato le diseguaglianze territoriali quanto alla distribuzione delle risorse finanziarie[88]. I settori dell’istruzione e dell’educazione sono di fatto rimasti privi di un governo quanto alla spesa e alla organizzazione. Negli ultimi anni lo stato si è limitato a interventi di spending review che non hanno toccato la distribuzione dei poteri. Rispetto a queste scelte la Corte non ha quasi mai opposto l’incompatibilità con la distruzione delle competenze legislative, con una giurisprudenza che ha finito per reprimere ancora più le competenze regionali[89].
Questa situazione ha avuto tre ricadute che qui è bene qui evidenziare.
La prima riguarda la difficoltà nella individuazione di un quadro normativo certo per l’organizzazione della scuola. La legislazione alluvionale che si è accumulata sull’argomento ne è il primo dato. Le riforme introdotte sono state orientate da una logica di risparmio finanziario e dalla necessità di contrarre la spesa pubblica. Pur toccando l’organizzazione materiale del sistema scolastico e l’erogazione concreta del servizio, le norme approvate hanno lasciato in vita una struttura amministrativa statale sia centrale sia periferica molto ampia e dotata di funzioni tutt’altro che recessive[90].
La seconda ricaduta concerne l’inesistenza di un collegamento certo tra la definizione delle dotazioni organiche complessive del personale docente (competenza ancora assunta dallo Stato) e la programmazione della rete regionale scolastica (competenza delle regioni). La legislazione più recente cerca di porre un rimedio al problema ma secondo una logica efficientistica che non tiene conto delle esigenze reali. Le norme del decreto-legge n. 214/2013, ad esempio, prevedono che la definizione dei criteri per definire il contingente organico dei dirigenti scolastici e dei direttori dei servizi generali e amministrativi sia stabilita con decreto “avente natura non regolamentare” del MIUR di concerno con il MEF e previo accordo con la Conferenza unificata. Andando a verificare questo ultimo dato ci si rende conto che tale accordo non si è mai concretizzato. In sede di conferenza le regioni hanno giustificato il loro parere negativo lamentando la riproposizione da parte del MIUR di “criteri non condivisi e poco trasparenti” che non tengono conto della situazione reale sul territorio[91].
L’ultima ricaduta, infine, riguarda la mancanza di una strategia complessiva per il settore, e il conseguente schiacciamento di tutto il sistema scolastico su esigenze di tipo economico-efficientistico[92]. Se è vero, infatti, che dopo la riforma del Titolo V (e con maggiore velocità dopo il 2008) si è avviato in Italia un complesso percorso di adeguamento del sistema scolastico e formativo; la regolazione su questi aspetti richiede ancora uno sviluppo per quanto riguarda i livelli di programmazione strategica[93].
Perciò, affrontare tutti i problemi della scuola solo alla luce della distribuzione territoriale del personale, come hanno fatto i provvedimenti più recenti, è davvero riduttivo[94]. La razionalizzazione del servizio non può essere l’unico punto di partenza, perché se è vero che la scuola rappresenta un “servizio” è altrettanto vero che non può essere concepito alla stregua di altri simili[95].
 
7. Seconda conclusione: fine di una materia?
Le dinamiche dell’istruzione e del sistema scolastico mostrano una notevole resistenza al cambiamento. Un fenomeno che gli economisti spiegherebbero usando la teoria della “path dependence”, cioè della dipendenza dal percorso storicamente svolto[96]. Nel caso dell’istruzione la dipendenza dal percorso – per come si è inteso la teoria – può aiutare a spiegare la resistenza al cambiamento.
Su di un piano generale la Costituzione ha poco o nulla inciso sulla concezione “pre-costituzionale dell’istruzione[97]”. La scuola è stata concepita, infatti, come funzione primaria dello stato necessaria per realizzare fini politico-culturali, non già come luogo di educazione. Di conseguenza il sistema scolastico ha mantenuto la struttura centralistico-burocratica tipica dell’amministrazione centrale e periferica dello stato. Rispetto a questa situazione non vi è stata che una lieve un’evoluzione[98], sia nel senso del decentramento territoriale sia nel senso del decentramento funzionale, cioè verso l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Una autonomia finalizzata cioè a consentire alle scuole di raggiungere al meglio i propri fini educativi e formativi e che prevede un’autonomia didattica, organizzativa, di ricerca sperimentazione e sviluppo, oltre al trasferimento alle scuole di funzioni amministrative e gestionali in materia di carriera scolastica degli studenti, di amministrazione e gestione del patrimonio, di stato giuridico del personale dipendente[99].
Anche la riforma costituzionale in discussione in Parlamento sembra andare nella direzione del mantenimento della centralità del sistema, in base al quale il potere regionale in materia è del tutto marginale[100] e il potere autonomo delle scuole non è ancora definito. 
Perché è invece utile decentrare le politiche relative all’istruzione? Per evitare il rischio dell’implosione burocratica del sistema politico-amministrativo, il quale non regge l’aumento e l’evoluzione della domanda[101]. Le società moderne sono caratterizzata, infatti, da un enorme incremento quantitativo e qualitativo delle domande e dei bisogni delle famiglie e delle imprese e da una maggiore variazione delle domande e dei bisogni. Per fare fronte a queste esigenze non basta il vecchio sistema amministrativo scolastico con le sue evidenti rigidità[102]. Occorre puntare su una razionale divisione del lavoro tra diversi soggetti e diversi livelli istituzionali, mobilitare le energie, le risorse, le idee, le iniziative di tutti, sulla base dei principi di sussidiarietà, autonomia, differenziazione e responsabilità[103].
Anche sul piano specifico delle singole dinamiche della scuola questa chiave di lettura pare offrire spunti di riflessione. Si prenda ad esempio la decisione della Corte di Giustizia dell’UE in merito al precariato della scuola. È evidente che il mancato funzionamento, da anni, di un corretto sistema di reclutamento è dipeso dall’esistenza di un vasto numero di precari, con la conseguente pressione sociale e politica che ha portato a sostituire i concorsi con meccanismi in deroga (sanatorie), e a trasformare (di fatto ma non di diritto) il compromesso del doppio canale – uno per il merito e uno per l’anzianità – in un canale unico di graduatorie. In assenza di norme che impedissero, per il futuro, il formarsi di un vasto precariato, è stato assolutamente vano legiferare sui meccanismi concorsuali.
