Gianliborio MAZZOLA, Autonomia regionale: da sviluppare o da ridimensionare? (marzo 2018)
2. L’autonomia regionale e la riforma costituzionale Renzi – Boschi
3. L’ articolo 116 – 3° comma della Costituzione: la genesi e tentativi di attuarlo
6. Alcuni chiarimenti sull’articolo 116- terzo comma della Costituzione
7. Competenze legislative trasferibili in tema di autonomia differenziata
8. Residui fiscali: dati reali ed ipotetici
9. Stime dei residui fiscali delle diverse Regioni italiane
10. Sviluppo del negoziato fra Regioni e Governo Nazionale
11. Accordi Preliminari fra lo Stato e le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto per la
L’autonomia regionale ha sempre provocato in Italia ampi dibattiti fin dai tempi dell’Assemblea Costituente. In tale ambito, si sviluppò una vasta discussione, sia in sede di Commissione dei 75 sia nell’ambito dell’ Assemblea plenaria, sull’opportunità di istituire, all’interno della nuova Costituzione, le Regioni. In particolare ci si confrontò lungamente sulle funzioni da attribuire alle nuove Regioni: dotarle di autonomia politica e conseguenzialmente di potere legislativo oppure limitarsi a considerare i nuovi enti come organi esecutivi dello Stato e quindi semplicemente di carattere amministrativo? Dopo un confronto serrato si optò per la prima volta per assegnare alle Regioni una, seppur ridotta, autonomia politica.
E’ opportuno ricordare che il sentimento regionalistico non è mai stato particolarmente presente nell’animo degli italiani; presso altri popoli, come i tedeschi o gli americani, lo spirito autonomistico dei diversi territori è particolarmente sentito, tanto che le Costituzioni dei rispettivi Paesi hanno natura federale. In Italia, i cittadini hanno spesso preferito affidarsi allo Stato per la gestione della società a livello nazionale ed ai comuni per le vicende locali, non sentendo la necessità di un ente intermedio fra il Comune e lo Stato.
L’introduzione delle Regioni come enti dotati di autonoma potestà legislativa nella Costituzione italiana è da attribuire all’illuminata visione di alcuni componenti dell’Assemblea Costituente, come Ambrosini, che, riprendendo alcune tradizioni culturali, ad esempio il popolarismo sturziano, oltre alla struttura costituzionale di alcuni Paesi ( es: Germania), dopo accesi confronti in sede di Assemblea Costituente, riuscirono ad introdurre nella Costituzione Repubblicana l’ente Regione, come organismo dotato di autonomia politica e quindi legislativa, oltre che di poteri amministrativi.
Le Regioni, peraltro, non furono certamente ben “accolte” dai vertici dell’amministrazione pubblica nazionale insediatisi dopo la ricostituzione dello Stato democratico e repubblicano.
L’amministrazione statale difese l’unitarietà dello Stato che, secondo alcuni, avrebbe potuto essere messa in crisi dalla realizzazione delle Regioni ordinarie. Sostenevano che il potere legislativo regionale previsto dal Titolo V della Costituzione avrebbe potuto “frammentare” il potere normativo in Italia; si sarebbero potute generare grosse differenze fra le leggi delle diverse Regioni, inficiando l’unitarietà normativa statale. Ai vertici dell’amministrazione nazionale - ovviamente e soprattutto - interessava l’eventuale “perdita di potere amministrativo” con il relativo trasferimento dei fondi in sede territoriale come conseguenza dell’ eventuale costituzione delle Regioni.
Alle resistenze di carattere amministrativo si aggiunse gran parte della dottrina costituzionalista dominante che spesso, con una lettura “forzata” dell’articolo 5 della Costituzione, privilegiò la dimensione unitaria dello Stato; i partiti e le organizzazioni sociali peraltro si strutturarono favorendo la dimensione nazionale, come d’altronde fecero le strutture sanitarie e sociali.
Queste motivazioni portarono alla mancata effettiva istituzione delle Regioni ordinarie fino al 1970, ossia oltre venti anni dall’entrata in vigore della nuova Costituzione. Durante tale periodo, vi furono soltanto le Regioni speciali: Sicilia, Valle d’Aosta, Sardegna, Trentino Alto-Adige, Friuli Venezia Giulia, oltre alle Province Autonome di Trento e Bolzano.
Qualcuno di questi enti fu riconosciuto addirittura dallo Stato prima dell’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana. Fu necessario concedere l’autonomia in alcuni territori (es: Sicilia e Trentino Alto-Adige) per “intercettare” movimenti autonomistici diventati molto forti dopo la conclusione della guerra. Comunque anche le Regioni speciali furono dotate di molte competenze solo “teoriche” perché lo Stato si rifiutò di trasferire loro diverse potestà di carattere legislativo nonostante quest’ultime fossero previste dagli Statuti speciali aventi rilevanza costituzionale.
L’istituzione delle Regioni ordinarie nel 1970 (dopo aver scontato alcune rivolte campanilistiche come quella di Reggio Calabria) sembrò dare nuovo slancio al regionalismo italiano, attuando una parte importante della Costituzione: il Titolo V.
Ben presto però ci si rese conto che le resistenze antecedenti non erano superate e la burocrazia nazionale concretamente evitò che molti poteri, sia legislativi che amministrativi, teoricamente attribuiti alle Regioni fossero effettivamente trasferiti. Queste continue difficoltà certamente non permisero alle Regioni ordinarie di avviare l’attività con adeguata prontezza e stabilità.
Molte Regioni, conformemente a quanto fatto da diverse Regioni speciali, adottarono un modello di amministrazione che cercava di riprodurre nell’ambito regionale quanto realizzato a livello statale, duplicando pregi e difetti della struttura centrale. Fu trascurata la Regione come ente di legislazione e di programmazione degli interventi sul territorio da far realizzare tendenzialmente agli enti locali, così com’era delineata dal Costituente.
Spesso le resistenze ad una compiuta realizzazione delle Regioni trovarono un “valido aiuto” in molta giurisprudenza costituzionale. La Corte Costituzionale in numerose sentenze di quegli anni ritenne valide le resistenze opposte dallo Stato al trasferimento delle competenze e dei poteri alle Regioni, probabilmente influenzata da gran parte della dottrina costituzionale italiana che non si era mai identificata con la prospettiva della realizzazione di uno Stato regionale in Italia.
Alla fine degli anni ‘90 emersero prepotentemente in alcune Regioni soprattutto del Nord forti movimenti autonomisti ( es: Lega Nord, Liga Veneta etc.), ottenendo significativi risultati elettorali. Posero prepotentemente il problema del Nord sostenendo che alle Regioni settentrionali erano sottratte risorse prodotte nelle aree continentali per trasferirle in parti considerevoli alle Regioni meridionali “dove erano distrutte in modo clientelare producendo , fra l’altro, finta occupazione”. In questo modo si rompeva il patto economico che aveva retto l’Italia fin a quel momento basato sul tacito accordo di una redistribuzione fra le persone e le diverse categorie produttive (es: si sviluppò la nota polemica fra imprenditori, commercianti, liberi professionisti considerati produttivi e pubblici dipendenti catalogati come improduttivi).
Si fingeva di non sapere che il Nord produttivo (favorito anche dalla vicinanza con i mercati internazionali e da migliori condizioni climatiche) vendeva beni e servizi al Sud arretrato, ricevendone in cambio ingenti trasferimenti di risorse. Si contestava altresì allo Stato centrale di avere investito notevoli somme per lo sviluppo del Mezzogiorno (con la creazione anche di appositi organismi es: Ministero per il Mezzogiorno, Cassa per il Mezzogiorno); tali investimenti statali tuttavia si erano dispersi in mille “rivoli” senza creare un effettivo progresso delle Regioni meridionali.
E’ bene comunque ricordare che nel 1994 la nascita di nuove forze politiche (es: Forza Italia, Lega Nord etc.) fu la conseguenza della crisi dei Partiti tradizionali (es: Democrazia Cristiana, Partito Socialista etc.), “strettamente connessa all’esplosione di tangentopoli”. In precedenza le grandi organizzazioni politiche mediavano al loro interno fra categorie economiche, istanze ed esigenze dei diversi territori. I Governi che si succedettero in quegli anni realizzavano sintesi politiche anche se frequentemente si faceva ricorso ad incrementi della spesa pubblica con impegni finanziari ricadenti sulle future generazioni.
Per rispondere alle istanze dei movimenti autonomistici ed in prossimità delle elezioni politiche nazionali, nel 2001 il centro-sinistra, a maggioranza, procedette alla revisione del Titolo V della Costituzione, cercando di esaltare il ruolo delle Regioni, pesantemente ridimensionato negli anni precedenti dalle scelte legislativo-burocratiche operate nazionalmente ed anche da una consistente giurisprudenza costituzionale.
