Avvertenza: versione aggiornata della relazione svolta dall’autore – ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Trieste – nel Convegno organizzato dall’ISSiRFA su I nuovi statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, Roma, Sala del Cenacolo, 4 luglio 2005


Fin dalla sua entrata in vigore ( a seguito della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 ), il nuovo testo dell'art. 121 Cost. è stato interpretato da alcuni commentatori nel senso che da esso deriverebbe un rapporto di stretta dipendenza fra distribuzione delle potestà normative regionali e l'attuale forma di governo regionale.
Ad esempio, nel giudizio di legittimità costituzionale di una legge lombarda la difesa della Regione sostenne che il rafforzamento dell'esecutivo regionale voluto dalla riforma doveva comportare l'attribuzione stabile alla Giunta regionale di poteri normativi, ed in particolare della funzione regolamentare in quanto strettamente connessa alla funzione esecutiva. Ciò sarebbe stato richiesto anche - si sosteneva - da esigenze di buon andamento dell'amministrazione regionale, non essendo pensabile che la potestà regolamentare restasse affidata al Consiglio regionale già gravato dalla espansione delle competenze della potestà legislativa regionale. Con sentenza n. 313/2003 la Corte costituzionale ha respinto questa tesi sul presupposto che l'avvenuta abrogazione della disposizione costituzionale che attribuiva al Consiglio regionale la potestà regolamentare di per sé non comportava necessariamente rilascio della stessa potestà alla Giunta, ma semplicemente demandava ogni relativa decisione sulla titolarità della funzione stessa allo Statuto regionale.
E' l'autonomia statutaria della Regione - ha detto la Corte - che impedisce di ritenere obbligata questa o quella scelta organizzativa di assegnazione della potestà regolamentare: l'autonomia è la regola, i limiti sono l'eccezione. Da questa importante sentenza si ricavano, dunque, alcune conclusioni che meritano di essere evidenziate. Anche se la riforma costituzionale del 1999 ha avuto, come a me è già avvenuto di sottolineare, un significato altamente politico, essa ha certamente prodotto risultati sul terreno della stabilità dell'esecutivo regionale, ma non ha necessariamente indotto una crescita dei poteri di questo in rapporto all'assemblea elettiva. Il rafforzamento politico dell'esecutivo è, quindi, essenzialmente legato alla disciplina del sistema di elezione del medesimo ed a quella dei rapporti fra Presidente, Giunta e Consiglio con le conseguenti ricadute in termini di dissoluzione di quest'ultimo.
Ne consegue che il riparto delle funzioni normative è rimesso alla libera scelta dello Statuto, salvo il vincolo ovvio dell'appartenenza della potestà legislativa al Consiglio. La decisione sull'appartenenza della potestà regolamentare non può essere interpretata come un'automatica e necessaria conseguenza del preteso rafforzamento dell'Esecutivo, ma dipende dagli equilibri di forza fra gli organi regionali che si vengono ad instaurare all'atto dell'approvazione dello Statuto.
 
