AVVERTENZA: Studio destinato al  "Quinto Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia" .
 
Sommario
 
 
1.      La centralità dell’efficienza
 
L’imperativo della riforma sanitaria del 1978 è stato quello di assicurare all’intera popolazione italiana un’assistenza globale e senza barriere finanziarie all’accesso. Tuttavia, un motivo decisivo per la creazione del Servizio sanitario nazionale (SSN) è stato anche quello di garantire il massimo rispetto del principio fondamentale del pareggio di bilancio, evitando di continuare a sussidiare il sistema mutualistico ed ospedaliero cronicamente in disavanzo. Con la riforma, infatti, l’ammontare complessivo delle risorse da destinare all’assistenza sarebbe stato stabilito tramite il processo politico e il suo sistema di priorità. Si voleva superare una situazione nella quale ciò avvenisse all’interno del servizio sanitario stesso attraverso un processo di auto-referenzialità secondo il quale, in ultima analisi, risultano decisive le decisioni di spesa degli operatori sanitari in collusione con i pazienti e dove lo Stato finisce per svolgere il ruolo passivo di terzo pagatore. Illustrando il disegno di legge per l’istituzione del SSN, il relatore dichiarò che la volontà del Governo era “di applicare rigorosi parametri per quantificare l’entità delle risorse finanziarie da impiegare per la realizzazione di un efficiente Servizio sanitario nazionale e per verificare in concreto, anno per anno, la corrispondenza reale di tali risorse alla dimensione globale di quelle prodotte dal paese” (1). In sintesi, “mai più disavanzi” fu il grido di battaglia di quel nuovo corso.
Il 2008 è il trentesimo anniversario del SSN. Anche a fronte di alcune lacune, il Servizio sembra aver conseguito gli obiettivi di una copertura completa della popolazione e di garantire l’accesso ad una gamma di prestazioni ampia, senza barriere finanziarie per i cittadini. Sul fronte del finanziamento, invece, la storia del SSN è caratterizzata da disavanzi ricorrenti e da un conflitto permanente fra lo Stato e le regioni circa l’adeguatezza dei livelli del finanziamento statale, da una parte, e la qualità della spesa regionale, dall’altra. In anni recenti, il dibattito su questi aspetti è diventato meno semplicistico, l’obiettivo essendo quello di ripartire le responsabilità per i disavanzi fra lo Stato e le regioni in base di criteri prestabiliti. Utilizzando tali criteri è stato stimato, ad esempio, che per il periodo 2001-2005, quasi 84% del disavanzo complessivo fosse da attribuire alle regioni (2).  
Comunque, il futuro del SSN si presenta problematico. Da un lato, ci sono i costi aggiuntivi associati all’invecchiamento della popolazione e all’incremento delle malattie croniche, dall’altro le frontiere della medicina e, quindi, la quantità e la complessità delle prestazioni richieste, sono in costante espansione. Inoltre, le autorità governative centrali devono tenere conto di una serie di vincoli finanziari esterni e della necessità, anche a causa della bassa crescita dell’economia, di tagliare sia le spese, sia le tasse. Un SSN che gode di una cattiva reputazione per diseconomie ed inefficienze rischia di essere facile preda di strategie di contenimento del Ministero dell’economia e delle finanze. E’ forse significativo, quindi, il fatto che, nell’elenco provvisorio dei tagli di spesa prefigurati dal nuovo Governo Berlusconi, per la sanità pubblica sia prevista un decurtazione di un miliardo di euro già nel primo anno. In altre parole, il SSN ha di fronte una difficile sfida: per continuare a garantire il rispetto dei suoi principi fondamentali – o, almeno, per proteggerli da una erosione significativa nel medio termine - è indispensabile riuscire a fornire gli stessi livelli di assistenza, o perfino più elevati, con minori risorse, cioè aumentare la propria efficienza.
La responsabilità per l’organizzazione e l’amministrazione e, quindi, per l’efficienza del SSN è quasi interamente delle regioni e proprio la questione dell’efficienza regionale è al centro del presente capitolo. Nel testo, viene in primo luogo proposta una formalizzazione del ruolo della regione come policymaker nel processo di apprendimento sociale, processo che comporta sia la sperimentazione delle innovazioni, sia il trasferimento geografico di quelle riuscite. Il capitolo esamina entrambi i fenomeni, utilizzando la nozione dei “laboratori del federalismo”, uno strumento analitico ancora poco noto in Italia. Dopo una valutazione critica di questa nozione, si descrive come essa sia stata applicata al caso italiano. Alcune considerazioni generali concludono il capitolo.
