Studio tratto da ISSiRFA-CNR, Secondo Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia (2003)(di cui costituisce il XII capitolo), Milano, 2004.

1 - Introduzione.
2 - Importanza finanziaria, costituzionale e politica dell’assistenza sanitaria.
3 - Complessità della politica sanitaria.
4 - Qualità della politica sanitaria a livello regionale.
5 - Come migliorare le capacità regionali nel policy making.
6 - Conclusioni
NOTE



1 - Introduzione


Nel 2003 il dibattito sulla devoluzione ha continuato a focalizzarsi sulle caratteristiche fondamentali del nuovo sistema, essenzialmente sulla natura delle sue istituzioni e l’attribuzione delle competenze ai diversi livelli di governo. La discussione si è incentrata, quindi, sulla creazione di un Senato delle regioni, sulla composizione della Corte costituzionale, sulla devoluzione alle regioni delle competenze in materia di assistenza e organizzazione sanitaria, di organizzazione scolastica e gestione degli istituti scolastici, di polizia locale.
Chiarire le macro-caratteristiche del nuovo sistema e assicurare su di esse un ampio accordo è ovviamente fondamentale per il futuro successo del sistema nascente. Tuttavia l’esperienza dei sistemi federali maturi suggerisce che inevitabilmente ci sarà un lungo processo di aggiustamento.
E’ anche probabile che ci saranno movimenti ciclici nel reale equilibrio di potere tra il centro e le regioni. Nel corso del tempo, per esempio, in Canada e in USA il pendolo ha oscillato avanti e indietro tra province/stati e governo federale. Prima della Seconda guerra mondiale e fino ad almeno la metà degli anni ’70 le relazioni intergovernative in ambedue i paesi sono state decisamente dominate dal governo federale. Ciò era dovuto in parte alla necessità di un controllo centrale sull’uso di risorse finanziarie, materiali ed umane durante la Depressione e la Seconda guerra mondiale e, in seguito, all’attuazione di politiche macro-economiche keynesiane e di ambiziosi programmi di welfare. Era anche opinione largamente diffusa che le province e gli stati fossero tecnicamente mal attrezzati per assumere maggiori responsabilità nella progettazione e nell’attuazione di complessi programmi economici e sociali. Negli ultimi decenni, invece, il potere è tornato alle province e agli stati, come conseguenza della richiesta in tal senso da parte delle province e degli stati stessi e della disillusione, da parte dei cittadini, nella capacità del governo centrale di formulare politiche capaci di rispondere efficacemente ai loro bisogni.
Questi cambiamenti nell’equilibrio dei poteri si sono verificati nel lungo termine, ma dimostrano comunque quanto fattori “ambientali” possano essere importanti nel determinare il carattere dei sistemi federali. Anche in Italia la forma del nuovo sistema di governo e l’equilibrio intergovernativo dei poteri potrebbe essere influenzato in modo cruciale da fattori “ambientali” chiave, in primo luogo dalle caratteristiche del settore sanitario.
Questo capitolo illustra l’importanza finanziaria, costituzionale e politica del settore sanitario. Tale importanza si riflette nel fatto che il settore ha già avuto un’influenza significativa, diretta e indiretta, sul disegno del modello di devoluzione ed è probabile che continui ad averla. Il capitolo spiega, poi, perché la formulazione della politica sanitaria sia un problema particolarmente complesso e superiore alla capacità di numerose regioni. Ciò inevitabilmente ha creato dubbi da parte del governo centrale e delle forze sociali, in particolare sulla capacità delle regioni di rispettare i loro obblighi di controllo della spesa e di tutela dell’interesse nazionale nell’assistenza sanitaria. Il capitolo suggerisce che tali dubbi influenzeranno la volontà delle autorità centrali di devolvere – de jure e de facto - i poteri alle regioni. Il capitolo conclude ipotizzando che l’influenza frenante del settore sanitario nel processo di devoluzione può essere ridotta migliorando le capacità delle regioni nella formulazione e nell’attuazione delle politiche sanitarie.


