Cinque anni di crisi in Italia: recessione o depressione?
Stefania Gabriele
 

1. Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito sovrano

2. Le previsioni per la zona euro: l’incertezza sulla fuoriuscita dalla recessione

3. La congiuntura in Italia

4. Conclusioni

Bibliografia

 


  
1. Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito sovrano
 
La crisi finanziaria, che ha avuto origine nel 2007 dall’esplosione della bolla edilizia negli Stati Uniti e con le perdite sui mutui subprime e si è diffusa nell’estate successiva, con il fallimento di Lehman Brothers, ha dato luogo alla recessione più grave dal dopoguerra.
Il crollo della fiducia e la crisi di liquidità hanno rapidamente reso la crisi sistemica, data la forte esposizione del sistema bancario internazionale[1], con la caduta del credito e il tracollo delle borse, nonché il fallimento di alcune grandi istituzioni finanziarie e di molte piccole.  Le cause strutturali della crisi sono state ricercate nei rilevanti squilibri economici che si erano accumulati nel decennio precedente, con paesi, in particolare quelli emergenti, in attivo sulla bilancia delle partite correnti che finanziavano il boom dei consumi e del settore immobiliare negli Stati Uniti, assecondato dalla politica monetaria espansiva (ISAE, 2009). D’altronde, le ragioni di squilibrio erano anche altre, e in particolare è stato evidenziato da alcuni osservatori come l’indebitamento delle famiglie americane sia da mettere in relazione con la crescente diseguaglianza dei redditi (Barba e Pivetti, 2010; Stiglitz, 2012; Stiglitz e Gallegati, 2013).
Il contagio comunque è arrivato presto all’economia reale, con il PIL in calo già nel corso del 2008 nei Paesi industrializzati. L’incertezza sull’esposizione di bilancio di alcuni importanti istituti bancari ha portato ad una paralisi del mercato interbancario, alla restrizione del credito, sia per le imprese, sia per le famiglie, al peggioramento delle aspettative (ISAE, 2009). Il PIL mondiale è poi caduto nel 2009 (non era mai successo dal dopoguerra), e praticamente tutti i paesi hanno sperimentato un calo della produzione, eccetto Cina e India; il commercio mondiale si è contratto per la prima volta dal 1982  (‎Bianchi, 2011).
Le politiche monetarie espansive (bassi tassi di interesse, espansioni monetarie, facilitazioni al credito) non sono state sufficienti a fronteggiare la crisi, e i governi sono intervenuti per salvare i sistemi bancari, ma questo ha fortemente deteriorato le finanze pubbliche. Dal settembre 2007 al giugno 2012 gli Stati Uniti hanno  impiegato 2.900 miliardi lordi di euro circa (tra capitale, garanzie e altro) per il salvataggio finanziario, l’Europa 2.700[2] (il Regno Unito 1200, la Germania 400 e l’Italia 100). Le politiche fiscali anticicliche sono state realizzate soprattutto attraverso gli stabilizzatori automatici, mentre gli interventi discrezionali hanno avuto un ruolo minore. Tali politiche sono state più rilevanti negli Stati Uniti e in altri paesi avanzati o emergenti, sono rimaste molto limitate in Europa, dove operavano le regole di contenimento del deficit e del debito (Bianchi, 2011).
Nel 2010 si è registrata la ripresa, ma veniva paventata una double dip recession, ovvero si temeva una seconda caduta nella recessione, mentre la crisi finanziaria si trasformava in crisi dei debiti sovrani, in particolare nei paesi cosiddetti “periferici” della zona euro, con l’aumento del rapporto debito /PIL, dovuto sia alla crescita del numeratore, sia all’andamento del denominatore.
I paesi periferici, in condizioni di fragilità per l’elevato livello del debito privato e/o pubblico, per la debolezza della bilancia dei pagamenti e della competitività, per la crescita bassa della produttività e del PIL,  sono stati fatti oggetto di tensioni e attacchi speculativi, anche perché “Le iniziali debolezze nel disegno istituzionale europeo hanno sollevato timori circa l’integrità dell’unione monetaria”, come testimoniato anche dal Governatore della Banca d’Italia (Visco, 2013, p. 8). Nella fase che ha preceduto la crisi, la moneta comune aveva garantito tassi di interesse sui titoli pubblici dei diversi paesi sostanzialmente allineati. Infatti, i tassi nei Paesi della periferia erano diminuiti con l’ingresso nell’euro, consentendo una facile crescita dell’indebitamento con l’estero. Vi sono stati consistenti flussi di capitali in entrata, che hanno alimentato bolle immobiliari in molti paesi “e in generale crearono boom economici nei Paesi beneficiari. I boom economici, a loro volta, provocarono un differenziale di inflazione: i costi e i prezzi nei Paesi della periferia salirono molto più che nei Paesi del nocciolo duro, come la Germania e la Francia. Le economie della periferia diventarono sempre meno competitive, il che non era un problema fintanto che le bolle alimentate dagli afflussi di capitali duravano, ma che lo sarebbe diventato se questi capitali avessero smesso di arrivare”[3] (Krugman, 2013), come puntualmente avvenne a seguito della crisi finanziaria. Venivano così a galla i problemi legati ai differenziali di competitività nella zona euro e agli squilibri crescenti nelle balance dei pagamenti, dal momento che la crisi di fiducia metteva in discussione il meccanismo di finanziamento dei disavanzi dei paesi periferici da parte delle banche di quelli core, che aveva funzionato fino a quel momento (sulla crisi di bilancia dei pagamenti all’interno della zona euro, si veda Cesaratto, 2012, Irving, 2012).
In Grecia la scintilla è stata la scoperta di errori nel calcolo del deficit, annunciata nel 2009 dal nuovo governo socialista, che ne ha indicata la misura nel 12% del PIL; successivamente in Irlanda è esplosa la bolla immobiliare, mettendo in crisi il sistema delle banche e provocando tensioni che minavano sempre più la fiducia nella tenuta dell’euro. Nell’estate del 2011, il contagio aggravava  le tensioni in Spagna e in Italia  (si veda su questi sviluppi Visco, 2013). Il nostro Paese appariva fragile per l’elevato rapporto debito/PIL ereditato dal passato, per  la crescita bassa degli ultimi anni, per l’andamento deludente della produttività, malgrado il calo della quota del  debito sul prodotto nel periodo precedente la crisi (dal 121% del 1995 al 103% del 2007), l’avanzo primario elevato, i fondamentali sostanzialmente sani  e un sistema industriale piuttosto forte e appena uscito da un processo di aggiustamento giudicato importante da alcuni osservatori (De Nardis, 2010, 2012).