 

2.         Apprendimento sociale
 
In precedenti edizioni di questo Rapporto, sono state poste in evidenza le notevoli disparità fra le regioni italiane riguardo alla loro capacità di usare l’autonomia amministrativa, organizzativa e politica per disegnare ed attuare politiche sanitarie in grado di soddisfare i bisogni e le preferenze dei propri cittadini.
Idealmente, l’estensione delle competenze regionali in sanità andrebbe accompagnata di pari passo da un potenziamento della capacità di “governare” delle regioni stesse. In tale circostanza, si verificherebbe un graduale processo di maturazione dell’ente regione, tale da consentirne una partecipazione a pieno titolo ad un equilibrato sistema di governo decentrato.
Perchè ciò si realizzi, occorre che le regioni siano in grado di imparare dalle proprie passate esperienze in veste di policymaker. Il tentativo consapevole di modificare o di sostituire le politiche attuali, alla luce dei loro esiti effettivi, viene definito “apprendimento sociale” (social learning). In termini concreti, questo riguarda tre elementi: a) la definizione degli obiettivi; b) la scelta degli strumenti d’intervento; c) la “registrazione” degli strumenti (3). L’apprendimento sociale può quindi avere luogo quando una regione, insoddisfatta con la situazione attuale, interviene per: (i) modificare le modalità di applicazione di uno strumento d’intervento (cambiamento di primo ordine); (ii) sostituire uno strumento (cambiamento di secondo ordine); (iii) ridefinire un obiettivo (cambiamento di terzo ordine). Alcuni esempi propri del settore sanitario pubblico italiano possono servire a chiarire meglio. Un cambiamento di terzo ordine, cioè la ridefinizione degli obiettivi, si è verificato quando, negli ultimi anni, a livello regionale è stata posta una maggiore enfasi sulla prevenzione (piani, programmi e progetti contro gli incidenti sul luogo di lavoro, l’obesità, il cancro del seno e le patologie cardiovascolare). Un esempio di cambiamento di secondo ordine è invece l’utilizzo di nuovi strumenti nel campo della gestione del bilancio e della contabilità delle aziende del SSN. Infine, un cambiamento di primo ordine è l’adozione di nuove linee guida per regolamentare ed uniformare l’accesso dei pazienti all’assistenza socio-sanitaria integrata e ai relative sussidi finanziari.
Alcune regioni sembrano molto attive nel processo di apprendimento sociale, almeno a giudicare dalla loro propensione a sostituire frequentemente gli strumenti utilizzati e dalle iniziative avviate per migliorare aspetti specifici ed operativi di tali strumenti. Altre, invece, appaiono tendenzialmente inerti, intraprendendo poche iniziative nuove e rispondendo soltanto a inevitabili pressioni esterne, in particolare da parte del governo centrale.
Apprendimento sociale vuole dire innovazione e diffusione (cioè trasferimento) d’innovazione. Una regione, insoddisfatta con i risultati di un determinato programma, cerca di effettuare autonomamente degli aggiustamenti oppure cerca di imparare dalle esperienze di altre regioni. L’innovazione e il suo trasferimento sono centrali a qualsiasi strategia mirante a migliorare l’utilizzazione delle risorse nel settore sanitario.
Il termine “innovazione” si riferisce essenzialmente a cambiamenti nel modo di fare le cose rispetto al passato: nuovi meccanismi, procedure, metodi, pratiche, forme organizzative. Un’innovazione può essere endogena, ossia generata all’interno di una regione, oppure esogena, prodotto di un trasferimento da altre regioni. L’innovazione è poi un concetto relativo; azioni intraprese possono essere considerate innovative nel senso che rappresentano per la singola regione in questione un cambiamento netto rispetto al passato, ma essere realmente poco originali se valutate in un contesto più generale. Per esempio, oggi la centralizzazione delle attività amministrative o di acquisto può essere un’innovazione importante per la regione che prende tale iniziativa, ma non più per il sistema regionale nel suo insieme, trattandosi di una politica già ampiamente diffusa sul territorio nazionale. Lo stesso può valere per l’adozione dei sistemi di contabilità analitica per centro di costo e di responsabilità o di piani per la prevenzione di danni alla salute causati da ondate estive di calore eccessivo, oppure per l’introduzione di forme di integrazione tra assistenza sociale e sanitaria in favore di determinate categorie della popolazione (sebbene questo esempio rappresenti un processo articolato di innovazione piuttosto che una singola innovazione).