Rispetto a questi problemi il disegno di legge AC 2994 “Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti” (il provvedimento denominato “Buona scuola”) rimane fortemente concentrato sulla costruzione di un sistema centralizzato: la definizione degli organici spetta solo MIUR; la norma che definisce la programmazione regionale scompare senza essere neanche stata abrogata esplicitamente. Di contro la riforma – nella versione attuale – poggia tutta la novità nella valorizzazione della figura del preside che svolgerebbe un ruolo chiave nella definizione del piano triennale della offerta formativa e quindi nel reperimento del personale necessario per erogare il servizio[104]. L’ipotesi su cui scommette il governo è, quindi, quella di dotare le scuole di una sorta di organico aggiuntivo – fatto di docenti assunti su base triennale –, grazie al quale il preside potrà provvedere non solo alle supplenze temporanee, ma anche all’arricchimento e potenziamento dell’offerta formativa.
Come si può facilmente intuire, il rischio di questa operazione – prima ancora che “trasformare i presidi in sceriffi”[105] – è che i dirigenti scolastici e i docenti ora in servizio non siano affatto pronti a una radicale innovazione di modello. Il provvedimento della “Buona scuola” richiederà ai dirigenti competenze e capacità di cui sicuramente non dispongono, e ai docenti ora in servizio una duttilità operativa estranea alle loro consuetudini professionali. Senza considerare poi che questa riforma inserirebbe a regime nel sistema scolastico una nuova “classe” di insegnanti il cui status, mansioni e stipendio cambieranno molto rispetto a coloro che sono ora in servizio[106].  Perciò, con ogni probabilità nel futuro si potrà trovare una scuola con una forte distinzione tra docenti che rivendicano il loro status di personale a tempo indeterminato e una pletora di docenti sotto, o male, utilizzati, con scarso vantaggio per gli studenti e forte aggravio per le casse dello stato.
Perché ciò non accada, la via più realistica passa certamente per una valorizzazione effettiva dell’autonomia scolastica e l’introduzione di un sistema di accreditamento standard per tutti gli istituti. La presenza di un “organico allargato” non basta, e può addirittura produrre maggiori problemi.
Insieme all’aumento della autonomia saranno però necessarie altre due condizioni. Anzitutto, occorrerà introdurre la flessibilità dei curricula. Fornita l’ossatura dei quadri orari nazionali, è indispensabile permettere non soltanto alle scuole di adattare il curriculum alle proprie esigenze, ma anche agli alunni di scegliere all’interno di un ventaglio di discipline facoltative. In secondo luogo, occorre introdurre la flessibilità degli orari di cattedra per tutti gli insegnanti. In questo modo il dirigente sarà messo in grado di gestire con maggiore libertà il personale.
È evidente che si tratta di un processo ancora nella sua fase iniziale, che richiederà prima l’approvazione della legge e poi l’adozione dei decreti delegati. I tempi, dunque, sono ancora lunghi. Tuttavia, ciò non deve spaventare perché la riforma non è più rinviabile.
 
 
Erik Longo
Professore associato di Diritto costituzionale
Università degli Studi di Macerata
erik.longo@unimc.it
 
 
 

[1] Il governo Renzi ha varato nei mesi scorsi un imponente piano di riforma della scuola pubblica chiamata “La buona scuola”. Sebbene il piatto forte dell’intervento normativo consista nella stabilizzazione di oltre 148.000 docenti precari, la riforma mira a dare più potere agli istituti scolastici e a inserire la valutazione costante degli insegnanti. Per definire in modo partecipativo i contenuti de «La buona scuola» è stata aperta una consultazione pubblica che si è protratta fino a novembre 2014. Nel momento in cui si scrive sono giacenti in Parlamento i primi provvedimenti attuativi di questo piano di riforma. I documenti relativi sono consultabili all’interno del portale https://labuonascuola.gov.it. Il d.d.l. attualmente in discussione alla Camera ha il n. AC 2994.
[2] C. Agostini, Gli studi sulle politiche di istruzione e di welfare: dal trade-off all'integrazione, in Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 2, 2012, 223 s. È interessante come l’autrice riprendendo il pensiero di Esping-Andersen faccia notare che quest’ultimo usi il termine “buona società” per descrivere il modo in cui ciascun paese europeo ha seguito il proprio percorso nella individuazione del modello di società (appunto una “buona società”) da costruire.
[3] A tale proposito vedi i contributi presenti nel volume di V. Campione, F. Bassanini (a cura di), Istruzione bene comune. Idee per la scuola di domani, Firenze, 2011.
[4] Su questo aspetto v. l’editoriale dal titolo “Education and skills for inclusive growth” compreso nel rapporto 2014 dell’OCSE “Education at Glance”. La versione elettronica è disponibile all’indirizzo http://www.oecd.org/edu/Education-at-a-Glance-2014.pdf (ultimo accesso 11 aprile 2015).
[5] La riforma attualmente in discussione (XVII Legislatura, d.d.l. costituzionale AC 2613-A) intende eliminare la competenza concorrente in materia di “istruzione” affidando allo stato la competenza esclusiva in tema di “Disposizioni generali e comuni sull’istruzione” e “ordinamento scolastico” e alle regioni la mera competenza in tema di “servizi scolastici”, “istruzione e formazione professionale” e “promozione del diritto allo studio”. Su questo assetto e in generale sul disegno regionale nella riforma v. A. D’Aloia, Quale regionalismo nel progetto (in bozza) del Governo Renzi, in www.confronticostituzionali.it, 26 marzo 2014.
[6] R. Bin, Primo comandamento: non occuparsi delle competenze, ma delle politiche, in Le Ist. del fed., 2, 2009, 203.
[7] Così come lo erano molte altre parti del nostro sistema istituzionale e amministrativo. Per gli aspetti legati alla scuola v. S. Ventura, La politica scolastica, Bologna, 1998, 35.
[8] Per citarne alcuni: innovazione tecnologica, cambiamenti del mercato del lavoro, evoluzione dei fenomeni migratori, ecc. Per un esame approfondito v. M.S. Archer, Social origins of educational systems, Abingdon, 1986, 217.
[9] S. Ventura, La politica scolastica, cit., 36.