E' così avvenuto che, in netta contraddizione con l'opinione già rigettata dalla Corte, gli Statuti hanno effettuato in materia di potestà regolamentare scelte che palesemente privilegiano un parziale discostamento da assetti di radicale separazione fra Legislativo ed Esecutivo. La regola prevalente è, in effetti, quella dell'appartenenza della funzione regolamentare alla Giunta regionale, ma si segnalano in proposito alcune correzioni al principio di piena titolarità ed alcune eccezioni che meritano di essere ricordate.
Anzitutto, contrariamente all'idea che vi sia una sorta di riserva in esclusiva della potestà regolamentare in capo alla Giunta, si è previsto almeno in un caso - con disposizione che non è stata oggetto ( ragionevolmente, verrebbe fatto di dire ) di contestazione statale - che la potestà regolamentare spetti al Consiglio ( Abruzzo art. 12 ), addirittura disciplinando in Statuto il procedimento consiliare di approvazione dei regolamenti e consentendone l'iniziativa non solo alla Giunta ma anche ai Consiglieri regionali. Questa soluzione dimostra che il rapporto di stretta connessione fra attività regolamentare ed attività esecutiva non è fra le priorità ritenute insormontabili dall'opinione dominante. Tant'è vero che si ammette che l'attività regolamentare possa trarre origine da iniziative e scelte interne al Consiglio: il che potrebbe addirittura consentire di ritenere che il Consiglio non debba ritenersi del tutto estraneo all'attività di attuazione/esecuzione della legge, cui per comune dottrina si vuole destinata a dare ordine la funzione regolamentare.
Questa ipotesi di lavoro può servire a meglio comprendere altre scelte statutarie che sono, invece, ricorrenti e che sottintendono un ruolo del Consiglio regionale in campo amministrativo ed esecutivo che va bene aldilà del semplice esercizio di poteri di controllo ex post. Alludo alla regola che si legge di frequente negli Statuti oggi entrati in vigore per cui, dopo la loro prina approvazione giuntale e prima della finale approvazione giuntale, i regolamenti vanno sottoposti al parere obbligatorio delle competenti commissioni consiliari ( vedi in questo senso gli Statuti di Puglia, Toscana, Emilia - Romagna, Umbria, Lazio e Liguria ). Trattandosi di parere obbligatorio e non vincolante, esso lascia formalmente intatti i poteri di determinazione al riguardo della Giunta, la quale resta libera di seguire o meno il parere della commissione consiliare. Certo è, però, che l'ampiezza dell'intervento consultivo dell'Assemblea ed il legame politico fra esecutivo e legislativo ( pur con lo scontato rafforzamento razionalizzato del primo in rapporto al secondo ) non possono non consigliare alla Giunta di valutare con prudenza l'eventuale opinione dissenziente della Commissione. Solo l'art. 28n dello Statuto emiliano restringe l'intervento consiliare ad un giudizio di conformità allo Statuto ed alla legge del regolamento sottoposto al parere della Commissione In questo caso un qualche self-restraint sarà richiesto, prima ancora che alla Giunta, al Consiglio. Appare, invece, interlocutorio quel passaggio della sentenza n. 378/2004 ove la Corte costituzionale respinge la questione di costituzionalità a proposito del coinvolgimento della Commissione di garanzia statutaria nel procedimento di approvazione dei regolamenti nello Statuto umbro: la disciplina dell'organo è rinviata alla legge ed allo stato l'organo ha funzioni soltanto consultive. 
 
Ma al fondo di tutte queste scelte ordinamentali resta un quesito: l'attribuzione della potestà regolamentare alla Giunta riposa sul solo Statuto o richiede per concretarsi l'intermediazione della legge regionale? In quest'ultimo senso si pronunciano l'art. 27.2 dello Statuto piemontese, per cui la potestà regolamentare spetta alla Giunta secondo i principi e le modalità dettati dalla legge ( salvo che questa disponga una riserva al Consiglio ) e l'art. 35 dello Statuto marchigiano che, però, è basato sull'appartenenza in principio della potestà regolamentare al Consiglio. Ai quali si potrebbe aggiungere l'art. 47 dello Statuto laziale che parla di rinvio di leggi regionali ai regolamenti. Un'interpretazione severa del principio di legalità imporrebbe di leggere queste disposizioni come esplicite dichiarazioni di una regola implicita a tutti gli ordinamenti regionali, in quanto derivata dalla sovraordinata normativa costituzionale che vuole tutti gli atti degli organi esecutivi subordinati alla legge ed adottati sulla base di esplicita attribuzione legislativa di potere. Alla luce di questa opinione le clausole statutarie, anche quando volte in apparenza ad attribuire direttamente alla Giunta regionale il potere regolamentare, avrebbero la sola funzione di risolvere in via preliminare il problema della virtuale titolarità di quel potere, senza tuttavia esonerare il legislatore regionale del compito di adottare volta per volta disposizioni puntualmente e concretamente attributive dello stesso potere all'organo già potenzialmente individuato dalla normativa statutaria.
Vi è, però, da chiedersi se un'opinione siffatta sarebbe anche estensibile in ipotesi a quelli ordinamenti regionali che indicano nei Consigli regionali i titolari della potestà regolamentare in via generale, almeno con riguardo a determinate categorie di atti regolamentari. Proprio l'esistenza di tali clausole, già di per sé chiaramente delimitative della potestà della Giunta ( quando, addirittura, non radicalmente negative al riguardo ), sembra consigliare una lettura più elastica del principio di legalità, considerando questo soddisfatto dalla disposizione statutaria, almeno per quanto ha tratto alla titolarità consiliare della potestà regolamentare, ma ammettendo la legge, in quanto le disposizioni statutarie in materia di procedimento e di limiti della potestà stessa risultino carenti, a completare la disciplina della materia integrando, appunto, i precetti dello Statuto al riguardo. Il Consiglio, titolare sia della funzione legislativa che di quella regolamentare, resterebbe, quindi, arbitro del loro utilizzo.
 
