Eduardo Gianfrancesco
Ordinario di Diritto costituzionale
Dipartimento di Giurisprudenza di Roma
Università Lumsa
 
Seminario Aic del 28 aprile 2014
I costituzionalisti e le riforme
Sintesi dell’esposizione
 
 

Avvertenza per il lettore: Il presente scritto rielabora lo schema utilizzato  in occasione del Seminario dell’Aic dedicato al disegno di legge governativo di revisione costituzionale AS 1429. La ristrettezza dei tempi ha impedito sino ad ora l’elaborazione di un testo organico e di ciò l’autore si scusa con i lettori, che si troveranno spesso di fronte alle formulazioni sintetiche ed ai passaggi bruschi di una “scaletta” espositiva. Cionondimeno l’auspicio è che il filo del ragionamento sia ricostruibile e questo induce a rendere pubblico lo schema. Nei prossimi giorni verrà elaborato il testo definitivo.

 
 L’intervento analizza il d.d.l. governativo di revisione che sta iniziando il suo cammino in seno al Senato; cammino che si preannuncia affatto semplice (anche se soprattutto per aspetti diversi da quelli inerenti al riparto competenziale tra Stato e Regioni).
In questa sede si cercherà di evidenziare gli aspetti realmente chiarificatori (pochi), le incongruenze (abbastanza numerose) ed i margini di indeterminatezza (rilevanti) del disegno riformatore per ciò che attiene alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione.
 
Inevitabile appare l’artificialità della “resezione” dei profili trattati rispetto ad altri argomenti trattati in questo Seminario (in particolare le funzioni della 2a Camera, con riferimento al procedimento legislativo, ma non solo). Alcuni rinvii a tali aspetti saranno evidenziati al momento opportuno.
 
L’autore ritiene necessario “confessare” preliminarmente quello che, secondo alcune letture oggi diffuse, può apparire un vizio metodologico nell’analisi condotta ed al quale non si intende comunque rinunciare: l’utilizzazione a termine di confronto, per le soluzioni del disegno di riforma, delle esperienze di policentrismo legislativo su base territoriale che la storia ed il diritto comparato mostrano come esperienze di successo: i federalismi storici.
 
 
In primo luogo ci si sofferma su ciò che non è presente nel disegno di riforma e che invece avrebbe dovuto esserci.
 
Si tratta di una serie di nodi che l’esperienza di tredici anni di riforma del Titolo V ha ampiamente evidenziato ma sui quali il disegno governativo tace. E’ vero che su molti di questi nodi è intervenuta, spesso pesantemente, la Corte costituzionale, recidendoli, ma ciò non toglie l’esigenza di un intervento del legislatore costituzionale: per confermare o per correggere l’interpretazione/decisione della Corte. Una Carta costituzionale non può rinunciare a tale naturale “ambizione”.
 
 
in primis il ddl conferma la scarsa considerazione per la configurazione della Regione come ente di amministrazione, ovvero per il sostrato sul quale si sviluppa l’autonomia politica e legislativa dell’ente. E’ un vero paradosso, considerato che la riforma “concepisce” la Regione come ente soprattutto amministrativo.
 
Ciò si coglie:
-         dal punto di vista dell’apparato servente della Regione (il personale dipendente dalla Regione), ove l’intervento previsto consiste nella riserva allo Stato della competenza legislativa a porre “le norme generali sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” (art. 117, secondo comma, lett. g) Cost.). Si tratta di una soluzione a ben vedere di arretramento (non si sa quanto consapevole) rispetto agli esiti (estremi) della giurisprudenza costituzionale che, in nome della materia “ordinamento civile”, ha dissolto ogni competenza legislativa regionale sul proprio personale, mentre la riserva operata dal d.d.l. allo Stato delle sole “norme generali” sembra implicare il persistere di aree di competenza regionale nella conformazione del rapporto di lavoro e di servizio alle dipendenze dell’amministrazione regionale... salvo l’estrema difficoltà di individuare quali siano tali aree (sulle norme generali, cfr. infra).
Ciò che si intende qui sottolineare è che tanto più questa capacità di condizionamento da parte del legislatore statale verrà interpretata estensivamente, tanto più l’effetto di deresponsabilizzazione per le Regioni sul proprio personale sarà accentuato, con risultati esattamente opposti, in termini di buon andamento, efficacia ed efficienza, rispetto a quelli auspicati. Ci troviamo di fronte ad una materia di identificazione della Regione-apparato (e complessivamente della Regione-ente) che richiede un margine di autodeterminazione congruo delle Regioni, ovviamente chiamate a rispondere anche in termini di sostenibilità finanziaria delle proprie scelte. Il vincolo a principi fondamentali unificanti posti dal legislatore statale (e non anche norme di dettaglio quali le norme generali possono essere) dovrebbe essere l’elemento di unificazione più adeguato per questa materia.
 
