1. L’idea peregrina che i problemi della finanza pubblica dipendevano dalle province. – La vicenda costituzionale e legislativa delle Province denota un modo di procedere insolito, ma forse tipicamente italiano. Senza adeguata riflessione, senza una compiuta strategia del governo territoriale, in vista di una riforma costituzionale del bicameralismo e del Titolo V e sull’onda emozionale e mediatica di una riduzione dei costi della politica è stata approvata una legge (n. 56 del 2014) che contiene “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”, comunemente nota come “legge Delrio”.

La vicenda nasce con la lettera dei due presidenti della BCE del 5 agosto 2011, in cui, verso la fine, si legge: “C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)”.

Da quel momento i governi che si sono succeduti hanno avuto di mira l’abolizione delle province a prescindere dal considerare se questa fosse, o meno, una buona idea. Così il Decreto legge n. 138 del 2011 (l’ultimo del Governo Berlusconi) all’art. 15 si prevedeva che “in attesa della complessiva revisione della disciplina costituzionale del livello di governo provinciale (…) sono soppresse le Province diverse da quelle la cui popolazione rilevata al censimento generale della popolazione del 2011 sia superiore a 300.000 abitanti o la cui superficie complessiva sia superiore a 3.000 chilometri quadrati”.

Tuttavia, in sede di conversione il Parlamento, ancora restio ad ascoltare la voce di Francoforte, soppresse la disposizione. Così, quel criterio, che avrebbe comportato l’accorpamento di 38 province, su 110 province, ma che le conservava integre come ente rappresentativo, politico-territoriale, sarebbe stato invocato successivamente contro la previsione, prima, dello svuotamento e, successivamente, dell’abolizione. Infatti, con il primo Decreto legge del successivo Governo Monti (n. 201 del 2011, c.d. “Salva Italia”) si seguiva la linea di un ridimensionamento dei poteri e dell’organizzazione democratica. L’art. 23 del decreto “Salva Italia” prevedeva che sarebbero spettate “alla Provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”, mentre le competenze sin lì esercitate sarebbero dovuto essere attribuite ai Comuni, “salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse (sarebbero state) acquisite dalle Regioni”. Per ridurre i costi della politica italiana, poi, si propugnava il modello dell’ente di secondo grado: la provincia avrebbe dovuto avere come organi “il Consiglio provinciale ed il Presidente della Provincia”; il primo “composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia” e il secondo “eletto dal Consiglio provinciale tra i suoi componenti”.

Nel frattempo gli organi democraticamente eletti delle Province venivano a scadenza e cominciava una fase istituzionale fatta di proroghe e commissariamenti, mentre tutte le relative leggi statali e regionali, che l’art. 23 prevedeva per l’elezione dei nuovi organi, per il trasferimento delle competenze, e per il “trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite”, non vennero mai adottate. È bene precisare che quando questo disastro amministrativo venne perpetrato, lo stesso governo nella relazione di accompagno al decreto legge asseriva che dalla manovra sulle province ci si sarebbe potuto aspettare un risparmio di circa 60 milioni di euro … “a consuntivo”. Tradotto, ciò significava che risparmi di fatto non ce ne sarebbero stati (si pensi che la manovra del Salva Italia era di circa 30 miliardi, metà nuove tasse, metà tagli), per le province il calcolo andava fatto a consuntivo, e si correva anzi il rischio che le modifiche del sistema provinciale avrebbero potuto comportare persino maggiori costi, come ad un certo punto fu evidente, se il personale provinciale fosse stato trasferito dal contratto enti locali, al più vantaggioso contratto del personale delle regioni.