Con il crollo della fiducia e la speculazione si è avuto un forte aumento dello spread (il differenziale ) tra il tasso sui titoli dei paesi periferici e quello sui bund tedeschi. La regolamentazione dell’UEM non consentiva di far fronte alla crisi con interventi anticiclici e spingeva al contrario verso politiche restrittive pro-cicliche. I Paesi core hanno forzato per l’adozione di drastiche misure di austerità nei paesi periferici, da adottare in cambio degli aiuti chiesti all’Europa (Grecia, Irlanda, Portogallo, in seguito Spagna e Cipro) o comunque per rispettare i programmi di stabilità. Queste politiche hanno aggravato la crisi[4], anche perché non sono state controbilanciate da misure espansive nell’Europa core (Krugman, 2013).
Le politiche monetarie, come si accennava, sono divenute sempre più espansive, con tassi ufficiali vicini allo zero, interventi di quantitative easing negli Stati Uniti (sia sul mercato dei titoli pubblici che su quello delle cartolarizzazioni di mutui ipotecari), acquisto di titoli pubblici e privati e altre misure per favorire il credito nel Regno Unito (Visco, 2013).
Nella zona euro alla fine del 2011 è stato lanciato  il programma LTRO (long-term refinancing operation) per finanziare le banche - e queste ultime a loro volta hanno utilizzato in parte le risorse per acquistare debiti sovrani dei paesi «periferici» -, è stata ampliata la gamma di attività stanziabili a garanzia presso la banca centrale[5] e infine, nell’estate del 2012,  è stato dato l’annuncio[6] della  decisione di acquistare direttamente  debito sovrano  con le OMTs, cioè operazioni sul mercato secondario dei titoli di stato a breve, a carattere “illimitato” (nel senso che non è sottoposto a limiti quantitativi ex ante), volte a controllare l’andamento del tasso di interesse in caso di speculazioni.  Tale intervento resta strettamente condizionato all’adozione di programmi di rigore fiscale FESF (Fondo europeo per la stabilità finanziaria)/MES (Meccanismo europeo di stabilità)[7]. Questi interventi hanno fortemente ridotto i rischi relativi alla tenuta dell’euro e lo spread dei paesi periferici.
Secondo il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (2013), alla fine del 2011 anche nel nostro Paese il peggioramento delle condizioni di provvista all’ingrosso delle banche e la riduzione della raccolta sono state consistenti, e si sono rischiate gravi conseguenze sull’economia reale, in presenza di una segmentazione dei mercati finanziari che rendeva sempre più incerta la trasmissione delle politiche monetarie; tuttavia  l’intervento della BCE ha evitato una crisi di liquidità sistemica[8] e, anche se è difficile valutare gli effetti complessivi, anche per la domanda di credito comunque limitata a causa della recessione, vi è stato un significativo allentamento della restrizione dell’offerta nel 2012. L’annuncio delle OMTs ha giocato un importante ruolo nella riduzione dei rischi legati al timore di rottura dell’Unione Monetaria e nell’attenuazione della frammentazione dei mercati, mentre i problemi che ancora si evidenziano sul mercato del credito sarebbero piuttosto legati ad altri motivi, quali l’aumento della rischiosità dei prestiti e il deterioramento della qualità degli attivi.
In definitiva, nella zona euro il PIL è stato stagnante nel 2008 ed è caduto di quasi 4,5 punti percentuali nel 2009, per riprendere a crescere con un tasso del 2% nel 2010 e rallentare nel 2011, come mostra la tabella 1 (i dati relativi all’UE28 sono lievemente più favorevoli nell’ultimo biennio). Tuttavia, le differenze tra i paesi europei sono state molto forti, soprattutto nella fase di ripresa. Nel 2009 tutti i paesi dell’UE hanno registrato un tasso di crescita negativo, tranne la Polonia, nel 2010 il PIL ha continuato a calare solo in Grecia, Irlanda, Spagna, e poi Lettonia, Romania e Croazia fuori dalla zona euro, e nel 2011 solo in Grecia (con un crollo superiore al 7%) e in Portogallo, mentre pochi paesi sono rimasti quasi fermi (Spagna, Italia, Cipro, Croazia) e altri sono cresciuti, anche significativamente (la Germania, ad esempio, al 3,3%, i paesi baltici con tassi particolarmente elevati). Nel 2012 il tasso di crescita del PIL reale nella zona euro è ridiventato negativo, così come quello dell’UE, con risultati particolarmente drammatici in Grecia (-6,4%), seguita dal Portogallo (-3,2%) e da Italia, Slovenia e Cipro. La stessa Germania ha rallentato fortemente ( 0,7%), e la Francia è rimasta ferma. Va osservato che il PIL mondiale cresceva invece intorno al 4% nel 2011 e al 3% nel 2012, e anche gli Stati Uniti, dopo la caduta intorno al 3% nel 2009, hanno stabilizzato il tasso di crescita intorno al 2-3% nel triennio 2010-2012.
Il tasso di disoccupazione (Commissione Europea, 2013) nel 2012 è arrivato all’11,4% nella zona euro, e nei cosiddetti PIIGS è salito in misura di gran lunga maggiore, toccando il 25% in Spagna, superando il 24% in Grecia, avvicinandosi al 16% in Portogallo, al 15% in Irlanda, all’11% in Italia. Anche in Francia ha superato il 10%, mentre la Germania è sceso al 5,5%, e ancora meglio hanno fatto altri, tra cui Paesi Bassi e Austria. Negli Stati Uniti, dove era aumentato quasi al 10% nel 2009, è sceso quasi all’8% grazie alla ripresa.
In Italia il deterioramento dell’economia si è rivelato dal secondo trimestre del 2008, dando il via alla “più profonda crisi internazionale dal dopoguerra, con una perdita di prodotto che per l’Italia ha annullato in un anno i guadagni conseguiti in circa otto anni” (ISTAT, 2012, p. 99). Il Pil in volume pro-capite dal 2007 al 2009 si è ridotto di circa il 7% (Istat, 2012). La limitata ripresa successiva è stata seguita dalla nuova fase recessiva. In media d’anno nel 2011 si è registrato ancora un tasso di crescita lievemente positivo, malgrado l’anno si sia chiuso già in recessione “tecnica” (due trimestri consecutivi di caduta del PIL), ma nel 2012 il calo, pari al 2,5%, ha superato le più nere previsioni (il FMI, a gennaio 2012, stimava -2,2%[9], la Commissione Europea, a febbraio, -1,3%[10]).
In effetti le attese sono andate peggiorando nel tempo, e la ripresa si è allontanata sempre più.
E’ stato osservato che i previsori (organismi internazionali, enti pubblici e privati) hanno generalmente sottovalutato gli effetti delle politiche di consolidamento fiscale sull’economia, soprattutto in una fase recessiva. Ad esempio il FMI (FMI, 2012b, Blanchard e Leigh, 2012) ha riconosciuto che, per ogni punto di PIL di consolidamento fiscale, il prodotto è stato inferiore alle previsioni di circa l’1%, e dunque che il cosiddetto moltiplicatore implicito nelle previsioni era stato sottostimato di circa 1. Il Fondo ha sottolineato che l’errore è stato più ampio in relazione agli effetti delle spese rispetto a quelli delle entrate, e ha osservato di aver condiviso l’errore con  OCSE e Commissione Europea (CE). Anche l’Office for Budget Responsibility (OBR, 2012), Ufficio di bilancio britannico, che stimava un moltiplicatore pari a circa 0,6, ha ammesso che quello effettivo è stato pari a più del doppio[11].

