1. Il continuismo della giurisprudenza costituzionale sul regionalismo 

2. Lo strumentario della Corte costituzionale sulle materie nel secondo regionalismo

3. Il secondo regionalismo: il profilo del modello

4. Segue: il passaggio dalle materie di competenza legislativa alle politiche pubbliche



1. Il continuismo della giurisprudenza costituzionale sul regionalismo
Si può agevolmente osservare che la fisionomia della Regione ha avuto un cambiamento profondo negli ultimi vent’anni. Tuttavia, si deve in modo altrettanto evidente notare che anche le sembianze dello Stato non sono più quelle che questo aveva ancora all’inizio degli anni ’90.
Eppure fondamento e portato delle innovazioni stentano a essere riconosciuti. Anzi, proprio dalla mancata considerazione delle novità dipendono, oggi, molti dei problemi che affliggono la Repubblica.
La stessa revisione del Titolo V, in relazione al riparto delle competenze, è il frutto di una elaborazione spesso vetusta e comunque poco accorta, rispetto alla quale il dibattitto della dottrina e la giurisprudenza della Corte costituzionale sono ancora connessi con la precedente visione del rapporto tra Stato e Regioni.
Se si dovesse descrivere il modo in cui è stata intesa la Regione nella giurisprudenza costituzionale che si è occupata del nuovo riparto delle competenze, quello – per intenderci – c.d. federale, con il rovesciamento del principio enumerativo, la sentenza più significativa da richiamare non mi sembra la sentenza n. 282 del 2002 e neppure la tanto celebrata sentenza n. 303 del 2003, ma la sentenza n. 7 del 1956.
In quella decisione la Corte era chiamata a decidere, su una norma di legge regionale in contrasto con la disposizione dell'art. 3, 1 comma, lett. d) dello Statuto speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948, n. 3) che ha attribuito alla Regione la competenza legislativa in materia di "agricoltura" e, precisamente, a valutare «se il potere normativo regionale possa modificare le disposizioni contenute, nel codice civile, relativamente ai contratti agrari».
Osserva la Corte: «I limiti della competenza regionale, in materia di agricoltura, vanno ricercati, più che nella natura delle norme da emanare, nelle finalità per cui l'Ente regione è stato creato. E poiché non è da dubitare, che il decentramento regionale è in funzione del soddisfacimento di interessi pubblici, le finalità che la Regione deve perseguire qualificano la competenza legislativa attribuitale; la quale quindi deve limitarsi alla disciplina della materia dell'agricoltura per quanto attiene a detti interessi. Consegue che le leggi regionali non possono disciplinare rapporti nascenti dall'attività privata rivolta alla terra, quale bene economico, sia nella fase organizzativa, che in quella produttiva; rapporti che devono essere regolati dal codice civile. Possono, invece, occuparsi dei problemi attinenti alla organizzazione anche tecnica e allo sviluppo agricolo e forestale dell'isola alla cui soluzione è interessata la collettività» (Sentenza n. 7 del 1956).
Un’indicazione che completa il quadro presente, sul senso dell’istituto regionale, si può ricavare anche da un’altra decisione costituzionale pronunciata al momento dell’implementazione delle Regioni ordinarie, la sentenza n. 138 del 1972, in cui la materia in questione era quella delle “fiere e mercati” del precedente art. 117 Cost.. In questa, infatti, si legge: «A tal proposito va tenuto ben presente che la stessa ragion d'essere dell'ordinamento regionale risiede nel fatto che la Costituzione, presupponendo l'esistenza di interessi regionalmente localizzati, ha disposto che essi siano affidati alla cura di enti di corrispondente estensione territoriale. Dovendosi pertanto le Regioni considerare come enti esponenziali di interessi di livello regionale, è d'uopo ritenere che l'ordinamento costituzionale, come impone che siffatti interessi si soggettivizzino nelle Regioni (restando allo Stato, in armonia con l'art. 5 Cost., solo il potere di stabilire i principi fondamentali), così esige, nel quadro di una razionale individuazione delle due sfere di competenza, che allo Stato faccia capo la cura di interessi unitari, tali in quanto non suscettibili di frazionamento territoriale. E questa affermazione, già di per sé non contestabile, appare avvalorata dal rilievo che altrimenti, non essendo riconosciuto allo Stato il potere di sostituirsi alle Regioni in caso di loro inerzia, fondamentali esigenze dell'intera comunità rischierebbero di restare insoddisfatte.»
E si aggiunge in modo conclusivo: «Non si può affermare, dunque, che per la definizione delle materie elencate nell'art. 117 Cost. sia sempre sufficiente il ricorso a criteri puramente formali e nominalistici. Anche se nel testo costituzionale solo per alcune di esse viene espressamente indicato il presupposto di un sottostante interesse di dimensione regionale, per tutte vale la considerazione che, pur nell'ambito di una stessa espressione linguistica, non è esclusa la possibilità di identificare materie sostanzialmente diverse secondo la diversità degli interessi, regionali o sovraregionali, desumibile dall'esperienza sociale e giuridica».
Le conseguenze di questa prospettiva per l’affermazione del regionalismo italiano sono state considerevoli. Ne è derivato, infatti, un modello di regionalismo sostanzialmente asfittico e privo di capacità innovativa, ma comodo sviluppo delle esigenze della classe politica del tempo come alcuni osservatori d’oltralpe notarono ancor prima dell’inizio (Palazzoli, 1965).
Ora, il divario tra il modello e la sua resa è la chiave di lettura che sembra unire il primo e il secondo regionalismo.
In particolare, per ciò che concerne il primo regionalismo, nonostante tutti i limiti del Titolo V originario, che scontava tutte le contraddizioni dell’Assemblea costituente, come la semplificazione del riparto delle competenze, la mancata regionalizzazione di una Camera parlamentare e l’assenza di un’autonomia finanziaria delle Regioni direttamente in Costituzione, il senso del progetto regionale era dato dal «principio di adeguamento» espresso nell’art. 5 e nella IX disp. trans. e fin..
L’idea del Costituente, anche se palesemente a torto, era che il saggio e obbediente legislatore statale (rectius: la Repubblica) avrebbe adeguato “i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” e, in particolare, che “entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, (avrebbe adeguato) le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni”.
Alla trasformazione della Repubblica sulla base del principio autonomista aveva dedicato un commento appassionato uno dei maggiori costituzionalisti italiani del tempo: Carlo Esposito (1954), il quale osservava: «uno stato non rispetta le autonomie … per il fatto che riconosca a qualche ente il potere di disciplinare con forza e con gli effetti della legge formale alcune sporadiche materie, ma se esso consente che vi siano enti posti in grado di disciplinare in concreto tanta materia e in maniera tanto organica che ne sorgano ordinamenti particolari entro l’ordinamento territoriale dello Stato. Perciò, nella nostra costituzione, – egli continua – l’art. 117 non concretizza il principio della autonomia delle regioni solo perché conferisce forza di legge alle disposizioni normative emesse dalle regioni (…), ma perché attribuisce alle regioni di disciplinare numerose materie».
In un brano successivo, poi, Esposito trova il segno che l’art. 5 avrebbe dovuto imprimere nell’ordinamento della Repubblica: «Queste autonomie – afferma – non hanno rilievo solo per la organizzazione amministrativa, ma incidono in profondità sulla struttura interiore dello Stato, e non solo tendono ad adeguare gli istituti giuridici alla complessa realtà sociale che vive lo Stato, ma costituiscono per i cittadini esercizio, espressione, modo d’essere, garanzia di democrazia e di libertà».
Di conseguenza, «la solenne proclamazione che la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali non solo riassume, ma anche garantisce questo diritto dei cittadini a partecipare attivamente alla vita degli enti territoriali; così come non solo riassume, ma anche garantisce la posizione complessiva e sostanzialmente identica fatta ai comuni, alle province e alle regioni nel nostro Stato».