Così, i compiti della lettera del 5 agosto erano stati eseguiti, almeno in parte; e poteva dirsi soddisfatta la pancia dell’opinione pubblica, ma la testa soffriva di una forte emicrania, sicché con il decreto legge sulla spending review (n. 95 del 2012) si apre la via al c.d. “riordino delle province (art. 17), riproponendosi il tema del loro accorpamento. Inoltre, mentre si tiene fermo il modello di ente con una rappresentanza di secondo grado, per quanto riguarda le funzioni provinciali si riconosce che “sono funzioni delle province quali enti con funzioni di area vasta, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione:
a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza;
b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale nonché costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; 
(e in sede in conversione si aggiunge) b-bis) programmazione provinciale della rete scolastica e gestione dell'edilizia scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado”. Il decreto sulla spending review, infine, apre la questione delle città metropolitane – nella forma di province speciali, senza il nome di province – che era rimasta lettera morta sino a quel momento, anche se, al momento dell’approvazione della riforma del Titolo V del 2001, era apparsa come una innovazione istituzionale importante.

 

2. Dalla sentenza della Corte costituzionale, n. 220 del 2013, alla legge n. 56 del 2014 e alla riforma costituzionale. – In realtà, prima di arrivare alla legge Delrio del gennaio del 2014 e alla nuova riforma costituzionale, bisogna considerare che le disposizioni del “Salva Italia” sulle province furono censurate dalla Corte costituzionale con la sentenza 3 luglio 2013, n. 220.

Tuttavia, diversamente da quello che si potrebbe pensare, la pronuncia del giudice costituzionale non si è fondata sui parametri costituzionali dell’autonomia (art. 5), né sui principi del Titolo V, riguardanti le province (art. 114), bensì sulla “compatibilità dello strumento normativo del decreto-legge, quale delineato e disciplinato dall’art. 77 Cost., con le norme costituzionali (in specie, ai fini del presente giudizio, con gli artt. 117, secondo comma, lettera p, e 133, primo comma) che prescrivono modalità e procedure per incidere, in senso modificativo, sia sull’ordinamento delle autonomie locali, sia sulla conformazione territoriale dei singoli enti”. Così posta la questione è stata ritenuta fondata perché “la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale”.

Si fosse fermata qui, la valutazione della Corte, si sarebbe potuto dire che la questione di costituzionalità era stata presa un po’ di sbieco, ma che alla fine una certa pretesa costituzionale era salva. Invece, a questo punto, il giudice costituzionale spiega al legislatore il da farsi e, pur affermando di non entrare “nel merito delle scelte compiute dal legislatore”, sostiene che le motivazioni addotte “non portano alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente, che non sia utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative”.

Così, dopo un decreto legge di proroga dei commissariamenti delle province (n. 93 del 2013) si mette mano, in Parlamento, a un disegno di legge ordinario dove vengono raccolte, con poche varianti, le formulazioni dei decreti legge dichiarati incostituzionali.

La legge Delrio è stata approvata con l’apposizione della questione di fiducia sull’emendamento unico e ha, perciò, un drafting di difficile lettura: articolo 1 con 151 commi, senza titoli, capi e sezioni.

La nuova disciplina legislativa offre il medesimo modello organizzativo dell’ente rappresentativo di secondo grado, sia per le province, che per le città metropolitane, anche se per queste ultime esiste la possibilità che “lo statuto della città metropolitana (possa) prevedere l'elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano” (comma 22). Dal punto di vista delle funzioni fondamentali (commi 44 e 85-88), attribuite alle province, ma anche alle città metropolitane, sulla base dell’art. 117, comma 2, lett. p, Cost., salve pochi casi, nella sostanza si ripristinano le precedenti funzioni amministrative che spettavano a questi enti in base all’ordinamento degli enti locali (D. Lgs. n. 267 del 2000) e alla legge sul federalismo fiscale (n. 42 del 2009).

Anche la legge n. 56 del 2014 è stata sottoposta al controllo della Corte costituzionale (sentenza n. 50 del 215), ma come era prevedibile il giudice costituzionale ha mandato interamente assolta la nuova legislazione.

Singolare è che la legge sia stata scritta più che con riferimento alla Costituzione vigente, considerando quanto già stava accadendo, con la prospettiva di una  riforma costituzionale. A tal riguardo è sintomatica l’espressione “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione …”, che si rinviene in diversi punti del testo (commi 5 e 51).