L’autonomia delle regioni nel policymaking ha generato, nel tempo, una notevole eterogeneità nei modi di far fronte alle loro responsabilità per la tutela della salute ed il governo della spesa, dando luogo a preoccupazioni diffuse circa l’impatto che ciò può avere sui principi fondamentali del SSN. Questo spiega l’enfasi posta nella riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 sui livelli essenziali di assistenza (LEA) e il ruolo chiave assegnato allo Stato nella loro definizione ed applicazione.
D’altro canto, l’eterogeneità nell’approccio regionale al policymaking può essere vista come un esito positivo e desiderabile di un sistema di governo decentrato; esito che potrebbe riflettere – almeno in una certa misura – l’esigenza di soddisfare preferenze e bisogni percepiti localmente. Si può ipotizzare infatti che, per i sostenitori della devoluzione, una caratteristica essenziale – o, almeno, desiderabile, - di quest’ultima sia precisamente quella dell’eterogeneità.
 

3.         Laboratori del federalismo
 
L’esistenza di un numero elevato di governi subcentrali dotati di notevole autonomia decisionale può essere considerata positivamente anche perché essa offre, forse, maggiori possibilità di innovazione e di diffusione delle innovazioni.
Lord James Bryce, giurista britannico nato nel 1838, nel suo studio classico del sistema di governo statunitense pubblicato nel 1888, ha sostenuto che: “Il federalismo consente ad un popolo di tentare degli esperimenti che non potrebbero essere provati senza pericolo in un grande Paese centralizzato” (4). Meno di mezzo secolo più tardi, il noto giudice della Corte suprema americana, Louis Brandeis, afferma in una dissenting opinion (New York Ice v. Leibman, 385, U.S. 242, 1932, p. 311): “E’ uno degli imprevisti felici del sistema federale che un singolo Stato coraggioso possa, a patto che i propri cittadini siano d’accordo, funzionare come laboratorio e svolgere degli esperimenti sociali ed economici nuovi senza rischio per il resto del Paese”. Un’innovazione riuscita in un dato stato, secondo questa tesi, tenderà ad essere adottata da altri stati, mentre gli insuccessi, con tutta probabilità, non andranno oltre le frontiere dello stato innovatore. Verosimilmente, un paese dotato di cinquanta “Stati-laboratorio”, quale gli Stati Uniti, registrerà un tasso di innovazione superiore a quello di un paese con sistema di governo unitario. Questo ultimo tenderà, infatti, ad innovare su scala nazionale; e ciò significa, da un lato, poter massimizzare i benefici nel caso di innovazioni riuscite, ma anche, dall’altro lato, generalizzare gli esiti negativi delle innovazioni fallite. I laboratori del federalismo possono essere luoghi per la sperimentazione di innovazioni, cioè di nuovi modi di fare le cose. Come tale, la nozione è di particolare interesse per l’Italia dove, se il processo di apprendimento sociale fosse adeguatamente diffuso, potrebbero aversi ventuno laboratori alla ricerca di modi per migliorare l’utilizzo delle risorse pubbliche.
Il concetto di laboratori del federalismo ha riscosso un notevole successo e ha avuto una certa influenza sulla giurisprudenza americana; si calcola infatti che la dissenting opinion di Brandeis sia stata citata ben 36 volte dai giudici della Corte suprema, tanto liberali quanto conservatori (5). Tuttavia, il concetto è stato anche ampiamente criticato. In primo luogo, l’uso metaforico che esso fa dei termini “laboratorio” e “sperimentale” è stato considerato fuorviante, la sperimentazione scientifica essendo molto differente dalla sperimentazione delle politiche (6). Nel primo caso, l’obiettivo è quello di verificare se un’ipotesi riguardante un determinato fenomeno naturale sia valida o meno, cioè se si riesce a riprodurre gli stessi risultati attraverso la ripetizione dell’esperimento originale, tenendo costante il contesto. Con la sperimentazione di una nuova politica non è possibile lo stesso rigore, non essendo possibile riprodurre, se non in modo molto approssimativo, il contesto in cui l’innovazione in questione è stata originariamente attuata. Nel caso dei sistemi sanitari sarebbe, quindi, semplicistico parlare di “laboratori”, visto che sono molto diversi fra loro e che i contesti in cui operano sono caratterizzati da significative differenze istituzionali, impossibili da neutralizzare (7).