Interventi legislativi sono ovviamente più che mai necessari - e vi sono, del resto, precise indicazioni degli Statuti in proposito - quando la legge regionale autorizza la Giunta a disporre in via di delegificazione in materie comunque non riservate alla legge. E' il caso dell'art. 27.5 dello Statuto piemontese, che impone alla legge di determinare le norme generali regolatrici della materia individuando le disposizioni di legge che, per effetto dell'entrata in vigore del regolamento, risulteranno abrogate. Analogamente dispongono l'art. 47, 2c dello Statuto del Lazio ( estendendo l'esclusione alle materie riservate alla legge regionale dallo Statuto, oltre che dalla Costituzione ), l'art. 39 dello Statuto umbro, l'art. 44 di quello pugliese e, infine, l'art. 43.5 dello Statuto della Regione Calabria, che limita la praticabilità della delegificazione alle materie di esclusiva competenza regionale. Non è agevole comprendere le ragioni della restrizione testé rammentata. Forse pesa la preoccupazione della convivenza fra legge cornice, legge regionale di dettaglio e regolamento regionale delegificante. E' certo in ogni caso che essa costituisce una limitazione dell'utilizzo della potestà regolamentare che, ignorata in altri Statuti, non ritengo automaticamente estensibile ad altre Regioni, come - d'altra parte - non sembra da escludere il ricorso alla delegificazione anche quando dallo Statuto non sia espressamente contemplata. L'insegnamento dell'ordinamento statale, quale risulta da una lunga esperienza pratica anche antecedente alla legge n. 400/1988, può consigliare un atteggiamento flessibile al riguardo. Non è un caso che nella sentenza n. 378/2004 la Corte costituzionale, in un giudizio relativo allo Statuto umbro, abbia individuato nell'utilizzo, appunto, del modello dell'art. 17 della legge n. 400 un elemento per escludere l'incostituzionalità della disciplina dettata in materia di delegificazione.
 