Non occorreva la revisione costituzionale dell’art. 114 per scoprire il principio di pariordinazione delle autonomie territoriali; sarebbe stato sufficiente leggere attentamente le disposizioni della Carta e la letteratura costituzionalistica più apprezzabile.
Tuttavia, a questa importante prospettazione non sono mancate contrapposizioni anche altrettanto autorevoli, soprattutto da parte di studiosi di Diritto amministrativo (Zanobini) e costituzionale (Martines, Onida) che vedevano nella Regione solo un grande ente locale e del quale dubitavano persino che quelle che erano state definite leggi dalla Costituzione tali fossero per il vero e non dei meri regolamenti, tipica fonte di autonomia all’interno di uno stato giuridicamente organizzato in modo centralistico.
È nota, al riguardo, la lunga vessata questione della natura e della collocazione della legge regionale nel sistema delle fonti alla quale eminenti costituzionalisti del tempo (da Crisafulli a Galeotti) dedicarono numerosi e importanti contributi.
La questione regionale rimase così emblematicamente imbrigliata tra un disegno autonomista e policentrista e una posizione centralista che continuava a ridurre gli spazi di autonomia, in nome della “supremazia” statale, la quale aveva caratterizzato tutta l’esperienza dello Stato unitario, complice anche l’evoluzione dello Stato sociale italiano.
La Corte costituzionale – diversamente dall’Alta Corte della Regione Siciliana – ha sin dall’avvio sposato la posizione a difesa della supremazia statale e della centralizzazione delle competenze, come si è visto con le sentenze richiamate, sia quando le Regioni erano solo le quattro entità a statuto speciale (sentenza n. 116 del 1967), e sia quando si trattava delle quindici regioni a statuto ordinario (sentenza n. 37 del 1991).
La scelta a favore del legislatore statale ha consentito di mettere in campo durante il primo regionalismo un armamentario enorme contro l’autonomia legislativa e amministrativa regionale, che brevemente si riassume in alcune espressioni che evocano i limiti opposti all’autonomia costituzionale delle Regioni, come il ritaglio delle materie, il limite positivo degli interessi nazionali, la decostituzionalizzazione delle materie, le leggi cornice con le disposizioni di dettaglio, la funzione di indirizzo e coordinamento, ecc.
Si è determinata così una compressione dell’autonomia legislativa in senso orizzontale e in senso verticale, e cioè ha interessato tanto il campo materiale, quanto il modo di disciplina, quanto ancora lo spessore politico della possibile differenziazione regionale.
Il giudizio che descrive in modo più icastico l’esperienza del primo regionalismo è quello dato da Antonio D’Atena, nella voce Regione dell’Enciclopedia del Diritto (1988), che conclude l’analisi dell’istituto constatando “la perversione del modello” e osserva: «È appena il caso di rilevare che il costo i questa “perversione” del modello rischia di essere particolarmente elevato. E di gravare, non solo sulle regioni (che corrono il pericolo di distaccarsi irreversibilmente dalle ragioni vitali che ne giustificano l’esistenza), ma anche sullo Stato (aggravando quella crisi che la riforma avrebbe dovuto contribuire a risolvere)» (p. 347).
I pronostici che, infatti, si andavano formulando – un po’ come oggi – erano che la tenuta dell’istituto regionale era in pericolo. Tant’è che la preoccupazione per il regionalismo finisce per toccare la stessa giurisprudenza costituzionale, la quale negli ultimi anni del primo regionalismo, produce alcune decisioni annoverate come una revisione dei propri orientamenti in un senso più favorevole alle Regioni. Troppo tardi. Infatti, la Corte sarebbe stata politicamente accusata – anche se non era vero – di essere stata la causa principale del fallimento del regionalismo. Il fallimento del regionalismo – e ciò vale anche come giudizio anticipato sulla fase attuale – ha la sua causa principale nell’opposizione quotidiana della burocrazia ministeriale, dovuta alla povertà della cultura istituzionale che contraddistingue questa parte della classe dirigente.
Ma, proseguendo nel nostro esame, potrebbe dirsi che quasi inaspettatamente alla svolta della prima metà degli anni ’90 le Regioni appaiono la soluzione politica, rispetto alla crisi economica e monetaria che aveva scosso l’Italia e il Sistema monetario europeo.
In realtà, a favore di questo improvviso cambiamento di orizzonte, nel contesto di una crisi economica internazionale, contribuisce la svolta europea segnata dal Trattato di Maastricht con i criteri di convergenza e l’istituzione del sistema europeo delle banche centrali. Infatti, la ragione profonda del rafforzamento del nostro regionalismo risiedeva nella circostanza che il nuovo assetto internazionale dell’economia, così come il processo di integrazione europeo, ponevano il problema di una ristrutturazione degli stati nazionali, ormai a sovranità aperta.
Dal punto di vista interno, poi, le Regioni e le altre autonomie locali offrivano la possibilità concreta al Governo nazionale di ridurre i capitoli spesa del bilancio statale in modo da rendere più agevole il raggiungimento di alcuni parametri del patto di stabilità, in vista della moneta unica. Operazione, questa, che fu compiuta sotto l’egida del c.d. “federalismo a Costituzione invariata”.
Ciò che deve essere ricordato in questa sede è che l’entusiasmo federalista del tempo, criticato solo da qualcuno (Mangiameli 1997), prese di mira – sia pure in modo non del tutto avvertito – la giurisprudenza costituzionale.
L’approvazione del ddlc D’Alema-Amato, che sarebbe diventato la Legge costituzionale n. 3 del 2001, com’è testimoniato anche dal dibattito parlamentare, divenne l’occasione per giustiziare tutti i vincoli che la Corte aveva creato nel corso del tempo. A parte il rovesciamento dell’enumerazione, che si considerava collegato a un campo materiale per le Regioni di più ampie dimensioni, vanno in questa direzione la scomparsa del riferimento agli “interessi nazionali” (rimasto solo negli Statuti speciali), la differente formulazione della potestà concorrente, che avrebbe dovuto limitare le costrizioni verticali della potestà legislativa regionale e la formulazione della competenza residuale, che, con l’uso dell’avverbio “espressamente”, avrebbe dovuto escludere ogni ipotesi di poteri impliciti a favore dello Stato. Anzi, il combinato disposto dell’art. 117, comma 4, con l’art. 116, comma 3, Cost. lasciava intravvedere solo la possibilità di una crescita delle competenze dal lato regionale e mai da quello statale.
Persino il principio di leale collaborazione, il quale dovrebbe costituire il proprium di un sistema pubblico di funzioni articolate su più livelli di governo, era accusato di essere stato solo un paravento dell’ingerenza statale ed era così escluso dalla riforma e richiamato solo a proposito della legge di disciplina del potere sostitutivo. Il sistema delle Conferenze, inizialmente previsto nel ddlc, scompare dal testo della revisione e come meccanismo di concertazione si prevede, nell’art. 11, una timida apertura parlamentare, in attesa della riforma del Titolo I della Parte seconda della Costituzione. Quest’attesa, per la riforma del Parlamento in coerenza con il regionalismo, dura tutt’oggi.
La posizione espressa dal legislatore di revisione costituzionale, con la legge costituzionale n. 3 del 2001, di fatto, metteva in crisi la giurisprudenza costituzionale e ciò spiega anche la difficoltà della Corte costituzionale nell’intraprendere il nuovo “ciclo” di giurisprudenza relativo alle disposizioni del Titolo V revisionato (Mangiameli, in Giur. Cost. 2002). Ciò che sembrava venire meno con la riforma costituzionale, infatti, era il caposaldo della supremazia statale e la scelta per la centralizzazione delle competenze che faceva dello Stato il riferimento pressoché unico delle politiche interne.