2. Le previsioni per la zona euro: l’incertezza sulla fuoriuscita dalla recessione
 
Le previsioni economiche per la zona euro dell’autunno 2012 elaborate dai principali organismi internazionali apparivano troppo ottimistiche nella primavera 2013, anche se alcuni rischi di instabilità sembravano ridimensionati. Tuttavia, va registrato il fatto che nel secondo trimestre dell’anno in corso la zona euro è uscita dalla recessione (infatti il PIL è aumentato dello 0,3%, si veda Eurostat, 2013).
La tabella 2 confronta le previsioni OCSE, Fondo monetario internazionale (FMI) e CE. L’OCSE (OCSE, 2012) nel novembre scorso prevedeva una stagnazione per il 2013 in media annua, mentre in questa primavera (OCSE, 2013a) stimava una caduta di poco più di mezzo punto percentuale; a settembre, con la parziale revisione degli andamenti a breve termine (OCSE, 2013b), si è tuttavia preso atto del tasso di crescita positivo nel secondo trimestre dell’anno in corso, dopo sei trimestri di contrazione, e sono stati rivisti verso l’alto i preconsuntivi 2013 di alcuni paesi europei, malgrado il protrarsi della recessione in altri (tra cui l’Italia). Nell’ambito di questo recente aggiornamento l’OCSE ha valutato che la crescita si dovrebbe mantenere superiore al previsto nell’insieme delle economie avanzate nell’anno in corso, ma al contempo ha osservato che si è verificato un rallentamento in alcune economie emergenti (la Cina sembra stia già recuperando), legato anche alle turbolenze sui mercati finanziari internazionali e ad un irrigidimento delle condizioni finanziarie (con conseguente instabilità, aumento del costo dei finanziamenti, uscite di capitali e deprezzamento delle valute).
Con l’Interim assessment del marzo 2013 (OCSE, 2013c) e poi con l’Economic Outlook di maggio (OCSE, 2013a)  l’OCSE aveva già sottolineato la divergenza tra i sentieri di crescita prevedibili per i diversi paesi: ci si attendeva che la ripresa in Europa avrebbe tardato rispetto ad altre importanti economie come gli Stati Uniti o (in misura minore e più incerta) il Giappone, e inoltre sarebbero persistite le differenze tra paesi come la Germania, in crescita, ed altri in cui nella prima metà dell’anno in corso si sarebbe avuto ancora un segno negativo (Italia, Francia nel primo trimestre).
Nei suoi documenti (OCSE, 2013a, 2013b, 2013c) l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo osserva che la fiducia delle imprese e la produzione industriale sono aumentate di recente in molte economie avanzate, mentre la fiducia dei consumatori resta debole, complessivamente, nella zona euro, anche se in miglioramento. In Europa si risentono gli effetti del consolidamento fiscale e della debolezza del mercato del credito. L’incremento della disoccupazione, soprattutto di lunga durata, accompagnato dal progressivo ridimensionamento dell’importo dei benefici garantiti dagli ammortizzatori sociali, sta facendo aumentare la povertà e la diseguaglianza. Le pressioni inflazionistiche invece sono deboli nella zona euro e in generale nella maggior parte dei paesi OCSE. L’OCSE ha sottolineato ancora tra gli aspetti favorevoli il fatto che il risanamento fiscale è andato avanti da tempo in Europa, e gli sforzi fatti fino al 2014 dovrebbero consentire la diminuzione del debito  rispetto al PIL nel lungo periodo nel complesso dell’area e in molti paesi.
Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI, 2013b) ha sottolineato che tra le economie avanzate - che complessivamente crescono poco nel 2013, un poco più intensamente nel 2014 - si è creata una divergenza tra gli Stati Uniti, che arriverebbero a un tasso vicino al 3% nel 2014, e la zona euro, dove invece la crescita è ancora lenta. Per la zona euro anche le previsioni del Fondo sono state riviste verso il basso in aprile e ancor più a luglio (FMI, 2013c): l’attività si contrarrebbe nel 2013, anche se nel corso dell’anno si verificherebbe un’accelerazione, con l’allentamento del ritmo del consolidamento fiscale. Il FMI in primavera (FMI, 2013b) evidenziava il fatto che non solo i paesi periferici, ma anche quelli cosiddetti core mostravano talune debolezze, e dunque rivedeva verso il basso il tasso di crescita della  Germania nel 2013 e indicava come negativo quello della Francia. Tuttavia si è visto che i dati del secondo trimestre si sono rivelati poi per questi paesi migliori di quanto ci si aspettasse. Il Fondo osservava, già a luglio (FMI, 2013c), il peggioramento della situazione di alcune economie emergenti, anche a seguito dell’aumento della volatilità dei mercati finanziari internazionali e dei tassi di interesse. Considerando che sono attualmente proprio questi paesi quelli più dinamici, dai quali ci si aspetta che spingano verso l’alto la crescita mondiale, un loro ulteriore rallentamento veniva indicato come un nuovo rischio per le prospettive dell’economia globale.
La Commissione Europea, nella primavera 2013 (Commissione Europea, 2013), si aspettava una stagnazione dell’UE nel 2013 (e per la zona euro un tasso negativo di quasi mezzo punto percentuale), una ripresa da metà anno e un tasso di crescita annuale positivo nel 2014 (un poco più basso per l’area euro), come mostra la tabella 2. Veniva segnalato che l’aumento della disoccupazione non sarebbe stato riassorbito in fretta: il tasso di disoccupazione, dall’11,4% in media nella zona euro nel 2012 (10,5% nell’UE), continuerà a peggiorare, toccando il 12,2% nel 2013 e sostanzialmente stabilizzandosi (12,1%) nel 2014, anche perché sta reagendo con più immediatezza, rispetto al periodo 2008-10, alla caduta del PIL. L’inflazione resterà bassa. Consumi e investimenti resterebbero molto deboli nel 2013, anche per effetto del deleveraging delle banche, delle imprese e delle famiglie, e la crescita sarebbe ancora trainata dalle esportazioni (a loro volta sospinte dalla ripresa globale), per le quali è prevista una crescita del 2%, inferiore comunque di più di un punto all’incremento delle importazioni mondiali. Guardando ai singoli paesi, e non conoscendo ancora i consuntivi del secondo trimestre, la CE prevedeva che la Germania si riprendesse gradualmente – dopo un calo del prodotto nell’ultimo trimestre del 2012 - grazie all’aumento della domanda interna (legato alle condizioni favorevoli del mercato del lavoro e all’incremento dei salari), la Francia rimanesse stagnante nel 2013, il PIL italiano continuasse a cadere in media d’anno per il calo del reddito disponibile, la bassa fiducia e le difficili condizioni del credito, così come quello spagnolo, malgrado il miglioramento della bilancia dei pagamenti, e ancor più quello portoghese e quello greco; per il Regno Unito ci aspettava di assistere ad una moderata accelerazione, grazie al graduale miglioramento della domanda interna.
Volendo delineare i caratteri della fase congiunturale e delle attese per il futuro in qualche maggior dettaglio, si può ricordare che l’OCSE, che nell’autunno dell’anno scorso aveva individuato nella crisi della zona euro il principale problema dell’economia mondiale (OCSE, 2012), valutava in marzo (OCSE, 2013c) che i rischi per l’economia fossero fortemente diminuiti in seguito al calo delle tensioni negli Stati Uniti, dove era stato affrontato il problema del cosiddetto fiscal cliff, e in Europa, dopo l’annuncio del programma OMT (Outright MonetaryTransactions),  da parte della BCE[12] (OCSE, 2012a,c) [13]. Anche il FMI, in primavera, (FMI, 2013b) evidenziava l’importanza di aver disinnescato il rischio di una grave contrazione fiscale negli Stati Uniti e quello di bancarotta nell’area euro. A tale ultimo proposito ricordava, oltre al ruolo del programma OMT, la rilevanza del Meccanismo europeo di stabilità, della road map per l’unione bancaria, e anche dell’accordo sulla riduzione del debito greco e dei progressi nell’aggiustamento da parte dei governi nazionali.
Tuttavia alcuni problemi persistono. Le preoccupazioni discendono principalmente (OCSE, 2013a) dalle possibilità di interazione negativa tra debolezza del sistema bancario e delle finanze pubbliche, anche per l’assenza di una completa unione bancaria, tra le banche e l’economia reale e tra i rendimenti dei titoli e  l’exit risk (rischio di uscita dall’euro).
Come osservato dall’OCSE (OCSE, 2013c), le migliori condizioni dei mercati finanziari non si stanno riflettendo pienamente sull’economia reale - specialmente nella zona euro -, e questo implica un qualche rischio di un nuovo disallineamento dei prezzi delle attività finanziarie dai fondamentali, soprattutto con riguardo ai titoli delle società. All’interno della zona euro divergono sia il costo dei prestiti sia la loro disponibilità, e le banche dei paesi deboli denunciano ancora problemi di accesso ai finanziamenti di mercato, mentre aumentano le sofferenze bancarie. In questi paesi i prestiti sono caduti più che nei paesi core, anche per il calo della domanda (OCSE, 2013a).  Anche il FMI ha confermato che i rischi non sono del tutto superati: malgrado siano migliorate le condizioni di finanziamento e la fiducia, i tassi di interesse sono ancora troppo alti nella “periferia” d’Europa e il rafforzamento delle banche è ancora insufficiente, e inoltre deve riuscire a completarsi senza indebolire ulteriormente le finanze pubbliche. La debolezza del sistema bancario si traduce poi in debolezza nella trasmissione del credito alle imprese dei paesi periferici, già provate dalla situazione congiunturale e schiacciate dal peso dei propri debiti. In definitiva, la riduzione degli spread e l’aumento della liquidità non si sono ancora riflessi in migliori condizioni di prestito per il settore privato o in una più intensa attività economica; al contrario, il credito nell’area euro ha continuato a contrarsi, mentre non è concluso il processo di riequilibrio dei bilanci (FMI, 2013b). Tra maggio e giugno, poi, è aumentata la volatilità dei mercati (FMI, 2013c). Tanto l’OCSE quanto il Fondo concordano sul fatto che la crisi di Cipro (sia pure considerata un caso eccezionale) ha mostrato l’importanza di affrontare decisamente le crisi bancarie, ma anche di completare le riforme istituzionali a livello europeo.
La CE (Commissione Europea,2013) ha ammesso che, malgrado il miglioramento delle condizioni dei mercati finanziari dalla seconda metà del 2012, il rafforzamento della fiducia si è interrotto per effetto dei deludenti risultati degli indicatori macroeconomici e che l’allentamento delle tensioni sul mercato dei finanziamenti delle banche non è stato omogeneo in tutti i paesi e comunque non ha portato ad un miglioramento dell’economia reale. Tuttavia la CE in primavera intravedeva qualche segnale di superamento della frammentazione finanziaria e contava in una lenta diminuzione dell’incertezza. Inoltre, segnalava alcuni miglioramenti sugli aggiustamenti interni ed esterni. La CE infatti ha previsto che nel 2013 in alcuni tra i paesi deboli la bilancia dei pagamenti tornerà in equilibrio, grazie alla bassa domanda interna e alla maggiore competitività, dovuta alla moderazione salariale e alla migliore produttività. Nei paesi forti, invece, una dinamica più rapida dei salari sarebbe foriera di un aumento della domanda interna. Il ritmo del consolidamento fiscale dovrebbe rallentare. Il deficit strutturale calerebbe dal 2,1% all’1,4% nella zona euro tra il 2012 e il 2013, ma data la debolezza dell’attività economica il rapporto debito/PIL aumenterebbe, arrivando al 96%.