2 - Importanza finanziaria, costituzionale e politica dell’assistenza sanitaria

Il settore dell’assistenza sanitaria in termini finanziari, al confronto con la maggioranza degli altri settori, ha proporzioni enormi. La spesa sanitaria pubblica nel 2003 in Italia ha assorbito il 6,3% del PIL, il 13,6% del totale della spesa pubblica, il 22,6% del totale della spesa pubblica sociale, il 51% della spesa complessiva delle regioni speciali ed il 58,6% di quella delle regioni ordinarie. Questo significa che il settore è di cruciale importanza per una ottimale gestione delle finanze pubbliche del paese e per efficaci strategie volte a garantire il rispetto, da parte dell’Italia, delle regole imposte dall’Unione monetaria europea in merito ai livelli massimi consentiti al deficit del bilancio annuale e al debito pubblico totale.
Sebbene il progetto di federalismo fiscale contenuto nel decreto legislativo n. 56/2000 riguardasse vari settori, era incentrato principalmente sulle modalità di finanziamento del Servizio sanitario nazionale in un regime di governo decentralizzato. I dubbi sulla fattibilità di un efficace controllo della spesa sanitaria pubblica nel nuovo sistema ha comportato, in effetti, la sospensione da parte del governo centrale di importanti elementi del progetto.
Il settore dell’assistenza sanitaria è anche importante per ragioni di giustizia sociale. Ne è una riprova concreta l’affermazione del diritto dei cittadini alla salute contenuta nella Costituzione e l’attenzione prestata dalla giurisprudenza costituzionale alla tutela di questo diritto. La giustizia sociale è anche la base per i tre principi di universalismo, globalità e gratuità delle prestazioni sanitarie, enunciati dalla L. n. 833/1978 e reiterati nella normativa successiva, per esempio dal decreto legislativo n. 299/1999. La preoccupazione sul rischio di una eccessiva diversità geografica nella prestazione di servizi sanitari come risultato della decentralizzazione ha portato all’elaborazione, a cominciare dal 1992, dei livelli essenziali di assistenza (LEA), quale strumento per tutelare l’interesse nazionale nel SSN. I LEA successivamente sono serviti come modello per i livelli essenziali di prestazioni previsti nella legge costituzionale n. 3, art. 117, comma 2, lettera 2 ”m” del 2001.
Dall’importanza finanziaria e costituzionale del settore dipende anche la sua importanza politica. Il governo nazionale ha obblighi finanziari a livello internazionale e responsabilità costituzionale a livello nazionale. Le regioni hanno obblighi finanziari a livello nazionale e inoltre considerano la sanità come un insostituibile simbolo della loro ragion d’essere e della loro sovranità rispetto al governo centrale. Recenti sondaggi d’opinione mostrano che un’ampia maggioranza dei cittadini è favorevole all’uniformità nazionale nei livelli di assistenza sanitaria e nei costi dell’assistenza per i pazienti (1). Ambedue i livelli di governo sono prevedibilmente sensibili alle implicazioni elettorali di un mancato rispetto di questi principi.