Titolarità ed esercizio della potestà regolamentare risentono, invece, dell'assetto dei rapporti della Regione con lo Stato, da un lato, e con gli altri enti locali, dall'altro lato, nella misura in cui essi vengono ad impingere sullo sviluppo delle relazioni fra Giunta e Consiglio. Già nella sentenza sullo Statuto della Regione Calabria ( n. 2/2004 ) la Corte costituzionale ha giudicato tutt'altro che irragionevole l'attribuzione al Consiglio regionale dell'adozione degli speciali regolamenti di attuazione e di integrazione in materia di legislazione esclusiva dello Stato che siano stati oggetto di delega alle Regioni. E' un altro sintomo del coinvolgimento dell'assemblea in attività di esecuzione/attuazione di norme legislative, ma non solo. Soluzione analoga è stata adottata anche da altre Regioni, comprese quelle che pure assegnano in via normale la potestà regolamentare alla Giunta. Evidentemente risulta ampiamente condivisa l'opinione che assegna maggiore rilevanza politica a questa ipotetica normazione secondaria regionale di attuazione o integrazione della legislazione esclusiva statale, indipendentemente - come ha rilevato la Corte - dalla specifica particolare importanza dell'una o dell'altra materia. Si ritiene che al confronto con lo Stato sia meglio attrezzata l'assemblea rappresentativa elettiva?
Sul fronte del rapporto con gli enti locali una sostanziale delimitazione della potestà regolamentare della Giunta sembra, invece, derivare da ragioni di sistema, senza che si riscontri un'alternativa emersione di eventuale potestà regolamentare consiliare. Se in Calabria si prescrive che l'esercizio della potestà regolamentare regionale debba svolgersi nel rispetto degli ambiti di competenza della potestà regolamentare degli enti locali ( art. 43.1 ), in Emilia-Romagna si dispone che i regolamenti regionali in materia di competenza degli enti locali ( e non, si badi, le leggi regionali ) si applicano sino alla data di entrata in vigore dei regolamenti degli enti locali stessi. E', però, evidente che alla base di questa restrizione della potestà regolamentare, che di necessità finisce per interessare più la Giunta che l'Assemblea, sta la convinzione che la Costituzione consenta al legislatore regionale ampi poteri conformativi delle attribuzioni degli enti locali, purchè ne risulti fatta salva la titolarità delle attribuzioni amministrative, come richiesto dai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, laddove - una volta che sia intervenuta in materia una disciplina legislativa - viene anche ad emergenza a carico della potestà regolamentare regionale un vincolo al rispetto dell'autonomia normativa degli enti minori. L'idea di un rapporto flessibile fra fonti regionali e fonti locali pare fatta propria dalla Corte costituzionale ( sent. n. 372/2004 ) come opportunamente è stato fatto rilevare da TARLI BARBIERI, Le fonti del diritto regionale nella giurisprudenza costituzionale sugli Statuti speciali, in Le Regioni 2005, 581 ss., 604 )
 
Infine, ancora ragioni di sistema, più che valutazioni di opportunità, sembrano incidere sulle scelte in materia di attuazione regionale di normative europee. In fin dei conti se nella legislazione statale - per ovvie esigenze di rispetto dell'autonomia organizzativa delle Regioni ( cfr. il recente art. 16 l. 4 febbraio 2005, n. 11 ) - non trova conferma il coinvolgimento delle Giunte regionali in sede di attuazione di atti e norme comunitarie, esso è chiaramente previsto negli statuti - ad esempio - là dove si parla dell'esercizio della potestà regolamentare all'art. 42.4 dello Statuto toscano, all'art. 11 di quello laziale ( salvo riserve di legge ) e all'art. 12 dell'emiliano. D'altra parte, l'apertura della legge nazionale in favore dell'attuazione di direttive comunitarie in via regolamentare ( art. 11 l. 11/2005 ) non esclude che gli Statuti seguano un ordine di preferenze da essi liberamente adottato, optando per una attribuzione di competenza potenzialmente generale al Consiglio ( cfr. Marche e Calabria ).
 