Nel testo del disegno di legge costituzionale (AS/1429-B) che è stato approvato il 13 ottobre 2015, e che presumibilmente verrà sottoposto a referendum costituzionale confermativo nell’ottobre 2016, il termine “provincia” o “province” è stato censurato. In tutte le disposizioni del Titolo V, secondo il testo della revisione si parla ancora di comuni, città metropolitane, regioni e stato, ma le province non esistono più. La soluzione è coerente con le premesse di tutta la vicenda istituzionale che parte dalla lettera dei due presidenti BCE; ma, poiché sarebbe una soluzione che trascura il problema per cui le province esistono e sono sempre esistite in Italia come nel resto degli stati europei, il legislatore di revisione ha inserito tra le disposizioni finali (Art. 40, comma 4) una previsione che dispone: “Per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale”.

La conclusione cui si perviene in questo modo, per quanto bizzarra possa apparire, è che le province, pure in assenza di una specifica menzione in Costituzione, non sono scomparse e, con molta probabilità, quali enti di area vasta continuano ad avere una copertura costituzionale, proprio nella disposizione richiamata.

 

3. La funzione storica della provincia: dall’unità d’Italia, all’assemblea costituente e alla revisione costituzionale del 2001. – La provincia italiana si presenta come un ente dai tratti particolari sin dall’unità d’Italia. La sua esistenza di fatto è di molto anteriore all’unità statale medesima, in quanto storicamente la provincia moderna rappresenta la successione reale al libero comune medioevale. Infatti, il comune medioevale era ben diverso dal comune come lo intendiamo noi oggi. Si trattava di un’organizzazione territoriale più complessa. Il libero comune medievale era, infatti, un insieme di città, villaggi ad essa contigui e campagna, dotato di autonomia normativa e fiscale e di istituzione proprie; di qui la somiglianza della provincia moderna con il comune medievale che, nell’organizzazione del governo del territorio, rappresenta un insieme di una città capoluogo e di piccoli centri, intervallati dalla campagna, ma collegati socialmente ed economicamente, nonché amministrativamente; non è un caso che in molte occasioni la provincia ha conservato proprio i confini storici del libero comune.

Questo sistema locale in Italia resistette alle pressioni che provenivano dalla Francia rivoluzionaria, sia nel 1848, quando il riordino legislativo, seguito alla concessione dello Statuto Albertino, portò alla redazione del primo Testo Unico della Legge Comunale e Provinciale, sia nel 1859 quando, nell’imminenza dell’unità d’Italia, fu approvato il nuovo Testo Unico della Legge Comunale e Provinciale con il quale, tra l’altro, si instaurava la democrazia locale con l’elezione degli organi, sia pure con un suffragio molto ristretto.

A seguito dell’unità d’Italia le province italiane vennero ricavate con lo stesso metodo e raggiunsero il numero di 59; successivamente, con l’annessione di Mantova e del Veneto, prima, e degli altri territori, poi, sino alla prima guerra mondiale, raggiunsero il numero di 76 nel 1924; quindi, tra il 1927 e il 1941, il fascismo portò il numero delle province a 95.

La provincia, come risultato della tradizione e della storia, è stata pensata sin dall’unità d’Italia come un elemento costitutivo dello stato.

Si può anzi affermare che proprio sulla dimensione provinciale è stato costruito lo stato nazionale, nel senso che sulla circoscrizione provinciale, oltre a riconoscere un ente dotato di autarchia/autonomia, lo stato ha organizzato se stesso, affiancando all’amministrazione centrale quella periferica, ancora oggi di notevole rilevanza per il corretto funzionamento dello stato. L’amministrazione periferica statale, infatti, era articolata su base provinciale; ogni provincia aveva, sul suo territorio, un’articolazione dell’amministrazione statale corrispondente sostanzialmente ad un ramo dell’amministrazione centrale.