Con il nuovo articolo 114, è stato stabilito che la Repubblica è costituita parimenti dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, e inoltre, nel confermare le Regioni speciali con le rispettive competenze, si sancì che le Regioni ordinarie potessero richiedere “ ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (articolo 116, 3° comma).
Per quanto concerne le competenze legislative si invertì il criterio seguito nella precedente formulazione del Titolo V. Nel “nuovo” testo costituzionale si indicarono “tassativamente” le materie di competenza statale mentre le Regioni divennero titolari di tutti quei settori normativi non espressamente attribuiti allo Stato (articolo 117).
Dal nuovo testo del Titolo V scomparve formalmente il concetto di “interesse nazionale” mentre con l’articolo 119 si modificarono le norme costituzionali in tema di autonomia finanziaria di entrata e di spesa riguardanti le Regioni, le Province, le Città metropolitane ed i Comuni. Il nuovo articolo 119 prefigurò il federalismo fiscale che fu, successivamente, precisato e sviluppato con la legge 42/2009. Con la nuova formulazione dell’articolo 120 si specificò il principio della “ leale collaborazione” fra gli enti costitutivi della Repubblica.
La revisione del Titolo V si rese necessaria essendosi realizzato il “degrado dell’autonomia legislativa; in molti casi le Regioni erano state private della capacità di creare un nuovo diritto essendo sottoposte incondizionatamente alla legislazione statale ordinaria” (Paladin). Le modifiche costituzionali del 2001 innovarono profondamente il quadro istituzionale in materia di competenze e di organizzazione.
Tuttavia, ad oltre quindici anni dalla sua approvazione v’è il sospetto che il legislatore di riforma costituzionale, anche per la “fretta e lo scarso approfondimento” con cui predispose tale riforma, abbia prodotto norme che si sono rivelate delle “ scatole vuote” che non hanno trovato applicazione.
In numerose sentenze la Corte Costituzionale ha invocato ripetutamente il “principio unitario” a tutela dell’unità giuridica ed economica del Paese. Soltanto facendo prevalere l’interpretazione “unitaria” ,ai sensi dell’articolo 5 della Costituzione, a giudizio di molti esperti e secondo la Corte Costituzionale, si poteva salvaguardare l’integrità del Paese. Il limite dell’ ”interesse nazionale”, previsto nella precedente formulazione, pur essendo formalmente abrogato dal nuovo Titolo V, nella prassi è stato ripristinato.
Peraltro la riforma del Titolo V del 2001 lasciò molte previsioni costituzionali “indeterminate se non contraddittorie”, fra l’altro, in tema di competenze legislative, di autonomia finanziaria degli enti territoriali, di rapporti fra le amministrazioni statali e degli enti territoriali, in primo luogo regionali.
E’ stato, dunque, facile per gli oppositori dell’autonomia regionale non realizzare le “novità” che pure erano presenti nella nuova formulazione del Titolo V ed anzi con il passare degli anni si è “accusata” la riforma costituzionale del 2001 di generare confusione fra le legislazioni statali e regionali ; tutto ciò sarebbe dimostrato anche dal notevole incremento del contenzioso costituzionale in tema di rapporti Stato – Regioni.
In questo quadro, non certo esaltante per l’autonomia regionale, si inserì la proposta di riforma costituzionale Renzi – Boschi respinta dal referendum costituzionale del 4 Dicembre 2016.
2. L’autonomia regionale e la riforma costituzionale Renzi – Boschi
La proposta di riforma costituzionale Renzi-Boschi certamente partiva da un giudizio negativo sull’autonomia regionale. Abbastanza apertamente, gli stessi autori sostenevano che una delle maggiori cause del “mancato funzionamento” del sistema politico italiano fosse da attribuire all’ ”eccessivo” potere legislativo concesso alle Regioni dalla riforma del Titolo V del 2001.
I proponenti delle modifiche costituzionali, pertanto – oltre ad abolire il bicameralismo perfetto sostituendo il Senato con una Camera delle Regioni con poteri limitati – intendevano ridurre la potestà legislativa delle Regioni ordinarie (che “tanta confusione” avrebbe generato nel sistema istituzionale italiano) mediante “radicali” modifiche del Titolo V innovato nel 2001.
Conformemente al giudizio di molti esperti e di diversi commentatori politici, si riteneva che il Titolo V nella nuova formulazione fosse “ confuso e contraddittorio” e pertanto fosse stato la causa del ricorrente contenzioso costituzionale fra Stato e Regioni che, a giudizio dei proponenti, aveva “ paralizzato” l’attività legislativa sia statale che regionale, generando lentezze e ritardi nell’adozione di decisioni rapide ed essenziali in un sistema economico globalizzato.
In base a tali premesse, la riforma costituzionale Renzi – Boschi in primo luogo intendeva abolire la potestà legislativa concorrente delle Regioni ordinarie ( articolo 117- 3° comma) considerata fra le principali cause della confusione normativa.
Molte delle materie rientranti nella potestà concorrente venivano ritrasferite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. A tutto ciò si aggiungeva che in altri ambiti normativi lo Stato avrebbe dovuto dettare “norme generali e comuni” o “disposizioni di principio”, lasciando alla legislazione regionale gli interventi riguardanti i rispettivi territori sempre nel rispetto del quadro normativo nazionale.
La riforma Renzi – Boschi prevedeva altresì la “clausola di supremazia”: qualsiasi materia di competenza regionale poteva rientrare nella competenza esclusiva statale” qualora lo richiedesse la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.
Se tutto ciò non bastasse il testo Boschi-Renzi reintroduceva altresì gli “interessi nazionali”, formalmente soppressi dalla riforma del Titolo V del 2001, anche se successivamente “richiamati” da una consistente giurisprudenza costituzionale.
La riforma costituzionale è stata “respinta” dal referendum del 4 Dicembre 2016; ciononostante, è opportuno soffermarsi su alcune “impostazioni sottostanti” alle proposte di modifica respinte dagli elettori.
Vi era, in primo luogo, una forte critica nei confronti della potestà legislativa regionale ed in particolare della sua utilizzazione. E’ opportuno ribadire che l’ente Regione, fin dalla sua istituzione, non è stato ben accolto dal potere legislativo- burocratico- culturale dominante a livello nazionale. In molti avrebbero ben visto le Regioni come un “ grande ente locale” destinato ad attuare la legislazione nazionale ed a realizzare nei rispettivi territori le scelte amministrative adottate centralmente.
Conseguenzialmente, la potestà legislativa regionale è stata “guardata con sospetto” e le scelte legislative regionali sono state spesso oggetto di contestazioni da parte del Governo nazionale presso la Corte Costituzionale. Il contenzioso costituzionale si è certamente incrementato dopo l’entrata in vigore della riforma del Titolo V del 2001 anche per l’”equivocità e l’indeterminatezza” di molte scelte normative del Costituente del 2001 ; tuttavia il conflitto Stato-Regioni ha avuto un andamento ciclico, raggiungendo “numeri” consistenti in alcuni anni ridottisi negli anni successivi.
La Corte Costituzionale, comunque, in questo quindicennio ha frequentemente accolto le contestazioni del Governo nazionale alla legislazione regionale. La giurisprudenza della Corte è stata “particolarmente favorevole” alla normativa nazionale anche in questi ultimi anni in cui il legislatore statale ha spesso approvato norme poco rispettose delle competenze delle Regioni, giustificandole con le scelte di politica economica dettate a livello europeo ed attuate in sede nazionale nel tentativo di fronteggiare la crisi economica mondiale successiva al 2008.
La Corte Costituzionale mediante numerose sentenze ha avallato la “svolta centralista” della legislazione statale, giustificandola con la necessità del coordinamento delle scelte in tema di finanza pubblica. E’ evidente che fra l’altro non ha trovato attuazione la legge 42/2009 che intendeva realizzare in Italia una qualche forma di federalismo fiscale.
Per le scelte operate nel periodo 2001-2016 le Regioni avevano avuto un ruolo limitato e ben differente da quello delineato dalla riforma del Titolo V del 2001. Nonostante tutto ciò, gli estensori della riforma Renzi-Boschi volevano trasformare le Regioni in un grande ente locale che in qualche modo avrebbero dovuto sostituire le Province che si volevano abolire. La potestà legislativa regionale sarebbe stata fortemente ridimensionata e molte competenze legislative sarebbero state trasferite o ritrasferite allo Stato.