In secondo luogo, è stata anche messa in dubbio l’ipotesi che i sistemi federali, grazie al pluralismo che li caratterizza, siano necessariamente in grado di produrre tassi d’innovazione maggiori rispetto ai sistemi di governo unitari. Secondo uno studioso, il pluralismo – e, quindi, l’eterogeneità – potrebbe incentivare l’innovazione, ma potrebbe allo stesso tempo ostacolarne la diffusione (8). Tale critica appare di particolare interesse, in quanto è proprio la compresenza di questi due fenomeni – l’innovazione e il trasferimento – che rende operativamente rilevante la nozione di laboratori del federalismo. Uno Stato unitario poco innovativo, ma capace – proprio in quanto unitario – di diffondere rapidamente le poche innovazioni (valide) attuate, potrebbe finire per essere un laboratorio migliore di una federazione i cui singoli Stati siano altamente innovativi, ma molto lenti nell’adottare le innovazioni altrui (9).
Infine, si sostiene che il federalismo non rappresenti una condizione né necessaria, né sufficiente, per la sperimentazione delle politiche (10). Secondo questa tesi, il fattore chiave non sarebbe l’autonomia costituzionale, ma il “decentramento manageriale”, cioè l’esistenza di una molteplicità di policymaker  “indipendenti”.
Gli studiosi in materia sono comunque d’accordo nell’affermare che il processo di diffusione delle innovazioni è estremamente complesso. L’importazione delle esperienze da altri contesti non è da escludere a priori, ma le differenze contestuali sono spesso cosi importanti da metterne in dubbio la fattibilità o l’opportunità (11). In altri casi, il trasferimento di una innovazione è in realtà solo apparente, avvenendo solo dopo trasformazioni che la rendono profondamente diversa dal modello originario. Interessante, ma difficile da verificare, è infine il caso dell’apprendimento sociale negativo, relativo ad esperienze non riuscite e quindi da evitare (12).
Secondo due studiosi, già citati, negli Stati Uniti sono pochi gli esempi di trasferimento di innovazioni fra singoli stati, almeno nel settore sanitario: “i casi individuati di innovazioni adottate o adattate rappresentano, con tutta probabilità, più l’eccezione che la norma” (13). Dai risultati delle loro indagini sul campo emerge che: (i) i singoli Stati imparano relativamente poco dagli altri; (ii) il governo federale di rado fa tesoro delle esperienze degli Stati e li usa come input nell’elaborazione di politiche nazionali; (iii) gli esperti raramente compiono degli studi comparati delle esperienze statali relative a specifici programmi per verificare la validità o meno di ipotesi sui possibili effetti di nuovi programmi.
In teoria, il trasferimento delle innovazioni può avvenire in due direzioni: in senso verticale, quando il governo federale attua al livello nazionale innovazioni già sperimentate al livello del singolo stato; in senso orizzontale, quando gli Stati si osservano e imparano l’uno dall’altro. Si sostiene che siano pochi i casi documentati, sia dell’uno, sia dell’altro tipo (14).
Le osservazioni precedenti potrebbero portare a concludere che, per trovare soluzioni a problemi importanti, il livello appropriato sia quello federale (15). Realisticamente, tuttavia, è poco probabile che al governo federale siano concessi i poteri necessari per svolgere tale ruolo (16). Un esperto di fama mondiale in materia di federalismo fiscale, Wallace E. Oates, è del parere che la forte spinta verso la devoluzione verificatasi dagli anni 70 negli Stati Uniti (il cosiddetto New federalism) sia la spia di un diffuso malcontento circa i risultati di molti programmi-chiave federali e, più in generale, circa il modello del “federalismo centralizzato” (17). Secondo Oates, la devoluzione non è altro che un modo di utilizzare gli Stati come “laboratori”, allo scopo di identificare i programmi che possono avere maggiore probabilità di successo. Oates ritiene positiva la sperimentazione, più o meno autonoma, delle innovazioni in un numero elevato di stati, piuttosto che una serie di progetti sperimentali disegnati e gestiti centralmente.