-         con riferimento alla disciplina dell’art. 118 Cost. Le precisazioni introdotte nel testo dal d.d.l. (trasparenza, semplificazione, efficienza, responsabilità) non superano i problemi di non autoapplicatività della disposizione costituzionale. La sostanziale inattuazione dell’art. 118 Cost. riformato nei tredici anni di vigenza dello stesso evidenzia un limite strutturale della previsione costituzionale, non in grado di esprimere un principio di “decisione sostanziale” che, anche se non completamente autoapplicativa, sia in grado di determinare, in un limitato arco temporale, processi di riallocazione delle funzioni.
Se, come sembra, non ci si vuole ispirare ai modelli del federalismo d’esecuzione, occorre riscoprire il parallelismo delle funzioni (come è noto ancora operante per le Regioni speciali che lo prevedono nei loro statuti: cfr. C.cost. sent. n. 236 del 2004) quale soluzione più operativa. Su tale principio di decisione sostanziale si è potuto innestare in passato un triplice processo di trasferimento/conferimento delle funzioni dal centro alla periferia che è del tutto mancato con riferimento all’art. 118 Cost. nella formulazione vigente. Occorre riavviare tale processo, ricollegando l’art. 118 alla VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Non è incongruo pensare, in tale ambito, ad un ruolo rilevante e determinante del Senato.
Conclusivamente sul tema, forse è il caso di accantonare la previsione “mitica” (o forse un pò demagogica) sulla competenza generale dei Comuni del primo comma dell’art. 118 Cost. vigente.
 
 
Si evidenziano di seguito alcune lacune del disegno riformatore in relazione ad aspetti maggiormente incidenti sul sistema istituzionale regionale:
 
-         A fronte dell’introduzione di una serie penetrante di controlli sull’attività delle Regioni, anche dei suoi organi fondamentali, quali il Consiglio, ad opera della Corte dei Conti, (cfr. sent. n. 39 del 2014 sul d.l. 174 del 2012), si pone l’esigenza di un fondamento costituzionale più saldo dell’art. 100 e dell’onnivoro “coordinamento della finanza pubblica”: i controlli su enti ad autonomia costituzionalmente garantita dovrebbero avere esplicito fondamento costituzionale per evitare derive incontrollate ed aspro contenzioso costituzionale. Di qui l’esigenza di uno specifico riconoscimento (e delimitazione) di attribuzione a favore della Corte dei Conti per tali controlli.
Resta da approfondire la portata della riformulazione del sesto comma dell’art. 81 Cost., ad opera della l. cost. n. 1 del 2012, con la riserva alla legge rinforzata statale della determinazione dei “criteri volti ad assicurare” l’implementazione dei principi di equilibrio tra entrate e spese e sostenibilità del debito (su tale disciplina, cfr. ora la sent. n. 88 del 2014 della Corte costituzionale). In particolare, ci si può chiedere se tale formulazione possa legittimare ex se l’introduzione di controlli statali sulle Regioni ed in particolare sui Consigli regionali.
 
-         Analogamente andrebbe dotata di certo ed esplicito fondamento costituzionale la “sospensione” del potere legislativo del Consiglio in regime di commissariamento per il rientro dal deficit sanitario, per tutto ciò che può influire sulle modalità di rientro dal deficit medesimo.
 
-         E’ auspicabile una migliore copertura dello scioglimento sanzionatorio ex art. 126, primo comma, Cost. per ipotesi di “grave dissesto finanziario” ex d. lgs. 149/2011, per quanto riguarda l’automatismo del meccanismo. In altri termini, se si vuole l’automaticità del meccanismo (come pure sembra in sé ragionevole, ma la sentenza della Corte costituzionale n. 219 del 2013 lo ha escluso, alla stregua dell’attuale formulazione dell’art. 126 Cost.), questo va costituzionalmente esplicitato.
 