I proponenti erano convinti che avrebbero eliminato la “confusione normativa” che, a loro giudizio, era stata la causa del notevole contenzioso costituzionale. Esaminando attentamente la distribuzione delle materie, si notava spesso sovrapposizioni di argomenti e di ambiti di intervento. V’era poi il rischio che la “tanto criticata” competenza concorrente che si intendeva abolire con la riforma si riproponesse sotto forme “mascherate” e la Corte Costituzionale avrebbe continuato a svolgere il ruolo di “supplenza” in sede di risoluzione dei conflitti fra Stato e Regioni.
E’ opportuno notare che se la divisione delle competenze legislative fra Stato e Regioni, come prevedeva la riforma, fosse avvenuta in base ad una elencazione di materie, sarebbe rimasto ampio “spazio” ai conflitti costituzionali ed alle relative sentenze della Corte Costituzionale.
Le Regioni devono essere considerate enti dotati di autonomia politica come ha voluto il Costituente. Le Regioni non sono da considerare qualcosa di estraneo al potere statale ma organismi che svolgono compiti ed esercitano poteri statali; lo Stato si dovrebbe occupare degli “interessi nazionali” tramite la legislazione nazionale di principio mentre le Regioni dovrebbero realizzare i compiti statali nei rispettivi territori mediante la legislazione regionale.
3. L’ articolo 116 – 3° comma della Costituzione: la genesi e tentativi di attuarlo
Dopo l’esito negativo del referendum costituzionale sulla riforma Renzi-Boschi, inaspettatamente, da parte di due Regioni del Nord (Veneto, Lombardia) sono stati indetti referendum consultivi per chiedere alle popolazioni interessate l’autorizzazione ad avviare la trattativa con lo Stato per la concessione dell’autonomia ai sensi dell’articolo 116- 3° comma della Costituzione.
Un’ altra Regione del Nord, l’ Emilia – Romagna, senza ricorrere ad alcun referendum ( d’altronde i referendum in questa fattispecie sono facoltativi e consultivi) ha proposto una piattaforma di richieste della Regione per l’attuazione dell’articolo 116 – 3° comma mentre il Piemonte ha dichiarato di concordare con l’opportunità di attuare la normativa dell’articolo 116 – 3° comma .
E’ opportuno ricordare brevemente i motivi che portarono nel 2001 all’approvazione della “ clausola di asimmetria” concretizzatasi nel 3° comma dell’articolo 116 della Costituzione. Tale disposizione costituzionale “nasceva dall’intento di non espandere il novero delle Regioni speciali, come avrebbe voluto la Lega per il Veneto e per la Lombardia (…). Si affermò l’intento di consentire a tutte le Regioni ordinarie di ottenere “forme e condizioni particolari di autonomia”, nelle tre materie di competenza esclusiva statale cui il comma 3 dell’articolo 116 fa rinvio e nelle materie della competenza concorrente”.( Mangiameli – Audizione del 29 Novembre 2017 presso la Commissione parlamentare per le questioni pubblicata nel Sito ISSIRFA).
La modifica del Titolo V, compreso l’articolo 116 -3° comma, fu approvata da una maggioranza di centro-sinistra a conclusione della XIII legislatura. Nella XIV legislatura subentrò una maggioranza di centro-destra e la Lega Nord assunse responsabilità nel Governo nazionale, mostrando meno interesse all’attuazione dell’articolo 116- terzo comma. In quel periodo si svilupparono forti critiche nei confronti del Titolo V modificato; con la legge La Loggia ( 131/2003) si cercarono di individuare “principi generali” da far valere nei confronti della potestà legislativa regionale concorrente. La Corte Costituzionale, d’altronde, continuò ad elaborare una giurisprudenza costituzionale assai restrittiva nei confronti della competenza legislativa regionale.
Nel 2003 la Regione Toscana elaborò una proposta di delibera (n. 1237) recante “autonomia speciale nel settore dei beni culturali e paesaggistici“ per conseguire, seppure parzialmente, l’intesa prevista dal terzo comma dell’articolo 116. Tale procedura non ebbe alcun seguito.
La situazione si ribaltò quando nel corso della XV legislatura nazionale il centro-sinistra ritornò al Governo nazionale. Le Regioni Veneto e Lombardia, saldamente governate dal centro-destra, chiesero l’applicazione dell’articolo 116- 3° comma. In tal senso furono avanzate le seguenti iniziative delle Regioni:
- Lombardia (2006/2007): Il Consiglio regionale nel 2007 adottò alcuni atti di indirizzo ( una risoluzione del 3 Aprile 2007 ed una mozione del 10 Luglio 2007) con cui si impegnava la Giunta ad avviare un confronto con il Governo per pervenire ad un’intesa ai sensi dell’articolo 116- 3° comma su determinate materie. Tale procedura non ebbe alcun seguito;
- Veneto (2006/2007): La Giunta approvò un documento, successivamente integrato, con le proposte da avanzare al Governo nazionale per il raggiungimento di un’autonomia differenziata. Tale proposta nel novembre 2007 fu sottoposta al confronto con gli enti locali e con le categorie interessate che espressero il loro assenso. Nel dicembre 2007, a larghissima maggioranza, il Consiglio regionale approvò un documento contenente le materie su cui avviare le trattative con il Governo centrale ai sensi dell’articolo 116- terzo comma della Costituzione. Anche tale procedura si arenò.
- Piemonte (2008): Il Consiglio regionale adottò una deliberazione per l’attuazione dell’articolo 116 – terzo comma per il riconoscimento dell’autonomia differenziata della Regione Piemonte. Con tale documento si dava mandato al Presidente della Regione di negoziare con il Governo nazionale la concessione di particolari forme di autonomia in determinate materie e si impegnava la Giunta regionale ad assicurare forme e modalità di coinvolgimento degli enti locali. Il processo avviato dalla Regione Piemonte non ebbe alcun seguito.
Tali istanze furono abbandonate quando, in conseguenza dello scioglimento anticipato del Parlamento nel 2008, ritornò a governare la maggioranza di centro-destra, realizzando un riallineamento fra il Governo nazionale e le Giunte di Veneto e Lombardia.
In quegli anni si abbandonò la prospettiva dell’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, ed il dibattito nazionale si concentrò sul tentativo di applicare l’articolo 119 della Costituzione come riformulato nel 2001. Fu approvata la legge sul federalismo fiscale (l. n. 42/2009) e negli anni immediatamente successivi furono emanati dopo ampio dibattito i decreti legislativi di attuazione.
Quando la crisi economica, iniziata negli Stati Uniti nel 2008, giunse in Europa, il federalismo fiscale, compresi i numerosi decreti attuativi, rimasero inattuati ed iniziò un processo di “nuova centralizzazione” da parte dello Stato come conseguenza anche delle decisioni adottate in sede comunitaria. Dall’estate del 2011, quando furono ancora più chiari in Italia gli effetti della crisi economica internazionale, le Regioni intuirono che dovevano “limitarsi” a difendere le competenze e le risorse disponibili senza riprendere le tematiche dell’allargamento dell’autonomia delle Regioni ordinarie ai sensi dell’articolo 116 – terzo comma della Costituzione.
Mentre la proposta di riforma costituzionale nel corso della XVII legislatura nazionale tentava di consolidare il “neo-centralismo” esistente , soltanto la Regione Veneto avanzò, nel marzo del 2016, una proposta della Giunta regionale per ottenere l’autonomia differenziata ai sensi dell’articolo 116 – terzo comma Cost. Tale deliberazione fu successiva alla legge della medesima Regione Veneto n. 15 del 2014, con cui si promuoveva il referendum regionale secondo l’articolo 116 della Costituzione; a tale normativa regionale seguì la sentenza della Corte Costituzionale n. 118 del 2015.
4. Regioni ad autonomia differenziata ex articolo 116, terzo comma, della Costituzione e Regioni a Statuto Speciale
Prima di esaminare le recenti richieste di attuazione dell’art. 116, terzo comma, da parte di alcune Regioni, è opportuno sottolineare che è ben diversa l’autonomia differenziata con la relativa clausola di asimmetria rispetto all’autonomia delle Regioni Speciali.
Le Regioni a Statuto Speciale sono individuate dall’articolo 116, primo comma, della Costituzione. Le Regioni Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino- Alto Adige e Valle d’Aosta hanno condizioni particolari di autonomia, determinate dai rispettivi Statuti speciali aventi valenza costituzionale. Peraltro, ai sensi del secondo comma del medesimo articolo 116 Cost., la Regione Trentino Alto-Adige è costituita dalle Province Autonome di Trento e Bolzano.