In questo contesto, nonostante la crisi dello Stato sociale e le necessità imposte dal patto di stabilità, volto al conseguimento della moneta unica, le innovazioni prodotte dal diritto europeo, per la Corte la riforma costituzionale del Titolo V finisce con il diventare un problema da risolvere e, a tal fine, il giudice costituzionale non riesce a vedere un orizzonte diverso dallo Stato come garanzia del funzionamento della Repubblica, complice nuovamente il mancato rispetto, da parte del legislatore, del “principio di adeguamento”. La legge n. 131 del 2003, infatti, a parte il discutibile contenuto, giunge quando la Corte ha concretamente deciso la propria posizione di politica costituzionale sul regionalismo italiano (D’Atena, in Giur. Cost. 2002).
 
2. Lo strumentario della Corte costituzionale sulle materie nel secondo regionalismo
Sin dalla prima decisione nella quale prende in considerazione le disposizioni del nuovo Titolo V la Corte costituzionale esprime una logica di continuità. La sentenza n. 282 del 2002, infatti, nonostante sia stata celebrata per quel passaggio nel quale descrive il “quadro del nuovo sistema di riparto della potestà legislativa risultante dalla riforma del titolo V, parte II, della Costituzione”, asserendo che oggi bisogna muovere “non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale”, merita di essere ricordata per avere letto i limiti della competenza concorrente secondo la versione precedente, senza tenere conto che anche nel precedente regime costituzionale la lettura dei limiti dei principi – secondo la previsione dell’art. 17 della legge n. 281 del 1971 – aveva generato indiscutibili problemi di comprensione, basti ricordare il caso delle IPAB e della materia “beneficenza pubblica” culminata poi nella sentenza n. 173 del 1981.
A poco vale che la stessa Corte rilevi che “la nuova formulazione dell’art. 117, terzo comma, rispetto a quella previgente dell’art. 117, primo comma, esprime l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina”, dal momento che secondo il giudice costituzionale ciò non significherebbe che “i principi possano trarsi solo da leggi statali nuove, espressamente rivolte a tale scopo”, che era proprio la volontà sottostante alla determinazione della nuova competenza concorrente. Per di più la motivazione della Corte, chiaramente volta al depotenziamento della potestà legislativa regionale, aggiunge che “specie nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore”. Si paventava il timore che l’esercizio della potestà legislativa regionale, in assenza di apposite leggi statali, avrebbe potuto sconvolgere l’ordinamento giuridico.
Del resto, sono bastate due decisioni del 2003, la n. 303 e la n. 370, per liquidare il riparto delle competenze legislative previsto dall’art. 117 Cost.: con la prima si dava vita a un inedito istituto che nel tempo si sarebbe consolidato sotto il nome di «chiamata in sussidiarietà», grazie al quale qualsivoglia campo materiale riconducibile al comma 3 dell’art. 117 può formare oggetto integrale di disciplina da parte del legislatore statale; con la seconda, in cui appare per la prima volta il «criterio della prevalenza», si metteva fuori campo anche il comma 4 dell’art. 117, asserendo che non sarebbe stato possibile, “in via generale, (…) ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all'ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni ai sensi del comma quarto del medesimo art. 117, per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell'art. 117 della Costituzione”.
In questo modo il campo materiale regionale è, se non espropriato, in via di principio sempre espropriabile da parte dello Stato: dalle grandi infrastrutture di interesse nazionale, come nel caso della legge “obiettivo”, o del decreto legge c.d. “sblocca centrali elettriche” (sentenza n. 6 del 2004), agli asili nido.
Le pronunce richiamate sono ancora troppo vicine all’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, per potere riconoscere apertamente il potere della legge statale di definire le materie di competenza regionale e il ruolo degli interessi nazionali sotto forma di interessi non frazionabili.
Così nella sentenza n. 303 si ricorre a una lunga e complessa motivazione richiamando elementi e meccanismi propri di altre costituzioni, per concludere che non si possono “svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze”. Peccato che non sia così né per la konkurrierende Gesetzgebung dell’ordinamento costituzionale tedesco, né per la Supremacy Clause del sistema federale statunitense.
Si afferma che «Anche nel nostro sistema costituzionale sono presenti congegni volti a rendere più flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia articolazione delle competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principî giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica».
Ma il problema non sono le interferenze dei campi materiali che sussistono per ogni riparto di competenze, bensì il modo di risolverle. Infatti, se ogni interferenza comporta la perdita del campo materiale regionale o la “prevalenza” di quello statale, sarebbe più semplice definire tutta la competenza legislativa regionale in termini di residualità, affermando che il legislatore regionale è competente quando lo decide il legislatore statale e nei limiti in cui questo non decida di legiferare. Non è necessario fare ragionamenti giuridici all’incontrario e, richiamando il principio di sussidiarietà, capovolgere il modo di operare del principio di legalità, per giustificare una decisione di politica costituzionale che non trova fondamento nel testo della Carta.
Anche sui c.d. “interessi non frazionabili” o sulle “istanze di unificazione”, non siamo di fronte a una legge di natura indipendente dalla qualificazione giuridica, ma di fronte a decisioni politiche compiute in seno all’ordinamento: il problema è intendersi a chi spetti la decisione sulla competenza, la c.d. Kompetenz-Kompetenzen: alla Costituzione, al legislatore statale o alla Corte costituzionale.
Si può esemplificare la questione richiamando la disciplina (costituzionale) dei beni culturali. La Costituzione italiana espressamente distingue tutela e valorizzazione: la prima allo Stato, la seconda alle Regioni; come è noto si è trattato di una scelta ampiamente discussa e criticata, che non poco panico ha scatenato nella burocrazia del Ministero dei beni culturali. Nell’ordinamento costituzionale tedesco i beni culturali sono competenza esclusiva dei Länder e non esiste un Ministero federale dei beni culturali. In Austria, invece, dove i beni naturali sono di competenza dei Länder, i beni culturali – in base all’art. 10, comma 1, n. 13, della Costituzione, che contempla la “Denkmalschutz” – sono di competenza federale.
Ora, si domanda: quale è il migliore riparto delle competenze? E ancora, dove sono meglio tutelati e meglio valorizzati i beni culturali?
La prima domanda non può avere una risposta e, soprattutto, non può averla sulla base delle “istanze di unificazione presenti nel contesto di vita”. La risposta è conseguenza dell’organizzazione pubblica, della tradizione giuridica, del modo di relazionarsi degli enti territoriali e dello Stato con il patrimonio pubblico, ecc.; di conseguenza, non esiste un migliore riparto di competenza, ma semplicemente una decisione costituzionale che legislatore e giudice costituzionale dovrebbero rispettare.
Alla seconda domanda, quella relativa alla migliore tutela e valorizzazione, è agevole rispondere, sia pure in negativo: certamente non in Italia e ciò va a detrimento tanto dello Stato, quanto delle Regioni. Ma servirebbe, per migliorare tutela e valorizzazione, riconoscere allo Stato, in ragione di “istanze di unificazione presenti nel contesto di vita” e attraverso la “chiamata in sussidiarietà”, tutta la competenza sui beni culturali allo Stato, compresa la loro valorizzazione? Sia consentito dubitarne, in quanto lo Stato al momento non riesce neppure a garantire la conservazione dei beni culturali, che è il primo grado della tutela.
La “chiamata in sussidiarietà”, non solo non trova legittimazione in Costituzione, ma rappresenta una giustificazione alla deroga delle competenze da parte del legislatore statale tra le meno efficaci, che espone maggiormente la responsabilità costituzionale della Corte, come è mostrato dalla sentenza n. 79 del 2011, sulla metropolitana di Parma, esclusa per ragioni finanziarie dal novero delle grandi opere, segno evidente che la decisione precedente era una istanza di giustificazione tutt’altro che fondata.