-         Abbastanza sconcertati lascia la totale assenza di considerazione del Consiglio delle Autonomie Locali per la nomina dei rappresentanti dei Sindaci (non di Comune capoluogo di Regione) in seno al Senato. Delle due l’una: o si mantiene la modalità di designazione accolta nel d.d.l. ed allora si va incontro ad una crisi di legittimazione del Consiglio delle Autonomie locali che ne consiglia forse la soppressione, almeno come organo necessario, oppure si valorizza tale sede come raccordo tra Comuni, Regione e Stato.
 
-         Complessivamente sul tema dell’incidenza della riforma sul sistema istituzionale della Regione, (già pesantemente inciso dalla giurisprudenza costituzionale recente: si pensi alle sentt. n. 198 del 2012 ed ora dalla n. 35 del 2014, in tema di numero dei componenti del Consiglio regionale), colpisce che le previsioni  presenti “in positivo” e non per omissione nel d.d.l. di riforma abbiano il carattere quasi di “norme disciplinari”, di carattere sanzionatorio nei confronti dell’ente regionale. E’ il caso dell’art. dell’art. 29 sui limiti agli emolumenti per i componenti degli organi regionali. E’ soprattutto il caso dell’art. 34, comma 2, sul divieto di finanziamento pubblico a favore dei Gruppi consiliari regionali, che ricaccia in una irreale dimensione privatistica e quasi clandestina (da Parlamento dell’800...) soggetti necessari del processo decisionale del Consiglio regionale e segna – almeno temporaneamente – una plateale (ma non facilmente giustificabile) differenza di trattamento tra Gruppi politici delle Camere del Parlamento (o almeno, dopo la riforma, della Camera dei Deputati) e Gruppi (altrettanto) politici dei Consigli regionali. Si tratta, peraltro, di una previsione che rende inutile il non facile punto di equilibrio tra contrapposte esigenze statali e regionali messo a fuoco dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 39 del 2014...
 
 
E’ stata già segnalata dagli interpreti (Antonini) la gravità della mancata costituzionalizzazione dei parametri dei costi e fabbisogni standard ex l. 42 del 2009, per dare un saldo ancoraggio all’autonomia finanziaria disciplinata dall’art. 119 Cost.
 
Molto grave appare l’assenza di una norma di raccordo tra Titolo V riformato ed ordinamenti delle autonomie differenziate ed, anzi, l’esplicita clausola di non applicazione della riforma a Regioni speciali e Province autonome, sino all’adeguamento dei loro statuti (art. 33, comma 13, d.d.l.) Appare chiaramente insostenibile, già nel breve periodo, la contemporanea operatività nello stesso ordinamento complessivo di due regionalismi diversissimi tra loro: uno “flessibile” ed ampiamente ricentralizzato per le Regioni ordinarie (sul punto vedi infra) e l’altro – nonostante la pressione uniformatrice della giurisprudenza costituzionale – con accentuati caratteri di “garantismo” costituzionale.
L’esito prevedibile di tale schizofrenia costituzionale è il collasso del regionalismo differenziato ovvero, secondo un’ipotesi pure possibile, virulenti tentativi di “specializzazione” delle Regioni ordinarie che non dovrebbero lasciare indifferenti coloro che hanno a cuore l’equilibrio dei rapporti tra centro e periferia.
 
Manca nel ddl una riflessione sulla possibile valorizzazione del Senato rispetto al contenzioso costituzionale promosso dallo Stato nei confronti delle Regioni (sul punto si veda anche Bin): la riforma costituzionale potrebbe aprire spazi al nuovo regolamento del Senato per ciò che concerne il perseguimento di una conciliazione, o quanto meno (ma sarebbe già di per sé importante) di una pubblicizzazione delle vicende che portano il Governo (sulla base di valutazioni svolte dal Dipartimento Affari Regionali della Presidenza e raramente oggetto di contestazione in Consiglio dei Ministri) a decidere di impugnare/non impugnare/rinunciare all’impugnazione di una legge regionale (anche rispetto ad altre leggi regionali di identico contenuto).
Occorre scontare in argomento due “contraddizioni interne” insite nella configurazione del Senato: la composizione del Senato, con la possibile divaricazione di interessi e posizioni della componente di derivazione regionale e di quella comunale; in secondo luogo, l’assenza di rapporto fiduciario da far valere nei confronti del Governo in tale attività che potrebbe al più essere declinata in termini di controllo su di una peculiare “politica pubblica”.  
 