Nella fase transitoria e sino all’ adeguamento dei rispettivi Statuti speciali, l’articolo 10 della legge costituzionale n.3 del 2001 stabilì che era possibile estendere alle Regioni Speciali ed alle Province autonome di Trento e Bolzano quanto stabilito per le Regioni ordinarie nel nuovo Titolo V “ per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
L’articolo 116, terzo comma, della Costituzione fa riferimento soltanto alle Regioni ordinarie e stabilisce che l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere concesse con legge rinforzata dello Stato. Si prevede, infatti che la legge per la concessione dell’autonomia differenziata debba essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base dell’intesa fra Stato e la Regione interessata. Tale negoziato con il Governo nazionale è promosso dalla Regione, sentiti gli enti locali e nel rispetto dei principi dell’articolo 119 della Costituzione.
Tale autonomia non potrà essere abrogata mediante una legge ordinaria ma soltanto tramite una normativa statale rinforzata; le forme e le condizioni di autonomia concesse alla Regione ordinaria non potranno essere revocate unilateralmente né dallo Stato né dalla Regione interessata, tranne che la stessa legge di concessione dell’autonomia differenziata non disponga diversamente.
A differenza dell’autonomia riconosciuta negli Statuti speciali, l’autonomia ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, è circoscritta agli ambiti della legislazione concorrente ed a limitate materie della legislazione esclusiva ( organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali: articolo 117, secondo comma, lettere l),n) ed s) della Costituzione).
5. I referendum delle Regioni Lombardia e Veneto; la proposta della Regione Emilia – Romagna ed iniziative di altre Regioni
Respinte le proposte di modifiche costituzionali del Titolo V contenute nel progetto Renzi-Boschi, il regionalismo italiano ha cercato nuove prospettive. E’ ovvio che si è trattato di una fase di passaggio; nel Marzo 2018 si sono svolte le elezioni politiche e, pertanto, riforme significative del sistema regionale saranno collegate agli esiti ed agli sviluppi derivanti dalla consultazione elettorale nazionale.
In questo periodo di transizione, con una “certa sorpresa”, si sono inserite le iniziative di alcune Regioni del Nord che hanno avviato le procedure per l’applicazione ai loro territori delle disposizioni dell’articolo 116, terzo comma, cioè dell’autonomia differenziata con la relativa “clausola di asimmetria”.
In particolare le Regioni Lombardia e Veneto hanno indetto dei referendum consultivi per ascoltare l’opinione delle popolazioni dei rispettivi territori regionali sull’opportunità di avviare il procedimento ex- articolo 116 – terzo comma mentre la Regione Emilia-Romagna ha direttamente avanzato delle proposte al Governo nazionale per la concessione dell’autonomia differenziata in determinate materie.
L’indizione dei referendum consultivi da parte delle Regioni Lombardia e Veneto ha destato perplessità, essendo questo tipo di referendum non obbligatorio ai sensi dell’articolo 116, terzo comma Cost. La Corte Costituzionale ne ha prevista l’ammissibilità, come una libera ed autonoma scelta della Regione, soprattutto con la sentenza n. 118 del 2015, riguardante il giudizio di costituzionalità delle leggi della Regione Veneto n. 15/2014 (Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto) e n.16/2014 (Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto). Con questa sentenza è stata sancita l’illegittimità costituzionale di molte disposizioni della legge regionale n.15/2014 e la totale incostituzionalità della legge regionale n. 16/2014 (sostanzialmente dei sei quesiti risultanti dalle due leggi del Veneto, ne ha dichiarato ammissibile soltanto uno, ritenendolo conforme alle previsioni dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione).
Tenendo conto del ristretto tempo disponibile per la conclusione della legislatura nazionale, i referendum consultivi, effettuati dalle Regioni Lombardia e Veneto il 22 Ottobre 2017, sono apparsi a diversi commentatori strumenti di propaganda politica di due Governi regionali espressioni di maggioranze politiche differenti rispetto a quella nazionale.
Avendo le Regioni Lombardia, Veneto, ed Emilia-Romagna sviluppato degli indirizzi differenziati, appare opportuno esaminare le rispettive richieste singolarmente:
- Lombardia: i cittadini lombardi hanno votato il 22 Ottobre 2017 sul quesito referendario loro sottoposto.
Si intendeva sapere se, nel quadro dell’unità nazionale, la Regione Lombardia potesse richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
Hanno partecipato al referendum il 38,34% degli aventi diritto. E’ opportuno ricordare che l’ordinamento regionale lombardo non prescrive alcun quorum per la validità del referendum.
Hanno votato sì il 95,29% mentre hanno votato no il 3,95%.
Come conseguenza dell’esito del referendum il Consiglio regionale ha approvato il 7 Novembre 2017 la risoluzione n. X/1645 con cui si impegnava il Presidente della Regione ad avviare il confronto con il Governo nazionale per definire i contenuti di un’intesa di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
La trattativa con il Governo nazionale avrebbe dovuto ricomprendere l’eventuale estensione delle competenze della Regione su gran parte delle materie rientranti nella potestà legislativa concorrente: in particolare, riguardavano l’area istituzionale; l’area finanziaria; l’area ambiente e protezione civile, territorio e infrastrutture; l’ area economica e del lavoro; l’area cultura, istruzione e ricerca scientifica; l’area sociale e sanitaria (welfare).
La risoluzione prevedeva, fra l’altro, che alla Regione venissero assegnate idonee risorse per il finanziamento integrale delle funzioni trasferite dallo Stato.
E’ intuibile che si trattava di richieste assai complesse che difficilmente, al di là delle dichiarazioni ufficiali, potevano completare l’iter previsto dall’articolo 116, terzo comma, nell’ambito di un Parlamento nazionale in scadenza come peraltro il Governo ed il Consiglio regionale della Lombardia.
- Veneto: anche la Regione Veneto ha fatto precedere la richiesta di avvio delle trattative con il Governo nazionale per l’attivazione del procedimento ex- articolo 116, terzo comma, della Costituzione da un referendum consultivo svoltosi il 22 Ottobre 2017.
E’ bene far presente che, a differenza della Lombardia, dalla legislazione regionale del Veneto è richiesta, per la validità della consultazione referendaria, la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto e per l’approvazione dei quesiti la maggioranza dei voti validamente espressi.
Agli elettori veneti si sottopose il quesito se volessero che alla Regione fossero attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.
Al referendum hanno partecipato il 57,2 % degli aventi diritto ed ha votato sì il 98,1 % mentre ha votato no l’1,9%.
La Giunta regionale del Veneto il 23 Ottobre 2017 con delibera n. 1680 ha previsto l’istituzione della “ Consulta del Veneto per l’autonomia” attuata con i Decreti del Presidente della Giunta Regionale 26 e 27 Ottobre 2017, rispettivamente n. 175 e 177.
Dopo l’approvazione del referendum, la Giunta Regionale (conformemente alla legge regionale veneta 15/2014) ha altresì predisposto il progetto di legge statale n. 43 da inviare al Parlamento nazionale, approvato dal Consiglio regionale il 15 Novembre 2017 con deliberazione n.155, con cui si individuavano i percorsi ed i contenuti per il riconoscimento di ulteriori e specifiche forme di autonomia per la Regione Veneto ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Il testo legislativo approvato è stato successivamente trasmesso al Parlamento nazionale.
Il disegno di legge della Regione Veneto ha indicato le materie nelle quali la Regione Veneto intendeva richiedere forme e condizioni particolari di autonomia corrispondenti a tutte le materie di competenza legislativa concorrente fra Stato e Regioni e alle tre di competenza esclusiva statale richiamate dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
La proposta legislativa della Regione Veneto, oltre ad indicare per ogni materia, gli ambiti disciplinari che si sarebbero dovuti affidare alla competenza legislativa della Regione, ha precisato anche le funzioni amministrative che sarebbero state assegnate alla Regione.
La parte più significativa del testo legislativo ha riguardato il trasferimento delle risorse in rapporto alle “nuove” funzioni trasferite: è stato proposto di attribuire alla Regione i 9/10 del gettito riscosso nel territorio regionale delle principali imposte erariali (Irpef, Ires ed Iva) cui si dovrebbero aggiungere i gettiti dei vigenti tributi propri regionali e degli specifici fondi di cui il disegno di legge ha richiesto la regionalizzazione.
Appare evidente che la Regione Veneto è stata la più “esigente” nelle forme e nei contenuti delle sue richieste. In altre forme ha inteso riproporre il tema dell’attuazione del federalismo fiscale promesso ma mai realizzato in base alla legge 42/2009!