[10] G. Franchi, T. Segantini, La scuola che non ho. Per una politica della piena scolarità, Firenze, 1994, 31. La società moderna è caratterizzata, infatti, da un enorme incremento quantitativo e qualitativo delle domande e dei bisogni delle famiglie e delle imprese, e anche da una maggiore variazione delle domande e dei bisogni: per farvi fronte occorre puntare su una razionale divisione del lavoro tra diversi soggetti e diversi livelli istituzionali, occorre mobilitare le energie, le risorse, le idee, le iniziative di tutti, sulla base dei principi di sussidiarietà, autonomia e responsabilità.
[11] S. Ventura, La politica scolastica, cit., 36 ricorda come insieme all’Italia anche la Francia, la Svezia e la Spagna hanno operato una profonda trasformazione dei loro sistemi accentrati di istruzione per renderli più aderenti alle logiche del decentramento e della responsabilizzazione degli enti territoriali.
[12] Le trasformazioni realizzate nell’ultima parte del secolo scorso hanno consolidato una serie di trasformazioni legate essenzialmente alla cifra della differenziazione e della risposta dal basso a una serie di problemi prima identificati esclusivamente con la macchina burocratica statale. Ciò ha consentito pure di riscoprire quei principi di responsabilizzazione dei livelli più bassi e di revisione dei modelli organizzativi stato-centrici.
[13] Quest’ultimo punto della riforma prevedeva un sistema multiplo di attori: il mantenimento allo Stato essenzialmente di ‘‘compiti e... funzioni concernenti i criteri e i parametri per l’organizzazione della rete scolastica..., funzioni di valutazione del sistema scolastico, ...funzioni relative alla determinazione e all’assegnazione delle risorse finanziarie a carico del bilancio dello Stato e del personale alle istituzioni scolastiche...’’; la delega alle Regioni di funzioni amministrative concernenti soprattutto la programmazione dell’offerta formativa, della rete scolastica sulla base dei piani provinciali, la determinazione del calendario scolastico, i contributi alle scuole non statali, ecc.; il trasferimento a Province e Comuni di una serie di altre funzioni amministrative tra le quali l’istituzione, l’aggregazione, la fusione e la soppressione di scuole in attuazione degli strumenti di programmazione, la redazione dei piani di organizzazione della rete delle istituzioni scolastiche, ecc. Il tutto ‘‘fatto salvo il trasferimento di compiti alle istituzioni scolastiche previsto dall’art. 21 della l. 15 marzo 1997, n. 59’’ (art. 135 d.lgs. n. 112 del 1998). V. sul punto di recente G. Marchetti, Profili generali del sistema di istruzione scolastica, in La pubblica istruzione, a cura di E. De Marco, XXXIX, Padova, 2007, 25-26.
[14] A. Sandulli, Il sistema nazionale di istruzione, Bologna, 2003, 89 e 96-97.
[15] A dire il vero, e seguendo la metafora usata nel testo, il disegno complessivo svolto dal legislatore impedirebbe addirittura di configurare un “decentramento di andata”, in quanto sia la titolarità degli uffici territoriali sia la leva finanziaria non erano mai stati completamente devoluti alle regioni e agli altri enti territoriali.
[16] A questo si aggiunga pure – come è stato fatto rilevare – che l’attribuzione del livello dirigenziale generale all’ufficio periferico appariva «legata ad un modo di concepire i rapporti con regioni ed enti come relazioni tra uffici e non come relazioni tra livelli di governo». Cfr. A. Pajno, L. Torchia, Il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (articoli 49-51, 75-77), in La riforma del governo: commento ai decreti legislativi n. 300 e n. 303 del 1999 sulla riorganizzazione della Presidenza del consiglio e dei ministeri, a cura di A. Pajno, L. Torchia, Bologna, 2000, 369.
[17] L’art. 139 del d.lgs. n. 112 del 1998 conferisce agli enti locali un complesso di funzioni, tra cui si segnalano, in particolare, per le province, quelle relative alla istituzione, aggregazione, fusione ed eliminazione di istituti scolastici e quelle attinenti ai piani di organizzazione della rete scolastica e ai piani di utilizzazione e di uso delle attrezzature degli edifici e dei locali scolastici. Sul punto v. C. Marzuoli, Art. 139 (commento a), in Lo stato autonomista, a cura di G. Falcon, Bologna, 1998, 470.
[18] A. Sandulli, Il sistema nazionale di istruzione, cit., 76.
[19] Op. cit., 77. A queste considerazioni si aggiungano pure le note molto attuali contenute nell’ultima parte del ricco lavoro monografico di G. Coinu, Per un diritto costituzionale all'istruzione adeguata, Napoli, 2012, spec. 204 s.
[20] A. Pajno, L’autonomia come governo del sistema di istruzione, in L’autonomia delle scuole. Motivazioni, problemi, prospettive, a cura di A. Pajno, G. Chiosso, G. Bertagna, Brescia, 1997, 91.
[21] A. Sandulli, Il sistema nazionale di istruzione, cit., 72-73 parla di “struttura composita e modello a rete (…), in seno al quale sono chiamati ad operare, in modo integrato, Stato, regioni, enti locali, scuole statali, scuole non statali paritarie, enti di supporto”.
[22] C. Marzuoli, Istruzione e "Stato sussidiario", in Dir. pubbl., 1, 2002, 117 s.
[23] Nel testo previgente alle Regioni spettava, in base all’art. 117 Cost., solo la competenza concorrente in materia di «istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica».
[24] V. sul punto P. Milazzo, Una «certa idea» della potestà legislativa regionale: il caso dell'istruzione scolastica, in Lo stato costituzionale: la dimensione nazionale e la prospettiva internazionale, a cura di P. Caretti, M.C. Grisolia, Bologna, 2010, 349.
[25] Competenze desumibili dal capovolgimento del criterio di riparto delle materie. Su questo particolare aspetto dell’assetto competenziale v. S. Leo, La materia dell’istruzione: le difficoltà di ricostruzione del sistema delle fonti, in Le competenze normative statali e regionali tra riforme della Costituzione e giurisprudenza costituzionale: un primo bilancio, a cura di R. Tarchi, Torino, 2006, 71 s.
[26] Sul tema dei limiti alla potestà regionale in questo settore v. E. Gianfrancesco, G. Perniciaro, Istruzione, in Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle regioni, a cura di F. Bassanini, L. Vandelli, Bologna, 2012, 95 s.