3. La congiuntura in Italia
 
Di seguito descriviamo il quadro dell’economia italiana nel 2012, sulla base delle indicazioni riportate dal  Documento di economia e finanza (DEF) presentato dal Governo Monti nell’aprile scorso e delle informazioni offerte dall’ISTAT (ISTAT, 2013b), prima di passare ad un esame delle prospettive per l’anno in corso e i successivi e ad un confronto tra le valutazioni di diversi previsori.
Nel 2012 il PIL si è ridotto del 2,5%[14] (tabella 3). La recessione ha colpito soprattutto il settore delle costruzioni, ma anche l’agricoltura e l’industria. L’ISTAT, nel Rapporto annuale 2013 (ISTAT, 2013b), offre un’indicazione inquietante: tra il 2008 e il 2009 si è perduto circa un quarto della produzione industriale e gli effetti della breve ripresa ciclica sono stati annullati dalla recessione attuale, cosicché la produzione industriale a febbraio 2013 risultava del 24% inferiore rispetto all’aprile 2008.
La domanda interna, messa a dura prova dalla contrazione del credito[15] e dalle politiche di austerità, ha dato un contributo negativo alla crescita del PIL (tabella 4) di ben 4,7 punti (di cui 3,1 punti per i consumi e 1,6 per gli investimenti[16]), mentre il contributo della domanda estera netta è stato positivo e pari a 2,8 punti, per la caduta delle importazioni e l’aumento delle esportazioni, in particolare verso i paesi extraeuropei (mentre sono calate quelle verso i paesi UE). Il saldo corrente della bilancia dei pagamenti, di conseguenza, si è avvicinato al pareggio.
L’IPCA (indice armonizzato dei prezzi al consumo) ha mostrato una crescita dei prezzi del 3,3% (con un differenziale di 0,8 punti percentuali rispetto alla media della zona euro), legata all’incremento del costo delle materie prime, soprattutto nella componente energetica,  e anche all’aumento delle imposte indirette (IVA e accise), e delle voci regolamentate (il dato in tabella 3 è al netto della componente energetica). Tuttavia a fine anno si è verificato un rallentamento dell’inflazione.
Il reddito disponibile, in calo dal 2008, ha continuato a contrarsi. Si è avuta una riduzione estremamente consistente del potere d’acquisto (4,7%)[17], che ha provocato una caduta dei consumi delle famiglie del 4,2%, con un ridimensionamento soprattutto di quelli durevoli e semidurevoli. Il tasso di risparmio, tradizionalmente elevato in Italia, è diminuito drasticamente, raggiungendo il minimo storico, come sottolineato dall’ISTAT.
L’occupazione è diminuita dell’1,1% in termini di unità di lavoro. Tuttavia, come osservato nel DEF, il calo è stato inferiore a quello del PIL, e dunque è diminuita la produttività in termini di prodotto per occupato. In seguito alla contrazione ciclica della produttività si è verificata un’accelerazione dell’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto, malgrado la decelerazione salariale (ISTAT, 2013b).
Mentre diminuiva l’occupazione, è aumentata la  partecipazione al mercato del lavoro, anche a seguito delle riforme pensionistiche, come osservato dal DEF. Il tasso di disoccupazione è dunque salito, arrivando al 10,7% in media d’anno (17,2% nel Mezzogiorno), mentre  quello di disoccupazione giovanile ha toccato il 35,3% ( 6%) e la disoccupazione di lunga durata, cioè la quota di disoccupati che cercano lavoro da più di un anno, è cresciuta al 6% ( 1,2%). E’ insomma diminuita l’occupazione giovanile ed è aumentata quella dei più anziani, sono aumentati i lavori a tempo parziale e determinato (ISTAT, 2013b). Si è intensificato il ricorso la Cassa integrazione guadagni. Inoltre, sono peggiorati gli indicatori di disagio economico e di deprivazione[18]: basti ricordare che l’incidenza tra le famiglie della povertà assoluta è passata dal 4,6% nel 2010 al 6,8% nel 2012.
Sul fronte della finanza pubblica, gli obiettivi indicati ad aprile dello scorso anno sono stati rivisti nel corso del 2012 a seguito degli sfavorevoli andamenti congiunturali, malgrado le manovre adottate nel corso dell’estate - volte a correggere gli andamenti della spesa (spendig review) e a valorizzare e dismettere il patrimonio pubblico attraverso fondi di investimento - e la Legge di stabilità per il 2013 (si veda il DEF). Si è mantenuto tuttavia l’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio al 2013. A consuntivo l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche (AP) nel 2012 è stato pari al 3% e dunque superiore di 1,3 punti percentuali rispetto a quello indicato nel DEF del 2012 e di 0,4 punti rispetto alla Nota di aggiornamento allo stesso DEF del settembre 2012, soprattutto a causa di uno scostamento che si è verificato rispetto alla previsione di entrate (circa 1 punto di PIL). Queste ultime sono aumentate del 2,6%, mentre le spese sono cresciute appena dello 0,7%. E’ da osservare che le spese in conto capitale si sono ridotte in valore assoluto. L’avanzo primario è aumentato dall’1,1% del PIL del 2011 al 2,5% del 2012. Intanto si è stretto sempre più il meccanismo di irrigidimento delle politiche di bilancio, con l’approvazione ad aprile della legge costituzionale volta all’introduzione del principio del pareggio di bilancio, e a dicembre della legge rinforzata per la sua attuazione, mentre prima dell’estate è stato ratificato il cosiddetto fiscal compact. Il rapporto debito/PIL è arrivato al livello del 127%[19] del PIL. Tuttavia, il fatto di essere riusciti a far calare il deficit al 3% del prodotto ha reso possibile la chiusura della procedura di deficit eccessivo per l’Italia (avviata nel 2009).
 