 
 
4.         Laboratori del federalismo in Italia
 
Nel contesto italiano non si trova alcun riferimento al concetto di laboratori del federalismo, né nella dottrina né in dichiarazioni ufficiali (18). Il Ministero della salute ha tuttavia attribuito, in particolare negli anni ‘90, un peso notevole alla sperimentazione di nuove forme e modalità gestionali, cioè alle innovazioni. Un esempio importante di quanto appena affermato è l’articolo 4, comma 6, della legge delega n. 412 del 1991, che intendeva promuovere la ricerca di modelli più efficienti di governo della spesa sanitaria anche attraverso l’introduzione di innovazioni riguardanti le modalità di remunerazione degli erogatori, ma anche e soprattutto attraverso il coinvolgimento nelle fornitura di servizi e prestazioni di soggetti diversi da quelli pubblici. Tale norma, in definitiva, si proponeva l’obiettivo di aprire il sistema sanitario pubblico a forme di collaborazioni con soggetti privati al fine di migliorare l’efficienza del sistema attraverso l’acquisizione delle loro risorse di conoscenza e esperienza finanziaria. Altrettanto importante è l’art. 9 bis del decreto legislativo 502 del 1992, che specifica e completa la disciplina della sperimentazione e al quale si farà riferimento nel resto del capitolo. Infine, va citato l’art. 3 della legge 405 del 2001, che trasferisce alle regioni la responsabilità per l’attività di sperimentazione gestionale.
Secondo l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (già Agenzia per i servizi sanitari regionali), la strategia della sperimentazione gestionale ha avuto limitato successo. Un’indagine conoscitiva svolta dall’Agenzia nel 2001 è riuscita ad individuare soltanto146 casi di sperimentazione ex art. 9 bis (19), molti dei quali da considerarsi di interesse limitato, evidenziando lo scarso entusiasmo da parte delle regioni per questa forma di sperimentazione, in particolare rispetto ad altre; solo tre regioni – la Lombardia, la Toscana e soprattutto l’Emilia-Romagna che ha segnalato circa 400 casi di collaborazioni pubblica-privata – sono state molto attive in proposito. Inoltre, dopo il trasferimento alle regioni della responsabilità per la sperimentazione gestionale, l’interesse manifestato per tali forme di collaborazione sarebbe ulteriormente diminuito (20).
La scarsa attenzione per la sperimentazione da parte delle regioni può dipendere da una serie di motivi. In primo luogo, la strategia adottata dal Ministero della salute è apparsa caratterizzata da una impostazione eccessivamente burocratica e basata su una visione della sperimentazione piuttosto limitata.
In secondo luogo, l’enfasi posta sulla collaborazione pubblico-privato – che riflette in parte l’intenzione del legislatore nazionale di promuovere, con il decreto legislativo 502 del 1992, la creazione di “mercati”, la “concorrenza”, nonché una cultura imprenditoriale – ha forse preoccupato i soggetti pubblici circa i veri motivi della sperimentazione. Secondo alcuni interlocutori privilegiati presso le amministrazioni centrali e regionali, i soggetti pubblici credevano e credono ancora, probabilmente a ragione, di non essere in grado di tenere sotto adeguato controllo i partner privati (21). Mentre il privato può concentrasi sulla massimizzazione del fatturato e dei profitti, i decisori pubblici devono perseguire una molteplicità di obiettivi (compresi il rispetto per le priorità di spesa stabilite dalla propria regione e per le regole miranti a garantire l’uso lecito del denaro pubblico). Le regioni temono probabilmente di non avere la capacità tecnica e la forza politica di disegnare ed applicare contratti che le proteggano adeguatamente da possibili comportamenti opportunistici degli imprenditori privati.
In terzo luogo, la sperimentazione gestionale è stata spesso vista come un modo per evadere le norme e le regole di contabilità pubblica, piuttosto che come uno strumento per ridurre le rigidità che caratterizzano le attività del settore pubblico. Tuttavia, non si può generalizzare; ad esempio, risulta che in Lombardia e in Emilia-Romagna la sperimentazione abbia avuto come obiettivo principale proprio quello di introdurre una maggiore flessibilità nel settore sanitario pubblico (22).
In quarto luogo, sebbene la normativa in materia prevedesse che lo Stato contribuisse alle spese per la sperimentazione, da tempo i fondi previsti non sono stati stanziati, lasciando interamente a carico delle regioni i costi e i rischi ad essa associati.