Da questo punto di vista, poi, per quanti sforzi faccia il giudice costituzionale di seguire le decisioni del Parlamento e del Governo, assecondando la concentrazione delle competenze in capo allo Stato, dovrà prendere atto che non basta riconoscere un potere per essere certi che l’interesse pubblico sottostante sia soddisfatto. Chi si chieda quante delle otto centrali elettriche previste dal decreto legge siano state autorizzate dallo Stato e costruite, dopo la sentenza n. 6 del 2004, in cui la Corte, in materia di energia, fece uso nuovamente della chiamata in sussidiarietà, si troverà di fronte al dato emblematico di nessuna autorizzazione concessa e nessuna centrale costruita.
Considerazioni in parte analoghe valgono nei confronti del criterio di prevalenza, adoperato dalla Corte costituzionale per dirimere i problemi derivanti dal riparto delle competenze legislative nel caso di concorso delle medesime e operante sulla base dell’“appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre” (sentenza n. 50 del 2005). Infatti, statisticamente il criterio della prevalenza è stato adoperato riconoscendo la prevalenza (e l’attrazione da parte) della materia statale rispetto a quella regionale. La prevalenza, cioè, non è stato un dato quantitativo che veniva calcolato di volta in volta, riconoscendo nel caso specifico quale sia la materia di disciplina effettivamente prevalente, e ciò soprattutto allorquando venivano in evidenza materie regionali riconducibili alla competenza residuale.
A partire dalla sentenza n. 370, cit., la prevalenza ha rappresentato, perciò, un modo per decidere a favore dello Stato, per rinvenire un interesse prevalente e spesso necessariamente unitario di questo che sovrasta ogni contrario interesse della Regione ad esercitare la propria competenza. Anche nel caso in cui la prevalenza è servita a riconoscere la competenza regionale, ma di tipo diverso rispetto a quella reclamata dalle Regioni, concorrente, anziché esclusiva/residuale, la questione si risolveva nell’ammettere un potere di ingerenza del legislatore statale, altrimenti del tutto estraneo alla disciplina della materia (v. sentenza n. 230 del 2004 e sentenza n. 114 del 2009).
Si deve considerare, peraltro, che quando la prevalenza della competenza statale appare alla Corte essere così netta, questa ne ha dedotto anche la possibilità di fare a meno di un qualche modulo collaborativo (sentenze n. 234 del 2005, n. 33 del 2011).
Inoltre, non si può escludere che prevalenza e sussidiarietà vengano in considerazione insieme: così è accaduto nel caso della pronuncia n. 50 del 2005 nella quale elementi attinenti all’ordinamento civile e alla previdenza hanno finito con l’attrarre le funzioni inerenti alla tutela del lavoro, a prescindere dalla valutazione sull’appartenenza del nucleo essenziale della normazione in questione.
La stessa nozione di “nucleo essenziale di un complesso normativo”, di per sé alquanto impalpabile, finisce così con il perdere quel rilievo che pure in primo momento la giurisprudenza costituzionale avrebbe voluto riconoscervi.
In collegamento con questi spostamenti dei campi materiali si situano anche le questioni inerenti alle competenze c.d. trasversali, in particolare riconducibili alla tutela ambientale e alla tutela della concorrenza per le quali la Corte ha tratto il convincimento che giustificano l’attraversamento di campi materiali differenti anche appartenenti alla potestà delle Regioni.
I due ambiti materiali vanno trattati distintamente, anche se hanno in comune il carattere teleologico della competenza attribuita, in quanto la Corte ha adottato per queste differenti schemi concettuali.
In particolare, con la sentenza n. 14 del 2004, grazie alla materia “tutela della concorrenza”, il giudice costituzionale persegue il disegno di unificare le competenze di natura economica iscritte nel nuovo art. 117 Cost., le quali caratterizzano il riparto per la frammentazione dell’intervento nell’economia da parte dei poteri pubblici: Stato e Regioni. Infatti, l’art. 117 vedrebbe spostate la maggior parte delle materie di rilievo economico nel comma 3, se non addirittura nel comma 4. Di conseguenza, la Corte mette immediatamente al centro «la questione cruciale del rapporto tra le politiche statali di sostegno del mercato e le competenze legislative delle Regioni nel nuovo Titolo V, Parte II» e, riducendo il tema costituzionale all’essenza, pone l’interrogativo «se lo Stato, nell’orientare la propria azione allo sviluppo economico, disponga ancora di strumenti di intervento diretto sul mercato, o se, al contrario, le sue funzioni in materia si esauriscano nel promuovere e assecondare l’attività delle autonomie». Infatti, continua la Corte, «vera questa seconda ipotesi lo Stato dovrebbe limitarsi ad erogare fondi o disporre interventi speciali in favore di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, i quali sarebbero quindi da considerare come gli effettivi titolari di una delle leve più importanti della politica economica».
La Corte salta consapevolmente la naturale lettura della Costituzione e contrappone a questa l’essenza costituzionale del ruolo dello Stato rispetto al mercato, ricomprendendolo nella voce “tutela della concorrenza”.
A tal fine, il giudice costituzionale colloca «gli interventi pubblici (in economia) in un più ampio contesto sistematico», per il quale questi, «quale che ne sia l’entità e quale che sia la natura delle imprese che ne beneficiano, sono qualificati nel diritto comunitario “aiuti di Stato”; coinvolgono pertanto i rapporti con l’Unione europea e incidono sulla concorrenza, la cui disciplina si articola, nell’attuale fase di integrazione sovranazionale, su due livelli: comunitario e statale».
Così, dall’esame delle disposizione del Trattato CE, il giudice costituzionale trae il convincimento che «i principî comunitari del mercato e della concorrenza … non sono svincolati da un’idea di sviluppo economico-sociale e sarebbe errato affermare che siano estranei alle istituzioni pubbliche compiti di intervento sul mercato»; anzi, muovendo dalla connessione tra la disciplina del mercato e le politiche previste dal Trattato, grazie alle quali si realizzerebbe la promozione di un mercato competitivo, si giunge alla conclusione che, «nel diritto comunitario, le regole della concorrenza non sono quindi limitate all’attività sanzionatoria della trasgressione della normativa antitrust, ma comprendono anche il regime di aiuti, riguardanti sia il campo agricolo sia gli altri settori produttivi, sui quali l’azione della Comunità è sinora in larga parte intessuta».
Ciò posto, a premessa dell’esame del livello statale interno, si afferma che «la nozione di concorrenza non può non riflettere quella operante in ambito comunitario, che comprende interventi regolativi, la disciplina antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza. Quando l’art. 117, secondo comma, lettera e), affida alla potestà legislativa esclusiva statale la tutela della concorrenza, non intende certo limitarne la portata ad una sola delle sue declinazioni di significato».
Di conseguenza, la tutela della concorrenza costituirebbe «una delle leve della politica economica statale e pertanto non (potrebbe) essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali». Questa impostazione assicurerebbe, perciò, al legislatore statale di assolvere al suo compito di garante di un mercato nazionale unitario e di una politica economica pubblica unificata.
Come si vede, non è il significato che viene attribuito alla voce “tutela della concorrenza”, che pure ha fatto ampiamente discutere i commentatori della sentenza n. 14, e la sua coerenza con la nozione di concorrenza del diritto comunitario, a venire in discussione, quanto il ruolo che a questa competenza viene assegnato nel sistema dell’intervento pubblico nell’economia.