3 - Complessità della politica sanitaria

L’assistenza sanitaria è, tuttavia, un’area complessa del policy making. Ciò vale in particolare per il controllo della spesa. La spesa sanitaria è alimentata da una serie di fattori sui quali lo stato e, in particolare, le regioni hanno un controllo limitato. A questo riguardo è di particolare rilievo la rapida espansione delle frontiere della conoscenza medica. L’esperienza mostra che, una volta introdotta una nuova tecnica diagnostica o terapeutica, essa rapidamente diviene parte dell’armamentario medico, anche in assenza di una solida evidenza scientifica della sua efficacia clinica. Il secondo fattore che contribuisce alla crescita della spesa è l’uso aggressivo - e, a detta di molti esperti, frequentemente inappropriato – di nuove tecnologie mediche per la cura dell’anziano. Tuttavia è difficile, specialmente per le regioni, indurre i medici a cambiare i loro comportamenti prescrittivi. Terzo, il settore dell’assistenza sanitaria è caratterizzato dalla presenza di potenti gruppi d’interesse (per esempio medici, ospedali universitari, industria farmaceutica, associazioni dei pazienti) che possono ostacolare gli sforzi di razionalizzazione delle risorse: inevitabilmente, il contenimento della spesa equivale al contenimento delle remunerazioni di medici e di altro personale, dei redditi di fornitori di beni e servizi sanitari e non sanitari e delle prestazioni erogate ai pazienti. Quarto, vincoli costituzionali e considerazioni politiche possono rendere difficile operare tagli drastici nelle prestazioni e quindi maggiori risparmi. Quinto, la salute della popolazione dipende non solo dall’assistenza sanitaria che essa riceve, ma anche da fattori quali il livello del reddito familiare, il grado di istruzione, i comportamenti personali, lo stato dell’ambiente, la qualità delle abitazioni e l’igiene pubblica. Talvolta può essere più efficace economicamente spendere di più nel combattere gli effetti negativi sulla salute di questi fattori e meno sull’assistenza sanitaria. Tuttavia le politiche intersettoriali richiedono collaborazioni e coordinamenti intersettoriali e intergovernativi, ambedue notoriamente difficili da effettuare. Infine, una serie di fattori determinano la spesa sanitaria complessiva a breve termine: costi del personale dipendente, retribuzione dei medici convenzionati, tariffe per strutture convenzionate, prezzi dei farmaci, la economicità e l’efficienza con cui sono utilizzate le risorse. Il governo centrale ha rilevanti responsabilità al riguardo, come pure le regioni, e anche qui sarebbe ideale realizzare una cooperazione intergovernativa, in realtà molto difficile da ottenere.
Il controllo della spesa sanitaria è un problema assai complesso in qualunque paese ed effettivamente i governi combattono ovunque con limitato successo contro i costi crescenti. Tuttavia, contenere la spesa sanitaria è particolarmente importante per l’Italia, a causa del suo enorme debito pubblico, il più elevato nell’Unione europea, pari al 106% del PIL, ben più alto di quello degli altri principali paesi dell’Unione monetaria europea, Germania (64,2%), Francia (63%) e Spagna (50,8%). Ciò significa che la politica sanitaria è molto più vincolata finanziariamente in Italia che altrove. In concreto, se l’Italia avesse livelli di indebitamento simili a quelli dei tre paesi prima citati, sarebbe possibile spendere una parte consistente dei 70,1 miliardi di euro spesi nel 2003 per interessi passivi (2), per migliori prestazioni sanitarie, oltre che per migliori scuole, un più efficiente sistema giudiziario, prigioni più umane, ecc. (e/o tasse più basse). La politica sanitaria è anche condizionata dal fatto che l’Italia ha livelli più elevati di spesa sulle pensioni e un’evasione fiscale più diffusa degli altri paesi.
E’ anche molto complesso definire ed attuare politiche volte a soddisfare i requisiti costituzionali sui LEA. Lo stato ha la responsabilità formale di stabilire i livelli e le regioni sono responsabili per la loro attuazione. Considerazioni pratiche e politiche rendono, però, opportuno che le regioni siano anche pienamente coinvolte nella definizione dei LEA. Un effettivo rispetto dei LEA comporta che le regioni trasmettano istruzioni piuttosto dettagliate alle loro Aziende sanitarie locali e Aziende ospedaliere sulle prestazioni da garantire (o su quelle che non devono essere fornite) nonché un sofisticato monitoraggio della conformità di comportamento o meno con queste istruzioni.