L’articolazione dello stato sulla base della circoscrizione provinciale divenne un modello di attrazione anche per la società civile italiana, la quale si organizzò provincialmente sin dall’inizio. Si pensi ai sindacati, ai partiti politici a tutte le associazioni di carattere nazionale che articolavano la loro organizzazione su base provinciale, mediante la federazione o la sede provinciale. Anche attività importanti come il censimento, a far data dal 1900, sono state organizzate su base provinciale. Può concludersi che la struttura della società, oltre che quella dello stato era provinciale; e non poteva che essere provinciale.

Questo quadro istituzionale fu presente nel dibattito all’interno dell’Assemblea Costituente e venne fatto valere allorquando si accese la discussione tra i fautori della provincia e quelli della regione. Il disegno della nuova organizzazione territoriale della Repubblica, infatti, è stato contrassegnato da limiti storici consistenti, dovuti alla non chiara collocazione del nuovo ente, la regione, nell’ambito del sistema autonomista ereditato dall’esperienza risorgimentale e unitaria.

In particolare, l’intera vicenda dell’assetto territoriale delle autonomie nella Costituzione ha ruotato intorno al rapporto tra provincia e regione: la natura dell’ente regione non era stata concepita come una forma istituzionale concorrente dello stato, in tal senso il rifiuto del principio federale era stato netto e la ripresa dei principi di tradizione francese dell’unità e indivisibilità della Repubblica lo testimoniano chiaramente. Di qui anche la svalutazione che alla fine colpì la funzione legislativa delle regioni, ridotta nelle materie e nella tipologia.

La criticità della relazione tra provincia e regione era stata risolta in modo sfavorevole alla prima dal progetto di costituzione portato in Aula dalla Commissione dei 75, presieduta dall’On.le Ruini. Infatti, la Commissione e, in particolare, la seconda Sottocommissione, che aveva affrontato la questione dell’assetto territoriale, anche per la particolare presenza di rappresentanti delle regioni speciali in quella sede, aveva elaborato una disposizione di quello che sarebbe stato il futuro art. 114, in cui si leggeva che “La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni” e che “Le Province sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale” (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Volume III, Roma 1970, 2399).

Di fronte a questo disegno si accese il dibattito in Aula e l’impostazione di partenza fu rovesciata. Le accuse mosse alla provincia, di ente non radicato nel sentimento dei cittadini e dai compiti limitati, furono ribaltate contro la regione, avvertita chiaramente dalla maggioranza dell’Assemblea come il vero ente artificiale creato dalla mente di alcuni membri dell’Assemblea Costituente, ma privo di qualunque riscontro storico.

In conclusione, in Assemblea Costituente si affermò una provincia come ente autonomo e rappresentativo, non solo storicamente radicato nella coscienza dei cittadini e nella struttura dello stato, vicino alla popolazione più dello stato, ma anche tecnicamente e funzionalmente meglio attrezzato degli altri enti territoriali, espressione di uno standard amministrativo migliore di quello dei comuni, per la maggior parte di piccole dimensioni, e, perciò, da incrementare nei poteri e nelle funzioni. Operazione, quest’ultima, che sarebbe stata possibile grazie al ripensamento delle competenze, ampiamente auspicato dall’Assemblea, ma per la quale bisognerà attendere il 1990, con la legge n. 142, per assistere al primo vero intervento legislativo della Repubblica sul sistema di autonomie locali.

Con la successiva evoluzione della normativa di riferimento in materia, che prende l’avvio dalle leggi nn. 59 e 127 del 1997 e si conclude con il riordino operato dal Decreto legislativo n. 267 del 2000, recante il Testo unico dell’ordinamento degli enti locali, il ruolo della provincia nel contesto delle autonomie locali è stato ancora rivalutato con una crescita di funzioni amministrative e una nuova collocazione nell’ambito locale, rispetto al passato.

Il ruolo territoriale delle province, non solo come enti a fini generali e rappresentativi delle comunità sottostanti, ma anche come ente chiamato a svolgere un ruolo di snodo, verso i comuni, da un lato, e verso le regioni e lo stato, dall’altro, sia sul versante della programmazione, che su quello della realizzazione, era già presente in modo evidente nella legge n. 142 del 1990, per cui è risultato agevole per la legge n. 127 del 1997, il decreto legislativo n. 112 del 1998 e la successiva legislazione di settore, operare su questa particolare fisionomia della provincia per riempirla di ulteriori contenuti.