Sul piano costituzionale, poi, rileva la relazione che sussiste tra questa e le voci enumerate nel comma 3 dell’art. 117, o le materie di competenza regionale esclusiva (come l’agricoltura) del comma 4 dell’art. 117; rispetto a queste, sia che siano enumerate, sia che siano desunte dalla clausola di residualità, con la posizione assunta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 14, non si pone più un problema di delimitazione delle rispettive sfere, ma di misurazione della riduzione dell’area della materia toccata dalla “tutela della concorrenza”. Infatti, come osserva il giudice costituzionale, «una volta riconosciuto che la nozione di tutela della concorrenza abbraccia nel loro complesso i rapporti concorrenziali sul mercato e non esclude interventi promozionali dello Stato, si deve tuttavia precisare che una dilatazione massima di tale competenza, che non presenta i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione esercitabile sui più diversi oggetti, rischierebbe di vanificare lo schema di riparto dell’art. 117 Cost., che vede attribuite alla potestà legislativa residuale e concorrente delle Regioni materie la cui disciplina incide innegabilmente sullo sviluppo economico» (p.to 4 del Considerato in diritto).
La Corte, asserendo che le materie di carattere economico, enumerate o riservate in via residuale a favore delle Regioni, non hanno sul piano giuridico una corrispondenza semantica, qualora vengano in collisione con la “tutela della concorrenza” («si tratta allora di stabilire fino a qual punto la riserva allo Stato della predetta competenza trasversale sia in sintonia con l’ampliamento delle attribuzioni regionali disposto dalla revisione del Titolo V»), avverte la necessità di tracciare dei criteri di delimitazione delle rispettive sfere, desumendole dal sistema da essa stessa costruito («è il criterio sistematico che occorre utilizzare al fine di tracciare la linea di confine tra il principio autonomistico e quello della riserva allo Stato della tutela della concorrenza»).
È il principio di unificazione (in capo allo Stato), che viene nuovamente in discussione, in base al quale l’essenza costituzionale dello Stato risiede nella sua capacità di reductio ad unitatem, che nel caso del mercato significa proprio la garanzia del mantenimento dell’unità economica del Paese, la quale viene così iscritta all’interno della materia “tutela della concorrenza”.
Non è certamente corrispondente al testo del Titolo V che «l’intendimento del legislatore costituzionale del 2001 (sia stato) di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese». Anzi, lo spirito della revisione andava proprio nella direzione opposta, come dimostrerebbe, oltre alla esiguità delle materie economiche dell’enumerazione statale, a fronte delle numerose materie economiche previste dal comma 3 dell’art. 117, la circostanza che dell’unità economica il Titolo V faccia menzione, non per articolare il riparto delle competenze, ma, al contrario, per disporre del particolare mezzo di sostituzione, azionabile solo in presenza di crisi congiunturali di straordinaria gravità, per di più determinate dall’azione anti-unitaria di qualche “governo locale”.
Si deve, perciò, alla creatività del giudice costituzionale il principio che “l’intervento statale” in economia si giustifica sempre «per la sua rilevanza macroeconomica» quale che possa essere la materia su cui ricade.
Per converso, apparterrebbero, invece, «alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni gli interventi sintonizzati sulla realtà produttiva regionale». Interventi che la stessa Corte non esita a definire «di carattere localistico o microsettoriale e quindi non qualificabili come macroeconomici».
Anche questa pronuncia della Corte, in definitiva, ripristina una continuità logica con la situazione precedente alla revisione costituzionale, nel senso che in essa si afferma la visione costituzionale della Corte, per la quale il governo dell’economia deve ubbidire a logiche unitarie.
La necessità di una diversificazione con il passato regime costituzionale delle competenze, come già era accaduto con la sentenza n. 303, non si situava nella logica profonda del governo dell’economia da parte dello Stato, quanto nel modo di accertarne la sua giustificazione. Infatti, il giudice costituzionale non pone alcun limite ai possibili interventi sul mercato da parte dello Stato («non rientra nelle competenze di questa Corte la valutazione della correttezza economica delle scelte del legislatore, stabilire cioè se un intervento abbia effetti così rilevanti sull’economia da trascendere l’ambito regionale»), ma si limita a motivare seguendo i canoni del principio di ragionevolezza e di quello di proporzionalità, per cui sarebbe «la stessa conformità dell’intervento statale al riparto costituzionale delle competenze a dipendere strettamente dalla ragionevolezza della previsione legislativa», e ciò in quanto la “tutela della concorrenza” non definirebbe «ambiti oggettivamente delimitabili», ma interferirebbe «con molteplici attribuzioni delle Regioni», giungendosi così alla conclusione ultima che, «ove sia dimostrabile la congruità dello strumento utilizzato rispetto al fine di rendere attivi i fattori determinanti dell’equilibrio economico generale, la competenza legislativa dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), non potrà essere negata».
Con riferimento all’ambiente, nella sua prima sentenza sulla materia, il giudice costituzionale ha fatto ricorso al concetto di “valore” (sentenza n. 407 del 2002), adoperato anche per la materia della ricerca scientifica (sentenza n. 423 del 2004). Nella pronuncia richiamata la Corte afferma che “non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come ‘materie’ in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie” (punto 3.2. del considerato in diritto) e in tal senso escludeva che potesse configurarsi che potesse «identificarsi una "materia" in senso tecnico, qualificabile come "tutela dell'ambiente", dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze». Di qui, facendo riferimento alla propria giurisprudenza anteriore alla nuova formulazione del Titolo V, per il giudice costituzionale sarebbe stato «agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come "valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale». Dai lavori preparatori, poi, la Corte avrebbe tratto il convincimento che «l'intento del legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il potere di fissare standards di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali». «In definitiva, si può quindi ritenere – scrive la Corte – che riguardo alla protezione dell'ambiente non si sia sostanzialmente inteso eliminare la preesistente pluralità di titoli di legittimazione per interventi regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell'ambito delle proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dallo Stato».
Questa modo di procedere della Corte sembra risentire chiaramente delle caratteristiche che presenta la “materia ambientale” la quale è stata configurata da un’autorevole dottrina (Giannini) come un insieme di frammenti di diverse materie della legislazione. In questa logica i problemi da risolvere nel nuovo sistema di riparto, dal punto di vista materiale, sarebbero stati notevoli ponendosi in conflitto le voci enumerate nella lettera s, non tanto con quelle altre voci enumerate nel terzo comma dell’art. 117 Cost., il cui contenuto è più o meno palesemente interferente con la tutela dell’ambiente (come la “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, la “tutela della salute”, il “governo del territorio”, ecc.), quanto con tutte le materie che adesso dovrebbero ricadere nella disciplina del quarto comma e che, in conseguenza di ciò, sono diventate anonime (come l’agricoltura, la caccia, la pesca, le cave e torbiere, le acque termali, la viabilità, la navigazione, ecc.), le quali avrebbero un rilievo non indifferente rispetto alla ‘materia’ ambientale, come insegna la stessa giurisprudenza costituzionale del primo regionalismo. Si potrebbe, infatti, pensare che, dal punto di vista del riparto costituzionale delle competenze, queste materie siano ormai inesistenti (come materie legislative regionali), per cui i relativi oggetti potrebbero benissimo essere assorbiti (anche progressivamente) nella disciplina di tutela dell’ambiente di competenza statale; un’interpretazione, questa, i cui effetti sistematici sulle competenze regionali sarebbero di notevole portata, dal momento che metterebbe nel nulla la maggior parte delle materie che da sempre hanno formato oggetto di disciplina della Regione. Oppure, come è stato già sottolineato in altra sede, si potrebbe pensare che il nuovo riparto sia il frutto di una revisione devolutiva e non regolativa, per cui non avrebbe comportato un depauperamento del campo materiale delle Regioni; con la conseguenza che il comma 4 dell’art. 117 Cost. avrebbe costituzionalizzato, a titolo di competenza esclusiva delle Regioni, tutte le competenze in precedenza esercitate dalle Regioni, che rappresenterebbe – in modo titolato e non anonimo – l’acquis regionale, cui si aggiungerebbero gli oggetti e i poteri non enumerati nei commi 2 e 3 del medesimo articolo.