4 - Qualità della politica sanitaria a livello regionale

E’ chiaro, quindi, che il controllo della spesa sanitaria e la gestione dei LEA sono in ambedue i casi attività che richiedono, da parte delle regioni, una capacità piuttosto sofisticata di attuare le politiche stabilite a livello centrale e di definire e attuare politiche proprie. Al contrario, le regioni hanno sistematicamente mancato gli obiettivi annuali per la spesa sanitaria pubblica aggregata stabiliti dal Ministero dell’economia (già del Tesoro), se si esclude un breve periodo a metà degli anni ’90; le prime informazioni disponibili suggeriscono che alcune regioni possono anche risultare carenti rispetto alla loro gestione dei LEA.
Il Ministero dell’economia ha rimproverato le regioni per l’eccesso di spesa e, a loro volta, le regioni hanno accusato il Ministero di sottofinanziamento. Ambedue le accuse sembrano fondate: le regioni non sono state sufficientemente diligenti nel controllo dei comportamenti di spesa delle loro Aziende sanitarie locali e ospedaliere (3), mentre si è ammesso ufficialmente in numerose occasioni che il governo centrale è ricorso sistematicamente ad un deliberato sottofinanziamento, come strumento di contenimento della spesa (4). Nel 2001 è stato fatto un tentativo di raggiungere un accordo sul livello di finanziamento necessario per erogare i LEA (Accordo stato-regioni 8.8.2001 e d.c.p.m. 29.11.2001). Qualsiasi altra spesa addizionale sarebbe stata finanziata dalle regioni. Questo approccio in un primo tempo è sembrato promettente, ma il modo in cui i LEA sono stati definiti (principalmente specificando i servizi che non sarebbero stati coperti, piuttosto che quelli da coprire), ha incoraggiato l’espansione della spesa sanitaria piuttosto che limitarla. Le regioni hanno continuato a registrare disavanzi, il Ministero dell’economia sembra aver abbandonato i LEA come strumento di contenimento della spesa ed è ripreso nuovamente l’eterno e in definitiva sterile dibattito se il problema sia di eccesso di spesa o di sottofinanziamento. Tuttavia, senza soffermarsi sull’attribuzione di responsabilità per il fallimento del rispetto dei tetti di spesa, ciò che rileva ai fini della presente analisi è che il Ministero dell’economia sembra profondamente scettico sulla capacità delle regioni (e, forse, anche sulla loro volontà) di contenere la spesa sanitaria entro i limiti che considera necessari perché l’Italia sia in grado di rispettare le norme dell’Unione monetaria europea.
E’ troppo presto per dare un giudizio sulla qualità delle politiche regionali finalizzate a garantire il rispetto dei LEA. Il Ministero della salute, tuttavia, sembra nutrire forti dubbi sulla capacità e la volontà delle regioni al riguardo ed esiste già un consistente contenzioso in materia presso la Corte costituzionale. C’è anche una diffusa preoccupazione nella classe politica e tra gli opinion leaders sul rischio di sostanziali diversità interregionali nelle prestazioni sanitarie offerte.
Tali dubbi riguardanti la capacità delle regioni di attuare politiche nazionali e di varare e applicare politiche proprie stanno creando (o, forse più correttamente, stanno rafforzando) riserve da parte delle autorità nazionali su quanto potere sia da concedere alle regioni in campo sanitario e in altri settori. In altre parole, è probabile che il modo di valutare la capacità delle regioni di fare e attuare politica sanitaria influenzerà fortemente l’intero disegno del federalismo italiano. Forti dubbi sulla capacità regionale al riguardo possono portare a ripensamenti sui poteri (e sulle risorse finanziarie) da devolvere alle regioni e/o sulla creazione di meccanismi con i quali lo stato possa intervenire in caso di inadempienza e/o sull’adozione di un modello di federalismo “a due velocità”. Nel caso in cui nessuna di queste opzioni sia politicamente praticabile, la prospettiva potrebbe essere quella di regioni dotate di forti poteri, ma con autorità nazionali molto agguerrite nel promuovere e tutelare l’interesse nazionale, come da loro inteso. In una situazione così conflittuale, sarebbero minimali le prospettive di una effettiva collaborazione intergovernativa nel policy making (indicata sopra come essenziale per politiche efficaci). Questo non sarebbe un brillante inizio per una neonata 'federazione'. Un aiuto per evitare che questo tetro scenario si concretizzi potrebbe venire dall’adozione di strategie per migliorare le capacità delle regioni nel progettare e attuare politiche.