In data 20 Novembre 2017, il Presidente della Regione Veneto, unitamente alla trasmissione della proposta di legge statale approvata dal Consiglio regionale, ha chiesto al Presidente del Consiglio l’avvio del negoziato ai sensi del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione.
Il 1 Dicembre 2017 presso la Presidenza del Consiglio è stato formalmente avviato il negoziato fra lo Stato e la Regione Veneto ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
- Emilia Romagna: impostazioni differenti rispetto alla Lombardia e soprattutto al Veneto ha seguito la Regione Emilia-Romagna nel tentativo di realizzare più rapidamente l’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
L’Emilia Romagna non è ricorsa al referendum consultivo essendo questo strumento, come si è accennato, di carattere facoltativo. Molti commentatori hanno sostenuto che tale rinunzia fosse collegata alla presenza di identiche maggioranze politiche esistenti fra i livelli di governo nazionale e regionale; pertanto non vi sarebbe stata la necessità di sviluppare alcuna propaganda politica sul tema dell’ autonomia regionale così come è avvenuto nelle Regioni Lombardia e Veneto.
L’Assemblea legislativa dell’ Emilia Romagna ha approvato le risoluzioni 3 Ottobre 2017 n. 5321, 14 Novembre 2017 n. 5600 e 12 Febbraio 2018 n. 6124 e 6129, con cui impegnava il Presidente della Regione ad avviare il procedimento per la realizzazione dell’intesa con il Governo nazionale al fine di ottenere il raggiungimento di ulteriori forme e condizioni di autonomia ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, specificando anche i temi che avrebbero dovuto essere oggetto prioritario di negoziazione.
In generale la trattativa con lo Stato avrebbe dovuto riguardare i seguenti ambiti:
- Tutela e sicurezza del lavoro, istruzione tecnica e professionale;
- Internazionalizzazione delle imprese, ricerca scientifica e tecnologica, sostegno dell’innovazione;
- Territorio e rigenerazione urbana, ambiente e infrastrutture;
- Tutela della salute;
- Competenze complementari e accessorie riferite alla governance istituzionale ed al coordinamento della finanza pubblica.
Fin dal 18 Ottobre 2017 il Presidente della Regione Emilia-Romagna ed il Presidente del Consiglio dei Ministri hanno sottoscritto una dichiarazione di intenti con cui è stato formalizzato l’avvio del percorso per l’autonomia differenziata.
L’effettivo negoziato è iniziato il 9 Novembre 2017 con l’incontro fra il Presidente della Regione Emilia-Romagna ed il Sottosegretario degli Affari Regionali.
A tale riunione ha voluto partecipare il Presidente della Regione Lombardia che, dopo la conclusione del referendum consultivo, ha inteso ulteriormente differenziare l’impostazione della trattativa con lo Stato da quella della Regione Veneto.
Infatti il Presidente della Regione Veneto nei giorni immediatamente successivi al referendum dichiarò esplicitamente che la Regione Veneto non si sarebbe limitata a richiedere l’autonomia differenziata, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione ma intendeva ottenere l’autonomia speciale .
In tal senso fece approvare dalla Giunta una proposta di modifica costituzionale per l’inserimento del Veneto tra le Regioni a Statuto speciale.
Subito il Presidente della Regione Lombardia si differenziò annunziando che la Lombardia intendeva rimanere nell’ambito dell’articolo 116, terzo comma, richiedendo il trasferimento delle competenze contenute nella previsione costituzionale. La richiesta di Autonomia speciale per la Regione Veneto fu subito ampiamente criticata dal Governo nazionale che fece presente che tale proposta si poneva fuori dell’ambito costituzionale vigente.
Anche l’altro disegno di legge approvato dalla Giunta regionale del Veneto, pur rimanendo nell’ambito del 116, terzo comma, indicò nel dettaglio tutte le 23 materie di competenza legislativa concorrente oggetto di trattativa e chiarì per ciascuna di esse come la Regione intendesse gestirle una volta acquisite. Per gli aspetti finanziari il disegno di legge specificò la necessità di trasferire alla Regione i nove decimi del gettito di Irpef, Ires ed Iva versati in Veneto: “l’aspirazione a trattenere “i soldi a casa nostra” ha assunto un significato prevalentemente “difensivo”. Il referendum ha fornito l’occasione per amplificare il risentimento veneto”, come ha sostenuto Ilvo Diamanti (Repubblica 24 Ottobre 2017).
Comunque è opportuno ricordare che il Veneto presenta un residuo fiscale attivo elevato e ciò lo distingue anche dalle altre Regioni del Nord-est. I cittadini veneti versano allo Stato più di quanto ricevono mentre i residenti nelle altre Regioni del Nord-est (ad eccezione degli abitanti della Provincia di Bolzano) incassano dallo Stato più di quanto versano come tassazione. Ciò ha creato un forte “ risentimento” nei veneti cui si è cercato di collegare il Presidente della Regione con la proposta di autonomia speciale.
6. Alcuni chiarimenti sull’articolo 116- terzo comma della Costituzione
Appare opportuno cercare di illustrare l’effettiva “portata” dell’articolo 116 terzo comma anche per evidenziarne potenzialità e per cercare di allontanare preoccupazioni infondate:
- L’articolo 116, comma 3, della Costituzione, che consente di attribuire alle Regioni che ne facciano richiesta “forme e condizioni particolari di autonomia”, si muove nell’ambito del sistema di autonomia ordinaria disegnato dal Titolo V, secondo la revisione costituzionale del 2001 ( Mangiameli, op. cit., pag. 3). Si può ben dire che mentre le Autonomie speciali, pur nelle loro diversità, costituiscono una deroga all’Autonomia ordinaria, la “clausola di asimmetria” prevista dall’articolo 116, 3 comma, rientra in un processo di più compiuta realizzazione dell’autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione.
- Pertanto “l’asimmetria non costituisce l’anticamera di una richiesta di secessione, che avrebbe solo fondamenti di fatto e privi di riscontro costituzionale. Infatti, l’asimmetria rappresenta solo un modo previsto dalla Costituzione per un regionalismo più consapevole e responsabile con effetti emulativi da parte delle Regioni, da cui i cittadini hanno tutto da guadagnare” ( Mangiameli, op. cit: pag.4).
- In teoria si può sostenere che tutte le Regioni ordinarie potrebbero chiedere l’applicazione della clausola di asimmetria perché quest’ultima sviluppa “elementi di forte identità regionale e di competizione territoriale”. I comportamenti “virtuosi” di alcune Regioni costituirebbero un forte stimolo per le Regioni più arretrate per migliorare la qualità dei servizi offerti. Tutto ciò permetterebbe allo Stato di disporre di parametri concreti per la politica perequativa da realizzare.
- La clausola di asimmetria dovrebbe realizzare una maggiore efficienza finanziaria non solo per il territorio regionale che la applica ma per l’intero sistema nazionale.
- E’ bene ricordare comunque che in Italia esistono profonde differenze territoriali fra le diverse Regioni soprattutto per quanto concerne l’orografia delle diverse aree regionali, le distanze dai mercati internazionali, le infrastrutture (viarie, ferroviarie, aeree etc), i servizi sociali forniti ai cittadini etc. Per sopperire a tutto ciò, l’articolo 120, comma 2, della Costituzione sancisce che sia mantenuta “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. Quando le diseguaglianze del sistema regionale superassero determinati limiti diventerebbe necessario l’intervento perequativo dello Stato.
- Le Regioni che dovessero godere di particolari forme di autonomia ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione sarebbero comunque obbligate a dare il proprio contributo solidale alle altre Regioni ed allo Stato. Le Regioni con maggiore capacità fiscale debbono accettare ai sensi del dettato costituzionale che una parte del loro gettito serva alla perequazione territoriale con le Regioni con minori risorse economiche.
In tal senso c’è da auspicare che il “ coordinamento della finanza pubblica non costituisca un limite da opporre alla Regione, bensì una politica attiva cui le Regioni possono partecipare, al fine di rendere più efficiente la perequazione territoriale” (Mangiameli: op. cit. pag.3). - Appare evidente che l’autonomia differenziata, ai sensi dell’art. 116 terzo comma della Costituzione, per esplicare i suoi effetti richieda una “forte” unità garantita dallo Stato. E’ proprio lo Stato centrale che deve sviluppare l’unitarietà del processo sia nei confronti degli organismi internazionali sia nei riguardi delle articolazioni territoriali.
- Le Regioni e più in generale le autonomie sono fondamentali per il processo di integrazione europea indispensabile per i processi di internazionalizzazione dell’economia.