Questa interpretazione che può rivalutare anche la competenza residuale, sembra essere stata accolta dalla giurisprudenza costituzionale successiva al codice delle norme ambientali che definiva, anche sulla base del diritto europeo, gli ambiti concreti della tutela ambientale. In due decisioni del 2007 (nn. 367 e 378) l’ambiente viene progressivamente configurato in una materia/valore («La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto») e in una materia unitaria, secondo una impostazione (di Postiglione) già enunciata nel vigore del precedente art. 117 («la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario (sentenza n. 151 del 1986) ed assoluto (sentenza n. 210 del 1987), e deve garantire (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore»).
Anche queste configurazioni lasciano sopravvivere la concorrenza di fonti statali e regionali, precisandone i rispettivi ambiti e configurano l’ambiente come una “materia trasversale” («nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell'ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni»). Infatti, la Corte osserva che «Sul territorio gravano più interessi pubblici: quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e quelli concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni» (sentenza n. 367), od anche che, «accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario, possano coesistere altri beni giuridici, aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi giuridicamente tutelati».
La correlazione tra le due fonti viene regolata ritenendo prevalente e precedente la tutela ambientale, per cui la disciplina statale costituirebbe «un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali»; e in sostanza, osserva la Corte, «vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» e si tratterebbe «di due tipi di tutela, che ben possono essere coordinati fra loro, ma che debbono necessariamente restare distinti».
Questo indirizzo ha trovato applicazione ulteriore nella decisione del 2008 su boschi e foreste (n. 105) e in quella del 2010 in materia di acque termali (n. 1).
Si legge nella prima: «Caratteristica propria dei boschi e delle foreste è quella di esprimere una multifunzionalità ambientale, oltre ad una funzione economico produttiva. Si può dunque affermare che sullo stesso bene della vita, boschi e foreste, insistono due beni giuridici: un bene giuridico ambientale in riferimento alla multifunzionalità ambientale del bosco, ed un bene giuridico patrimoniale, in riferimento alla funzione economico produttiva del bosco stesso»; ed ancora, « Sotto l'aspetto ambientale, i boschi e le foreste costituiscono un bene giuridico di valore «primario», ed «assoluto», nel senso che la tutela ad essi apprestata dallo Stato, nell'esercizio della sua competenza esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano nelle materie di loro competenza (sentenza n. 378 del 2007)». «Ne consegue che la competenza regionale in materia di boschi e foreste, la quale si riferisce certamente … alla sola funzione economico-produttiva, incontra i limiti invalicabili posti dallo Stato a tutela dell'ambiente, e che, pertanto, tale funzione può essere esercitata soltanto nel rispetto della «sostenibilità degli ecosistemi forestali»».
Nella sentenza n. 1 del 2010 si osserva che «Deve essere, innanzitutto, posto in evidenza che il bene della vita “acque minerali e termali” va considerato da due distinti punti di vista: quello dell’uso o fruizione e quello della sua tutela». E – secondo il giudice costituzionale – «Il riparto delle competenze, è agevole dedurlo, dipende proprio dalla sopra ricordata distinzione tra uso delle acque minerali e termali, di competenza regionale residuale, e tutela ambientale delle stesse acque, che è di competenza esclusiva statale, ai sensi del vigente art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione». Infatti, si tratterebbe «di un evidente concorso di competenze sullo stesso bene (le acque minerali e termali), competenze che riguardano, per quanto attiene alle Regioni, l’utilizzazione del bene e, per quanto attiene allo Stato, la tutela o conservazione del bene stesso (da ultimo: sentenza n. 225 del 2009 e sentenza n. 105 del 2008, citata)».
Inoltre, la Corte ha sempre consentito alle Regioni di stabilire, nell’esercizio delle specifiche competenze loro garantite dalla Costituzione, forme di tutela dell’ambiente più elevate, «qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti un’arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali» (sentenza n. 58 del 2013).
Vi sono diversi profili per guardare alle relazioni esistenti tra Stato e Regioni alla luce del Titolo V revisionato; basti considerare il tema della collaborazione, le relazioni finanziarie, ecc.. Gli aspetti qui considerati non hanno la pretesa di essere esaustivi. Essi hanno riguardato prevalentemente lo strumentario della Corte relativo al campo materiale, al quale andrebbe aggiunto il canone della crisi («fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa»), che oltre al risvolto del coordinamento della finanza pubblica, si presenta come una situazione che permette di derogare al riparto costituzionale delle competenze, o meglio di espandere la competenza dell’art. 117, comma 2, lettera m, sino all’erogazione da parte dello Stato di una qualche prestazione, come mostra la decisione n. 10 del 2010 sulla social card, di recente ribadita nella sentenza n. 62 del 2013; anche il riferimento ai principi fondamentali, mantiene rilievo in quanto questi possono considerarsi limitativi del campo materiale.
Si è cercato di mettere in evidenza, così, il concreto modo di essere del riparto delle competenze legislative, per mettere a fuoco la problematicità di questa fase del regionalismo italiano, la quale deve fare i conti con la condizione storica che la Repubblica sta vivendo.
 
3. Il secondo regionalismo: il profilo del modello
In tal senso, di certo può dirsi che anche nella definizione del riparto delle competenze del nuovo Titolo V – come accadde già in Assemblea Costituente, nella scrittura dell’art. 117 – non sono mancati limiti e contraddizioni. Basti pensare, oltre alla mancata riforma del Parlamento, all’eccessiva svalutazione dei compiti statali, alla frantumazione della politica economica, alla mancata costituzionalizzazione dell’autonomia finanziaria regionale, rimessa ancora una volta alla legge statale.
Tuttavia, appare indubbio che dalla revisione costituzionale, in collegamento con l’internazionalizzazione dell’economia e con la vicenda europea del processo di integrazione e della moneta unica, usciva rafforzata la “formula politica istituzionalizzata” (per usare una espressione cara a Giorgio Lombardi) del regionalismo italiano. Tant’è che la dottrina unanime, con riferimento alle nuove disposizioni costituzionali, ha parlato di una diversa e più profonda esplicitazione dei principi di autonomia e decentramento.
In considerazione dell’integrazione europea si valutino quanto meno le implicazioni della politica di coesione che imponevano una seria strutturazione regionale degli Stati nazionali come persino la Francia ha compito con le riforme costituzionali del 2003. Con riferimento all’internazionalizzazione dell’economia è evidente che la centralizzazione delle competenze non serve a nulla; ciò che la globalizzazione richiede, infatti, è che il Governo nazionale abbia effettiva capacità di negoziazione nelle sedi sovranazionali per la tutela degli interessi nazionali, e ciò in quanto non le regioni, ma la concorrenza degli altri Stati minaccia i nostri interessi nazionali.
Ciò, peraltro, non significa che per il Parlamento, il Governo e l’Amministrazione statale siano venuti meno compiti e funzioni; anzi, la riforma per quanto abbia inciso con il rovesciamento in modo poco accorto sul figurino statale, proprio in forza del diverso modo di atteggiarsi della sovranità nazionale, affida allo Stato un compito fondamentale all’interno, il quale avrebbe richiesto, però, forme e modi diversi dalla vetusta supremazia statale basata sulla centralizzazione delle competenze.
Può a questo punto osservarsi che, nel caso del secondo regionalismo, sussistono, per un verso, le ragioni di promozione del regionalismo per le quali questo era stato previsto dall’Assemblea Costituente nel 1947, e cioè: la partecipazione, la libertà e la democrazia; e, per l’altro, quelle derivanti dalla diversa condizione della sovranità statale rispetto all’Europa e ai processi di globalizzazione economica. Soprattutto queste seconde oggi si devono considerare prevalenti nella fondazione di un serio regionalismo, rispetto all’inutile tendenza verso un neocentralismo delle competenze.