 
In secondo luogo, si prendono in considerazione le ipotesi di interventi riformatori dei quali si auspicava l’adozione e che effettivamente sono apprezzabilmente presenti nel disegno di legge costituzionale del Governo.
 
-         Il riferimento principale è alla riallocazione in capo alla competenza legislativa esclusiva statale di talune voci illogicamente attribuite nel 2001 alla competenza ripartita tra Stato e Regioni (in materia di comunicazione, energia, reti di trasporto e navigazione, porti e aeroporti).
 
-         Apprezzabile appare anche l’inserimento di alcune materie “nominate” all’interno della previsione dell’ex quarto (ora terzo) comma dell’art. 117 Cost. (Per la maggiore capacità attrattiva delle materie nominate rispetto a quelle individuate in via “residuale” cfr. Parisi, ma in precedenza Mangiameli),
 Resta da approfondire il significato di talune di queste materie, da distinguere rispetto ad altre pure richiamate nell’elenco costituzionale come materie di competenza esclusiva statale: è il caso dell’ “organizzazione dei servizi sanitari” rispetto alle “norme generali per la tutela della salute”; della “pianificazione e dotazione infrastrutturale del territorio regionale” rispetto alle “norme generali sul governo del territorio” e le “infrastrutture strategiche”; dell’ “organizzazione dei servizi scolastici” e dell’ “istruzione e formazione professionale” rispetto alle “norme generali sull’istruzione” e l’ “ordinamento scolastico”.
I margini di intersezione e sovrapposizione (con le conseguenti possibilità di conflitto) sono accentuate dalla circostanza che anche con riferimento alla competenza legislativa residuale delle Regioni si fa riferimento alla nozione di “materia o funzione”, rendendo possibile, quindi, una interpretazione teleologica delle stesse.
 
 
 
Il terzo profilo di classificazione degli interventi attiene ad interventi positivamente previsti nel disegno di legge costituzionale ma negativamente valutabili, dal punto di vista della coerenza e funzionalità del sistema costituzionale delle autonomie che ne scaturisce .
 
-         Tale sicuramente appare l’eliminazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. e delle potenzialità che esso offre in termini di appagamento di esigenze di differenziazione e valorizzazione della propria identità da parte delle singole Regioni. Questo appare tanto più opportuno in epoca di risorgenti rivendicazioni autonomiste in senso forte (cfr. il caso Veneto).
 
-         L’aver riesumato, a compensazione della scomparsa dell’art. 116, terzo comma, Cost., il vecchio strumento della delega legislativa di attuazione della normativa statale non costituisce contrappeso idoneo, per la precarietà della delega (rimessa a determinazioni di attivazione e revoca del legislatore statale, al di là della necessaria intesa con la Regione), la prevalenza dell’esecutivo nella gestione della stessa (per cui, a volerla comunque istituire, occorre garantire una possibilità di intervento del Senato delle Autonomie in costanza di essa), la difficoltà di costruire i rapporti finanziari tra delegante e delegato. Tra l’altro si impone all’interprete il bilancio non particolarmente significativo dell’esperienza della delega legislativa di attuazione nel primo regionalismo.
 
-         Anche il riparto della potestà regolamentare “in termini” paralleli alle competenze di Stato e Regioni è destinato creare non pochi problemi in presenza di materie comunque “miste” tra Stato e Regioni. Si pensi alla difficoltà di individuare l’ambito regolamentare rimesso allo Stato per le materie formulate in termini di “norme generali” ed, ancor più, ciò che resta al legislatore regionale... Appare più congruo, in questi casi rimettere alla Regione la potestà regolamentare, peraltro già delimitata da un doppio intervento legislativo: quello dello Stato e quello della legge regionale.  
 
-         Discutibile appare, inoltre, l’esigenza di ricentralizzazione di talune materie, come nel caso del richiamo in capo allo Stato della competenza a porre norme generali su “ordinamento sportivo” e “turismo” (anche se tale ultima ricentralizzazione è fortemente auspicata dal Position Paper sulle riforme costituzionali di Confindustria, secondo il quale essa incontrerebbe un “consenso pressoché unanime” (p.13). Si badi che il Paper di Confindustria vorrebbe estendere tale “epurazione” (sic!) delle competenze regionali (p.21) alla materia sanitaria, da configurare come condizionata e dinamica; un premio da conquistare sul campo (p.23).  
 