Passando alle prospettive di breve e medio termine, la tabella 3 riporta i dati relativi alle principali variabili economiche nel 2013 e negli anni successivi, confrontando le previsioni del Governo con quelle dell’ISTAT e di alcuni istituti privati.
La Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanze 2013, presentata dal Governo Letta il 20 settembre scorso (Ministero dell’economia e finanze, 2013b), ha rivisto il quadro macroeconomico e di finanza pubblica del precedente DEF. Ad aprile 2013 la previsione sull’andamento del PIL per l’anno in corso era stata rivista decisamente verso il basso,  da -0,2% (di settembre 2012) a -1,3%; con la Nota il preconsuntivo è stata portata a -1,7%. La sospirata ripresa, insomma, si allontana ancora, fino al quarto trimestre dell’anno in corso (dopo una probabile stabilizzazione nel terzo)[20]. Solo dal 2015 l’occupazione riprenderà a crescere, e la disoccupazione arriverà al 12,4% nel 2014, prima di cominciare a diminuire. 
Il tasso di variazione del PIL 2013 dipende in parte dal trascinamento dall’anno precedente (-1 punto percentuale); la Nota osserva che nei primi due trimestri si è protratta la recessione, anche se con tassi di decremento del PIL inferiori rispetto al 2012 (rispettivamente -0,6% e -0,3% nel primo e secondo trimestre). Dal 2014 invece si registrerebbero tassi di crescita annuali positivi, tendenzialmente in aumento. Nella previsione sono incorporati gli effetti dei provvedimenti straordinari di pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione nel biennio 2013/2014. Secondo il DEF di aprile, la restituzione dei debiti pregressi stimolerà una ripresa della domanda a partire dalla seconda metà dell’anno in corso, anche se i suoi frutti si raccoglieranno soprattutto dal 2014, anche per l’effetto di trascinamento. L’impatto sulla crescita dei pagamenti disposti con il decreto legge 35/2012 (40 miliardi tra 2013 e 2014) sarebbe di circa 0,2 punti percentuali nel 2013 e 0,7 punti nel 2014, quello del decreto legge 102/2013 (7,2 miliardi), indicato nella Nota di aggiornamento, di 0,1 e 0,3 punti, rispettivamente. L’efficacia del provvedimento non sarebbe inficiata dal fatto che una parte dei benefici del pagamento dei debiti delle AP finirà per avvantaggiare le banche, cui le imprese hanno ceduto una quota dei loro crediti: il DEF anzi si rallegra del fatto che anche  la situazione delle banche e le condizioni di offerta dei prestiti potranno migliorare. Per il medio periodo, il DEF contava su un effetto positivo delle cosiddette “riforme strutturali”, che avrebbero consentito una crescita del PIL potenziale: gli effetti di tali riforme erano stati stimati in una maggiore crescita del PIL di circa mezzo punto all’anno, stimata secondo le metodologie adottate a livello europeo. La Nota di aggiornamento ha rivisto verso l’alto queste valutazioni.
La domanda interna continuerebbe a dare un contributo negativo alla crescita nel 2014, ma meno intenso rispetto all’anno passato. In particolare, si tiene conto della ripresa degli investimenti in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto nel secondo trimestre, che tuttavia si oppone ad una ulteriore riduzione degli investimenti in costruzioni. La Nota osserva come le scorte abbiano fornito ancora un contributo negativo alla crescita nel secondo trimestre.
 
Il DEF di aprile individuava elementi di moderato ottimismo nell’economia globale, e in particolare nella crescita dei paesi emergenti, vista come volano di quelli industrializzati, nonché in una riduzione dei prezzi delle materie prime, anche se rivedeva verso il basso rispetto alla precedente proiezione la previsione di crescita dell’economia globale. La Nota di aggiornamento osserva tuttavia che commercio internazionale e produzione mondiale hanno rallentato, ed evidenzia alcuni rischi dello scenario internazionale: le tensioni in Medio-Oriente, che potrebbero avere effetti sui prezzi delle materie prime; un eventuale cambiamento delle politiche monetarie, con aumento dei tassi di interesse e ulteriore rallentamento nei paesi emergenti; il riemergere di tensioni sui mercati finanziari e del credito. In definitiva, le esportazioni sono previste sostanzialmente stagnanti e le importazioni in ulteriore calo.
Appare favorevole l’andamento di alcuni indicatori: vi è stato un miglioramento del clima di fiducia e dell’indice PMI (Purchasing Managers Index), in particolare dei giudizi relativi agli ordini, nonché del clima di fiducia delle famiglie. Un motivo di pessimismo emerge invece dalla constatazione dell’andamento ancora negativo, sia pure lievemente, della concessione di credito al settore privato. Già il DEF prendeva atto del fatto che la riduzione dello spread nell’autunno del 2012[21] non si è trasmessa al sistema creditizio privato, dove le condizioni di finanziamento restano peggiori rispetto a quelle dei paesi core (come si è visto sopra), con un costo medio per le imprese superiore dell’1,5% a quello tedesco; la situazione congiunturale e l’aumento delle sofferenze bancarie (del 27% medio annuo dal 2009, secondo ISTAT, 2013b) hanno frenato i prestiti, che sono calati negli ultimi mesi. Come sottolineato dalla Nota di aggiornamento, si pone per le banche anche un’esigenza di ricapitalizzazione, volta ad adempiere alle indicazioni delle autorità finanziarie e dei nuovi regolamenti internazionali. Questa tendenza attenuerebbe gli effetti espansivi dei provvedimenti assunti dal governo.
Per quanto riguarda il quadro di finanza pubblica, la Nota di aggiornamento del DEF stima un indebitamento netto pari al 3,1% del PIL nel 2013 e al 2,3% nel 2014, in assenza di interventi. Il quadro è peggiorato a causa di un andamento delle entrate più sfavorevole rispetto alle precedenti previsioni, a sua volta legato all’intensità della recessione e agli effetti di contrazione delle politiche anticicliche. La Nota  prende atto, infatti, del fatto che i moltiplicatori fiscali sono stati superiori alle aspettative (come si è spiegato sopra). Le previsioni al 2017 indicano una riduzione della quota sul PIL delle entrate finali (dal 48,1 del 2012 al 47,3) e delle spese finali (dal 45,6 al 42,8), la seconda dovuta soprattutto all’andamento di quelle primarie. L’avanzo primario raggiungerebbe il 4,5% nel 2017 e il rapporto debito/PIL crescerebbe ancora nel 2013 (al 133%) e comincerebbe a calare solo  dal 2015, fino al 123,2% nel 2017.
Il governo ha stabilito di attuare limitati interventi correttivi per riportare il saldo del 2013 al 3% del PIL e per condurre quello del 2017 allo 0,1%. Nel 2014 sembra esservi invece lo spazio per finanziare alcune spese in conto capitale (della dimensione dello 0,2% del PIL). Dopo la chiusura della procedura per disavanzi eccessivi, ora si mira al pareggio di bilancio strutturale, che sarebbe centrato dal 2015.  
 