- “Il regionalismo ed il riconoscimento delle autonomie diventano l’assetto istituzionale più idoneo, per consentire agli organi di governo dello Stato di proteggere gli interessi nazionali lì dove questi si confrontano con quelli degli altri Stati” ( Mangiameli: op. cit. pag.4).
- D’altronde lo Stato, in presenza di richieste di maggiore autonomia da parte delle Regioni ordinarie al fine di sviluppare una “sana” competizione fra le diverse aree territoriali, dovrebbe essere costretto a migliorare i servizi offerti ai cittadini nell’ambito delle competenze statali.
7. Competenze legislative trasferibili in tema di autonomia differenziata
E’ opportuno ricordare che l’articolo 116 terzo comma della Costituzione prevede espressamente che possono essere trasferite alle Regioni ordinarie le materie di potestà legislativa concorrente di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie di potestà esclusiva statale di cui al secondo comma dell’art.117 alle lettere l), (limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace) n), (norme generali sull’istruzione) ed s),( tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).
Tutto ciò dovrebbe produrre un incremento della potestà legislativa concorrente delle Regioni ordinarie anche se nell’ambito della previsione costituzionale.
Appare necessario chiarire che:
- Non potranno essere trasferite tutte le materie espressamente previste dal terzo comma dell’articolo 117 ( es: coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario);
- Alcune competenze, pur rientranti nell’articolo 117, terzo comma, ormai sono regolamentate dalla legislazione europea ( es: normative in tema di risparmio a carattere regionale);
- Potranno far parte degli accordi sulla clausola di asimmetria alcune competenze residuali ai sensi del quarto comma dell’articolo 117, anche se non previste dal terzo comma dell’articolo 116;
- Il trasferimento di alcune competenze legislative di carattere concorrente alle Regioni ordinarie comporterà, ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione, il passaggio alle medesime Regioni delle corrispondenti funzioni amministrative.
- Tuttavia c’è da notare che per le materie legislative trasferibili alle Regioni ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, si dovrà tenere conto della recente legislazione statale che, in conseguenza della crisi economica e degli impegni scaturenti dalle decisioni europee, ha notevolmente ridimensionato la potestà legislativa regionale. Le scelte del legislatore statale sono state legittimate dalla Corte Costituzionale che ha elaborato una serie di “ clausole” ( es: chiamata in sussidiarietà, materie trasversali, prevalenza, coordinamento finanziario etc) con cui lo Stato ha potuto riappropriarsi di molte competenze legislative regionali.
- Come ha rilevato S. Mangiameli nell’audizione presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali del 29 Novembre 2017, è possibile che nell’intesa fra lo Stato e le singole Regioni ordinarie rientrino anche alcune materie (es: turismo, urbanistica, trasporto pubblico locale, agricoltura, artigianato, commercio, attività produttive etc) oggetto della previsione dell’articolo 117, comma quarto, della Costituzione ( competenza residuale). In questo modo tali competenze troverebbero una maggiore tutela così come avverrebbe per le materie di cui all’articolo 117, terzo comma. C’è da augurarsi che lo spirito collaborativo fra Stato e Regioni porti ad accordi sulla clausola di asimmetria ben calibrate in rapporto alle differenti Regioni.
8. Residui fiscali: dati reali ed ipotetici
Unitamente alle ragioni di ordine giuridico, alla base delle richieste del Veneto, della Lombardia, dell’Emilia Romagna e di altre Regioni del Nord di attuazione dell’articolo 116, terzo comma, esiste la “convinzione” che i cittadini delle rispettive Regioni paghino allo Stato mediante il sistema tributario più di quanto ricevano in termini di servizi.
James Buchanan definisce residuo fiscale la differenza tra il contributo che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e i benefici che ne riceve sotto forma di servizi pubblici” ( F. Tuzi, in www.lavoce.info. 2017). In questo modo si potrà valutare l’azione redistributiva dello Stato : la stima del livello delle entrate e delle spese delle amministrazioni pubbliche a livello regionale consente di calcolare il saldo, cioè il residuo fiscale.
E’ opportuno chiarire che trattasi di una nozione che dipende da diverse interpretazioni del dato economico.
Infatti, la redistribuzione della spesa pubblica fra le diverse aree territoriali realizzata in Italia (da cui originano alcuni indicatori come il residuo fiscale) discende da politiche che non hanno una finalità redistributiva fra i diversi territori nazionali. Tali caratteristiche si riscontrano soltanto per gli interventi pubblici rivolti esplicitamente alla riduzione dei divari territoriali.
La maggior parte della “redistribuzione della spesa pubblica fra aree territoriali” è semplicemente la conseguenza dell’insieme di programmi di spesa i cui beneficiari ultimi sono gli individui indipendentemente dall’aree di residenza dei suddetti cittadini. Tali politiche hanno come risultato una certa redistribuzione fra gli individui. Pertanto i residui fiscali per una Regione sono semplicemente la somma dei residui fiscali degli individui che risiedono in quell’area (es: se in una regione risiede un numero maggiore di anziani , la spesa per le pensioni sarà maggiore delle entrate contributive, determinando un residuo fiscale positivo).
Pertanto la spesa pubblica in Italia “provoca” una redistribuzione delle risorse pubbliche fra i diversi territori senza un obiettivo esplicito di realizzare una riequilibrio territoriale ma come conseguenza della differente distribuzione degli individui nelle diverse aree secondo le caratteristiche rilevanti per l’erogazione della spesa ( es: età, stato di salute, condizione lavorativa etc) ed il relativo finanziamento ( es: reddito, consumi, ricchezza etc).
Da ciò ne discendono la redistribuzione territoriale della spesa ed i residui fiscali fra le differenti Regioni.
In Italia il bilancio pubblico riflette un sistema di tassazione che permette di erogare prestazioni tendenzialmente uniformi in base ai diritti di cittadinanza nazionale. Pertanto la redistribuzione territoriale è conseguenza di questi principi generali, diventando irrilevante la residenza dei cittadini. E’ opportuno ricordare che prevalentemente la distribuzione delle risorse nazionali avviene secondo il criterio della spesa storica.
Si può pertanto sostenere che “i ricchi ed i poveri delle regioni povere pagano e ricevono dal bilancio pubblico esattamente quanto i ricchi ed i poveri che vivono nelle regioni ricche. Il flusso redistributivo va dai ricchi di entrambe le regioni ai poveri di entrambe le regioni” (Audizione del Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio presso la Commissione V della Camera dei Deputati – 22 Novembre 2017).
9. Stime dei residui fiscali delle diverse Regioni italiane
In tema di stime dei residui fiscali delle diverse regioni italiane esistono dati differenti( es: Cgia di Mestre, Ufficio parlamentare di bilancio etc); si preferisce fare riferimento a quelli riportati da Tuzi (op .cit – pag. 1-2) che presenta i seguenti residui fiscali in euro pro-capite:
- Lombardia : 5.611;
- Lazio: 3.672;
- Emilia – Romagna: 3.293;
- Veneto: 2.078;
- Piemonte: 1.162;
- Toscana: 805;
- Provincia Autonoma di Bolzano: 693;
- Marche: - 105;
- Liguria: -347;
- Friuli Venezia Giulia: - 410;
- Umbria: - 1213;
- Valle d’Aosta : - 1472;
- Campania: - 2086;
- Provincia autonoma di Trento: - 2.287;
- Abruzzo: - 2.364;
- Puglia: - 2.501;
- Sicilia: - 3.576;
- Basilicata: - 3.948;
- Molise: - 3.996;
- Sardegna: - 4.368;
- Calabria: - 5.528.
E’ ovvio che i valori pro-capite dei residui fiscali delle diverse Regioni derivano dalla differenza fra i valori pro-capite delle entrate e delle spese per ciascuna Regione.
Per quanto concerne le entrate (Tuzi, op. cit: pagg.1, 2) emerge che sono proporzionali al Pil delle diverse Regioni; pertanto si è in presenza di una marcata riduzione delle entrate fra le Regioni del Nord e del Sud. Come è prevedibile, il gettito fiscale si sviluppa proporzionalmente al reddito prodotto dai diversi territori regionali.
Per quanto concerne la spesa pubblica (Tuzi: op .cit. pag. 2) si evidenzia che:
- Il livello della spesa pro-capite complessiva è più omogeneo fra le diverse Regioni rispetto a quello delle entrate.
- Il livello della spesa pro-capite è più elevato nelle Regioni Speciali soprattutto del Centro-Nord(es: Valle d’Aosta; Trentino Alto - Adige; ed in misura minore Friuli – Venezia Giulia).
- La spesa pubblica in termini di influenza sul Pil aumenta in modo significativo quando si “ passa” dalle Regioni ricche del Nord a quelle relativamente povere del Sud .