[27] Su questo punto v. per tutti le considerazioni recenti di C. Panzera, Mediazione politica e immediatezza giuridica dei livelli essenziali delle prestazioni, in Le Regioni, 5-6, 2013, 1001 s.
[28] Il decisivo segno di discontinuità era rappresentato dal riconoscimento della potestà anche legislativa, con la possibilità per le regioni di prendere scelte politiche autonome in questo settore. A. Poggi, La legislazione regionale sull'istruzione dopo la revisione del Titolo V, in Le Regioni, 5, 2005, 98 s.; G. Marchetti, Profili generali del sistema di istruzione scolastica, cit., 103 s.
[29] Cfr. M. Cocconi, Le Regioni nell'istruzione dopo il nuovo Titolo V, in Le Regioni, 5, 2007, p. 727. Su questo punto v. anche A. Sandulli, Il sistema nazionale di istruzione, cit., 94 quando dice che «In base alla riforma, difatti, gli enti politici sub-statali (e, in particolare, le regioni) paiono essere divenuti significativi centri di elaborazione delle politiche scolastiche territoriali, in grado di poter elaborare un proprio indirizzo, anche divergente rispetto a quello statale, e negoziare, in posizione paritaria, con il governo statale, le linee di intervento in materia». Nostro il corsivo.
[30] V. Corte cost., sent. n. 13/2004. In questo caso la Corte era chiamata a giudicare di una disposizione della legge finanziaria 2002 che affidava a un organo statale – l’ufficio scolastico regionale – la distribuzione a livello regionale del personale docente tra le varie istituzioni scolastiche; tale disposizione era denunciata perché lesiva delle attribuzioni legislative regionali in materia di competenza concorrente, assumendosi che l’intervento statale non si limitava, come dovuto, alla definizione di principi, ma scendeva nel dettaglio. Per un commento della sent. v.: A. Poggi, Un altro pezzo del «mosaico»: una sentenza importante per la definizione del contenuto della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di istruzione, in Federalismi.it, 3, 2004; P. Milazzo, La Corte costituzionale interviene sul riparto di competenze legislative in materia di istruzione e" raffina" il principio di continuitā, in Le Regioni, 4, 2004; A. Pajno, Costruzione del sistema di istruzione e «primato» delle funzioni amministrative, in Giorn. dir. amm., 5, 2004; M. Olivetti, L’effettività del servizio scolastico prevale sull’autonomia regionale, in Diritto e giustizia, 2004, 40-41; A. Celotto, G. D'Alessandro, Sentenze additive ad efficacia transitoria e nuove esigenze del giudizio in via principale, in Giur. cost., 2004, 228 s.
[31] Come si legge nella stessa sent. n. 13/2004, «Una volta attribuita l’istruzione alla competenza concorrente, il riparto imposto dall’art. 117 postula che, in tema di programmazione scolastica e di gestione amministrativa del relativo servizio, compito dello Stato sia solo quello di fissare principi. E la distribuzione del personale tra le istituzioni scolastiche, che certamente non è materia di norme generali sull’istruzione, riservate alla competenza esclusiva dello Stato, in quanto strettamente connessa alla programmazione della rete scolastica, tuttora di competenza regionale, non può essere scorporata da questa e innaturalmente riservata per intero allo Stato; sicché anche in relazione ad essa, la competenza statale non può esercitarsi altro che con la determinazione dei principi organizzativi che spetta alle Regioni svolgere con una propria disciplina».
[32] Sul punto v. R. Dickmann, La Corte amplia la portata del principio di continuità (Osservazioni a Corte cost., 13 gennaio 2004, n. 13), in Federalismi.it, 1, 2004.
[33] D’altronde, già all’indomani della approvazione della legge costituzionale n. 3/2001, la dottrina aveva fatto notare che la distinzione tra norme generali e principi fondamentali, il rapporto tra la legislazione regionale e l’autonomia delle istituzioni scolastiche e, in termini generali, il modo di attuare queste previsioni (se attraverso dei trasferimenti di funzioni ovvero attraverso modalità diverse che tenessero conto del modo in cui lo stato aveva esercitato queste competenze fino a quel momento) non erano di facile comprensione per l’interprete. Su questi punti v. P. Caretti, Stato, regioni, enti locali tra innovazione e continuità. Scritti sulla riforma del Titolo V della Costituzione, Torino, 2003, 141 s. Per una ricostruzione più recente v. V. De Santis, L'istruzione tra stato e regioni, in Le dimensioni costituzionali dell'istruzione. Atti del Convegno di Roma, 23-24 gennaio 2014, a cura di F. Angelini, M. Benvenuti, Napoli, 2014, 228 s.
[34] A. Corpaci, Le prospettive della legislazione regionale in materia di istruzione, in Le Regioni, 1, 2007, 32.
[35] In generale sul punto v. la ricostruzione di E. Fagnani, Tutela dei diritti fondamentali e crisi economica: il caso dell'istruzione, Milano, 2014, 203 s.
[36] A. Poggi, Federalismo fiscale e decentramento dell’istruzione, in L'istruzione in Toscana. Regione Toscana - Rapporto 2010, Educazione - Studi e Ricerche, a cura di L. Antoni, N. Sciclone, Firenze, http://www.irpet.it/storage/pubblicazioneallegato/312_I_ Rapporto Istruzione_2010.pdf, 2011.
[37] Il percorso giurisprudenziale è efficacemente descritto da V. De Santis, L'istruzione tra stato e regioni, cit., 236 s.
[38] Legge 28 marzo 2003 n. 53. Secondo la legge per norme generali in questo settore si intendono: a) la definizione generale e complessiva del “sistema educativo di istruzione e di formazione”, delle sue articolazioni cicliche e delle sue finalità ultime; b) la regolamentazione dell’accesso al sistema ed i termini del diritto-dovere alla sua fruizione; c) la previsione generale del contenuto dei programmi delle varie fasi e dei vari cicli del sistema e del nucleo essenziale dei piani di studio scolastici per la “quota nazionale”; d) la previsione e regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai diversi cicli; e) la definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la spendibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all’esito dei percorsi formativi, nonché per il passaggio ai percorsi scolastici; f) la definizione generale dei “percorsi” fra istruzione e formazione che realizzano diversi profili educativi, culturali e professionali (cui conseguono diversi titoli e qualifiche, riconoscibili sul piano nazionale) e la possibilità di passare da un percorso all’altro; g) la valutazione periodica degli apprendimenti e del comportamento degli studenti del sistema educativo di istruzione e formazione, attribuito agli insegnanti della stessa istituzione scolastica; h) i principi della valutazione complessiva del sistema; i) il modello di alternanza scuola-lavoro, al fine di acquisire competenze spendibili anche nel mercato del lavoro; j) i principi in materia di formazione degli insegnanti.