La Banca d’Italia, a luglio (Banca d’Italia, 2013), osservava come si fosse ridotta l’incertezza nell’area dell’euro e sulle politiche fiscali degli Stati Uniti, ma fosse aumentata quella sulla crescita delle economie emergenti. Inoltre ricordava che si è verificata una restituzione anticipata dei fondi ottenuti dalle banche nelle due operazioni di rifinanziamento a tre anni effettuate a dicembre del 2011 e a febbraio del 2012, oltre a un ricorso minore a tali operazioni, e che tutto ciò ha determinato un parziale calo della liquidità in eccesso nel sistema; inoltre si stanno ridimensionando gli squilibri nei saldi sul sistema TARGET2, che rispecchiano i movimenti dei capitali privati tra paesi.
Quanto al mercato del credito, è stato individuato, dal lato dell’offerta, il problema del peggioramento del rischio di credito, che si oppone alla riduzione del suo costo (ci si attende un flusso di sofferenze elevato per tutto il 2013) e provoca la contrazione dei prestiti, con difficoltà soprattutto per le imprese piccole e medie, che meno facilmente possono procurarsi finanziamenti di altro tipo. Peraltro la domanda di credito resta debole. Il miglioramento atteso sarà lento e nel 2013 si verificherà un’ulteriore diminuzione dei prestiti. La Banca d’Italia ritiene che  pagamento di parte dei debiti commerciali pregressi delle Amministrazioni pubbliche possa dare un contributo positivo al miglioramento della situazione finanziaria delle imprese.
Anche la Banca d’Italia ha peggiorato a luglio le proprie previsioni rispetto alle precedenti (di gennaio). La ripresa del 2014 sarebbe trainata dagli investimenti produttivi  - a loro volta sospinti dal miglioramento della condizioni di liquidità delle imprese, consentito dal rimborso dei debiti pregressi della Amministrazioni Pubbliche (AP)[22], e favoriti dalle misure adottate dal governo a giugno a sostegno della crescita - e dalle esportazioni. Queste ultime sarebbero stagnanti nel 2013 e in aumento nel 2014, soprattutto grazie alla domanda esterna alla zona euro. L’Italia vedrebbe tuttavia erosa la propria quota di mercato, in presenza di un apprezzamento dell’euro. I consumi si stabilizzeranno solo nel 2014, e aumenterà il tasso di risparmio. Le importazioni presenteranno un tasso di crescita positivo nel 2014. Il saldo della bilancia corrente sarebbe positivo dal 2013, anche per l’evoluzione favorevole delle ragioni di scambio. La disoccupazione continuerebbe a crescere, malgrado un lieve aumento dell’offerta di lavoro nel 2014.
Le pressioni inflazionistiche non destano preoccupazioni, malgrado l’aumento dell’IVA, anche per l’andamento dei costi delle materie prime energetiche. Aumenterebbero i margini di profitto dalla fine del 2014, mentre il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) rallenterebbe nel secondo semestre del 2013 e resterebbe stabile nel 2014 (per il recupero ciclico della produttività e la crescita limitata delle retribuzioni unitarie).
Il rapporto tra indebitamento netto delle AP e PIL sarebbe sostanzialmente  stabile nel 2013, tenendo conto del rimborso dei debiti pregressi.
I rischi della previsione restano legati sia alle prospettive dell’economia globale, sia alle condizioni di liquidità delle imprese e al mercato del credito. Vi è poi qualche incertezza sugli effetti delle misure adottate dal Governo, in particolare sui pagamenti della AP, e qualche preoccupazione su possibili aumenti dello spread, che avrebbero effetti anche sul mercato del credito.
 
Anche le previsioni dell’ISTAT, elaborate in maggio, sono state riviste verso il basso rispetto a quelle precedenti, del novembre 2012 (ISTAT, 2013c). Il preconsuntivo 2013, valutato con le informazioni disponibili in primavera, risulta più favorevole rispetto  a quello della Nota di aggiornamento del DEF, ma per il 2014 si stima che la ripresa porterà solo un modesto 0,7% di prodotto in più. La principale ragione del maggiore pessimismo rispetto al DEF per il 2014 sembra essere costituita da una diversa valutazione dell’effetto del provvedimento relativo al pagamento dei debiti delle AP. L’Istituto di statistica, infatti, ritiene che la maggiore liquidità verrà in buona misura utilizzata per ricostituire i livelli di risparmio delle famiglie e sostenere il rafforzamento patrimoniale delle imprese, soprattutto in un primo tempo, invece di sospingere la domanda. Ad ogni modo  gli investimenti fissi lordi (delle imprese e delle AP), secondo l’Istat, cadranno ancora nel 2013 e si riprenderanno nel 2014, risentendo delle condizioni di debolezza della domanda interna e dell’ampia presenza di capacità inutilizzata, oltre che delle restrizioni al credito. Tra l’altro l’ISTAT osserva che l’indicatore sintetico del clima di fiducia delle imprese è rimasto su livelli storicamente bassi nel primo quadrimestre.
La domanda estera sarebbe ancora il traino della crescita nel 2013, offrendo un contributo di 1,1 punti, mentre quella interna al netto delle scorte avrebbe un effetto negativo di 2 punti percentuali (e l’effetto delle scorte sarebbe ancora negativo, per mezzo punto). Nel 2014, tuttavia, la domanda interna riprenderebbe a spingere il PIL, sia pure con un contributo limitato (0,7 punti percentuali); l’apporto della domanda estera sarebbe invece appena positivo, perché le importazioni, dopo il calo del 2013, nel 2014 sarebbero sospinte dalla ripresa della domanda interna. I consumi si ridurrebbero infatti nel 2013, a seguito di una ulteriore caduta del reddito disponibile, dell’elevata incertezza e del tentativo di ricostituire i margini di risparmio, per tornare a crescere nel 2014, grazie ad una risalita del potere d’acquisto, ma solo in misura limitata, date le condizioni del mercato del lavoro e la prosecuzione delle politiche di austerità. Le esportazioni in volume, nell’anno in corso, aumenterebbero del 2,3%, e ancor più nel 2014, anche se si ridurrebbe la quota di mercato del nostro Paese, perché le economie su cui esportiamo crescerebbero meno del commercio mondiale. Comunque l’ISTAT conferma che nel biennio 2013-2014 si otterrà un saldo positivo della bilancia dei beni e servizi, compreso tra il 2,5 e il 3%, e ritiene che anche la bilancia corrente tornerà in avanzo.
L’occupazione è prevista in diminuzione di un punto nel 2013, mentre si stabilizzerebbe nel 2014, ma la disoccupazione sarebbe in crescita in entrambi gli anni, arrivando al 12,3% nel 2014.
Le retribuzioni crescerebbero solo lievemente nei due anni, e la produttività risulterebbe ancora in diminuzione nel 2013 e in lieve crescita nel 2014. Il CLUP si ridurrebbe in entrambi gli anni.
L’inflazione sta calando significativamente, una volta assorbiti gli effetti dell’incremento delle imposte indirette già realizzati, anche per il ridimensionamento della componente estera, e in particolare per la riduzione del prezzo del petrolio.
Secondo l’ISTAT i rischi della previsione, ovvero i motivi di incertezza, restano legati all’andamento del commercio mondiale, che dipenderà soprattutto dall’evoluzione delle economie emergenti, all’eventuale taglio automatico e lineare della spesa pubblica negli Stati Uniti in caso di raggiungimento del tetto previsto per il debito pubblico, all’impatto dei provvedimenti di finanza pubblica, e in particolare del pagamento dei crediti alle imprese, dal momento che gli effetti sulla domanda potrebbero essere più significativi del previsto se i comportamenti si modificassero a seguito di un miglioramento delle aspettative.
 