Gli assetti di cui si è parlato risentono della peculiare posizione delle Regioni nell'ordinamento complessivo, laddove ricade nel più circoscritto e chiaramente consolidato quadro delle relazioni fra legge e regolamento l'ordinamento che gli Statuti danno alla materia dell'organizzazione dell'amministrazione pubblica regionale.
Solo in alcuni casi gli Statuti dispongono che alla disciplina dell'organizzazione regionale e dei relativi organici del personale si debba procedere con legge e tacciono a proposito del ruolo dei regolamenti, così apparentemente destinati a mere funzioni di esecuzione/attuazione della legge regionale. Questo è il caso del Piemonte ( art. 96 ) che rilascia alla legge la disciplina degli organi interni e degli organici dell'amministrazione regionale, e delle Marche ( art. 46 ), il cui Statuto prevede leggi di organizzazione degli uffici e del personale, fatto salvo a tale ultimo riguardo lo spazio da riservare alla contrattazione collettiva. E' probabile che in questa stessa direzione si muova l'Abruzzo ( art. 53 ) allorchè parla di leggi di attuazione dei principi in materia di organizzazione degli uffici e del personale. Nella maggioranza dei casi si menzionano, però, esplicitamente accanto alle leggi i regolamenti di organizzazione, individuando nelle prime la fonte dei principi e dei criteri di assetto dell'amministrazione pubblica regionale e nei secondi gli atti competenti all'istituzione degli uffici ed alle relative misure di organizzazione del personale. Si muovono su questa linea l'Umbria ( artt. 31-32 ), la Liguria ( artt. 69-70 ), la Calabria ( art. 50 ), il Lazio ( art. 53 ) e l'Emilia-Romagna ( art. 62 ). Non parla esplicitamente di regolamenti di organizzazione lo Statuto Toscano, ma implicitamente sembra presupporli nella misura in cui attribuisce alla legge il compito di fissare i soli principi di ordinamento dell'organizzazione.
Non stupisca la frequente menzione della contrattazione collettiva. Può leggersi come una cautelosa risposta alla sentenza della Corte riguardante lo Statuto calabrese, la quale suggeriva una lettura della riserva alla legge della disciplina del personale regionale ad un tempo rispettosa delle esigenze della contrattazione collettiva operante in materia e della connessa privatizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti, nel presupposto, dunque, dell'osservanza dei principi enunciati nel d.leg. 30 marzo 2001 n. 165 ( nome generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche ).
 
