Introduzione al Capitolo II "Tendenze e problemi della legislazione regionale", in Camera dei deputati, Rapporto 2017-2018 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea.

 

1. Premessa

2. Lo scenario presente come chiave di lettura della differenziazione

3. La differenziazione territoriale e la formazione di un patto Stato-Regioni

 

 

1.   Premessa.

In ogni ordinamento complesso che conosce livelli diversi di governo i temi della differenziazione e dell’omogeneità costituiscono un metodo di osservazione della funzionalità del sistema.

Si sostiene che l’esistenza stessa di un ordinamento multilivello sia destinato a dare luogo a forme di differenziazione. Di conseguenza, la differenziazione, cui dà luogo il sistema multilivello, può avere un effetto virtuoso solo se risponde ad un grado di omogeneità dell’intero ordinamento.

Da questo punto di vista, l’ordinamento regionale italiano, che porta con sé i limiti storici dell’unificazione e quelli recenti dovuti al modo depressivo in cui sono stati affrontati i processi di internazionalizzazione dell’economia e di integrazione europea, può coniugare positivamente la differenziazione e l’omogeneità, solo se valorizza l’autonomia territoriale e realizza una migliore articolazione della democrazia secondo il principio di prossimità, richiedendo una più stringente divisione dei compiti tra i diversi livelli di governo.

Ciò sembra implicare che l’uniformità o l’unificazione di determinate regolazioni è necessaria solo a certe condizioni, ad esempio qualora realizzino delle economie di scala, e che le forti interdipendenze tra i livelli di governo, compresi quelli sovranazionali e internazionali, in conseguenza dell’apertura degli ordinamenti statuali, suggeriscono di mantenere il potere pubblico quanto più prossimo possibile ai cittadini, secondo i principi della sussidiarietà, realizzando il loro raccordo attraverso meccanismi collaborativi orizzontali e verticali, incentrati sulle relazioni intergovernative.

Il caso dello Stato regionale italiano sembra costituire un caso estremamente interessante per descrivere le tensioni che la differenziazione e l’omogeneità determinano, considerato che la sua affermazione si è innestata in un ordinamento che solo in tarda epoca ha conosciuto l’unificazione statuale, nel quale erano molto forti le entità preunitarie, le loro province e i comuni. Inoltre, lo Stato regionale è stato pensato in Assemblea costituente come una delle risposte al rafforzamento della democrazia e alla crescita della ricchezza nazionale attraverso la realizzazione di grandi riforme come quella agraria. Infine, la sua realizzazione è avvenuta in modo progressivo, passando attraverso diverse esperienze e momenti di decentramento legislativo e amministrativo, generando ogni volta, però, forti reazioni centralistiche condotte, essenzialmente, ad opera della burocrazia statale, cui peraltro non è mancato l’avallo autorevole della giurisprudenza costituzionale.

Nel caso italiano, peraltro, la differenziazione, prima ancora che giuridica, è sempre stata sociale, economica e territoriale, con una “questione meridionale” emersa prepotentemente all’inizio del XX secolo e continuata sino ad oggi con un andamento del divario che ripercorre lo stesso processo del regionalismo. La concessione dell’autonomia regionale speciale, ancor prima dell’approvazione della Costituzione repubblicana, infatti, era rivendicata da determinate parti del territorio nazionale, come una soluzione alla condizione storica di inferiorità sociale ed economica. La circostanza che questo tipo di autonomia, a distanza di oltre 70 anni, abbia dato risultati diversi per le regioni speciali del sud e per quelle del nord, mostra come non ogni forma di differenziazione sociale ed economica sia colmabile attraverso il principio di autonomia; anzi, in determinate condizioni, dove l’autonomia viene ridotta ad una forma di abbandono del centro, potrebbe comportare un aumento del divario e la crescita della disomogeneità, come è accaduto nel caso delle Regioni meridionali, a statuto ordinario e speciale, che nel panorama europeo sono rimaste le uniche regioni con un divario di sviluppo, rispetto alle altre aree europee c.d. “meno favorite”.

Bisogna aggiungere che nel recente passato nel sistema politico italiano era prevalsa l’idea di procedere ad una semplificazione dell’ordinamento istituzionale e amministrativo, motivato con la situazione della finanza pubblica e la sostenibilità economica dell’intero ordinamento. Si tratta di una tendenza, da tempo presente nel dibattito pubblico, in ragione anche della crisi economico-finanziaria, e nel cui ambito si collocano fenomeni molteplici e diversi, dalle privatizzazioni, alla semplificazione regolativa, alla riorganizzazione degli uffici pubblici, come i tribunali, le camere di commercio, le filiali della Banca d’Italia, i distretti militari, ecc.