[39] D.lgs. 19 febbraio 2004, n. 59 (“Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53”); d.lgs. 19 novembre 2004, n. 286 (“Istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione, nonché riordino dell’omonimo istituto, a norma degli articoli 1 e 3 della legge 28 marzo 2003, n. 53”); d.lgs. 15 aprile 2005, n. 76 (“Definizione delle norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, a norma dell’articolo 2 comma 1 lettera c) della legge 28 marzo 2003, n. 53”); d.lgs. 15 aprile 2005 n. 77 (“Definizione delle norme generali relative all’alternanza scuola-lavoro a norma dell’articolo 4 della legge 28 marzo 2003, n. 53”); d.lgs. 17 ottobre 2005, n. 226 (“Norme generali e livelli essenziali delle prestazioni relativi al secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, a norma dell’articolo 2 della legge 28 marzo 2003, n. 53”); d.lgs. 17 ottobre 2005, n. 227 (“Definizione delle norme generali in materia di formazione degli insegnanti ai fini dell’accesso all’insegnamento, a norma dell’art. 5 della legge 28 marzo 2003 n. 53”).
[40] A. Poggi, La legislazione regionale sull'istruzione dopo la revisione del Titolo V, cit., 934 parla di questa legge e dei successivi decreti come “contenitore sostanzialmente vuoto” che rinvia ad atti successivi normalmente regolamentari e a norme di copertura finanziaria definite altrove.
[41] Cfr. art. 63, commi 3 e 4, del d.l. n. 112/2008. A valle di questo processo sono stati adottati i seguenti provvedimenti: d.p.r. 15 marzo 2010, recante “Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei, ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133”, registrato dalla Corte dei Conti il 1° giugno 2010, registro 9, foglio 213; d.p.r. 15 marzo 2010, recante “Norme concernenti il riordino degli istituti professionali, ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133”, registrato dalla Corte dei Conti il 1° giugno 2010, registro 9, foglio 214; d.p.r. 15 marzo 2010, recante “Norme concernenti il riordino degli istituti tecnici ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133”, registrato dalla Corte dei Conti il 1° giugno 2010, registro 9, foglio 215. Per la scuola dell’infanzia aveva già provveduto, sempre con il medesimo impianto, con il d.p.r. n. 89/2009.
[42] Questo intervento prevede le seguenti azioni: aumento di un punto del rapporto alunno/docente nel corso di un triennio; riduzione del personale ATA del 17% rispetto alla dotazione organica dell’anno scolastico 2007-2008 e razionalizzazione complessiva del sistema scolastico attraverso l’accorpamento delle classi di concorso; ridefinizione dei criteri per la formazione delle classi; ridefinizione dei curricula di studio dei diversi livelli di istruzione e degli istituti tecnici e professionali; cambiamento dell’organizzazione didattica della scuola primaria; ridimensionamento della rete scolastica; ridefinizione dei centri per l’istruzione degli adulti e dei corsi serali. La legge 133/2008 prelude, in definitiva, a una vera e propria riforma dell’istruzione per realizzare “obiettivi di razionalizzazione” da cui sarebbero dovute “derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456 milioni di euro per l’anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l’anno 2010, a 2.538 milioni di euro per l’anno 2011 e a 3.188 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012” (comma 6, articolo 64, Legge 133 del 2008).
[43] V. l’art. 14, commi 17 e 18, del decreto-legge n. 95/2012, come convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135.
[44] A seguito dell’approvazione di questo decreto-legge è stata modificata l’organizzazione del Ministero dell’istruzione ed in particolare la sua articolazione territoriale. V. il d.P.C.M. n. 98/2014 che abroga il precedente d.P.R. n. 17/2009. Per un commento al testo del d.P.C.M. v. M. Cocconi, La riorganizzazione del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in Giorn. dir. amm., 1, 2015, 35 s.
[45] Tale riduzione (o stabilità) nel finanziamento pubblico si sviluppa anche in Svezia, Danimarca e Finlandia (nei paesi, cioè, del modello scandinavo di welfare), ma incide su livelli di spesa tradizionalmente molto elevati rispetto a quelli prevalentemente collocati verso il basso come in Italia e negli altri paesi che rientrano all’interno del modello di welfare mediterraneo. European Commission/EACEA/Eurydice, Funding of Education in Europe 2000- 2012: The Impact of the Economic Crisis. Eurydice Report. Luxembourg, Publications Office of the European Union, 2013, http://eacea.ec.europa.eu/education/eurydice.../ documents/thematic_reports/147EN.pdf (ultimo accesso 1 maggio 2015).
[46] Per un primo commento agli interventi regionali v. L. Castelli, Istruzione e regioni: la legislazione regionale dopo il Titolo V, in Giorn. dir. amm., 8, 2004, 839 s.; M. Caciagli, La materia dell'istruzione ei suoi interpreti: Stato, Regioni e Corte costituzionale, in Istituzioni del federalismo: rivista di studi giuridici e politici, 6, 2006, 995 s. Per le scelte in tema di istruzione e formazione professionale si v. C. Bertelli, Il sistema dell'istruzione e formazione professionale: il caso della Regione Emilia-Romagna, in Economia dei Servizi, 1, 2012, 160 s.
[47] Come riconosce già M. Cocconi, Le Regioni nell'istruzione dopo il nuovo Titolo V, cit., 730 e s. In generale sull’atteggiamento differente delle regioni in tema di competenze che hanno a che fare con i diritti sia consentito richiamare E. Longo, Regioni e diritti, Macerata, 2007, passim. Per un esame delle disposizioni statutarie sull’istruzione v. L. Michelotti, Autonomie e diritto all'istruzione nelle Regioni a statuto ordinario, in Diritti e autonomie territoriali, a cura di A. Morelli, L. Trucco, Torino, 2014, 318 s.
[48] Anche in questo caso non mancano esempi virtuosi di norme regionali che sono riuscite a coniugare vecchie materie con nuove tipologie di interventi. Sul punto v. M. Cocconi, Le Regioni nell'istruzione dopo il nuovo Titolo V, cit., 731-732.