Sin qui ci si è abbondantemente soffermati sul problema del rapporto legge/regolamento nel quadro delle relazioni fra Giunte e Consigli delle Regioni. La lettura degli Statuti ci mostra che i loro autori hanno disatteso i suggerimenti che taluno aveva inizialmente formulato per l'inserimento nelle carte regionali di previsioni autorizzanti il ricorso a livello regionale alla delega legislativa ovvero l'adozione di decreti-legge regionali. Evidentemente non si è inteso mettere in discussione l'insegnamento che spetta alla Costituzione individuare le fonti di rango legislativo, nulla potendo aggiungere gli Statuti alle previsioni costituzionali che fra tali fonti collocano solo la legge regionale: in questo senso pare orientata la Corte costituzionale quando nella sentenza n. 378/2004 esclude l'incostituzionalità della disciplina umbra della delegificazione in quanto non implica attribuzione di potestà legislativa alla Giunta.
Per quanto ha tratto alla risposta alle esigenze della necessità ed urgenza una debole traccia è rimasta nella disposizione dello Statuto pugliese, che consente alla Giunta di adottare, appunto, in caso di necessità ed urgenza, regolamenti senza l'acquisizione del parere della competente commissione consiliare ( art. 44 ), e nella più circoscritta clausola dello Statuto emiliano che individua nella Giunta l'organo competente ad adottare gli atti improrogabili in caso di dissoluzione dell'Assemblea, da sottoporre a ratifica del neo-eletto Consiglio. Non sembra che nessuna di queste due disposizioni attesti l'intenzione delle Regioni di appropriarsi di una competenza ad assumere l'urgenza come contenuto del loro provvedere, intendendo esse limitarsi agli atti di cui - nell'ambito della competenza regionale - sia urgente l'adozione. Urgenza del provvedere, dunque, e non urgenza del provvedimento.          
I suggerimenti in materia di delega legislativa sono stati probabilmente tenuti presenti quando si sono adottate le disposizioni in materia di formazione dei testi unici. Ma anche in questo caso non si è ritenuto di entrare in concorrenza con le norme costituzionali enumerative delle fonti di grado legislativo. Lo stesso art. 56 dello Statuto piemontese, che parla al riguardo di delega alla Giunta regionale, finisce per prevedere una successiva approvazione consiliare, che evidentemente non potrà discostarsi dalle forme ordinarie se si tratterà di intervento non di mera compilazione. E lo Statuto emiliano ( art. 54.1 ), che si spinge più avanti di altri nel disegnare un percorso speciale per i testi unici, parla limitativamente di incarico alla Giunta e, però, impone l'adozione del progetto da questa predisposto con la procedura redigente, così lasciando capire che l'incarico giuntale non è null'altro che un'autorizzazione qualificata all'esercizio dell'iniziativa legislativa. I testi unici possono dunque pretendere - ove non siano di mera compilazione - lo status di atti con forza di legge ( rectius, legge regionale ) solo se approvati con la procedura che è propria delle leggi. Non è un caso che l'art. 44.3 dello Statuto toscano richieda - al pari dell'art. 44 di quello calabrese, che pure parla di delega alla Giunta - un mero voto unico per l'approvazione dei testi di solo coordinamento, come fa l'art. 40 dello Statuto umbro che più correttamente parla di redazione giuntale su autorizzazione consiliare per meri interventi di riordino e semplificazione giacché ogni modifica sostanziale spetta - secondo la Corte costituzionale ( sent. 378/2004 ) - alla legge regionale. La situazione è colta molto bene dall'art. 32 dello Statuto marchigiano, per cui procedure semplificate di adozione dei testi unici sono adottabili quando l'obiettivo della proposta in discussione in Consiglio è quello del coordinamento e della riproduzione delle norme esistenti. E' comunque interessante la previsione di interventi consiliari anche in casi in cui si poteva ritenere presente un interesse prevalente dell'amministrazione all'adozione di atti che molti assimilano a mere circolari.
La più parte degli Statuti si basa, dunque, sull'interpretazione della Costituzione che legge la riserva alla legge in materia di ordinamento della Pubblica Amministrazione come un dispositivo che non esclude la presenza di fonti subordinate nella stessa materia, ma non costrette ad una dimensione meramente attuativa/esecutiva. Questa scelta, seppure subordinata ai limiti cui sottostà l'esercizio della potestà regolamentare quando è affidata alla Giunta ( vedi, ad esempio, le prescrizioni che impongono il parere delle competenti commissioni consiliari sui progetti di regolamento ), rappresenta un elemento di rafforzamento degli esecutivi regionali. Le leggi in materia risultano destinate di fatto a restare confinate alla enunciazione di principi e criteri direttivi, quando la potestà legislativa consiliare non è - come in pochi casi - addirittura tenuta ad astenersi da una normativa puntuale e dettagliata di disciplina della amministrazione regionale. Un disegno analogo si ritrova in materia di ordinamento del personale, soltanto che in questo caso le restrizioni poste all'esercizio del potere legislativo del Consiglio giuocano anzitutto a vantaggio della contrattazione sindacale, cui, semmai, i regolamenti giuntali sono destinati a dare attuazione.
 