Questa tendenza era stata teorizzata, anche dopo l’esaurirsi della crisi, come il fondamento di riforme che incidevano sulla democrazia, sulla rappresentanza e sul sistema territoriale e delle autonomie, con una forte centralizzazione del potere politico: dalla periferia al centro e dal Parlamento al Governo. L’intento di portare avanti una riforma costituzionale in questa direzione (DDLC Renzi-Boschi), con leggi di sistema come quella elettorale (legge n. 52 del 2015) e quella sul riordino delle province e dei comuni (legge n. 56 del 2014), però, è stata fermata dalla volontà popolare che nell’ambito della procedura di revisione è intervenuta con il referendum del 4 dicembre 2016, rigettando l’intero disegno. Successivamente, mentre per la legge elettorale la giurisprudenza costituzionale ha censurato quest’orientamento, con la sentenza n. 35 del 2017, sul riordino territoriale continua ad essere seguito dal giudice delle leggi una posizione poco favorevole alle autonomie territoriali (v. la sentenza n. 168 del 2018 sulla legge siciliana sui liberi consorzi dei comuni).

Resta il fatto che all’esito del risultato referendario il regionalismo italiano si è subito rimesso in moto; segno evidente del suo ormai profondo radicamento nel tessuto istituzionale e sociale e, soprattutto, della sua vitalità politica. Le richieste di autonomia differenziata, promosse, a norma dell’art. 116, comma 3, Cost., dalle Regioni Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia, e il dibattito sulla revisione dello Statuto del Trentino-Alto Adige hanno trovato subito un terreno fertile in ambito regionale. Tant’è che ormai, sia nelle Regioni a Statuto ordinario e sia in quelle a Statuto speciale, il tema della ricerca di differenziazione e della revisione della specialità – almeno negli intenti – appare acquisito al dibattito politico regionale.

Le condizioni di finanza pubblica, tuttavia, che hanno sinora impedito l’applicazione del decreto legislativo sul federalismo fiscale, cui la differenziazione appare strettamente connessa, sembrano ostacolare di fatto che si vada verso un modello di regionalismo più evoluto.

A tal riguardo, quello che sembra mancare è la cognizione della concreta praticabilità del regionalismo differenziato, così come disegnato dalla Costituzione, in termini istituzionali, legislativi e amministrativi, e in particolare in quelli economico-finanziari, in relazione tanto alla sostenibilità dei poteri trasferiti, quanto a quella dei compiti propri dello Stato centrale, soprattutto – dal punto di vista interno – sul terreno della perequazione territoriale e delle politiche di carattere generale. Il timore, che spinge “a non concedere”, è la tenuta dell’ordinamento nel suo complesso. Invero, non solo è possibile mantenere una unità sostanziale dell’ordinamento della Repubblica promuovendo le autonomie territoriali, ma sarebbe possibile assicurare una crescita economica e sociale di tutto il Paese, consentendo alle Regioni del nord di realizzare in autonomia passi in avanti in termini di crescita e competitività e alle Regioni del sud di uscire dalla condizione di aree meno favorite. Un regionalismo differenziato, infatti, comporta una maggiore responsabilità da parte di tutti i soggetti politici della Repubblica: la classe politica nazionale, quella delle regioni settentrionali e quella delle regioni meridionali. Ognuna di queste sarebbe chiamata a svolgere compiti nell’interesse del proprio territorio e nell’interesse di tutto il Paese.

Ciò pone il problema di una codificazione dei comportamenti differente a seconda delle condizioni di ogni regione e una flessibilità particolare per il sistema statuale, che la teoria dell’uniformità o della unificazione non sarebbe in grado di soddisfare. Lo Stato regionalizzato non è semplicemente uno Stato che prevede le Regioni, ma molto più uno Stato che tiene conto delle Regioni e sa adattarsi alla loro molteplice presenza.

 

2. Lo scenario presente come chiave di lettura della differenziazione.

Dopo le vicende legate alla crisi e alla riforma costituzionale il tema della differenziazione, perciò, dovrebbe essere trattato in modo diverso dal passato; soprattutto con riferimento alle Regioni a Statuto speciale, ma anche alla luce di quanto sta emergendo in questa fase con le proposte di asimmetria delle regioni ordinarie e, in particolare, del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna.