[49] In modo simile v. anche la legge regione Liguria n. 15/2006.
[50] C. Gusmani, M. Ricciardelli, Accesso al sapere: istruzione e formazione professionale nella legge della Regione Emilia-Romagna n. 12 del 2003, in Istituzioni del federalismo: rivista di studi giuridici e politici, 2, 2004, 327 s.
[51] Sent. 26 gennaio 2005, n. 34. Sul punto v. A. Corpaci, Le prospettive della legislazione regionale in materia di istruzione, cit., 39.
[52] “Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro”.
[53] Sent. 25 marzo 2005, n. 120 che ha dichiarato infondate le censure sollevate; sent. 24 gennaio 2005, n. 26 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 22-bis della l.r. n. 32 del 2002, introdotto dalla l.r. Toscana 4 agosto 2003, n. 42.
[54] Sul punto v. A. Poggi, La legislazione regionale sull'istruzione dopo la revisione del Titolo V, cit., 929.
[55] Si parte dal nido e si arriva fino all’educazione e alla formazione delle persone in età adulta, considerando il ciclo dell’istruzione non destinato a terminare in un determinato momento della vita.
[56] Legge n. 22/2006.
[57] Per un commento all’intera vicenda e in particolare alla sent. n. 76/2013 v. quanto annota E. Fagnani, La Corte si pronuncia nuovamente sul riparto di competenze in materia di istruzione e boccia l'assunzione diretta dei docenti in Lombardia, in Le Regioni, 4, 2013, 844 s.
[58] Su questi aspetti v. l’ampia e documentata ricostruzione compiuta nel settore della salute da S. Calzolaio, Il modello dei Piani di rientro dal disavanzo sanitario dal punto di vista dell'equilibrio di bilancio, in Federalismi.it, 23, 2014.
[59] Leggi che pur avendo passato indenni il giudizio di costituzionalità sono state interpretate come leggi per lo più “innocue”. A. Poggi, La legislazione regionale sull'istruzione dopo la revisione del Titolo V, cit., 931.
[60] Sent. n. 33/2005.
[61] Sent. n. 120 del 2005.
[62] La prima volta (sent. n. 37/2005), a fronte dell’impugnativa di una disposizione della legge finanziaria 2003, che rimetteva a un decreto ministeriale la fissazione di criteri e parametri per la definizione delle dotazioni organiche di personale cosiddetto ATA (amministrativo, tecnico e ausiliario), la Corte estrapola tale ambito dalla materia istruzione, e dichiara infondata la questione proposta assumendo quale legittimo titolo del potere assegnato al Ministro la competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, comma 2, lett. g), Cost. In altre pronunce (n. 270 del 2005) la Corte afferma che rientra «sicuramente» nella competenza esclusiva appena richiamata la definizione dei compiti e dell’impegno orario del personale docente dipendente dallo Stato, «trattandosi di materia attinente al rapporto di lavoro del personale statale». Ed ancora, riporta alla suddetta competenza esclusiva altra norma in quanto «concerne in via diretta l’utilizzazione di personale docente statale».
[63] La Corte, invece, sembra fare uso della tecnica del “ritaglio” di ambiti di competenza statale in materia di competenza regionale o dell’uso del potere di definire i principi della materia come una sorta di “potere di indirizzo e coordinamento”. Sul punto v. C. Marzuoli, L'istruzione e il Titolo V: alcuni pericoli da evitare, in Le Regioni, 1, 2006, 169.
[64] Viene così ascritto alla prima categoria: l’indicazione delle finalità di ciascuna scuola, la scelta della tipologia contrattuale per taluni incarichi di insegnamento e l’individuazione dei titoli richiesti al riguardo, la fissazione del limite di età per l’iscrizione a ciascuna scuola. In una precedente decisione (n. 34 del 2005) la Corte aveva ritenuto compresa nella competenza statale in materia di norme generali sull’istruzione, oltre alla definizione delle finalità delle varie tipologie di scuola, la definizione dell’”alternanza scuola-lavoro”, disciplinata dall’art. 4 della legge n. 53 del 2003, e il passaggio tra sistema dell’istruzione e della formazione professionale, sulla scorta dell’affermazione che tale competenza si traduce nella regolazione degli “istituti generali e fondamentali dell’istruzione”. Sul tema v. il contributo di A. Iannuzzi, Norme generali sull'istruzione e riserva di legge, in Studi in onore di Franco Modugno, Napoli, 2011, 1809 s.
[65] Dunque, il concetto di “generalità” pone l’accento sulla necessità di garantire una «disciplina minima necessariamente uniforme», al fine di delineare un sistema di istruzione unitario, mentre i princìpi fondamentali, pur esprimendo un’esigenza di unitarietà, ammettono la differenziazione a livello territoriale. E. Gianfrancesco, G. Perniciaro, Istruzione, cit., 97 s.
[66] Sul punto v.: C. Marzuoli, L'istruzione e il Titolo V: alcuni pericoli da evitare, cit., 165 e s.; M. Michetti, La Corte, le Regioni e la materia dell'istruzione, in Giur. cost., 6, 2005, 5119; M. Gaggero, Il diritto all'istruzione tra esigenze di unitarietà e differenziazione, in Quad. reg., 2, 2012, 355.
[67] Cioè l’accorpamento, la fusione o la riduzione degli istituti scolastici sulla base di parametri numerici normalmente riferiti al rapporto docenti-studenti (art. 62, comma 4, lett. f-bis).
[68] Le censure prospettate dalla Regioni si incentravano, in particolare, sulla base della violazione dell’art. 117 Cost., commi 3 e 6, in quanto le norme impugnate sarebbero riconducibili alla materia concorrente “istruzione” e non consentirebbero, di conseguenza, allo Stato di intervenire in via regolamentare.
[69] Sent. n. 279/2005.