Le ragioni di crescita del livello provinciale sono state molteplici, in ragione della necessità di un ambito intermedio tra comuni e regione/stato, necessario per rispondere alle funzioni di area vasta e per assicurare la gestione ottimale di reti di servizi. In quest’ottica, vanno considerati, non solo i compiti di programmazione della Provincia e la competenza a redigere il “piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio” (Art. 20, comma 2, TUEL), ma soprattutto alcune funzioni che la legislazione assegnava alle Province nei confronti dei Comuni (art. 19, comma 1, lett. l, del D. Lgs. n. 267 del 2000).

Va ricordato, poi, che il ruolo della provincia, grazie al decentramento amministrativo, realizzato a partire dalla legge n. 59 e con i decreti legislativi attuativi, è chiaramente cambiato dal punto di vista funzionale, in quanto la sua dimensione ottimale di ente di area vasta ha permesso lo spostamento di competenze statali e regionali; si pensi, ad esempio, al decreto legislativo n. 469 del 1997, che ha trasferito alle province le funzioni in materia di politiche del lavoro, i servizi per l'impiego, con i cosiddetti ex uffici di collocamento. Inoltre, a seguito di quel processo di decentramento, anche le regioni hanno determinato un ulteriore arricchimento di funzioni, sviluppando una propensione al trasferimento delle funzioni amministrative a favore delle province.

Il quadro normativo di riferimento era ulteriormente mutato per effetto delle sensibili innovazioni al disegno del Costituente con la legge costituzionale n. 3 del 2001. Le province, come i comuni, hanno avuto il riconoscimento di una disciplina di rango costituzionale; l’innovazione riguarda, peraltro, le “fonti” del diritto locale, per la prima volta espressamente indicate nella Costituzione: lo statuto (all’art. 114, comma 2, “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”) e i regolamenti (all’art. 117, comma 6, “I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”).

Anche l’attribuzione delle funzioni amministrative, secondo il nuovo disegno costituzionale si presentava particolarmente innovativo. Le previsioni costituzionali dispongono, infatti, che i comuni e le province (insieme alle città metropolitane e alle regioni) sono “enti autonomi con propri … poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114, comma 2, Cost.) e affermano “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” (art. 118, comma 2, Cost.).

Muovendo da queste premesse, peraltro, appariva anche possibile comprendere e spiegare la collocazione delle province rispetto ai comuni. A tal riguardo, occorre ricordare che il ruolo provinciale appariva ormai chiaramente legato alla pianificazione e alla programmazione di area vasta, al piano territoriale di coordinamento e alla gestione dei servizi di rete, così come alla tutela dell’ambiente, nell’accezione più ampia del termine (rifiuti, acqua, caccia, ecc.), e alla protezione civile.

Tuttavia, al di là dell’intero complesso di funzioni provinciali che assicuravano lo sviluppo e la promozione del territorio dell’intero Paese, in sinergia soprattutto con la legislazione statale e regionale e con l’attività regionale, il disegno costituzionale del 2001, innovando rispetto alla pregressa legislazione, accentuava con chiarezza il ruolo sussidiario delle province, rispetto ai comuni, per il quale tutte le funzioni comunali – anche quelle più caratterizzanti – nei casi in cui questi enti avessero presentato una naturale inadeguatezza o le funzioni medesime non fossero state a loro rapportabili, per il principio di differenziazione, potevano essere assicurate ai cittadini dall’azione della provincia, la quale, in una evenienza del genere, si sarebbe dovuta considerare ente di prossimità al pari del comune.

 

4. Il governo dell’area vasta e la democrazia territoriale. – Nella legge Delrio questa immagine della provincia delineatasi storicamente ritorna, nonostante l’avversione politica manifestata. In primo luogo, le province sono definiti “enti territoriali di area vasta” (comma 3) e ad esse sono attribuite “funzioni fondamentali” (comma 85), quali: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza; b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale; d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; e) gestione dell'edilizia scolastica; f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale.