Un regionalismo la cui essenza sembra cogliersi nel suo aspetto funzionale, e cioè nell’essere questo – secondo un orientamento che può farsi risalire a Hans Kelsen – un momento tecnico-organizzativo dell’ordinamento giuridico italiano, prefigurato dalla Costituzione.
Si tratterebbe, perciò, di assecondare il processo di riforma, anche completandolo, con la riforma del Senato e del federalismo fiscale, e di inserire la classe politica regionale nel contesto nazionale, chiamandola – come richiedeva la riforma – alla pianificazione, regolazione e gestione delle politiche pubbliche, come peraltro la stessa Unione europea richiede.
Tuttavia, anche in assenza di valide riforme costituzionali e legislative, proprio la Corte costituzionale, con lo strumentario che ha costruito e che ha reso flessibile il riparto delle competenze legislative e amministrative, potrebbe – prima ancora che si realizzano le riforme istituzionali – seguire una politica costituzionale in parte diversa da quella prevalentemente sin qui realizzata con la sua giurisprudenza e potrebbe – come è stato detto – per prima «‘prend(ere) sul serio’ il vigente Titolo V della costituzione e … sostanzialmente rivitalizzarne il disegno complessivo, utilizzandone gli spazi di elasticità e senza necessità di ulteriori modifiche costituzionali almeno a breve termine» (De Siervo).
Si può chiedere ai giudici costituzionali, quali componenti di una istituzione di garanzia della Repubblica, di tutelare il regionalismo italiano e i contenuti costituzionali che lo esprimono, allorché sono chiamati a decidere sui conflitti di competenza tra Stato e Regioni?
Si può chiedere che accanto al principio di unità venga preso in considerazione anche quello di differenziazione quale espressione viva del regionalismo italiano, che consenta di fare funzionare gli ordinamenti regionali come veri laboratori di riforme?
Non si tratta di produrre degli sconvolgimenti istituzionali, dei quali certamente non si avverte il bisogno, ma semplicemente di impedire che abbia a ripetersi la condizione del 1992, assistendo inermi al deterioramento del sistema regionale e autonomistico.
Ciò che si chiede al giudice costituzionale è di accompagnare un processo istituzionale di trasformazione delle nostre istituzioni in senso seriamente regionalista, secondo le disposizione della Costituzione in vigore, anche al fine di fronteggiare meglio la crisi economico-finanziaria e la competizione europea e internazionale.
 
4. Segue: il passaggio dalle materie di competenza legislativa alle politiche pubbliche
La discrasia con il riparto costituzionale delle competenze, anche secondo le modalità di intervento fatte proprie dalla Corte costituzionale, deriva dalla necessità di seguire una logica diversa dall’attribuzione delle materie, e cioè di dover corrispondere all’esigenza di concretizzazione delle politiche pubbliche, in massima parte elaborate e disciplinate da atti normativi dell’Unione europea, nelle quali si innestano insieme compiti dei diversi legislatori e di più livelli territoriali di governo.
Tipico esempio di questa condizione particolare è dato dalle materie trasversali: la tutela della concorrenza e la politica ambientale, per le quali proprio la giurisprudenza costituzionale ci avvicina maggiormente al tema che si considera, in quanto valuta nel contesto del campo materiale oggetti e modi di disciplina differenti, afferenti a competenze statali e regionali.
Anche quando una politica pubblica e una materia possono essere individuate con il medesimo nomen, non è detto che le due categorie coincidano. Anzi, la logica porta a considerare che esse indichino ambiti legislativi e ammnistrativi diversi.
Per comprendere ciò, a mo’ d’esempio, si consideri la materia del “turismo” e la politica pubblica del “turismo”. La prima, che rientrerebbe nelle competenze esclusive delle Regioni, di cui all’art. 117, comma 4, Cost., si estrinseca sostanzialmente nella vigilanza dell’industria alberghiera e in pochi limitati servizi di informazione e promozione turistica. La seconda, la politica turistica, abbraccia un complesso di oggetti in via di principio, dal punto di vista del riparto delle competenze, afferenti a materie diverse, solo per esemplificare, si consideri: l’agricoltura, l’artigianato, i porti, gli aeroporti, i trasporti e la viabilità, i beni culturali e ambientali, la caccia e la pesca, le acque termali, l’alimentazione, il governo del territorio, l’ordinamento sportivo, le professioni, e tutte una serie di materie di competenza esclusiva dello Stato, a partire dall’ordinamento civile, alla tutela della concorrenza, ai rapporti internazionali, ecc.
Anche la Corte costituzionale ha considerato questa situazione, pervenendo tuttavia a conclusioni non pienamente apprezzabili. Infatti, il giudice delle leggi, con la cd. “chiamata in sussidiarietà”, in occasione del decreto legge (n. 35 del 2005) che ha trasformato l’ENIT in Agenzia statale, nonostante “la materia del turismo, appartiene alla competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost.”, ha giustificato l’intervento statale in materia di turismo, per «il rilievo del turismo nell’ambito dell’economia italiana e l’estrema varietà dell’offerta turistica italiana», per cui «la valorizzazione di questa caratteristica presuppone un’attività promozionale unitaria, perché essa scaturisce solamente dalla combinazione delle offerte turistiche delle varie Regioni» (sentenza 214 del 2006 e sentenza n. 76 del 2009). Inoltre, la Corte ha ritenuto che l’intervento statale sia stato anche proporzionato, “nel senso che lo Stato può attrarre su di sé non la generale attività di coordinamento complessivo delle politiche di indirizzo di tutto il settore turistico, bensì soltanto ciò che è necessario per soddisfare l’esigenza di fornire al resto del mondo un’immagine unitaria (…). Deve infine prevedere il coinvolgimento delle Regioni, non foss’altro perché la materia turismo, appartenendo oramai a tali enti territoriali, deve essere trattata dallo Stato stesso con atteggiamento lealmente collaborativo”.
Tale situazione, peraltro, non ha impedito alla Corte costituzionale di affermare il diritto di esistenza di norme statali (o, addirittura, di dichiarare l’incostituzionalità di norme regionali) che “disciplinavano alcuni aspetti in qualche maniera coinvolti nella materia in oggetto, sia in senso stretto, sia per tangente”.
Persino nel settore dell’agriturismo, che avrebbe toccato ben due materie di competenza generale/residuale delle Regioni, la Corte (con la sentenza 12 ottobre 2007, n. 339) ha riconosciuto un ampio ruolo alla legislazione statale, affermando che l’agriturismo, “seppure in via immediata, rientra nelle materie agricoltura e turismo di competenza residuale delle Regioni, interferisce tuttavia con altre materie attribuite alla competenza, o esclusiva o concorrente, dello Stato”. Anche in questa fattispecie, poi, sussisterebbero esigenze di “esercizio unitario”, che legittimerebbero la presenza della legge statale e, per di più, si giustificherebbe “l'intervento in sussidiarietà dello Stato nella materia del turismo quando esso è finalizzato … alla promozione del “made in Italy” a livello nazionale e internazionale (sentenze n. 88 del 2007 e n. 214 del 2006)”.
In realtà se si considera la politica pubblica del turismo e non la semplice materia del turismo, si deve rilevare come lo sforzo del giudice costituzionale di servire la competenza allo Stato sia valso a poco, in quanto proprio lo Stato è sino a questo momento inadempiente. Che il turismo (rectius: la politica del turismo) avesse bisogno di un momento di unificazione nazionale, apparve chiaro subito dopo l’abrogazione del relativo ministero nel 1993; ma diversamente da quanto accadde per le politiche agricole, per il turismo lo Stato ha manifestato un disinteresse enorme. Anche quando si manifestò la consapevolezza di dovere dare fondamento ad una politica nazionale del turismo, in realtà la definizione di un apparato statale e la sua collocazione nella compagine di governo e dell’amministrazione statale è stata evanescente, passando – senza un indirizzo – dalla Presidenza del Consiglio, con un sottosegretariato al Ministero dello sviluppo economico, nuovamente alla Presidenza del Consiglio, al Ministro per gli affari regionali e ora al ministero dei beni culturali.