In un contesto simile non ci si può limitare più al tema della rincorsa tra regioni ordinarie e speciali così come a quello dell’attuazione delle disposizioni statutarie sulle competenze, attraverso le negoziazioni in seno alle commissioni paritetiche. Un modello, questo, legato all’avvio dell’istituto regionale, ma che a distanza di oltre 70 anni, si appalesa come un sistema di negoziazione molto debole, con riferimento alla realizzazione delle politiche pubbliche.

Per prima cosa bisogna avere la consapevolezza che siamo in un contesto diverso da quello del 1946/48, anni in cui furono scritti gli Statuti speciali, ma anche del 1970, quando furono attivate le Regioni ordinarie, del 2001, quando fu varata la revisione del Titolo V, e perfino in un contesto diverso da quello con il quale si è andati al voto referendario sulla riforma costituzionale il 4 dicembre del 2016.

Nell’attuale condizione storica gli elementi di determinazione del contesto italiano ed europeo sono dati, da un lato, dalla crisi della democrazia rappresentativa e dalle trasformazioni dei sistemi politici nazionali, anche nel contesto europeo, e, dall’altro, dalle opportunità per i territori offerti dall’internazionalizzazione dell’economia.

Le potestà di governo europeo, statale e regionale, nonostante tutte le differenze costituzionali esistenti e le interpretazioni possibili, ora legate ai Trattati, ora alla Costituzione, si pongono tutte le une di fronte alle altre, legate tra loro da una stretta interdipendenza. Gli interessi rappresentati dai diversi livelli di governo, infatti, sono al contempo distinti e correlati e insistono tutti sui medesimi campi materiali, anche se la competenza generale formalmente appartiene alle Regioni, in forza della clausola di residualità e delle specifiche enumerazioni che caratterizzano la competenza europea e quella statale. In realtà, il complesso problema del riparto delle competenze risente della circostanza che la distribuzione dei poteri tra i diversi livelli non è di tipo federale sia nel caso dell’Unione europea e sia in quello delle Regioni e che lo Stato detiene sempre una eccedenza di poteri, non solo con riferimento alla giurisdizione e alla finanza pubblica, ma anche nell’esercizio di poteri nei confronti dell’Unione europea e delle Regioni, nonostante subisca una forte limitazione nella disciplina delle politiche pubbliche da parte europea e realizzi queste politiche non più direttamente, ma grazie all’intervento del livello regionale e locale.

Noi definiamo, un po’ ideologicamente, sovraniste le tesi di chi vuole fare prevalere i governi nazionali rispetto a quello europeo ed europeiste le tesi opposte; chiamiamo centraliste le posizioni che si affidano al potere di unificazione statale e autonomiste/regionaliste quelle di chi vuole accentuare il decentramento in nome, appunto, del principio di differenziazione.

L’interpretazione del riparto delle competenze in concreto è uno dei punti da cui partire per la comprensione della domanda di differenziazione che i meccanismi di specialità e asimmetria cercano di soddisfare e su questo tema si innesca anche la questione del modo in cui la finanza pubblica interagisce con i territori, sia al momento del prelievo dei tributi, sia a quello della spesa pubblica.

Distribuzione delle competenze e delle risorse finanziarie sono strettamente connesse, le competenze non vivono in una dimensione astratta, ma sono destinate a diventare atti legislativi prima e di amministrazione dopo e richiedono, per diventare un fattore della vita sociale una spesa pubblica che richiede il reperimento delle risorse. Da questo punto di vista, è corretto definire il bilancio pubblico come lo specchio del riparto delle competenze attive e vitali. Una competenza attribuita, ma non finanziata non può essere esercitata; e una competenza non esercitata non può essere fonte di norme o fondamento di funzioni amministrative.

L’esistenza di una finanza centralizzata, in cui il potere di imposizione e di riscossione dei tributi, così come quello di distribuzione delle risorse finanziarie è nelle mani dello Stato, consente di determinare l’esercizio dei poteri normativi e di quelli amministrativi da parte delle Regioni e delle autonomie territoriali. Da questo punto di vista l’autonomia organizzativa, quella normativa e amministrativa possono aspirare ad essere tali e comportare un esercizio del potere in modo responsabile solo se sussiste una autentica autonomia finanziaria, che consente di considerare i territori dal punto di vista della capacità fiscale.