Nel caso, poi, delle province montane e di confine si è prevista l’attribuzione di altre due funzioni fondamentali (comma 86) e specificamente: a) cura dello sviluppo strategico del territorio e gestione di servizi in forma associata in base alle specificità del territorio medesimo; b) cura delle relazioni istituzionali con province, province autonome, regioni, regioni a statuto speciale ed enti territoriali di altri Stati, con esse confinanti e il cui territorio abbia caratteristiche montane, anche stipulando accordi e convenzioni con gli enti predetti.

Ma che cosa è l’“area vasta”, cui si riferisce la qualità dell’ente provinciale?

La questione della definizione dell’area vasta si deve rapportare al dimensionamento delle politiche pubbliche e all’esercizio delle relative funzioni nel territorio.

Per una definizione dell’area vasta, accanto al quadro storico-giuridico, invero, sarebbe opportuno puntare su un modello economico che definisca, anche alla luce dei connotati statistico-geografici degli enti, l’allocazione delle funzioni di area vasta. Questo criterio appare utile soprattutto in relazione alla definizione delle funzione di quegli enti, non meramente amministrativi, ma rivolti alla promozione dello sviluppo del territorio e, perciò, alla gestione delle politiche pubbliche (come quelle relative all’ambiente [acqua, rifiuti, tutela dagli inquinamenti, ecc.], alla pianificazione territoriale, alla crescita industriale ed economica, all’energia [gas, elettricità e nuove fonti], al trasporto pubblico, al turismo, alla rete commerciale e distributiva, alle infrastrutture dell’ICT e le politiche attive del lavoro e le altre politiche pubbliche ancora che si possono ascrivere alla categoria, in ragione della rete territoriale che richiedono, per l’erogazione di beni e servizi pubblici).

In quest’ambito prende corpo la nozione di funzione di area vasta. Questo concetto, individuato anche in relazione a competenze che sono declinate su più livelli di governo, per settori o campi della stessa materia, serve a definire le articolazioni territoriali delle politiche nazionali e regionali, secondo condizioni e criteri dotati di una certa precisione.

Pertanto, l’area vasta non può essere considerata una variante delle associazioni di comuni, le Unioni, come pure sembra fare la legge n. 56, cit., che ritiene possibile agevolmente una devoluzione di compiti provinciali ai comuni. Infatti, come si deduce dalla dottrina in materia e, soprattutto, dalla tradizione legislativa, sussiste una chiara differenza tra le forme di associazioni dei comuni, le aree metropolitane e gli enti di area vasta (le province) e, perciò, non è possibile una sovrapposizione tra due nozioni dell’ordinamento territoriale affatto diverse e facilmente distinguibili: quella dell’“area vasta” e quella dell’“ambito ottimale”, sintetizzata dall’acronimo ATO (Ambito Territoriale Ottimale).

L’ATO è un’aggregazione intercomunale che ha il compito di pianificare, programmare e gestire determinati servizi di spettanza dei Comuni. Negli ATO vengono in rilievo porzioni di territorio, come nell’area vasta, ma differentemente da quanto accade per quest’ultima, l’estensione dell’ambito ottimale è assai limitata, così che su questo non si possono svolgere politiche pubbliche dotate di una certa complessità, né dare luogo alla formazione di sistemi di reti, ma solamente realizzare una migliore erogazione di prestazioni e servizi anche di carattere amministrativo. I servizi e le prestazioni di ambito, si dice, sono ottimizzati e realizzano, dal punto di vista economico, un’adeguatezza della dimensione gestionale.

L’area vasta non ha nulla di tutto questo. Infatti, l’area vasta non serve a ottimizzare la dimensione della gestione di ambito comunale, bensì a realizzare nel territorio, in connessione con le Regioni e lo Stato, il sistema coordinato delle politiche pubbliche che questi ultimi dovrebbero implementare.