-         Altrettanto discutibile si presenta la completa estraniazione delle Regioni dalla determinazione dalla configurazione dell’ordinamento comunale, in conseguenza dell’aggiunta della voce “ordinamento” alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117, nonché l’assegnazione allo Stato della competenza esclusiva in tema di “ordinamento degli enti di area vasta”, nonostante tali enti appaiano sicuramente destinati ad agire in ambiti rilevanti per la Regione. Si tratta di soluzioni che si collegano evidentemente alla configurazione complessiva del modello autonomistico sotteso al disegno riformatore, volti a negare ogni spazio di significativo intervento da parte della Regione sugli enti locali che insistono sul proprio territorio, con evidenti rischi di disarticolazione e mancato coordinamento per ciò che concerne i servizi concretamente resi ai cittadini.
 
 
-         Anche l’aver aggiunto alla “clausola di prevalenza” il riferimento ai programmi ed alle riforme economico sociali di interesse nazionale (Ruggeri) appare in grado di squilibrare in senso eccessivamente centralistico l’operatività della clausola medesima, rendendo ancora più arduo il già di per sé non semplice eventuale sindacato della Corte costituzionale sulle concrete applicazioni della clausola e minacciando di trasformare la Erforderlichkeitsklausel all’italiana in una political question...
 
 
Il quarto profilo di classificazione attiene ad interventi in sé rispondenti ad una logica di funzionalità dell’intervento riformatore, ma che per le modalità di realizzazione pratica appaiono destinati a creare problemi interpretativi non secondari, forse addirittura equivalenti a quelli che si intende risolvere.
 
-         Il riferimento è soprattutto alla eliminazione della tipologia di competenza ripartita del terzo comma dell’art. 117 Cost., allorché alcune delle materie in esso previste (ed altre in esso non attualmente contenute) danno vita, nel d.d.l. di revisione, ad una ripartizione di competenze legislative tra Stato e Regione fondata sul discrimine “norme generali”/”norme non generali”.
Si tratta di un discrimine competenziale che postula comunque una potestà di intervento del legislatore regionale e non è detto che la potestà statale di fissazione delle norme generali sia chiamata a definire liberamente l’ampiezza della propria estensione (come ritenuto da Scaccia). L’esame della giurisprudenza costituzionale in tema di “norme generali sull’istruzione” (cfr., di recente, sent. n. 62 del 2013 e prima soprattutto la sent. 200 del 2009), attraverso il riferimento a nozioni quali “struttura portante” o “struttura essenziale” della normativa, sembra indicare un limite di estensione dell’intervento statale di natura non solo teleologica. Ferma restando la capacità delle norme generali di assumere anche il carattere di prescrizioni di dettaglio, esse sembrano comunque vincolate ad un ambito di “minimalità” della disciplina da introdurre.
A testimonianza della effettiva distinzione tra norme generali e norme non generali e come essa sia sottratta all’autodeterminazione statale, è da sottolineare come in materia di istruzione i tassi di soccombenza legislatore statale nei giudizi in via principale innanzi alla Corte costituzionale siano stati più elevati di quelli riscontrabili in altre materie, nell’esperienza del Titolo V riformato...
Non sono da sottovalutare, poi, i problemi di adattamento della distinzione norme generali (statali)/norme non generali (regionali) se applicata a materie diverse da istruzione (es.: personale regionale, procedimento amministrativo, tutela salute, sicurezza alimentare).
 
-         Problemi di individuazione del concreto confine tra competenze statali e regionali sono posti anche dalla materia di competenza legislativa esclusiva “programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica ”, se si considera operante anche nei confronti delle istituzioni regionali il principio costituzionale della libertà di ricerca di cui all’art. 33, primo comma, Cost.: se è ammissibile che un ente possa dettare alle proprie istituzioni di ricerca direttive e linee di azione (questo ovviamente non vale per l’autonomia universitaria...), più problematico appare che questo possa essere fatto nei confronti delle istituzioni di ricerca di altri enti/soggetti territoriali, con un evidente impoverimento del pluralismo della ricerca scientifica
 