Gli Statuti regionali si confermano dunque, anche a questa prima sommaria analisi del tema affidatomi, come fonti destinate a regolare i rapporti fra le fonti regionali, così incidendo sulla stessa forma di governo dell'ente. Tale incidenza non si è in realtà spinta ( né sarebbe stato possibile che questo accadesse ) sino a chiamare il Consiglio delle Autonomie locali a partecipare all'esercizio della funzione legislativa assegnandogli il ruolo di una seconda camera. Il suo coinvolgimento è di natura consultiva, prescrivendosi una speciale maggioranza per superare i suoi pareri che lo Statuto dichiari obbligatori ( artt. 28-29 Umbria, 38 Marche, 48 Calbria, 23 Emilia-Romagna, 67 Liguria, 47 Lazio ), ovvero richiedendosi un'espressa e speciale motivazione del discostamento.
Solo in Liguria, Lazio, Calabria, Marche ed Umbria al Consiglio è attribuita potestà di iniziativa legislativa, secondo un orientamento già presente nei vecchi Statuti regionali che avevano molto allargato lo spettro dei titolari di quella potestà. Talvolta, come per le iniziative popolari e per quelle di diretta emanazione degli enti locali, è prevista l'automatica iscrizione delle proposte all'ordine del giorno dell'assemblea legislativa, quando sia trascorso un dato lasso di tempo dalla loro presentazione, anche se l'esame in commissione non risulta completato. E' interessante rilevare che a questa normativa fa fronte l'assenza di norme che prevedano c.d. corsie preferenziali per la Giunta, laddove semmai ci si preoccupa che sia assicurato l'esame tempestivo delle proposte dei consiglieri ( art. 40.2 Toscana ). Ma la Giunta può avvalersi dei procedimenti abbreviati, quando ottenga il consenso dell'assemblea, e dei procedimenti per commissione redigente ( ai quali, d'altra parte, può reagire in forme simili a quelle consentite al Governo dall'art. 72 Cost. ). Solo in qualche caso l'opinione che si ricava dall'esame degli Statuti, è che la richiesta dell'urgenza da parte del Presidente della Giunta vincoli il Consiglio ( art. 38 Lazio ), ed allora il rito abbreviato finisce per configurarsi come una sorta di corsia preferenziale. D'altra parte, vi sono esplicite esclusioni del rito redigente che si ritorcono anche contro la Giunta ( per esempio in materia di bilanci ( art. 47 Liguria, ed analogamente anche per intese ed accordi con altri enti art. 45 Piemonte ).
 
Solo in Piemonte è espressamente prevista la sede legislativa delle commissioni ( art. 46 Statuto ) con garanzie analoghe a quelle del già ricordato art. 72 Cost.
 
Benchè la scelta del legislatore costituzionale sembri ispirata, pur nel formale riconoscimento dell'autonomia statutaria delle Regioni, all'esigenza di una sostanziale uniformità nella disciplina della forma di governo, il quadro che abbiamo dinanzi è molto variegato. Anche se è generale l'inclinazione per l'elezione diretta del Presidente della Giunta, con conseguente recezione della regola simul stabunt, simul cadent, non si può dire che le normative statutarie ne abbiano dedotto un necessario, inescapabile rafforzamento degli esecutivi con riguardo all'assetto delle competenze normative e delle relative modalità di esercizio. Quando previsto, il concorso dei Consigli nelle procedure di adozione dei regolamenti regionali attenua l'importanza politica dell'appartenenza alla Giunta della relativa potestà, e ciò anche e specialmente quando si tratta di regolamenti organizzativi. Nell'adozione degli stessi testi unici meramente compilativi i Consigli regionali hanno un peso non indifferente. In concreto, spesso la forma di governo è ben lontana da una netta separazione fra legislativo ed esecutivo, e questo si trova ad accettare invasioni di quello, che sono comparabili alle invasioni delle commissioni parlamentari bicamerali che fecero parlare a taluno di regime assembleare in altri momenti della nostra storia politica.
 
Modeste sono le regole procedurali dettate a vantaggio dell'esecutivo in materia legislativa, mentre le assemblee si trovano a fronteggiare una potenzialmente larga messe di iniziative della più svariata provenienza, anche guarentigiate da speciali privilegi procedurali. Non sempre sembrano presenti le condizioni che consentirebbero di definire la Giunta regionale l'organo direttivo del lavoro dell'assemblea.
Si può pertanto concludere che, per quanto di rilevanza di questa indagine, le forme di governo regionali pur assimilabili tra loro sono diversificate e risentono di scelte che vanno aldilà del sistema di elezione e cessazione dell'esecutivo, il tutto dovendosi probabilmente addebitare alle spinte e pressioni dei partiti e dei loro esponenti nei Consigli regionali preoccupati di non perdere troppo potere rispetto a quello da essi detenuto con gli Statuti della prima generazione. E proprio dai partiti e dai loro gruppi assembleari dipenderà il concreto inverarsi delle forme di governo e dell'utilizzo delle norme statutarie in materia di fonti, di cui qui si è potuto abbozzare soltanto in astratto portata e significati.

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