Ora, l’autonomia finanziaria passa attraverso la distribuzione delle basi imponibili tra i diversi livelli di governo e la possibilità di poterle gestire sia nell’aliquota e sia nella riscossione, potendo determinare anche la spesa delle risorse acquisite.

Perciò, una finanza centralizzata, anche quando assicura una distribuzione ugualitaria delle risorse finanziarie, non solo non realizza il principio autonomista, ma soprattutto limita le potenzialità di crescita economica, sociale e civile insite nell’autonomia territoriale. Una finanza legata ai territori, invece, potrebbe risentire della notevole differente capacità fiscale che questi hanno a causa del divario territoriale.

In un contesto simile, pertanto, nozioni come responsabilità, perequazione e solidarietà territoriale sono essenziali per creare un punto di equilibrio tra regioni con uno sviluppo economico avanzato e regioni arretrate e ciò riporta nuovamente la riflessione ad una flessibilità dello Stato regionalizzato che deve considerare diversamente e diversamente agire dal punto di vista della distribuzione e della gestione delle risorse finanziarie, a seconda delle caratteristiche regionali considerate.

Ciò che lo Stato non può giustificare è che in nome del divario territoriale si mantenga il centralismo finanziario, perché una simile scelta aumenterebbe l’inefficienza dei territori, ma anche dell’amministrazione centrale.

La scienza statistica calcola ogni indicatore economico, di qualità e di benessere per ogni livello territoriale, da quello comunale, a quello provinciale e regionale, così come da quello statale a quello europeo. Questa circostanza dà forza ai territori che presentano indicatori positivi e indica la debolezza di quelli i cui dati non sono buoni e che tendenzialmente non hanno la prospettiva di avere un miglioramento, quanto meno, a breve termine.

Dunque, se sono condivise le indicazioni istituzionali, richiamate molto in breve, sul contesto in cui attualmente si colloca il regionalismo italiano, possiamo già avere una chiave di lettura della differenziazione. Infatti, non è la differenziazione istituzionale che genera la differenziazione reale, in posizione di crescita, o che da una differenziazione negativa conduce a un’uniformità positiva, come nel caso delle regioni sottosviluppate o in transizione, ma – al contrario – è la differenziazione reale positiva e negativa che richiede ormai un adeguamento istituzionale.

Se si segue questa lettura realistica dei dati regionali, risulta evidente il modo in cui le diverse problematiche relative alle politiche pubbliche, all’uso delle risorse e alle decisioni di ordine politico istituzionale possono essere affrontate e a quali strumenti normativi occorre fare riferimento, tenendo conto che nella condizione presente il dato fattuale, economico-sociale, sopravanza il dato giuridico.

Si possono fare alcuni esempi significativi che attengono al flusso migratorio interno ed esterno e in particolare a quello dei giovani: il 25% del flusso migratorio interno, dal sud alle regioni del centro-nord riguarda giovani con una qualificazione medio-alta (laurea o titolo superiore). Era il 5% nel 1980. Nelle università del centro-nord i giovani meridionali sono il 22% nel primo ciclo e il 38% nelle lauree magistrali. L’80% di questi non fa ritorno nelle regioni di origine.

Il costo di questo flusso, per il mezzogiorno, in termini di perdita delle esternalità derivanti dall’investimento in istruzione è stato calcolato per il periodo tra il 2000 e il 2015 in oltre 30 miliardi, all’incirca 1,8 miliardi all’anno, che le Regioni meridionali spostano verso il centro-nord.

Allo stesso modo il sistema Italia perde il 25% all’anno di ogni classe di età, in termini di emigrazione verso gli altri Paesi europei ed extra-Ue; oltre 100.000 quasi tutti giovani in massima parte qualificati con laurea e titoli superiori, spesso attratti dalla ricerca scientifica. Anche in questo caso i costi sono alti superano il miliardo di euro.

È evidente che non esistono flussi migratori inversi, dall’Europa e dai Paesi extra Ue ricchi. Anche quelli che arrivano dai paesi poveri in modo regolare o irregolare non compensano il flusso interno.

Siamo di fronte alla più importante politica pubblica: quella del capitale umano che è un fattore importante dello sviluppo, prodotto dal sistema della formazione scolastica e universitaria.