Allo stesso modo le funzioni dell’area vasta non possono essere devolute alle regioni, come pure indica la legge Delrio, salvo a non perseguire un disegno di provincializzazione delle regioni medesime. Infatti, le nozioni di «governo regionale» e di «governo di area vasta», pur indicando due livelli di governo territoriale, sono in parte incommensurabili, atteso che vengono in discussione aspetti strutturali diversi. Questi sono chiaramente riferibili alla qualità dei poteri esercitati, che sono da rinvenirsi per il primo nell’esercizio della potestà legislativa, che pone il governo regionale in relazione e in continuità con lo Stato e la sua funzione legislativa. Il «governo di area vasta» non partecipa, com’è evidente, dei caratteri dell’ente di legislazione, ma costituisce esplicazione di un governo locale “autonomo”, che discende dalla previsione dell’art. 5 della Costituzione, e la sua funzione è di mantenere un carattere “anfibio”, potendosi collegare tanto alle politiche pubbliche governate dallo Stato, quanto a quelle dirette dalle Regioni.

Fatte queste debite differenze, occorre avvertire che dal punto di vista funzionale le province / enti territoriali di area vasta hanno una precisa fisionomia – tutto sommato rintracciabile anche nella legge Delrio e nel testo della riforma costituzionale – alla quale dovrebbe corrispondere un’adeguata organizzazione territoriale. Da questo punto di vista, il sistema dell’ente rappresentativo di secondo grado, che sembra avere preso il sopravvento nella legislazione, risulta inadeguato, oltre che in contrasto con i principi costituzionali dell’autonomia territoriale e con la Carta dell’autonomia locale (art. 3.2) del Consiglio d’Europa e con vari altri atti dell’Unione europea (v. la “Carta della Governance Multilivello in Europa”).

In definitiva, il vero limite dell’organizzazione degli enti territoriali di area vasta, delle province, è la mancanza di un autogoverno proprio, diverso da quello dei comuni. Infatti, se l’area vasta richiede amministrazioni diverse (e territorialmente più ampie) dai Comuni, richiede – al contempo – una classe politica propria direttamente legittimata davanti alla popolazione, in grado di prendersi cura degli interessi specifici della pianificazione territoriale e dei servizi di area vasta. La qualcosa non può realizzarsi con i sindaci e gli amministratori comunali, cui competono altre responsabilità e una diversa rappresentanza, costituita con una logica diversa dalla rappresentanza territoriale, così come questa era stata definita nell’originaria legge elettorale dei consigli provinciali in cui i seggi venivano attribuiti per collegi.

Oltre a ciò, il principio di autonomia espresso dall’art. 5 della Costituzione, se mantiene il valore che spesso la Corte costituzionale gli ha attribuito di “principio supremo”, presuppone una stretta correlazione tra autonomia e democrazia locale che non può essere disattesa dalla legislazione nel caso degli enti di area vasta. Tanto più se per colpa della legge Delrio l’Italia può subire un declassamento europeo per la violazione della Carta dell’autonomia locale. Infatti, il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa, che ha effettuato due visite di monitoraggio, svoltesi dal 2 al 4 novembre 2011 e dal 3 al 5 dicembre 2012, ha notato “con soddisfazione il profondo radicamento nella Costituzione italiana del principio fondamentale dell’autonomia locale”, ma al contempo ha constatato “con rammarico: a. il mancato rispetto del diritto degli enti locali di amministrare sotto la loro responsabilità una parte importante degli affari pubblici, conformemente all’articolo 3.1 della Carta; b. che il principio dell’elezione diretta degli organi provinciali è rimesso in discussione, con l’introduzione di elezioni indirette per le province, nell’ambito della riforma attuale (Articolo 3.2 della Carta)”. Infine, tra le varie raccomandazione deliberate, “il Congresso ha raccomandato al Comitato dei Ministri di invitare le autorità italiane a ribadire l’attaccamento al valore democratico delle elezioni dirette in qualsiasi proposta futura di riforma strutturale, in particolare per quanto concerne il livello provinciale (Articolo 3.2)” (Raccomandazione n. 337, La democrazia locale e regionale in Italia, Discussa e adottata dal Congresso il 19 marzo 2013).

 

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