Infine, può aver giocato il sospetto che interventi da parte dello Stato volti a promuovere la sperimentazione di innovazioni potessero costituire una sorta di “cavalli di Troia” per aprire la strada ad ingerenze dello Stato nell’area delle competenze regionali, in quanto tali da osteggiare. Per tale motivo, le regioni cercano di riservarsi le questioni tecniche, preferendo che lo Stato si limiti ad enunciare i principi generali (23).
L’esperienza delle sperimentazioni ex art. 9 bis non esaurisce, tuttavia, la questione della sperimentazione delle innovazioni all’interno del SSN. Una fonte utile a questo riguardo è l’annuale Rapporto sulla legislazione tra Stato, regioni e Unione europea, curato dalla Camera dei deputati. Nell’edizione relativa al biennio 2004-2005, ad esempio, nel capitolo relativo alla sanità vengono segnalati diversi casi di sperimentazione di iniziative molto innovative in origine, cioè prima della loro diffusione generalizzata: Esempi di queste innovazioni sono: le nuove procedure per regolamentare e gestire l’accesso alle strutture semi-residenziali e i relativi oneri finanziari a carico dei pazienti; i nuovi modelli gestionali e le nuove modalità di erogazione orientate a promuovere l’integrazione dei servizi sanitari con le attività dei servizi sociali (24). Ulteriori esempi sono riportati nel Rapporto per il 2006: la costituzione in via sperimentale di unità territoriali di assistenza primaria e di assistenza domiciliare integrata; la previsione di uno studio di fattibilità per la creazione di un Centro sanitario per la donna; la sperimentazione di un programma di assistenza domiciliare per pazienti malati di Alzheimer; la costituzione, in una regione, di un centro di sperimentazione degli strumenti per la gestione delle liste di attesa (25).
I Rapporti della Camera dei deputati segnalano anche innovazioni introdotte a livello di singole regioni, senza una fase preventiva di sperimentazione, che riguardano, ad esempio: i sistemi contabili; gli strumenti per il contenimento delle spese farmaceutiche; la centralizzazione delle attività amministrative, gestionali e di acquisto; la gestione del personale; la collaborazione inter-regionale per l’amministrazione e la contabilizzazione della mobilità nonché per l’erogazione sovra regionale di determinate prestazioni sanitarie; le linee guida per regolamentare la prescrizione di determinate prestazioni sanitarie; la formazione finalizzata del personale; le strategie per la promozione dell’appropriatezza nella prescrizione delle prestazioni ospedaliere ed ambulatoriali.
Si è detto sopra che una pre-condizione per l’efficacia dei laboratori del federalismo è che i governi subcentrali di una federazione abbiano una predisposizione ad importare le innovazioni. In Italia si sa ben poco sulle dinamiche dei processi di trasferimento operanti nel SSN e scarseggiano perfino i dati di base (es. la consistenza approssimativa del fenomeno, le tipologie d’innovazioni trasferite, quali regioni importano e quali esportano). Bassi tassi di importazione da parte di una regione potrebbero segnalarne una limitata capacità di apprendimento sociale, a sua volta spiegabile in termini di mancanza di informazioni sulle innovazioni disponibili, ma anche di possibili atteggiamenti “provinciali” e sospettosi riguardo a iniziative nuove ed estranee alla propria realtà. Inoltre, può valere un deficit di capacità tecnica, rispetto a quella necessaria per gestire il processo di trasferimento ed applicazione delle innovazioni. Per alcune regioni, ad esempio, può risultare più problematico il trasferimento in regime di assistenza ambulatoriale, più economico, di specifici interventi chirurgici abitualmente erogati in regime di ricovero oppure l’organizzazione di programmi di screening, o anche l’adozione di nuovi strumenti di contabilità , a causa della relativa arretratezza professionale del personale. Interessante, a questo riguardo è la decisione di una regione di finanziare la specializzazione del personale laureato non medico, nonché il programma formativo di un’altra regione che mira a creare “una cultura tecnico-sanitaria” formando i dipendenti in modo tale da farli diventare “attori aziendali” (26).