In un quadro siffatto, e con riferimento alle politiche pubbliche, la dialettica tra Stato e Regioni non può essere ricomposta – come ha pensato la Corte costituzionale – sulla base di moduli concertativi, legati all’attiva delle Conferenze, che permettono l’interferenza del legislatore statale sulle materie di competenza legislativa regionale, dal momento che queste intervengono a valle dell’esercizio delle competenze legislative, riguardano solo i rispettivi esecutivi e non coordinano la legislazione delle politiche pubbliche.
A conferma di ciò si consideri che la relazione tra la legge regionale e la fonte statale nel caso delle politiche pubbliche non si sviluppa secondo lo schema dell’esclusività e neppure secondo quello della concorrenza, basato sulla distinzione tra principio fondamentale e disciplina della materia, bensì sulla base di una ripartizione di ruoli (e cioè: un diverso riparto delle competenze) che ubbidiscono alla realizzazione dei medesimi obiettivi attinenti alle politiche pubbliche, secondo il modello europeo, per il quale: che sia la legge statale o quella regionale a realizzare l’attuazione del diritto europeo è chiaramente irrilevante.
Di conseguenza, il riparto delle materie previsto dall’art. 117, commi 2, 3 e 4, Cost., dovrebbe essere conformativo dei poteri legislativi statali e regionali, e costituire lo schema di realizzazione delle politiche pubbliche, un po’ come avviene con la disciplina delle materie trasversali dello Stato e delle materie regionali interferenti.
Con la conseguenza che, dal punto di vista dei contenuti, alle politiche pubbliche attuate dalla legge regionale dovrebbe riconoscersi la stessa valenza delle politiche pubbliche disciplinate dallo Stato.
Per le politiche direttamente influenzate dal Diritto europeo, questa circostanza è visibile nella regionalizzazione della politica medesima, anche in assenza di una disciplina statale, oppure grazie a una disciplina della legge statale.
Le politiche pubbliche regionali, considerate sullo stesso piano di quelle statali, sarebbero sempre politiche “statali”; tra le prime e le seconde non si creerebbe una gerarchia, ma si porrebbe solo una questione di adeguatezza dell’intervento che segue la logica del dimensionamento delle azioni inerenti alle politiche pubbliche medesime. Non si tratta più, perciò, di assicurare la supremazia dello Stato, quanto di essere certi che lo Stato e le Regioni esercitino la loro competenza inerente a una determinata politica pubblica, senza inadempimenti che comporterebbero il mancato raggiungimento degli obiettivi e la mancata realizzazione dei diritti dei cittadini.
Conferme chiare emergono dall’esame di ampi settori dell’attività legislativa regionale, quali l’istruzione, l’assistenza, la sanità, l’ambiente, il territorio, le infrastrutture e lo sviluppo economico, anche, e proprio, in relazione alla crisi economica di questi anni.
Un esempio può rendere esplicito questo profilo: la disciplina dei rifiuti, la quale – secondo il giudice costituzionale – “si colloca nell’ambito della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lett. s, Cost., anche se interferisce con altri interessi e competenze, di modo che deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale, restando ferma la competenza delle Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali” (sentenza n. 249 del 2009).
È agevole comprendere che i rifiuti sono un oggetto di disciplina, se non una materia in senso stretto della legislazione, il cui contenuto non si limita alla semplice fissazione di livelli uniformi, che pertanto dovrebbe ricevere integralmente una regolamentazione attraverso la legge statale.
In realtà, il riparto concreto della legislazione sui rifiuti non segue affatto quello delineato dall’art. 117 Cost., né è confortata dalla realtà dell’ordinamento la posizione del giudice costituzionale, per la quale le regioni si limiterebbero a disciplinare gli interessi ambientali, in materia di rifiuti, che ricadono nell’ambito delle materie di cui al terzo comma, come tutela della salute; alimentazione; tutela e sicurezza del lavoro; protezione civile; governo del territorio; ecc.. Le Regioni, infatti, disciplinano direttamente la materia dei rifiuti, secondo un riparto di competenza funzionale con i poteri che lo Stato, che attraversa la materia e discende direttamente dal diritto europeo. Il legislatore nazionale, infatti, ha dato attuazione alla direttiva 2006/12/CE, con il d.lgs. n. 152 del 2006, e successivamente alla direttiva 2008/98/CE, con il d.lgs. n. 205 del 2010, che ha modificato e integrato il precedente decreto legislativo.
La regolamentazione statale è certamente composta da norme di estremo dettaglio (ad es., le norme tecniche) e da leggi, così come da regolamenti. Ciò non toglie che ampie parti della disciplina dei rifiuti siano stati rimessi alla competenza legislativa delle regioni; e a questo livello, oltre a numerosi compiti amministrativi sono di fatto attribuite le relazioni con gli enti locali nella politica pubblica che concerne i rifiuti.
La legislazione nazionale di riferimento, contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006 (c.d. codice dell’ambiente), modificato con il d.lgs. n. 205 del 2010 per adeguare la disciplina alla direttiva 2008/98/CE, reca una disciplina piuttosto articolata dei rifiuti e, inter alia, definisce quali siano le competenze statali, regionali, provinciali e comunali su tale oggetto (artt. da 195 a 198).
In primo luogo, non è privo di significato che entrambe le direttive citate (2008/98 e 2006/12) sono state emanate con il previo parere del Comitato delle Regioni.
Inoltre, già la direttiva 2006/12 conteneva un esplicito riferimento al fatto che “gli Stati membri (avrebbero dovuto stabilire o designare) l'autorità o le autorità competenti incaricate di porre in atto le disposizioni della presente direttiva” (art. 6). Tali autorità, ai sensi del successivo articolo 7, avrebbero fatto il piano di gestione dei rifiuti, che, tra le altre cose, contiene l'indicazione dei luoghi o degli impianti idonei per lo smaltimento degli stessi.
Infine, la direttiva 2008/98/CE, all’art. 28, par. 1, conferma che “gli Stati membri provvedono affinché le rispettive autorità competenti predispongano … uno o più piani di gestione dei rifiuti”.
Ora, non può sottacersi che le Regioni, nel nostro ordinamento, sono competenti a predisporre (sentiti le province, i comuni e le Autorità d’ambito) i piani regionali di gestione dei rifiuti (comma 1, lett. a), il cui contenuto necessario è puntualmente regolato dall’art. 199 dello stesso decreto, e che detti piani regionali di gestione dei rifiuti rappresentano l’unico atto di pianificazione territoriale in materia, in attuazione degli obblighi derivati dal diritto europeo.
In conclusione, la necessità di una compiuta riforma degli Stati nazionali discende dal diverso ruolo attivo che viene loro richiesto rispetto al mercato interno e internazionale. Gli Stati, infatti, in collegamento con le politiche di bilancio, sono ora chiamati a produrre politiche pubbliche e ad erogare servizi e beni pubblici, secondo logiche di promozione del mercato e del welfare, piuttosto che come garanti di un assistenzialismo insostenibile.
Il regionalismo o il federalismo, sia pure nelle loro molteplici varianti, appaiono essere la forma di stato più adatta per coniugare questa dimensione dell’economia, imposta dall’integrazione europea e dalla globalizzazione, e la cura del welfare interno.
Per questa ragione considerare insieme le politiche pubbliche e l’esperienza del regionalismo, attraverso le pronunce del giudice costituzionale, può risultare utile a tracciare, non solo il bilancio di questo decennio che ci separa dal tempo della revisione costituzionale del Titolo V, quanto soprattutto il percorso più appropriato per il prossimo futuro, cui il giudice costituzionale potrebbe dare un contributo originale.

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