5 - Come migliorare la capacità regionali nel policy making

La capacità nel policy making (CPM) è difficile da definire e ancor più difficile da misurare. Tuttavia è opinione generale che, mentre alcune regioni italiane si possono considerare amministrativamente capaci e innovative, al livello delle migliori regioni europee, altre regioni sono notevolmente più arretrate. Per esempio, alcune regioni sono state attive ed innovative nel modo in cui hanno attuato i provvedimenti indicati nel decreto legislativo n. 502/1992 e successive modificazioni, per il finanziamento degli ospedali pubblici e privati e per l’introduzione di alcuni elementi di concorrenza nel SSN. Altre, invece, prima hanno procrastinato e poi, al più, hanno meramente “fotocopiato” i provvedimenti emanati al riguardo dal Ministero della sanità (5). Altro esempio: alcune regioni sono state abbastanza innovative nell’adozione di misure per risultare idonee, a norma dell’Accordo dell’8 agosto 2001, al finanziamento statale per ripianare disavanzi pregressi; altre sono state, nel migliore dei casi, letargiche e prive di fantasia e, nei casi peggiori, inadempienti (6).
Molte delle regioni che possono essere considerate arretrate in termini di capacità amministrativa tendono anche ad essere arretrate economicamente. L’Italia è l’unico tra i paese sviluppati a combinare dualismo amministrativo e dualismo economico. Federazioni mature come Canada, Australia, USA e Germania registrano tutte sostanziali differenze geografiche nel PIL pro capite, ma non si rilevano differenze di rilievo tra le province, gli stati o i Länder rispetto alle loro capacità amministrative. Ciò, tuttavia, non si è sempre verificato.
L’esempio più recente è la Germania. La riunificazione delle due Germanie ha rivelato che i Länder orientali non erano sufficientemente attrezzati per gestire il processo di introduzione delle istituzioni, delle strutture amministrative, dei programmi e delle politiche della Germania Occidentale. Il problema fu affrontato in parte trasferendo personale statale e regionale per rimpiazzare i burocrati ex-comunisti, particolarmente, ma non solo, a livello dirigenziale. Quando in Canada negli anni ’60 il governo federale cominciò a restituire alle province i poteri ceduti temporaneamente al centro durante la Depressione e la Seconda guerra mondiale, si constatò che alcune delle province più piccole e/o economicamente meno sviluppate mancavano della capacità di adempiere in modo soddisfacente a tutte le loro competenze. Il governo federale organizzò programmi di assistenza tecnica a breve termine, finalizzati al miglioramento della CPM delle province (7). Più in generale, negli anni ’30 negli USA gli stati erano descritti come gli “anelli più deboli” del sistema federale, e negli anni ’60 e nei primi anni ’70 ancora si riteneva che mancassero della capacità di giocare un ruolo decisivo nell’affrontare i problemi socio-economici riguardanti gran parte della popolazione americana, per cui il governo federale aveva varato i programmi della Nuova Frontiera e della Nuova Società (8). Dalla metà degli anni ’80 e negli anni ’90 gli stati hanno fatto tali progressi nel migliorare la loro capacità di programmare e attuare delle politiche che “sembrava ora vanificato qualunque vantaggio goduto una volta sugli stati dal governo federale” (9).