Le previsioni di Prometeia sono più pessimistiche di quelle dell’ISTAT, con un PIL in calo di quasi 2 punti nel 2013 e in ripresa lenta nel 2014. Infatti, le valutazioni sono state riviste verso il basso con l’aggiornamento del rapporto nel maggio scorso. L’uscita dalla recessione viene collocata solo alla fine dell’anno e la domanda interna resterà debole nel 2014, in presenza di politiche fiscali comunque orientate al rispetto dei vincoli europei piuttosto che allo stimolo della crescita. Il provvedimento di pagamento dei crediti delle imprese da parte della PA non avrebbe effetti molto rilevanti, mentre le restrizioni al credito e il costo dello stesso continuerebbero a influire negativamente sulle decisioni di investimento delle imprese.
Il saldo con l’estero migliorerebbe significativamente nel 2013, ma anche Prometeia nota che su questo pesa la caduta delle importazioni, mentre le esportazioni non presenterebbero una accelerazione. Un segnale positivo sarebbe rappresentato dall’aumento delle importazioni di beni strumentali nel primo trimestre dell’anno in corso.
L’inflazione sta calando per effetto dell’andamento dei prezzi dei prodotti energetici, ma anche per effetto della “debolezza ciclica”. Secondo Prometeia la fiducia delle imprese, la crescita solo limitata del PMI delle imprese manifatturiere e dei servizi e gli indicatori sul razionamento del credito non facevano ancora  intravedere, nella primavera scorsa, un miglioramento della situazione. 
Anche sugli andamenti della finanza pubblica le valutazioni di Prometeia non sono molto favorevoli, con un indebitamento netto pari al 3,2% del PIL nel 2013 e al 2,6% nel 2014. Nel 2013 pesano sul passivo i pagamenti dei crediti delle imprese e gli effetti della recessione, aggravati dalle manovre. Tuttavia il disavanzo strutturale, che non risente degli andamenti ciclici, mostrerebbe un forte miglioramento nel 2013, avvicinandosi al pareggio. Viene sottolineato il miglioramento delle condizioni di finanziamento del debito pubblico, che porterà un significativo alleggerimento dell’onere per interessi, a fronte del peggioramento dei conti pubblici (riduzione delle entrate fiscali, aumento delle spese per ammortizzatori sociali) dovuto agli effetti di una recessione che si presenta sempre più grave.
 
Le previsioni di REF, che risalgono ad aprile (Ref, 2013), appaiono un poco più favorevoli rispetto a Prometeia. Ref sottolinea la specificità del caso italiano, quella di un grande paese che non riesce ad uscire dalla recessione, ponendo un’incognita anche sul futuro dell’euro. Sono pure segnalati i rischi sociali che ne discendono.
Ref osserva che i pagamenti dei debiti pregressi della PA sono consistenti, ma solo una piccola parte potrebbe andare eventualmente a sboccare lavori interrotti per mancanza di risorse, mentre per lo più riguarderanno beni e servizi già erogati o prodotti; tuttavia, potrebbero verificarsi effetti positivi in termini di mancata chiusura di imprese, miglioramento della situazione delle banche e di conseguenza allentamento del credit crunch, effetti sulla domanda (ad esempio consentendo il pagamento di stipendi arretrati). In ogni caso, sarebbe opportuno, secondo Ref, che l’operazione venisse affiancata da una più generale riduzione strutturale dei tempi di pagamento da parte della PA.
Inoltre Ref sottolinea la debolezza del consumo, anche nel primo trimestre del 2013, spiegata tra l’altro dalla caduta del reddito disponibile verificatasi dal 2008 e attesa anche per il 2013. Viene osservato che le evidenze in termini di reddito pro-capite sono ancora più gravi, dato l’aumento della popolazione, con un ritorno ai livelli di fine anni ottanta. Inoltre si evidenzia la caduta del tasso di risparmio durante la crisi, che tuttavia potrebbe essersi interrotta dall’estate 2012. Ref si attende una ulteriore caduta dei consumi nel 2013, dovuta anche ad un’ipotesi di riduzione della propensione al consumo (in particolare delle fasce medie, che finora avevano reagito alla crisi riducendo i tassi di risparmio, ma visto il perdurare della recessione e dell’incertezza potrebbero ora ridimensionare i programmi di spesa). Gli investimenti, d’altronde, sarebbero mirati essenzialmente all’adeguamento degli impianti, piuttosto che al loro ampliamento, data l’ampia capacità in eccesso, e comunque sono frenati dai problemi di liquidità. La bilancia dei pagamenti potrebbe essere aiutata dall’andamento dei prezzi, con un miglioramento delle ragioni di scambio. Continuerà la decelerazione dell’inflazione, malgrado la manovra sull’IVA, e la disoccupazione potrebbe spingere ulteriormente al ribasso le dinamiche salariali nei paesi periferici. Si potrebbe anche verificare una situazione di deflazione (contrazione dei salari e dei prezzi).
 
Le previsioni del CER (CER, 2013), pubblicate a luglio, si collocano in posizione intermedia tra quelle di Prometeia e di Ref. Anch’esse sono state riviste verso il basso, rispetto a quelle di febbraio. Il CER si spinge fino al 2015, anno per il quale è prevista una crescita di poco superiore ad un punto. Per il 2013, ci si aspetta che sia il quarto trimestre quello che mostrerà finalmente un segno positivo. Si osservi che circa metà della crescita del PIL nel 2014 sarebbe assicurata dalla ricostituzione delle scorte, favorita dalle migliori prospettive dell’economia. L’altra componente rilevante della crescita sarebbero le esportazioni, in crescita lievissima nel 2013, ma rilevante negli anni successivi. Meno favorevole sarà l’andamento della domanda interna.
Il CER sottolinea la caduta dei consumi delle famiglie ancora nell’anno in corso (-2,2) e la debolezza della crescita nei successivi, dati il crollo del reddito disponibile delle famiglie. Con i consumi, nel 2013 continuerebbero a calare le importazioni, che aumenterebbero invece in seguito in conseguenza della ripresa.
Anche il CER, come Ref, lancia un allarme sull’andamento del reddito disponibile delle famiglie, aumentato in termini reali nel periodo pre-crisi (2000-2007) di quasi l’1% medio annuo, caduto negli anni 2008-2012 del 2% in media, atteso in ulteriore calo nell’anno in corso e nel prossimo biennio. Solo la Grecia, tra i paesi europei, mostra come l’Italia una caduta del reddito rispetto al 2000. Ancora più deludente appare l’andamento del reddito pro-capite.
Anche i consumi pubblici sono previsti in calo nel 2013 e, sia pure limitatamente, nel 2014, date le politiche di rigore imposte dalle regole europee. Gli investimenti si ridurrebbero di quasi il 7% nell’anno in corso, e riprenderebbero a crescere solo nel 2015.
L’aumento, sia pure limitato, dell’inflazione dipenderà dall’aumento dei prezzi delle materie prime e delle imposte indirette. Quanto all’occupazione, solo nel 2015 se ne arresterà la caduta, e comunque  resterà stagnante. Il Cer osserva che le imprese, soprattutto quelle medie e piccole, avevano rinviato i licenziamenti nei primi anni di crisi, sperando nella ripresa, ma con l’avvitamento dell’economia in una seconda recessione hanno dovuto ridurre l’occupazione, anche per le difficoltà di accesso al  credito.  Queste difficoltà si sono intensificate e si sono estese alle famiglie.
Il saldo corrente della bilancia dei pagamenti dovrebbe diventare positivo nel 2013, ma la sua successiva crescita sarebbe frenata dall’aumento delle importazioni. I rischi della previsione sono poi legati al rallentamento dei mercati emergenti e a un possibile apprezzamento dell’euro, che avrebbero conseguenze negative sulle esportazioni.
Il CER nota che l’attuale Governo sta cercando di “superare il “corto circuito” fra il controllo del bilancio e la tenuta del quadro economico” (CER, 2013, p.67), e dunque di far ripartire la domanda interna, pur mantenendo gli obiettivi di medio-lungo periodo di  indebitamento netto strutturale, e considera che l’uso di politiche anticicliche possa essere favorito dal nuovo orientamento europeo, favorevole ad un qualche allentamento dei vincoli: la Commissione Europea consente ora infatti deviazioni temporanee rispetto all'obiettivo di medio termine per realizzare  maggiori investimenti pubblici produttivi cofinanziati dall’Ue, purché si resti nel limite del 3% per il rapporto tra deficit e PIL, tranne che nel caso dei paesi con procedura di deficit eccessivo.
L’indebitamento netto secondo il CER arriverebbe tuttavia al 3,2% nel 2013, mentre i risultati sarebbero migliori nel biennio successivo, grazie alla ripresa. Il debito sfiorerebbe i 132 punti di PIL nell’anno in corso, anche a seguito del programma di pagamento dei debiti pregressi; in seguito calerebbe sotto il 130%.