[70] Nella sentenza n. 200/2009 la Corte ha affermato che fanno parte delle norme generali sull’istruzione «quelle disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario ed uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione (interesse primario di rilievo costituzionale) (...)». Le disposizioni così definite si caratterizzano, oltre che per il fatto di dettare discipline che non necessitano di ulteriori svolgimenti normativi a livello di legislazione regionale, anche perché sono “funzionali” ad assicurare «l’identità culturale del Paese, nel rispetto della libertà di insegnamento di cui all’art. 33, primo comma, Cost.». Appartengono invece alla categoria delle disposizioni espressive di “principi fondamentali” «quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che caratterizza le norme generali sull’istruzione e, dall’altro, necessitano, per la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale il quale deve conformare la sua azione all’osservanza dei principi fondamentali stessi». In particolare, l’intervento del legislatore regionale è necessario «quando si tratta di disciplinare situazioni legate a valutazioni coinvolgenti le specifiche realtà territoriali delle Regioni, anche sotto il profilo socio-economico». Si tratta, quindi, precipuamente, del settore della programmazione scolastica regionale e di quello inerente al dimensionamento sul territorio della rete scolastica. Sul punto v. le osservazioni di: F. Cortese, L'istruzione tra norme generali e principi fondamentali: ossia, la Corte costituzionale tra contraddizioni formali e conferme sostanziali, in Le Regioni, 3, 2010, 511 e s.; M. Troisi, La Corte tra "norme generali sull'istruzione" e "principi fondamentali". Ancora alla ricerca di un difficile equilibrio tra (indispensabili) esigenze di uniformità e (legittime) aspirazioni regionali, in Le Regioni, 3, 2010, 531 s.
[71] Tali parametri sono ricavati, in primo luogo, dal dettato costituzionale, negli articoli 33 e 34 della Costituzione relativi alla istituzione di scuole per tutti gli ordini e gradi (art. 33, secondo comma), al diritto di enti e privati di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato (art. 33, terzo comma), alla parità tra scuole statali e non statali sotto gli aspetti della loro piena libertà e dell’uguale trattamento degli alunni (art. 33, quarto comma), afta necessità di un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuola o per la conclusione di essi (art. 33, quinto comma), all’apertura delle scuola a tutti (art. 34, primo comma), alla obbligatorietà e gratuità dell’istruzione inferiore (art. 34, secondo comma), al diritto degli alunni capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi (art. 34, terzo comma), alla necessità di rendere effettivo quest’ultimo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso (art. 34, quarto comma).
[72] Anzitutto la legge n. 53/2003, i decreti legislativi adottati in attuazione delle deleghe contenute in tale legge, nonché le ulteriori discipline legislative sulla autonomia funzionale delle istituzioni scolastiche (legge n. 59/1997, art. 21), sull’assetto degli organi collegiali della scuola (d.lgs n. 233/1999) e sulla parità scolastica (legge n. 62/2000). A tali fonti si aggiungono inoltre, ad avviso della Corte, i principi da questa affermati nei propri precedenti, richiamando in particolare le sentenze n. 13/2004, e 24, 120 e 279/2005.
[73] Su questo punto v. le considerazioni di G. Salerno, Le competenze in materia di istruzione e formazione professionale nel vigente ordinamento costituzionale, in Federalismi.it, 16, 2006.
[74] Il Ministero per il futuro dovrà astenersi dall’adottare atti normativi che incidano sulla programmazione della rete scolastica in sede regionale e, quindi, sulla distribuzione dell’organico nazionale (docente e ATA) tra le Regioni. Il venir meno del potere ministeriale di determinazione dei criteri di dimensionamento della rete scolastica regionale obbligherà le Regioni ad assumersi la gravosa, ma a questo punto inevitabile, responsabilità di ridefinire concordemente quelli attuali. La scarsità e riduzione di risorse in termini di personale (docente ed ATA) implicherà inevitabilmente un riequilibrio complessivo su scala nazionale della consistenza numerica delle classi e dell’impiego del relativo personale ATA. Non saranno più tollerabili, in altri termini, le attuali situazioni di squilibrio che vedono rapporti numerici alunni-docenti assolutamente differenti a seconda della parte del territorio. Sul punto v. A. Poggi, Federalismo fiscale e decentramento dell’istruzione.
[75] Le norme che prevedono un incremento graduale di un punto del rapporto alunni/docenti allo scopo di accostarlo agli standard europei e la revisione dei criteri e dei parametri fissati per la definizione delle dotazioni organiche del personale ATA in modo da consentire nel triennio 2009-2011 una riduzione complessiva del 17% della consistenza numerica della dotazione organica dell’anno 2007-2008 continuano ad applicarsi. Op. cit.
[76] Pur non essendo stata dichiarata incostituzionale dalla Corte, tale previsione non più considerabile precettiva per le Regioni in forza del fatto che esse si sono viste riconoscere dalla Corte la competenza in materia di dimensionamento. A questo punto le regioni potrebbero richiedere un’Intesa “forte” oppure, in caso di mancato raggiungimento della stessa, potrebbero provvedere autonomamente sulla base dei criteri di dimensionamento esistenti (quali, ad esempio, quelli contenuti nell’ancora vigente d.p.r. n. 233 del 1998). Sul punto v. Op. cit.
[77] Pur non riportandola nel testo, si deve dare conto anche della sent. resa in un conflitto di attribuzione in merito alla organizzazione della scuola dell’infanzia (sent. n. 92/2011). Per un commento alla sent. v. P. Scarlatti, Perplessità e cautele sui criteri attinenti al riparto di competenze normative tra Stato e Regioni in materia di istruzione, tra distinzioni incerte e prospettive di delegificazione, in Giur. It., 4, 2012, 4 s.
[78] Art. 19, comma 4, del decreto-legge n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111/2011.
[79] Formati dalla aggregazione di scuola dell’infanzia, scuola primaria e scuola secondaria di primo grado. Nell’articolo si prevedeva pure che gli istituti comprensivi per acquisire l’autonomia dovevano essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche.
[80] Su tali aspetti v. G.C. De Martin, Una sentenza significativa ma non certo risolutiva, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2012.
[81] L’art. 8 della legge regionale n. 7 del 18 aprile 2012 stabili(va) l’inserimento di quattro nuovi commi all’art. 3 della legge regionale n. 19 del 2007 dedicato alla valorizzazione dell’autonomia scolastica, aprendo alle scuole statali la possibilità di organizzare concorsi di istituto, differenziati a seconda del ciclo di studi, al fine di reclutare il personale docente con incarico annuale.
[82] La legge evidentemente restringeva la sperimentazione ai soli docenti già iscritti nelle graduatorie provinciali ad esaurimento. L’intera operazione era subordinata a uno specifico accordo con lo Stato senza del quale la regione non sarebbe potuta partire con la sperimentazione.