A chi spetta la politica del capitale umano? Si tratta di una politica statale, regionale, o europea? Quali sono le materie che intervengono in questa politica? Come devono essere gestite le competenze? Per le regioni speciali sono sufficienti gli statuti attuali con il rituale delle norme di attuazione? Per le regioni ordinarie sarà sufficiente il Titolo V e l’asimmetria che questo consente?

Questo è solo un esempio che può essere ripetuto per tutte le politiche pubbliche, per le quali con molta probabilità riscontreremmo un dualismo Nord/Sud: salute, lavoro, attività d’impresa, ecc.; anche se non mancano politiche pubbliche che tendono all’uniformità o, addirittura, che appaiono in controtendenza come l’agricoltura e il turismo.

 

3. La differenziazione territoriale e la formazione di un patto Stato-Regioni.

La globalizzazione e la crisi hanno messo a dura prova le società occidentali, innescando flussi in direzione diversa sia del capitale, che del lavoro. Territori ricchi e territori poveri hanno accentuato le loro caratteristiche.

La differenziazione istituzionale, soprattutto quella derivante dalla specialità, ma anche quella della clausola di asimmetria, va considerata come una opportunità che viene data alla classe politica territoriale e che consente a questa di soddisfare meglio le esigenze delle popolazioni, al posto dello Stato, limitando gli svantaggi della globalizzazione.

Ovviamente, non tutte le Regioni sono nella medesima condizione, perché altrimenti il divario stesso sarebbe risolto, o contenuto entro limiti tali da non inficiare l’omogeneità territoriale. Infatti, per le Regioni in situazione di svantaggio specialità e asimmetria potrebbero non solo non essere risolutive, ma determinare un ulteriore arretramento, soprattutto se le politiche perequative statali e quelle di coesione sociale, legate all’utilizzo dei fondi europei, non vengono accompagnate sul piano strategico nella realizzazione delle politiche pubbliche.

Le istituzioni statali dovrebbero essere in grado di dare risposte efficaci a questa situazione di divario territoriale adottando un modello organizzativo articolato attraverso la differenziazione, cioè un’articolazione del potere in ragione sufficiente al problema che si affronta: occorre che lo Stato sia più presente al Sud e promuovi il ruolo degli enti territoriali verso una piena autonomia e sia presente al Nord in misura adeguata da consentire alle regioni e alle autonomie locali di utilizzare appieno il principio autonomista.

In tal senso, la domanda di asimmetria o di specialità va considerata in chiave di prossimità e sussidiarietà. La richiesta di maggiori poteri legislativi e amministrativi dipende direttamente dalla condizione in cui versa un determinato territorio regionale, con cui lo Stato deve essere in condizione di rapportarsi in modo flessibile e diversificato.

Altrimenti detto, va superata la condizione presente nella quale abbiamo troppo Stato per le regioni del nord e troppo poco Stato per quelle meridionali e il superamento di questa condizione determinata dal divario territoriale e dall’uniformità che ispira la condotta dello Stato richiede un patto tra lo Stato le Regioni del nord e quelle del sud che comporti, grazie ad una distribuzione asimmetrica dei poteri e al ruolo flessibile dello Stato, un’assunzione di responsabilità in modo da fare convergere l’ordinamento generale verso una condizione di maggiore omogeneità.

L’idea di accordi tra istituzioni come tra livelli di governo diversi non sorprende più; anzi questo tipo di negoziazioni sembra essere diventato il proprium degli stati contemporanei. Nel caso italiano l’idea di un patto nazionale tra le regioni e lo Stato con una collocazione anche per le regioni meridionali dovrebbe prevedere un modo diverso e nuovo di realizzare le politiche pubbliche, compresa quella della coesione territoriale e della perequazione. Infatti, un simile accordo dovrebbe prevedere non solo una redistribuzione delle risorse a favore dei territori svantaggiati, ma un piano strategico che ricomprenda un programma di investimenti e sviluppo, frutto di scelte concordate con le regioni e con lo Stato, comprensivo di particolari settori come energia, logistica, viabilità, trasporti, ecc.. Inoltre, la gestione di un simile piano dovrebbe essere affidata ad un network tra i livelli di governo in grado di realizzare una condizione di attrattività per gli investimenti e di consentire un miglior uso delle diverse risorse, a partire dal know-how, fondato sulla partecipazione dei diversi livelli, in cui, accanto al rispetto del ruolo politico di ogni comunità, si affermi il principio di responsabilità delle comunità stesse per lo sviluppo del loro territorio e del Paese.

 

 

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