Il governo centrale non ha una politica espressamente mirata all’incentivazione del trasferimento interregionale delle innovazioni, ma negli ultimi anni ha intrapreso alcune iniziative che suggeriscono una consapevolezza del problema. Un esempio in tal senso è rappresentato dai Piani di rientro allegati agli accordi con i Ministeri dell’economia e della salute che le regioni ufficialmente dichiarate “in difficoltà finanziaria” devono sottoscrivere per poter accedere al contributo statale a parziale copertura dei loro disavanzi pregressi. Tali regioni, attualmente sette, nell’attuazione del loro Piano di rientro, devono avvalersi di un Advisor finanziario nominato dal governo centrale, che li coadiuva nella gestione delle questioni finanziarie connesse al rientro dai disavanzi e dei sistemi di monitoraggio del proprio stato di salute finanziaria; sono, inoltre, sottoposti al monitoraggio costante e all’affiancamento da parte dei Ministeri dell’economia e della salute. Infine, ogni regione in difficoltà deve stabilire un rapporto di partnership e collaborazione con un’altra regione più o meno in pareggio di bilancio e con una buona reputazione di apprendimento sociale (27). Tutti questi obblighi e in particolare quello della partnership dovrebbero in teoria stimolare le regioni in difficoltà a partecipare maggiormente ai processi di trasferimento delle innovazioni.
Tutti i casi fin qui richiamati fanno riferimento esclusivamente al trasferimento orizzontale, cioè tra singole regioni. E’ tuttavia importante anche il trasferimento verticale, fra diversi livelli di governo, di cui sono esempi l’introduzione delle procedure per l’accreditamento delle strutture erogatrici e del sistema di finanziamento dell’assistenza ospedaliera basato sui DRG (Diagnosis Related Groups). Tali innovazioni sono state prima elaborate in termini generali dal governo centrale, lasciando poi alle singole regioni il compito di stabilirne i dettagli operativi (il trasferimento verticale verso il basso). Alcune regioni hanno così effettuato delle modifiche al sistema di tariffe per DRG con lo scopo di promuovere l’appropriatezza dell’assistenza ospedaliera, sperimentando un approccio successivamente adottato dal governo centrale come politica nazionale (trasferimento verticale verso l’alto) (28).
 

5.         Conclusioni
 
Nel settore sanitario la metafora dei laboratori del federalismo va utilizzata con cautela, al fine di non creare aspettative infondate circa la possibilità di trasferire con successo ad altri contesti innovazioni riuscite in determinati contesti regionali. Tuttavia, il concetto dei laboratori sperimentali aiuta ad individuare e analizzare due concetti chiave dell’apprendimento sociale: l’innovazione e il suo trasferimento. Con riferimento al caso italiano, la nostra conoscenza è molto lacunosa rispetto ad entrambi, poiché non esiste alcun monitoraggio sistematico dei fenomeni. Alcune regioni in particolare risultano abbastanza innovative, ma, sembra, in modo spontaneo. Se si esclude il caso delle sperimentazioni gestionali ex art. 9 bis del decreto legislativo 502 del 1992, programma piuttosto limitato, manca una politica centrale per promuovere l’innovazione, la sperimentazione e la sua eventuale diffusione, anche se la strategia basata sui Piani di rientro sembra promettente in tal senso. Non è possibile sapere quale contributo l’innovazione abbia effettivamente dato all’efficienza regionale, ma, con tutta probabilità, esso è attualmente molto modesto.
Non ha aiutato il fatto che le regioni innovatrici sopportino da sole tutti i rischi e gli oneri finanziari connessi alle proprie sperimentazioni, senza disporre di alcun contributo né dallo Stato, né tanto meno da parte delle regioni che importano le innovazioni riuscite. In una situazione del genere, è infatti prevedibile che si riscontrino tassi di innovazione sub-ottimali (29). Peraltro, ciò contribuisce anche a spiegare perché i tentativi dello Stato di promuovere la sperimentazione gestionale nel settore sanitario (sempre ex art. 9 bis citato), scaricandone i costi sulle regioni-pioniere, abbiano finora prodotto risultati piuttosto limitati, come emerge anche dalle ricognizioni effettuate dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari sopra citate.
Per essere efficace, qualsiasi politica nazionale per l’innovazione nel settore sanitario deve essere conforme alla distribuzione interistituzionale di responsabilità definita dal vigente Titolo V della Costituzione. Da questo punto di vista, almeno per quanto riguarda il ruolo che il governo centrale potrà svolgere nella promozione di innovazioni, le prospettive sembrano positive. In un recente documento del Ministero della salute – Per un New Deal della Salute (27 giugno 2006) – si afferma, ad esempio, che il Ministero stesso dovrebbe avere il ruolo “di indirizzo, accompagnamento, condivisione dei programmi e delle strategie di intervento, soprattutto di monitoraggio e valutazione dei risultati” (30).