- Confrontando i territori delle Regioni ordinarie del Nord con quelli del Sud i livelli di spesa pro-capite presentano differenze contenute per interventi nei settori sociali, dell’istruzione, dei servizi economici e delle spese per il personale (con livelli di spesa maggiori al Sud) mentre più rilevanti sono le differenze territoriali per le spese per lavoro e previdenza, sanità ed amministrazione centrale (con livelli di spesa maggiori al Nord).
- Le Regioni più piccole (Liguria, Umbria, Basilicata, Molise, Abruzzo) presentano livelli di spesa pro-capite maggiori.
- Le Regioni del Mezzogiorno hanno complessivamente un livello di spesa leggermente inferiore rispetto alle altre realtà regionali.
Per quanto concerne ( Tuzi: op .cit. Pag.2 - 3) i residui fiscali delle diverse Regioni si può dedurre che:
- I residui fiscali fra le diverse Regioni (calcolati come differenza fra entrate e spese) risultano , come era da attendersi, negativi per gran parte delle Regioni del Centro - Nord ( stanno ad indicare i flussi redistributivi in uscita da quei territori) mentre diventano positivi in entrata ( flussi redistributivi in entrata) per tutte le Regioni meridionali . Sono positivi anche i residui fiscali di tutte le Regioni Speciali (comprese la Valle d’ Aosta, il Trentino Alto - Adige ed il Friuli Venezia Giulia) e di Regioni ordinarie di piccole dimensioni del Centro-nord (es: Umbria e Liguria).
- Le Regioni con Pil più elevati presentano residui negativi (entrate maggiori delle spese) mentre le Regioni con Pil più bassi evidenziano residui positivi ( spese maggiori delle entrate).
- La differenza fra i residui fiscali dipende soprattutto dalle diversità di sviluppo economico dei territori regionali. E’ evidente che le Regioni che producono più reddito (soprattutto del Nord) avranno un livello di tassazione superiore rispetto a quelle con redditi più bassi dotate di uno sviluppo economico insoddisfacente (soprattutto le Regioni meridionali).
- I residui fiscali riflettono pertanto la diversa distribuzione dei redditi mentre la spesa pubblica è divisa abbastanza uniformemente fra tutti i cittadini aventi gli stessi diritti.
- Appare evidente che per ridurre i residui fiscali fra le diverse Regioni italiane - è opportuno ricordare che in Italia esistono aree del Centro – Nord con una produzione, uno sviluppo e quindi dei redditi paragonabili a quelle delle Regioni più sviluppate dell’Europa Continentale mentre nel Centro – Sud vi sono zone fortemente sottosviluppate tanto da essere destinatarie di programmi di sviluppo nazionali ed europei - sono necessarie significative e concrete politiche di sviluppo e di coesione territoriale.
Dai dati finora analizzati emerge che non è così semplice, a differenza di quanto possa pensarsi, fare riferimento ai residui fiscali negativi nel tentativo di rivendicare un’inversione radicale della spesa pubblica, sostenendo fra l’altro la necessità di trattenere nel proprio territorio la gran parte delle risorse versate sotto forma di tassazione.
Infatti non si può dimenticare che gran parte dell’avanzo fiscale che dal Nord si trasferisce al Sud finanzia gli acquisti da parte dei cittadini meridionali di beni e servizi prodotti da imprese soprattutto dell’area padana. Tali aziende hanno assoluto bisogno della domanda proveniente dal Mezzogiorno.
Se è evidente una maggiore efficienza di alcune Regioni del Nord che dispongono di conti pubblici più in ordine e di servizi più efficienti per i propri abitanti, non si può negare che proprio in Lombardia (es: scandali della sanità lombarda) ed in Veneto (crisi di alcune banche venete: es: Popolare di Vicenza e Veneto Banca) sono “esplosi scandali” i cui costi sono stati sopportati da tutti i contribuenti italiani.
10. Sviluppo del negoziato fra Regioni e Governo Nazionale
Le Regioni interessate (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto), avviato il confronto con il Governo centrale alla fine del 2017, hanno condiviso l’opportunità di circoscrivere il negoziato, nella prima fase (in considerazione della conclusione della legislatura nazionale e della ristrettezza dei tempi per lo sviluppo del negoziato su tutte le tematiche oggetto delle richieste) ad alcune materie di interesse comune: la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la tutela della salute, l’istruzione, la tutela del lavoro ed i rapporti internazionali con specifica attenzione a quelli con l’Unione europea. Questo “stralcio” non impedirà che lo Stato e le medesime Regioni interessate successivamente si possano occupare di altri aspetti delle medesime materie oggetto dell’accordo e di altre materie rientranti fra le richieste avanzate dalle tre Regioni interessate.
11. Accordi Preliminari fra lo Stato e le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto per la concessione dell’autonomia differenziata ai sensi dell’articolo 116 Costituzione.
In data 28 Febbraio 2018 il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega agli Affari regionali e le Autonomie, ha sottoscritto degli accordi preliminari in merito all’ Intesa prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione rispettivamente, con i Presidenti delle Regioni pro-tempore dell’Emilia Romagna, della Lombardia e del Veneto.
Tali atti rappresentano dei preliminari per la successiva Intesa che dovrà essere realizzata fra lo Stato e le Regioni interessate ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione per le materie individuate nello stralcio (tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, tutela della salute, istruzione, tutela del lavoro e rapporti internazionali in particolare con l’Unione Europea). In considerazione della non operatività immediata degli accordi sottoscritti, appare opportuno soffermarsi sulle disposizioni generali dei tre atti che, peraltro, si applicano uniformemente alle tre Regioni.
Gli accordi si limitano ad individuare i principi generali ed i metodi per l’attribuzione di forme di autonomia differenziata ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, nelle materie individuate nel pieno rispetto dei principi costituzionali e della leale collaborazione fra gli enti costitutivi dello Stato.
L’intesa fra lo Stato e le Regioni avrà durata decennale e potrà essere modificata di comune accordo fra le parti quando se ne verificheranno le condizioni.
In base all’intesa realizzata, il Governo presenterà alle Camere un disegno di legge che dovrà essere approvato con le procedure previste dall’articolo 116 della Costituzione. Qualsiasi verifica dell’intesa (ne è prevista una due anni prima della scadenza) dovrà avvenire con le modalità e le forme con cui si è realizzato l’originario accordo.
Le novità più significative si riscontrano in tema di assegnazione di fondi. L’attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali necessarie per l’esercizio delle funzioni trasferite o assegnate dallo Stato alla Regione non sarà immediata ma sarà determinata da una Commissione paritetica Stato-Regione prevista dall’Intesa. Appare evidente che i “ maggiori nodi” sono stati rinviati ad una fase successiva.
Tuttavia gli accordi sottoscritti fra Stato e Regioni indicano i criteri secondo cui dovranno avvenire questi trasferimenti di fondi:
- Compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale per consentire la gestione delle competenze trasferite o assegnate. Sembra che non siano state accettate le impostazioni più radicali (es: Veneto) di chi voleva lasciare al territorio di provenienza la gran parte delle somme riscosse.
- Spesa sostenuta dallo Stato nella Regione riferita alle funzioni trasferite o assegnate. Tale criterio della spesa storica tuttavia è da superare definitivamente. La formulazione degli accordi evidenzia un compromesso fra chi intendeva superare immediatamente il criterio della spesa storica( es: Veneto) e le altre Regioni che indicavano tempi più lunghi per il superamento delle modalità tradizionali della spesa pubblica statale.
- Fabbisogni standard, che dovranno essere determinati entro un anno dall’approvazione dell’Intesa e, entro cinque anni, ( superando il criterio della spesa storica), dovranno costituire il termine di riferimento dei costi per l’erogazione dei servizi, tenendo conto della popolazione residente e del gettito dei tributi maturati nel territorio regionale.
I provvedimenti che determinano l’assegnazione delle risorse producono la decorrenza dell’esercizio da parte della Regione delle nuove competenze che dovrà avvenire contestualmente all’effettivo trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali ed organizzative.
Gli accordi specificano inoltre che in una fase successiva potranno essere avviati negoziati in tema di autonomia differenziata fra lo Stato e le Regioni interessate quando quest’ultime lo richiederanno sia su altri aspetti delle materie oggetto di questa fase sia su altre materie.
Come evidenziano le disposizioni generali di questi accordi sottoscritti fra lo Stato e le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto trattasi di normative programmatiche che necessitano di ulteriori atti per trovare attuazione. Appare che siano stati fissati, soprattutto in materia di risorse, principi generali,( peraltro di compromesso) che richiederanno un confronto serrato fra Stato e Regioni nel momento in cui si procederà all’effettiva stesura delle Intese.