 
Piuttosto che liquidare in blocco la potestà legislativa ripartita, per trovarsi nuovamente di fronte ad essa, sotto diverse sembianze, si potrebbe provare a svolgere un ragionamento più articolato.
Il punto di partenza è quello di un ripensamento critico sull’esperienza italiana di tale potestà e sulla giurisprudenza costituzionale in materia (si veda la giurisprudenza sulla legittimità di norme statali dettagliate, se legate al principio fondamentale “da un rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione” (così, recentemente, sent. n. 272 del 2013 in materia di governo del territorio, riprendendo una risalente giurisprudenza che affonda le sue radici addirittura nel primo regionalismo [e che in quella esperienza era stata efficacemente criticata: cfr. Paoletti])
Il secondo passaggio è quello di valutare il mantenimento di tale tipologia competenziale in taluni ambiti che sembrano ad essa più congeniali (es. governo del territorio; sicurezza alimentare; disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni regionali) ma introducendo profonde innovazioni rispetto alla esperienza sin qui maturata: in particolare la necessità di una autoqualificazione espressa dei principi fondamentali, da parte del legislatore statale (e solo di quello, con esclusione degli atti con forza di legge); l’eliminazione del vincolo dei “principi impliciti” per il legislatore regionale, in assenza di leggi-cornice.
In terzo luogo è da valutare la possibilità di attingere al diritto comparato per costruire tipologie di competenze mobili e non fisse tra Stato e Regioni: il riferimento è all’esperienza tedesca, quale arricchita delle Abweichungskompetenzen (competenze derogatorie) introdotte dalla riforma del 2006 del federalismo, che si sono venute aggiungendo al modello già noto – e progressivamente perfezionato nel tempo - della konkurrierende-Gesetzgebung.
 
E’ il caso di precisare che chi scrive non concorda con l’ipotesi di assegnare alla competenza paritaria di Camera e Senato l’approvazione delle leggi-cornice, nell’ipotesi di un loro mantenimento. La fissazione dei principi fondamentali attiene, infatti, ad una scelta unificante di indubbia valenza politica per cui appare congruo assegnarla alla volontà prevalente della Camera dei Deputati, mentre sono altre le leggi che meriterebbero il mantenimento della soluzione dell’approvazione conforme di Camera e Senato (ad es.: art. 117, quinto comma, Cost. vigente; art. 118, quarto comma, Cost. vigente; art. 119; art. 120, secondo comma, Cost. vigente; art. 122, primo comma, Cost. vigente; legge sull’ordinamento degli enti locali e sugli enti di area vasta nel d.d.l. di riforma, a voler mantenere tale previsione)
 
 
E’ il caso di sottolineare, comunque, l’irrinunciabilità del riferimento a competenze individuate in base a materie, come alla fine lo stesso disegno di legge di riforma riconosce, al di là della formula dell’art. 117, secondo comma, (ma, come si è anticipato, la medesima tecnica vale anche le materie regionali dell’art. 117, comma terzo).
Come l’esperienza degli ordinamenti federali (ma non solo, si consideri anche la Spagna) dimostra, la dimensione garantistica del riparto di competenze implica il ricorso alla tecnica delle materie. Certo, al di là delle materie ci sono le politiche (statali e regionali) (Bin) ed i problemi di raccordo delle seconde alle prime, ma si può dire che senza il riferimento a categorie interpretative del reale quali sono le materie, rimangono solo i problemi, senza un linguaggio comune per risolverli. Per questa ragione è della massima importanza che il legislatore di revisione costituzionale sia sempre attento e consapevole della delicatezza delle operazioni di denominazione o ridenominazione delle voci degli elenchi costituzionali di attribuzioni.
 
 
La parte finale dell’intervento è dedicata a qualche considerazione di più carattere generale sul disegno complessivo della riforma.
Da un esame complessivo del disegno di legge governativo appare un depotenziamento complessivo della posizione della Regione nel sistema delle autonomie, non adeguatamente compensato dalla configurazione del Senato delle Autonomie.
-         Come si è visto in precedenza, la riforma, infatti, non risolve i margini di ambiguità e non compensa – ma semmai accentua – gli elementi di debolezza della disciplina vigente in ordine alla dimensione amministrativa dell’ente regionale, in sé considerato e nei suoi rapporti con gli enti locali.
-         Per quanto riguarda le funzioni legislative, l’ispirazione prevalente è quella a favore di un decremento quantitativo delle funzioni medesime e, ciò che più conta, di un mutamento genetico delle medesime, nel senso della flessibilizzazione e plasmabilità a favore delle fonti statali, attraverso una molteplicità di titoli di intervento posti a disposizione dello Stato, sia di tipo preventivo (l’incremento delle voci competenziali esclusive a favore dello Stato), sia di tipo successivo (la c.d. clausola di prevalenza).
Sembra quasi che il modello culturale di riferimento della riforma sia la lettura svalutativa della natura propriamente legislativa delle leggi regionali che Guido Zanobini offriva subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione, allorché identificava il proprium dell’attività legislativa regionale in “una facoltà di adattamento delle leggi generali alle particolari esigenze delle singole regioni [1]”, negando alle deliberazioni dei Consigli regionali la natura di “leggi in senso tecnico”.
Soltanto l’emergere di una diversa generazione di giuristi (tra i quali vale la pena ricordare Galeotti e Crisafulli) ha permesso di battere in breccia questa ricostruzione che interpretava il “nuovo” con lo sguardo rivolto all’indietro...
Sarebbe veramente paradossale che la ricostruzione di Zanobini assumesse oggi i caratteri di una visione quasi profetica degli esiti ultimi del regionalismo italiano !
 