[83] Su questi aspetti v. il commento alla sentenza di E. Fagnani, La Corte si pronuncia nuovamente sul riparto di competenze in materia di istruzione e boccia l'assunzione diretta dei docenti in Lombardia, cit., 859 s.
[84] Occorre ricordare che tale sentenza, confermando un orientamento già affermato con la sentenza n. 200/2009, ha ribadito come la materia del dimensionamento della rete scolastica sia ambito di spettanza regionale.
[85] Si v. Tar Basilicata, n. 357/2012, Tar Calabria (Catanzaro) n. 759/2013, Tar Calabria (Reggio Calabria) n. 516/2012, Tar Campania n. 2046/2014, Tar Molise n. 458/2014.
[86] Un indirizzo che ci pone in controtendenza rispetto agli altri paesi OCSE. Sul punto v. C. Agostini, Istruzione e welfare: modelli e andamenti della spesa, in Scuola democratica, 3, 2013, 671 s.
[87] L’evento recente tra i più esemplificativi di questa situazione è sicuramente la sentenza della Terza Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione europea che ha dichiarato contraria alle norme e ai principi dell’Ue la normativa italiana che consentiva di reiterare sine die le supplenze per la scuola. Sentenza del 26 novembre 2014, resa nelle cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13 e C-418/13.
[88] A. Armone, La scuola autonoma al bivio tra neocentralismo ministeriale e nuova dimensione dei territori, in Scuola democratica, 3, 2014, 701 s.
[89] Da ultimo E. Fagnani, Tutela dei diritti fondamentali e crisi economica: il caso dell'istruzione, cit., passim.
[90] Non può negarsi che ancora oggi il Ministero dell’Istruzione svolge un ruolo di governo del sistema oltre che di regolazione e che gli uffici periferici costituiscono il principale referente degli istituti scolastici. Dal canto suo la Corte costituzionale non ha aiutato a dirimere i problemi, tendendo a interpretare riduttivamente le competenze regionali e a giustificare le scelte statali usando le competenze esclusive che non sono collegabili direttamente con l’istruzione. Come l’“ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali” di cui alla lett. g), comma 2, art. 117 Cost. (Corte. cost., sent. n. 73/2013).
[91] Si v., ad es., i Pareri sulla determinazione dell’organico docente degli anni 2013-2014 e 2014-2015.
[92] Per un esame degli ultimi interventi sul punto v. M. Cocconi, Il decreto istruzione, università e ricerca, in Giorn. dir. amm., 3, 2014, 236 s.
[93] Su questo punto si rinvia al contributo di G. Perniciaro in questo volume.
[94] L. Cianfriglia, La questione della governance per l'istruzione. L'innovazione che nasce dalle pratiche, in Scuola democratica, 3, 2014, 713 s.
[95] Si veda a questo proposito il Rapporto 2008 sulla “Revisione della spesa pubblica” da cui originano tutti gli interventi normativi successivi di accorpamento delle scuole, distribuzione territoriale e riduzione degli organici.
[96] Nonostante oggi su questi temi i giuristi debbano rincorrere le teorie economiche occorre ricordare che già alla fine del diciannovesimo secolo la dottrina giuridica americana aveva messo in luce la dipendenza dal “percorso” dello sviluppo della legge (O.W. Holmes, The path of the law, in Harvard Law Review, 1897, ora in “Collected legal papers”, New York, 1920). Un interessante esame di questo principio adattato al funzionamento degli ordinamenti giuridici è stato di recente svolto da O.A. Hathaway, Path dependence in the law: The course and pattern of legal change in a common law system, in Iowa Law Review, 2001, 601 s. Per un utilizzo recente di questo principio nel settore regionale v. il consistente lavoro di S. Calzolaio, Il modello dei Piani di rientro dal disavanzo sanitario dal punto di vista dell'equilibrio di bilancio, cit., 4 s.
[97] A. Poggi, L’autonomia scolastica nel sistema delle autonomie regionali, in Le Ist. del fed., 2, 2004, 231; R. Morzenti Pellegrini, Istruzione e formazione nella nuova amministrazione decentrata della Repubblica, Giuffrè, 2004.
[98] O una “destatalizzazione”, come è stato di recente detto da V. De Santis, L'istruzione tra stato e regioni, cit., 226 s.
[99] Assai rilevante è poi l’attribuzione alle scuole della titolarità di stipulare intese con gli enti locali e con altri soggetti pubblici e privati del territorio.
[100] Secondo il d.d.l. di riforma rientrerebbe nella competenza statale esclusiva solo il potere di dettare norme su: disposizioni generali e comuni sull’istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica. Mentre rientrerebbe nella potestà esclusiva/residuale regionale il potere di dettare norme in materia di “servizi scolastici, di istruzione e formazione professionale, di promozione del diritto allo studio, anche universitario”, fatta salva “l’autonomia delle istituzioni scolastiche”. Rimane ferma la possibilità per il governo di “intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” (cd. clausola di supremazia).
[101] V. Campione, Riflessioni sull'autonomia scolastica, in Scuola democratica, 1, 2013.
[102] Sulla eccessiva standardizzazione e centralità del nostro sistema scolastico v. S. Troilo, Titolo V e nuova governance del sistema scolastico tra Stato, Regioni e autonomie locali. Il ruolo delle Istituzioni scolastiche autonome. Le associazioni di scuole autonome, in Forum dei Quaderni Costituzionali, 2013.
[103] Come era già stato indicato da E. Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Milano, 2001, 5 s.
[104] Si vedano a questo proposito gli artt. 6 e 7 del d.d.l. AC 2994.
[105] Come titolano gli slogan apparsi nelle manifestazioni svoltesi in concomitanza allo sciopero generale indetto dalle sigle sindacali della scuola il 5 maggio 2015.
[106] Un effetto che sarebbe ancora più forte, se la riforma del lavoro avviata con la legge delega n. 183/2014 (cd. Jobs Act) si applicasse automaticamente anche al pubblico impiego. Sul punto vi sono pareri contrastanti come testimoniato da più fonti. V. per tutte l’articolo di G. Cazzola, Jobs act Poletti 2.0. e pubblico impiego: Maurizio Sacconi e il Servizio Studi della Camera riaprono il problema, in www.bollettinoadapt.it (ultimo accesso 9 maggio 2015).
 

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