E’ probabile che si sia stata impressa una certa accelerazione per una rapida approvazione di questi accordi sia per corrispondere ad esigenze elettorali delle popolazioni interessate sia per “precostituire situazioni giuridiche” nei confronti dei prossimi Governi e Parlamenti.
Da un esame sommario delle materie trasferite appare, ad esempio, che le tre Regioni in tema di istruzione potranno organizzare con più elasticità calendari e moduli organizzativi, ferma restando l’unicità dei programmi nazionali ed i contratti nazionali degli insegnanti, pur prevedendo la possibilità per le Regioni di concedere” incentivi locali” ai docenti.
In tema di sanità, pur rispettando i livelli essenziali del Servizio sanitario nazionale, le tre Regioni potranno organizzare con maggiore autonomia le Aziende sanitarie locali.
E’ opportuno ricordare che tali testi costituiranno soltanto le premesse delle future intese da stipulare fra il nuovo Governo e le Regioni interessate.
L’iter per la concessione dell’autonomia differenziata si concluderà con l’approvazione a maggioranza assoluta di una legge da parte del nuovo Parlamento.
Nonostante questa fase di incertezza altre Regioni hanno avviato le procedure per la concessione di forme di autonomia differenziata ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione: Piemonte e Liguria sono già in trattative con lo Stato mentre Campania e Puglia sono nella fase iniziale dell’iter.
Appare evidente che, dopo la bocciatura del referendum del 4 Dicembre 2016 ed il relativo tentativo di riscrivere il Titolo V secondo l’impostazione neo-centralistica “affermatasi” nel corso della recente crisi economica, si è riaperto il confronto sull’attuazione del Titolo V. Sono emerse tendenze a realizzare un federalismo competitivo (Emilia – Romagna e Lombardia) insieme ad alcune aspirazioni “confusamente indipendentiste” ( Veneto).
Soprattutto il Veneto aveva proposto inizialmente il trasferimento di circa 23 nuove competenze (“tutte e subito”) facendo chiaramente intendere che l’obiettivo vero era quello di trattenere la gran parte della compartecipazione ai tributi erariali (a partire dall’ Irpef e dall’Iva) pagati sul proprio territorio, a similitudine di quanto si realizza nelle aree vicine delle Province autonome di Trento e di Bolzano e del Friuli Venezia Giulia.
Il Governo nazionale, in presenza di queste richieste talvolta “confuse e contraddittorie”, si è limitato ad esprimere soddisfazione dal momento che le istanze regionali non sembravano “sfociare in aspirazioni indipendentiste”, come quelle della Catalogna, ma rientravano nell’ambito delle previsioni costituzionali dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione. Il Governo nazionale ha espresso disponibilità nei confronti delle conseguenze giuridiche delle richieste delle Regioni interessate ma ha probabilmente sottovalutato tutto ciò che tali scelte potrebbero produrre in tema di finanza pubblica e di ordine istituzionale nel tentativo di pervenire ad uno strutturale superamento della crisi.
Bisogna prendere atto che il declino delle grandi imprese private italiane e il trasferimento del controllo di molte di esse a multinazionali e fondi stranieri (il più recente caso è quello dell’acquisizione di Italo da parte di un Fondo di investimento americano) ha accentuato la frantumazione del modello produttivo nazionale e la tendenza a cercare di risolvere in un ambito ristretto e locale gli ineludibili problemi di ridefinizione del proprio modello economico. Peraltro la globalizzazione trasferisce ben al di là degli ambiti nazionali la sede delle scelte strategiche in materia economico- finanziaria.
E’ necessario pertanto che l’Italia individui i necessari strumenti istituzionali per affrontare queste nuove sfide al fine di realizzare quel ruolo internazionale – che attualmente non ha – corrispondente al potenziale economico di secondo paese manifatturiero d’Europa che le è riconosciuto.
In tal senso appare opportuno ripartire dall’attuale assetto istituzionale previsto dal Titolo V e soprattutto dalla legge 42/2009 sul federalismo fiscale con i relativi Decreti Delegati attuativi dell’articolo 119 della Costituzione.
Qualsiasi forma di autonomia differenziata, dal punto di vista finanziario, non solo deve rispettare “i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” ma necessita che la Regione presenti un “ bilancio in equilibrio”. Ciò presuppone – come rileva Mangiameli nell’audizione presso la Commissione bicamerale per le questioni regionali – che la Regione abbia: un debito pubblico più che sostenibile; una capacità fiscale adeguata; un sistema tributario che non abbia esercitato tutta la pressione fiscale; una finanza locale equilibrata; ed infine l’assenza di piani di rientro o di forme di commissariamento statale.
A tutto ciò è da aggiungere che qualsiasi forma di regionalismo differenziato, ai sensi dell’articolo 116 terzo comma della Costituzione, non potrà non realizzarsi se non nell’ambito dell’unità dello Stato. Ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione e delle relative norme attuative a partire dalla legge 42/2009, lo Stato dovrà sviluppare la perequazione per “i territori con minore capacità fiscale per abitante” (articolo 119, terzo comma Cost.) ed interventi integrativi per agevolare lo sviluppo territoriale delle aree più sottosviluppate ( art.119, quinto comma Cost ).
La prospettiva più praticabile per l’Italia appare pertanto quello di un “recupero” della normativa sul federalismo fiscale (legge 42/2009) e dei relativi Decreti Delegati in particolare di quelli concernenti i fabbisogni ed i costi standard; solo in questo modo si potrà tendere ad una uniformità delle esigenze finanziarie dei diversi territori e conseguentemente delle risorse pubbliche da destinare alle differenti aree del Paese. Come prevede la legge sul federalismo fiscale con le relative norme di attuazione, la determinazione degli standard, partendo dalla situazione attuale e superando il criterio della spesa storica, dovrebbe indicare livelli comuni di costi e di fabbisogni finanziari per i medesimi servizi e per le analoghe funzioni da sviluppare nelle diverse Regioni del Paese. Ciò permetterebbe probabilmente di superare le attuali differenze fra Regioni ordinarie ed Autonomie Speciali ( Regioni e Province Autonome) che “sottostanno” a molte richieste di autonomia differenziata ai sensi dell’articolo 116 terzo comma della Costituzione.
Non appare comunque opportuno opporsi alle richieste di autonomia delle tre Regioni del Nord.
Tuttavia nel resto del Paese esiste una certa preoccupazione per la concessione di forme di autonomia differenziata soltanto alle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagnam perché si teme la formazione del blocco territoriale del Nord. Come fa presente Mangiameli (dati 2016), le tre Regioni richiedenti l’autonomia differenziata rappresentano un terzo della popolazione del Paese ma producono qualcosa in più del 40% del Pil nazionale e realizzano il 54,3% delle esportazioni dell’intera economia dell’Italia.
Il prossimo Parlamento (pur in presenza di una trattativa in uno stato avanzato) avrà una certa difficoltà ad assecondare le richieste di autonomia delle tre Regioni del Nord tralasciando analoghe istanze che provenissero da altre Regioni del Paese.
Esiste il rischio, come è successo in analoghe circostanze, che il cambiamento di maggioranze e di politici a livello nazionale produca una “perdita di interesse” per le richieste di autonomia differenziata avanzate ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione nella precedente legislatura.
Infine è da notare che l’autonomia e la potestà legislativa regionale (soprattutto concorrente) che la proposta di riforma costituzionale Renzi-Boschi intendevano ridimensionare, se non abolire, è tornata prepotentemente alla ribalta ed anzi se ne propone l’estensione e l’ampliamento. Addirittura dalle recenti trattative fra Stato e Regioni potrebbe derivarne un Paese con regole differenti fra i diversi territori con evidenti ricadute in tema di distribuzione della spesa pubblica negli ambiti regionali.
Le richieste di autonomia differenziata avanzate dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna hanno riproposto tutte le tematiche che furono alla base della normativa sul federalismo fiscale. L’applicazione di questa importante legislazione è rimasta “bloccata dal sopraggiungere” della crisi economica però è probabilmente arrivato il momento di riprenderla anche per adeguarla alle mutate condizioni del Paese.
Il regionalismo in Italia non può essere semplicemente oggetto di slogan ma esige un’ampia riflessione sulle modalità di realizzazione di uno Stato moderno, sia centrale che territoriale, in rapporto alle sfide di un’economia sempre più internazionalizzata e di una richiesta dei cittadini di partecipazione alle scelte che li riguardano.