Al di là delle battute, ciò che merita di essere sottolineato è che non pochi margini di indeterminatezza comunque si presentano nel disegno riformatore, ad esempio per quanto riguarda le tecniche di costruzione di molte materie di competenza legislativa statale, in particolare di quelle fondate sulla distinzione “norme generali/non generali”, come si è cercato di evidenziare in precedenza.
Se l’intendimento del disegno di legge di revisione costituzionale è quello di spazzare via il contenzioso Stato/Regioni, la realtà successiva alla eventuale approvazione della riforma potrebbe essere molto diversa, attesa anche la composizione del Senato e l’eventuale reazione “polemica” delle Regioni italiane al loro ridimensionamento costituzionale.
 
Spetterà probabilmente alla Corte costituzionale in sede di definizione di un contenzioso che continuerà ad essere significativo delineare il vero volto delle Regioni, valorizzando letture interpretative volte a confermare una qualche valenza garantista al disegno costituzionale delle autonomie regionali.
Si tratta, peraltro, di un compito non nuovo alle Corti supreme ed anche in questo torna utile l’esperienza dei modelli federali. Basti ricordare, a questo proposito, l’esperienza della Corte suprema U.S.A: a fronte della potenzialità espansiva della preemption, essa ha elaborato una serie di elementi di limitazione della potenzialià espansiva del legislatore centrale, al fine di salvare i caratteri del Federal State. Sono nate con questo scopo le dottrine della delegation construct; dell’enclave construct; del federal commandering (cfr. libro di Chiara Bologna) grazie alle quali la Corte non si è sottratta al compito di impedire la trasformazione dell’unificazione in uniformità, che avrebbe segnato la fine del federalismo.
 
L’opzione alternativa che si apre al Giudice costituzionale italiano è quella di suggellare una configurazione di Regione “leggera” (rectius: decostituzionalizzata) che qualche dubbio di compatibilità con i caratteri dell’art. 5 Cost. all’interprete dovrebbe porre.
 
Emerge così quella che, a mio parere, sarà la perdurante centralità del ruolo della Corte costituzionale nell’inveramento (come lo intendeva Carlo Esposito) delle previsioni costituzionali formali (attesa anche la improbabile insufficienza del Senato delle autonomie configurato dalla riforma): come nell’esperienza della riforma del titolo V del 2001, la Corte si è data carico delle esigenze unitarie, agendo sui margini di flessibilità del sistema (e talvolta espandendoli in modo ardito, si veda il caso della attrazione in sussidiarietà legislativa...) così, in futuro, nell’ipotesi di entrata in vigore della riforma, dovrebbe accadere il contrario, essendo la Corte chiamata a valorizzare gli elementi di garanzia delle attribuzioni costituzionali regionali.
Se così non fosse, del resto, il prezzo da pagare sarebbe altissimo per la stessa Corte ed il suo ruolo nel sistema costituzionale, oltre che, ovviamente, per il sistema autonomistico e pluralistico italiano.
 

Aggiornamento al 2 maggio 2014

 
 

[1] G. Zanobini, La gerarchia delle fonti nel nuovo ordinamento, in AA.VV. (a cura di P. Calamandrei – F. Levi), Commentario sistematico della Costituzione italiana, vol. I, Firenze, 1949, nonchè in G. Zanobini, Scritti vari di diritto pubblico, Milano, 1955, p. 386 (testo dal quale è tratta la citazione). 

Menu

Contenuti