Se si vogliono prendere iniziative per migliorare la CPM, è necessario avere un’idea chiara di cosa significa operativamente questo termine. Una definizione generale è la abilità di un governo “di raggiungere obiettivi, specialmente a fronte della effettiva o potenziale opposizione di potenti gruppi sociali” (10). Secondo una definizione più specifica, la CPM è l’abilità dei governi di “gestire le proprie attività, di tutelare e promuovere più efficacemente i loro interessi e di attenuare la loro vulnerabilità rispetto a rovinosi cambiamenti determinati da fattori esogeni” e “di formulare e attuare piani, programmi e politiche per attuare obiettivi del governo” (11). Dimensioni chiave della CPM sono l’abilità di: anticipare e influenzare il cambiamento; prendere decisioni informate e intelligenti sulle politiche; gestire risorse; valutare le politiche per orientare l’azione futura (12).
Migliorare la CPM richiede, in primo luogo, investimenti in capitale umano, ovvero formazione di personale tecnico ed amministrativo per metterlo in grado di adempiere ai compiti necessari per realizzare le dimensioni-chiave del processo di policy making appena elencate. Richiede, inoltre, che si utilizzi al massimo il capitale umano così migliorato. Perché ciò accada, alle regioni si devono proporre gli incentivi giusti, nel senso che deve risultare loro evidente che si possono ottenere benefici addestrando bene del personale che sia poi ben utilizzato. L’Accordo stato-regioni dell’8 agosto 2001 richiedeva che le regioni, come condizione per ricevere aiuto finanziario per coprire i passati deficit, descrivessero in dettaglio al Ministero dell’economia come si proponevano di coprire i deficit previsti dell’esercizio successivo. Ciò può aver incoraggiato alcune regioni amministrativamente arretrate ad utilizzare meglio il personale tecnico esistente, ma probabilmente non c’era tempo sufficiente per nuovi programmi di formazione. L’Accordo può anche aver incoraggiato alcune regioni a cercare consapevolmente di apprendere da altre regioni, adattando le loro politiche alle proprie specifiche necessità.
E’ necessario che si analizzino i motivi per cui alcune regioni investono più di altre in capitale umano o perché vogliano apprendere di più dalle esperienze altrui o tendano ad essere più innovative. Nel caso di alcune regioni, il comportamento virtuoso in tale direzione sembra essere il risultato di fattori endogeni. Altre regioni apparentemente hanno necessità di incentivi esogeni. Alcune regioni apparentemente ancora non hanno realizzato che l’assunzione o la formazione di personale sulla base di criteri di clientelismo, anzichè di merito, non è soltanto eticamente riprovevole, ma può essere estremamente costoso in termini di CPM sacrificata e quindi di un policy making più debole.
Lo stato può aiutare le regioni contribuendo al costo di programmi di formazione. Può anche incoraggiare le regioni ad apprendere dalle esperienze altrui, garantendo la diffusione, in modo sistematico, dell’informazione su casi di politiche regionali di successo. Tuttavia, il miglioramento della capacità delle regioni di progettare e attuare le politiche non è meramente una questione di migliore formazione o di migliore utilizzazione del personale negli uffici esecutivi. Studiosi del processo di miglioramento di CPM sperimentato dagli stati americani hanno adottato una visione più ampia della questione. Essi suggeriscono che i miglioramenti ottenuti nella CPM statale sono anche il risultato di riforme chiave nelle costituzioni degli stati, di miglioramenti nell’organizzazione e nel personale delle assemblee legislative e negli uffici dei governatori degli stati, e di cambiamenti nelle modalità in uso per predisporre ed attuare i bilanci statali (13). Un tale approccio integrato al problema di migliorare la CPM va oltre la creazione di sistemi amministrativi più sofisticati; è anche finalizzato a migliorare l’abilità dei politici di prendere decisioni e fare scelte basate su questi nuovi sistemi amministrativi.