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NOTE
 
(1)   Relazione del Disegno di legge “Istituzione del Servizio sanitario nazionale”, Camera dei Deputati, Seduta del 16 marzo 1977, Atto parlamentare n. 1252.
(2)     Istituto di Studi e Analisi Economiche, Rapporto ISAE- Finanza pubblica e istituzioni, Roma, Istituto di Studi e Analisi Economiche, 2007
(3)     Peter A. Hall, “Policy paradigms, social learning and the State: the case of economic policymaking in Britain”, Comparative politics, 25: 3, 1993, 275-296.
(4)     Lord James Bryce, The American Commonwealth, Londra, MacMillan, 1901, volume I, 353 (prima stampa 1888), citato in Oates, 1999, 1132.
(5)     Michael S. Greve, “Laboratories of democracy: anatomy of a metaphor”, Federalist outlook, American Enterprise Institute, 1 aprile 2001.
(6)     G. Alan Tarr, “Laboratories of democracy? Brandeis, federalism, and scientific management”, Publius: the journal of federalism, 31:1, 2001, 37-46.
(7)     Michael S. Sparer, Lawrence D. Brown, “States and the health care crisis: the limits and lessons of laboratory federalism”, in Robert F. Rich, William D. White (a cura di), Health policy, federalism, and the American states, Washington D.C., Urban Institute Press 1996, 183-202.
(8)     John D. Donahue, Dynamics of diffusion: conceptions of American federalism and public sector innovation, Ash Institute for Democratic Governance, John F. Kennedy School of Government, Harvard University, Boston, 2005.
(9)     Idem.
(10)   Tarr, op. cit..
(11)   Rudolf Klein, “Learning from others: shall the last be the first?”, Journal of health politics, policy and law, 22: 5, 1997, 1267-1278.
(12)   Ibid, 1271.
(13)   Sparer e Brown, op. cit., 196.
(14)   Michael S. Sparer, “Laboratories and the health care marketplace: the limits of state workforce policy”, Journal of health politics, policy and law, 22:2, 1997, 789-814.
(15)   Sparer, op. cit..
(16)   Sparer e Brown, op. cit..
(17)   Wallace E. Oates, “An essay on fiscal federalism”, Journal of economic literature, 38, settembre, 1999, 1120-1149.
(18)   Tuttavia, un affascinante accenno, probabilmente del tutto casuale, è stato fatto al concetto della sperimentazione laboratorio da Livia Turco, Ministro della salute nel Governo Prodi 2006-22008: “Penso che l’esperienza maturata in questi primi dodici mesi di Governo rappresenta un vero e proprio ‘laboratorio’ sperimentale per la gestione di nuovi rapporti istituzionali scaturiti dalla riforma del 2001” (Intervento al Convegno “Per una sanità dalla parte del cittadino”, Roma, 18 maggio 2007).
(19)   Agenzia per i servizi sanitari regionali, “Un decennio di iniziative dal nord al sud”, Monitor, 2:3, gennaio-febbraio 2003, 13-35.
(20)   Agenzia per i servizi sanitari regionali, “Poche normative regionali dopo il trasferimenti di competenze”, Monitor, 2.3, gennaio-febbraio 2003, 40-45.
(21)   Colloqui riservati, maggio 2008.
(22)   Colloqui riservati, maggio 2008.
(23)   Colloqui riservati, maggio 2008.
(24)   George France, “Tendenze recenti nella sanità regionale”, in Camera dei Deputati, Osservatorio sulla Legislazione (a cura di), Rapporto sullo stato della legislazione 2004-2005 tra Stati, regioni e Unione europea, 2005, 192-198.
(25)   George France, “Tendenze nella sanità regionale”, in Camera dei Deputati, Osservatorio sulla Legislazione (a cura di), Rapporto 2006 sullo stato della legislazione tra Stati, regioni e Unione europea, Tomo II, 2007, 89-98.
(26)   Camera dei Deputati, op. cit., 2007.
(27)   Ad aprile 2007, sei delle sette regioni in difficoltà avevano un partner: Lazio-Emilia-Romagna; Liguria-Marche; Campania-Toscana; Molise-Veneto; Abruzzo-Friuli Venezia Giulia; Sicilia-Lombardia.  
(28)   Colloqui riservati, maggio 2008.
(29)   Oates, op. cit..

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