4. Conclusioni
 
La serietà della crisi in corso è fuori discussione. La sua eccezionalità ha stimolato confronti con il passato,  anche lontano, perché nel dopoguerra non si sono verificati episodi altrettanto gravi. Secondo le analisi del CER (CER, 2013), se si eccettuano i periodi di guerra, la situazione odierna appare paragonabile solo ad altre due fasi della nostra storia, in cui il PIL non ha recuperato dopo sei anni i livelli precedenti: il 1866-1871 e il 1929-1935, ovvero le fasi che hanno seguito la terza guerra di Indipendenza e  la Grande Depressione negli Stati Uniti. Anche rispetto a questi casi, oggi i dati economici mostrano un quadro peggiore.
Le previsioni, in questa situazione, sono molto incerte, e comunque tendono a peccare di ottimismo, e sono state dunque continuamente modificate in senso peggiorativo. In parte, questi errori dipendono dalle difficoltà obiettive di anticipare gli avvenimenti quando gli andamenti sono così inusuali. In parte ha pesato una valutazione erronea degli effetti delle politiche intraprese: l’impatto delle politiche di austerità è stato più forte del previsto, mentre le cosiddette “riforme”, pur intraprese in Italia e in altri paesi, hanno probabilmente contribuito a fiaccare la domanda.
Vedremo nei prossimi mesi se le limitate misure espansive da poco avviate in Italia, e in particolare la restituzione dei debiti pregressi delle AP, avranno l’effetto auspicato. Su questo, come si è visto, il dibattito è aperto. Più in generale, gli scarsi spiragli che sembrano essersi aperti a Bruxelles nei confronti delle politiche anticicliche appaiono contrapposti alla permanenza di regole ferree sulla spesa, sui disavanzi e sui debiti che non sembrano essere messe seriamente in discussione. 
Mentre scriviamo, non sappiamo ancora se la timida ripresa che si è affacciata in Europa si rafforzerà e se coinvolgerà anche l’Italia.
I rischi sembrano oggi legati da un lato agli eventi internazionali – la gestione del fiscal cliff negli Stati Uniti e l’andamento dei paesi emergenti, sulla cui domanda  si fa molto affidamento per un traino dell’economia mondiale –, dall’altro lato alle debolezze del mercato del credito, che rischiano di renderlo impreparato anche a sostenere un’eventuale inversione del ciclo.
 
 
 
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[1] In precedenza infatti si era verificato un rapido aumento della leva finanziaria, accompagnato da una preoccupante sottovalutazione dei rischi: “Rispetto all’attività tradizionale di intermediazione bancaria ha finito per prevalere, in particolare negli Stati Uniti, l’attività di trasformazione dei prestiti in altri prodotti finanziari garantiti dagli stessi crediti, da offrire sul mercato attraverso il cosiddetto “sistema bancario ombra”, costituito da una rete di intermediari poco regolamentati, con alto leverage e con una esposizione al rischio ben superiore a quella delle banche.” (Visco, 2013).
[2] Gli Stati Uniti circa 1200 miliardi al netto delle restituzioni, che sono diventate rilevanti dalla fine del 2009, e l’Europa  1100 miliardi (MBRES Ufficio studi Mediobanca, 2012).
[3] L’aumento della domanda interna, sostenuto dal boom delle costruzioni, si è registrato soprattutto in Spagna, Irlanda e Grecia, mentre in Italia e Portogallo una domanda interna stagnante, nei primi anni dell’euro, deprimeva la crescita della produttività (Cesaratto, 2012).
[4] Sia consentito un rimando a Gabriele (2013), per una esposizione delle evidenze in proposito.
[5] Con immissione di fondi pari a 481 miliardi a dicembre 2011 e 530 a febbraio 2012 (Ministero dell’economia e delle finanze, 2013). Di questi  307 sono stati rimborsati nella prima metà del 2013 (Banca d’Italia, 2013).
[6] Dopo l’intervento del Presidente della BCE Mario Draghi alla Global Investment Conference di Londra del 26 luglio, il meccanismo di intervento è stato precisamente delineato in settembre dal Consiglio direttivo della BCE.
[7] Il FESF e il MES sono strumenti di sostegno volti ad assicurare la stabilità finanziaria, che subordinano l’assistenza ai paesi a condizioni rigorose, quali un programma di aggiustamento macroeconomico o un  programma precauzionale, con la possibilità di coinvolgere il FMI per il disegno della condizionalità specifica del paese e il monitoraggio del programma. E’ prevista anche la possibilità per il MES di ricapitalizzazione diretta degli istituti bancari, una volta stabilito un meccanismo di vigilanza unico (si veda la Dichiarazione del vertice della zona euro del 29 giugno 2012, European Council, 2012).
[8] “Le banche hanno impiegato la liquidità ottenuta dalla banca centrale per sostituire i finanziamenti in scadenza, impossibili da rinnovare sui mercati. Hanno altresì effettuato investimenti finanziari a breve termine, soprattutto in titoli di Stato, in previsione delle ulteriori, successive scadenze di passività. L’ingente immissione di liquidità ha preservato l’integrità del sistema finanziario, arrestando la tendenza alla segmentazione dei mercati lungo linee nazionali. I premi sui contratti per la copertura del rischio di credito (credit default swaps) relativi alle banche italiane e di altri paesi si sono ridimensionati.”, I. Visco, 2013, cit., p. 11-12. Possiamo osservare che acquistando titoli di stato le banche hanno potuto lucrare un significativo profitto dalla differenza tra il tasso di raccolta e quello, ben più alto, sui titoli di stato dei paesi sottoposti ad attacchi speculativi. Si ricorda che il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principali (quelle che forniscono la maggior parte della liquidità) previsto dalla BCE era pari all’1% a fine 2011, diventato poi lo 0,75% e di recente lo 0,50%.
[9] Avendo abbassato di due punti percentuali e mezzo le proprie previsioni del settembre precedente, in considerazione principalmente dell’aumento dei rendimenti dei debiti sovrani, degli effetti del delevaraging delle banche sull’economia reale e dell’impatto dell’ulteriore consolidamento fiscale annunciato dai governi dell’area euro (FMI, 2012a)
[10] Per l’area euro -0,3%, cioè -0,8 punti percentuali rispetto alle previsioni autunnali nel 2012, anche se veniva evidenziato un miglioramento delle condizioni rispetto alla fine del 2011 e si contava che si sarebbe potuta delineare una possibile stabilizzazione dei mercati finanziari (malgrado gli spread alti), anche grazie alle misure di ampliamento della liquidità attuate dalla BCE (European Commission, 2012).
[11] Si veda, per una rapida ma utile rassegna, Tancioni (2013).
[12] Malgrado il risultato delle elezioni in Italia e la crisi di Cipro.
[13] Ma il problema della politica fiscale statunitense continua a riproporsi, finché non si troveranno nuovi, tempestivi  accordi per alzare il tetto del debito (OCSE, 2013b).
[14] I dati di consuntivo sono tratti da ISTAT, 2013a, b.
[15] Con problemi soprattutto per le piccole e medie imprese (ISTAT, 2013b).
[16] Gli investimenti fissi lordi sono caduti dell’8,3% nel 2012.
[17] Si osservi che nel 2011 il reddito disponibile reale delle famiglie era inferiore del 5% rispetto al 2007 (ISTAT, Rapporto 2013).
[18] Per maggiori dettagli si veda ISTAT, 2013b.
[19] Contro il 123,4% indicato dal DEF 2012. Questi dati tengono conto del sostegno finanziario assicurato all’area euro (quota dei prestiti ESFS alla Grecia e dell’ESM).
[20] La Nota di aggiornamento del DEF dello scorso anno prevedeva una crescita del PIL fin dal primo trimestre del 2013, il DEF 2013 dal terzo.
[21] Lo spread era pari a 530 punti base a fine luglio 2012 ed è sceso a 255 a febbraio 2013.
[22] Tali pagamenti  contribuirebbero alla crescita per 0,1 punti di PIL nel 2013 e 0,5 nel 2014.

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