6 – Conclusioni

La devoluzione coinvolge lo stato che si spoglia del suo potere e lo cede a livelli più bassi di governo. Tuttavia lo stato ha ancora l’obbligo di tutelare l’interesse nazionale in un’ampia gamma di settori e di rispettare gli accordi internazionali, per esempio con l’Unione europea. Il governo centrale quindi ha bisogno di regioni che funzionino bene, perché da ciò in parte dipende la sua possibilità di adempiere ai suoi obblighi. La stabilità di un sistema devoluto presuppone, quindi, che ci sia un’adeguata capacità di programmare e attuare delle politiche a tutti i livelli di governo. In caso contrario, lo stato può tendere a concentrare potere, come è accaduto per un certo periodo sia negli Stati Uniti che in Canada, o, quando la forma di devoluzione deve essere ancora precisamente definita, come in Italia, lo stato può essere tentato di mantenere i propri poteri. Ciò potrebbe generare tensioni ed instabilità. In Italia tale problematica si evidenzia in modo eclatante nel settore dell’assistenza sanitaria. Fallire nel risolvere in modo significativo il deficit di CPM in quel settore potrebbe rallentare il processo di devoluzione in generale e/o alterare in modo sostanziale il carattere del processo stesso.
Migliorare la CPM, come la si è qui definita, sarà un processo lento. E’ necessario un investimento in risorse umane, ma la ricetta non è bombardare le regioni con denaro, perché quelle che hanno più bisogno di aiuto sono anche spesso le meno capaci nell’utilizzare risorse. C’è, inoltre, la delicata questione di come gestire il periodo di transizione, mentre la regioni crescono in CPM. Una strategia potrebbe essere quella di introdurre un trasferimento vincolato aggiuntivo volto a finanziare almeno una parte dei costi di programmi di miglioramento della CPM, proposti dalle singole regioni e concordati preventivamente con il governo centrale. Questa misura sarebbe impopolare, ma potrebbe essere presentata come misura temporanea, da eliminare gradualmente man mano che la CPM di una regione migliora, valutando il miglioramento sulla base di una serie di indicatori concordati in precedenza tra stato e regioni.


NOTE

(1) Forum per la ricerca biomedica, Comunicazione e informazione per la salute, Roma, Censis 2001, pp. 25-26.

(2) Ministero dell'Economia e delle Finanze, Relazione generale sulla situazione economica del Paese - 2003, Roma, 2004, vol. III, p. 368.

(3) Si vedano, ad esempio, le analisi annuali delle spese sanitarie regionali effettuate dalla Corte dei Conti (Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni).

(4) Si veda, per esempio, Ministero del Tesoro, Ministero della Sanità, Relazione sulla spesa sanitaria negli anni 1989-1992, Roma, Centro Stampa Sistema Informativo Sanitario, 1994.

(5) N. FACITELLI, T. LANGIANO (a cura di), Politiche innovative nel SSN: i primi dieci anni dei DRG in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004; G. France (a cura di), Politiche sanitarie in un sistema di governo decentrato, Milano, Giuffrè, 1999.

(6) Ministero dell'Economia e delle Finanze, Sintesi dell'istruttoria sugli adempiementi regionali al fino dell'accesso all'incremento del finanziamento della spesa sanitaria per il 2001, Roma, 23 gennaio 2003 (dattiloscritto).

(7) Colloquio con Keith Banting, School of Policy Studies, Queen's University, Kingston, Canada, 20 giugno 2000.

(8) Advisory Commission on Intergovernmental Relations, The question of state government capability, Washington D.C., gennaio 1985 (dattiloscritto, A-98). p. 5.

(9) F.J. THOMPSON, "Federalism and the Medicaid challenge", in F.J. THOMPSON, J.J. DILULIO (a cura di), Medicaid and devolution: a view from the states, Washington D.C., Brookings Institution, 1998, p. 261.

(10) T. SKOCPOL, "Bringing the state back in", in P.E. EVANS, D. RUESCHEMEYER, T. SKOCPOL (a cura di), Strategies of analysis in current research. Bringing the state back in, New York, Cambridge University Press, 1985, p. 9.

(11) B.W. HONADLE, "A capacity-building framework: a search for concept and purpose", Public administration review, n. 5, p. 576.

(12) J.J. GARGAN, "Consideration of local government capacity", Public administration review, n. 6, 1981, pp. 649-658.

(13) Advisory Commission on Intergovernmental Relations, op. cit.

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